domenica 5 luglio 2015

Anche se tutti vivessero in un 'ecovillaggio', il mondo sarebbe comunque nei guai

Da “The conversation”. Traduzione di MR (via Skeptical Science)

Siamo abituati a sentire che se tutti vivessero allo stesso modo dei nord americani o degli australiani ci servirebbero quattro o cinque pianeti Terra per sostenerci. Questo tipo di analisi è conosciuta come “impronta ecologica” e mostra che persino le cosiddette nazione europee “verdi”, coi loro approcci progressisti all'energia rinnovabile, all'efficienza energetica e al trasporto pubblico, richiederebbero più di tre pianeti. Come possiamo vivere secondo i mezzi del nostro pianeta? Se scaviamo seriamente in questa domanda diviene chiaro che quasi tutta la letteratura ambientale sottostima grossolanamente ciò che serve perché la nostra civiltà diventi sostenibile.

Solo le persone coraggiose dovrebbero continuare a leggere.

L'analisi della “impronta ecologica”

Per analizzare la domanda di come sarebbe “vivere di un pianeta”, rivolgiamoci a quello che probabilmente è il sistema di misurazione più di rilievo per il calcolo ambientale – l'analisi dell'impronta ecologica. Questo è stata sviluppato da Mathis Wackernagel e William Rees, poi all'Università della Columbia Britannica, ed ora è istituzionalizzato dal corpo scientifico, il Global Footprint Network, di cui Wackernagel è presidente. Questo metodo di calcolo ambientale cerca di misurare la quantità di terra produttiva e di acqua che una data popolazione ha a disposizione e poi valuta la domanda che la popolazione impone su quegli ecosistemi. Una società sostenibile è una che opera entro la capacità di carico degli ecosistemi da cui dipende.

Mentre questo modo di calcolare non è scevro da critiche – non è certo una scienza esatta – la cosa preoccupante è che molti dei suoi critici in realtà affermano che questo sottostimi l'impatto ambientale dell'umanità. Persino Wackernagel, co-creatore del concetto, è convinto che i numeri siano sottostimati. Secondo i dati più recenti del Global Footprint Network, l'umanità nel suo complesso è attualmente in overshoot (superamento), richiedendo una volta e mezzo la biocapacità del pianeta Terra. Man mano che la popolazione globale continua nella sua tendenza verso gli 11 miliardi di persone e mentre il feticcio della crescita continua a plasmare l'economia globale, la portate dell'overshoot aumenterà soltanto. Per ogni anno in cui questo stato di peggioramento dell'overshoot ecologico persiste, i fondamenti della nostra esistenza e di quella di altre specie, sono minacciati.

L'impronta di un ecovillaggio

Come ho osservato, i contorni fondamentali del degrado ambientale sono relativamente ben conosciuti. Quello che è molto meno conosciuto, tuttavia, è che anche gli ecovillaggi più di successo e che durano da più tempo del mondo devono ancora raggiungere una impronta ecologica “fair share” (giusta quota). Prendete l'Ecovillaggio di Findhorn in Scozia, per esempio, probabilmente l'ecovillaggio più famoso del mondo. Un ecovillaggio può essere ampiamente inteso come una “comunità intenzionale” che si forma con l'obbiettivo esplicito di vivere in modo più leggero sul pianeta. Fra le altre cose, la comunità di Findhorn ha adottato una dieta quasi esclusivamente vegetariana, produce energia rinnovabile e costruisce molte delle proprie case in fango e materiali riciclati.



Ecovillaggio di Findhorn in Scozia. Irenicrhonda/Flickr, CC BY-NC-ND

E' stata intrapresa un'analisi dell'impronta ecologica di questa comunità. E' stato scoperto che anche gli sforzi più impegnati di questo ecovillaggio lasciano ugualmente la comunità di Findhorn consumare risorse e produrre rifiuti ben al di là di quello che potrebbe essere sostenuto se tutti vivessero in questo modo. (Parte del problema è che la comunità tende a volare tanto spesso quanto un normale occidentale, aumentando la loro impronta altrimenti piccola). Messa diversamente, sulla base dei miei calcoli, se tutto il mondo diventasse come uno dei nostri ecovillaggi più famosi, ci servirebbe ancora una volta e mezzo la biocapacità del pianeta Terra.

Soffermatevi su questo per un momento.

Non condivido questa conclusione per provocare disperazione, anche se ammetto che comunica la dimensione del nostro dilemma ambientale con disarmante chiarezza. Né la condivido per criticare gli sforzi nobili e necessari del movimento degli ecovillaggi, che sta chiaramente facendo molto di più degli altri per spingere le frontiere della pratica ambientale. Piuttosto, la condivido nella speranza di scuotere e svegliare il movimento ambientalista e l'opinione pubblica generale. Con gli occhi aperti, cominciamo dal riconoscere che armeggiare ai margini del capitalismo consumista è totalmente inadeguato. In un mondo pieno di sette miliardi di persone in aumento, una impronta ecologica “fair share” significa ridurre ad una piccola frazione di quelle che sono oggi. Un tale cambiamento fondamentale ai nostri stili di vita è incompatibile con una società orientata alla crescita. Alcuni potrebbero trovare questa posizione troppo “radicale” da digerire, ma sosterrei che questa posizione è meramente plasmata da un'onesta panoramica delle prove.

Come sarebbe lo stile di vita da “un pianeta”?

Anche dopo cinque o sei decenni di movimento ambientalista moderno, sembra che non abbiamo ancora un esempio di come prosperare entro la capacità di carico sostenibile del pianeta. Ciononostante, Proprio come i problemi fondamentali possono essere sufficientemente compresi, la natura di una risposta appropriata è a sua volta sufficientemente chiara, anche se la verità a volte è dura. Dobbiamo rapidamente transitare a sistemi di energia rinnovabile, riconoscendo che la fattibilità e l'accessibilità di questa transizione richiederà che consumiamo significativamente meno energia di quella alla quale siamo abituati nelle nazioni sviluppate. Meno energia significa meno produzione e meno consumo.

Dobbiamo coltivare biologicamente e localmente il nostro cibo e mangiare considerevolmente meno (o niente) carne. Dobbiamo andare più spesso in bicicletta e volare di meno, rammendare i nostri vestiti, ridurre radicalmente i nostri flussi di rifiuti e “riqualificare le periferie” creativamente per trasformare le nostre case e comunità in luoghi di produzione sostenibile, non di consumo insostenibile. Per fare questo, dobbiamo sfidare noi stessi ad andare oltre il movimento degli ecovillaggi ed analizzare una tonalità di verde della sostenibilità ancora più profonda. Fra le altre cose, questo significa vivere vite frugali, moderazione e sufficienza materiale. Pensiero impopolare, bisogna dirlo, dobbiamo anche avere meno figli, altrimenti la nostra specie crescerà verso una catastrofe. Ma l'azione personale non è sufficiente. Dobbiamo ristrutturare le nostre società per sostenere e promuovere questi stili di vita “più semplici”. Una tecnologia adeguata ci deve anche assistere nella transizione verso lo stile di vita di un solo pianeta. Alcuni contestano che la tecnologia ci permetterà di continuare a vivere allo stesso modo riducendo allo stesso tempo fortemente la nostra impronta.

Tuttavia, la portata della “dematerializzazione” richiesta per rendere i nostri stili di vita sostenibili è semplicemente troppo ampia. Così come migliorare l'efficienza, dobbiamo anche vivere in modo più semplice in senso materiale e ri-immaginare la buona vita al di là della cultura dei consumi. Innanzitutto, ciò che serve per vivere in di un pianeta è che le nazioni più ricche, compresa l'Australia, inizino un processo di “decrescita” di contrazione economica pianificata. Non sostengo che sia probabile o che io ho un progetto dettagliato di come questa debba accadere. Sostengo solo che, sulla base dell'analisi dell'impronta ecologica, la decrescita è il quadro di riferimento più logico per capire le implicazioni radicali di sostenibilità. La discesa dal consumismo e dalla crescita può essere prosperosa? Possiamo trasformare le nostre crisi sovrapposte in opportunità?

Sono queste le domande che definiscono il nostro tempo.

sabato 4 luglio 2015

Il Principio di Massima Potenza

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Il Principio di Massima Potenza rivisitato

Il Principio di Massima Potenza (PMP), descritto per la prima volta da Alfred Lotka e in seguito approfondito da H. T. Odum, sostiene che “Durante l'auto-organizzazione i progetti di sistemi la progettazione di sistemi sviluppa e fa prevalere quelli che massimizzano l'assunzione di potenza, la trasformazione di energia e quegli usi che rinforzano”. Ciò è stato formulato da osservazioni ecologiche. Questo saggio, per esempio, riferisce su un esperimento di PMP che coinvolge diverse specie di protozoi. Il risultato conferma chiaramente il ruolo del PMP nella competizione fra specie a quel livello di vita.

venerdì 3 luglio 2015

Caldo: preparatevi al peggio





Entro certi limiti è normale che a Luglio faccia caldo ma, nella situazione odierna, siamo di fronte a un'ondata di calore eccezionale che comincia a ricordare quella storica del 2003. 

Ne discute Sam Carana nel suo blog, facendo notare come tutto sia correlato all'indebolimento della corrente a getto, causato a sua volta del riscaldamento globale. Lo vedete in questa immagine (sempre dal blog di Carana)



Ci ritroviamo dunque in una bolla di calore che si estende su tutta l'Europa centrale. Non si può prevedere quanto durerà, però preparatevi al peggio: non è una cosa che va a esaurirsi in pochi giorni. 



giovedì 2 luglio 2015

Naomi Klein: come la scienza ci dice di ribellarci

DaNew Statesman”. Traduzione di MR

La nostra inesorabile ricerca della crescita economica sta uccidendo il pianeta? Gli scienziati del clima hanno visto i dati e sono giunti a conclusioni incendiarie.




Terra desolata: l'irrigazione su larga scala toglie nutrienti dal suolo, sfregia il territorio e potrebbe alterare le condizioni climatiche al di là della capacità di ripristino. Immagine, Edward Burtynsky, per gentile concessione della Nicholas Metivier Gallery, Toronto/ Flowers, London, Pivot Irrigation #11 High Plai

Di Naomi Klein

Nel dicembre del 2012, un ricercatore dei sistemi complessi dai capelli rosa di nome Brad Werner si è fatto notare fra la folla di 24.000 scienziati della terra e dello spazio all'Incontro Autunnale dell'Unione Geofisica Americana, che si tiene annualmente a San Francisco. La conferenza di quell'anno ha visto la partecipazione di grandi nomi, da Ed Stone del progetto Voyager della NASA, che spiegava una nuova pietra miliare sulla strada verso lo spazio interstellare, al regista James Cameron, che parlava delle sue avventure nei sommergibili di grande profondità.

Ma è stata la sessione di Werner che ha attratto gran parte dell'attenzione. Era intitolata “La Terra è fottuta?” (titolo completo: “La Terra è fottuta? Futilità dinamica della gestione globale dell'ambiente e possibilità di sostenibilità attraverso l'attivismo di azioni dirette”). Di fronte alla sala conferenze, il geofisico dell'Università della California di San Diego ha spiegato alla folla il modello computerizzato avanzato che stava usando per rispondere a quella domanda. Ha parlato di limiti di sistema, perturbazioni, dissipazione, attrattori, biforcazioni e di una gran quantità di altre cose in gran parte incomprensibili a coloro fra noi che non sono iniziati alla teoria dei sistemi complessi. Ma la linea di fondo era abbastanza chiara: il capitalismo globale ha reso l'esaurimento delle risorse così rapido, conveniente e senza barriere che “i sistemi umani terrestri” stanno diventando, in risposta, pericolosamente instabili. Incalzato da un giornalista per una risposta chiara alla domanda “siamo fottuti?”, Werner ha messo da parte il gergo ed ha replicato, “più o meno”.

C'era una dinamica nel modello, tuttavia, che forniva qualche speranza. Werner l'ha denominata “resistenza” - movimenti di “persone o gruppi di persone” che “adottano una determinata serie di dinamiche che non si adatta alla cultura capitalista”. Secondo l'abstract per la sua presentazione, questo include “azione ambientale diretta, resistenza presa al di fuori della cultura dominante, come in proteste, blocchi e sabotaggi da parte di popoli indigeni, lavoratori, anarchici ed altri gruppi di attivisti”. Gli incontri scientifici seri di solito non sono caratterizzati da appelli alla resistenza politica di massa, molto meno all'azione diretta e al sabotaggio. Ma, di nuovo, Werner non ha proprio fatto appello a quelle cose. Stava semplicemente osservando che le rivolte di massa delle persone – insieme alle linee del movimento per l'abolizione, i diritti civili o Occupy Wall Street – rappresentano la fonte più probabile di “attrito” per rallentare una macchina economica che sta scivolando fuori controllo. Sappiamo che i movimenti sociali del passato hanno “avuto una incredibile influenza su … come si è evoluta la cultura dominante”, ha sottolineato. Quindi è ovvio che “se stiamo pensando al futuro della Terra, e al futuro della nostra unione con l'ambiente, dobbiamo includere la resistenza come parte di quelle dinamiche”. E questo, ha sostenuto Werner, non è una questione di opinione, ma “in realtà un problema di geofisica”.

Molti scienziati sono stati spinti dalle loro scoperte fatte nella ricerca a scendere in strada. Fisici, astronomi, medici e biologi sono stati l'avanguardia dei movimenti contro le armi nucleari, l'energia nucleare, la guerra, la contaminazione chimica e il creazionismo. E nel novembre 2012 Nature ha pubblicato un commento del filantropo della finanza e dell'ambiente Jeremy Grantham che esorta gli scienziati ad unirsi a questa tradizione e a “farsi arrestare se necessario”, perché il cambiamento climatico “non è l'unica crisi delle nostre vite, è anche la crisi dell'esistenza della nostra specie”. Alcuni scienziati non hanno bisogno di essere convinti. Il padre della moderna scienza del clima, James Hansen, è un attivista formidabile, essendo stato arrestato circa mezza dozzina di volte per la sua resistenza all'estrazione di carbone tramite “mountaintop removal” e agli oleodotti per le sabbie bituminose (ha persino lasciato il suo lavoro alla NASA quest'anno, in parte per avere più tempo per l'attivismo). Due anni fa, quando sono stata arrestata fuori dalla Casa Bianca ad un'azione di massa contro l'oleodotto per le sabbie bituminose Keystone XL, ona delle 166 persone in manette quel giorno era un glaciologo di nome Jason Box, un noto esperto mondiale della fusione della calotta glaciale della Groenlandia. “Non avrei potuto conservare la mia autostima se non fossi andato”, ha detto Box allora, aggiungendo che “solo votare non sembra essere sufficiente in questo coso. Devo anche essere un cittadino”.

Ciò è lodevole, ma ciò che sta facendo Werner con la sua modellazione è diverso. Lui non sta dicendo che la sua ricerca lo ha portato ad agire per fermare una particolare politica, sta dicendo che la sua ricerca mostra che tutto il nostro paradigma economico è una minaccia alla stabilità ecologica. E infatti sfidare quel paradigma economico – attraverso movimenti di massa che spingono in senso contrario – è la migliore possibilità per l'umanità di evitare la catastrofe. Roba pesante. Ma non è solo. Werner fa parte di un gruppo piccolo ma sempre più influente di scienziati la cui ricerca sulla destabilizzazione dei sistemi naturali – in particolare del sistema climatico – li sta portando a conclusioni analogamente trasformative e rivoluzionarie. E per ogni rivoluzionario stretto che abbia mai sognato di rovesciare l'ordine economico attuale a favore di uno che sia meno probabile che spinga i pensionati italiani ad impiccarsi in casa, questo lavoro dovrebbe interessare in modo particolare. Perché rende l'abbandono quel sistema crudele in favore di qualcosa di nuovo (e forse, con molto lavoro, migliore) non più una questione di mera preferenza ideologica, ma piuttosto di una necessità esistenziale di tutta la specie.

A condurre il gruppo di questi nuovi rivoluzionari scientifici è uno dei maggiori esperti di clima della Gran Bretagna, Kevin Anderson, il vice direttore del Cetro Tyndall per la Ricerca sul Cambiamento Climatico, che si è rapidamente affermato come una delle pricipali istituzioni nel Regno Unito per la ricerca climatica. Di fronte a tutti, dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale al Comune di Manchester, Anderson ha passato più di un decennio a tradurre pazientemente le implicazioni della scienza del clima più aggiornata a politici, economisti e attivisti. In un linguaggio chiaro e comprensibile, delinea una rigorosa road map per la riduzione delle emissioni, una che fornisce una possibilità decente per mantenere le temperature al di sotto dei 2°C, un obbiettivo che la maggioranza dei governi ha determinato che allontanerebbe la catastrofe. Ma negli ultimi anni i saggi e le presentazioni di Anderson sono diventate più allarmanti. Con titoli come “Cambiamento climatico: andare oltre il pericoloso... Numeri brutali e tenue speranza”, sottolinea che le possibilità di rimanere entro un qualche livello di temperatura sicuro stanno rapidamente diminuendo. Con la sua collega Alice Bows, un'esperta di mitigazione del clima al Centro Tyndall, Anderson evidenzia che abbiamo perso così tanto tempo in stallo politico e politiche climatiche deboli – tutti mentre il consumo globale (e le emissioni) sono cresciuti a dismisura – che ora siamo di fronte a tagli così drastici che sfidano la logica di base del dare la priorità alla crescita del PIL su tutto il resto.

Anderson e Bow ci informano che lo spesso citato obbiettivo di mitigazione a lungo termine – un 80% di taglio di emissioni al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2050 – è stato scelto puramente per ragioni di opportunità politica e “non ha basi scientifiche”. Questo perché gli impatti climatici non vengono solo da ciò che emettiamo oggi e domani, ma dalle emissioni complessive che si accumulano in atmosfera nel tempo. E avvertono che concentrandosi su obbiettivi di tre decenni e mezzo nel futuro – piuttosto che su ciò che possiamo fare per tagliare nettamente e immediatamente il carbonio – c'è un rischio serio che permetteremo alle nostre emissioni di continuare ad aumentare negli anni a venire, buttando quindi troppo del nostro “bilancio di carbonio” per i 2°C e mettendoci in una posizione impossibile più avanti durante questo secolo. Che è il motivo per cui Anderson e Bow sostengono che, se i governi dei paesi sviluppati sono seri riguardo al volere raggiungere l'obbiettivo concordato a livello internazionale di mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2°C e se le riduzioni devono rispettare un qualche principio di equità (fondamentalmente che i paesi che che hanno emesso carbonio per quasi due secoli devono tagliare prima dei paesi in cui più di un miliardo di persone non ha ancora l'elettricità), quindi le riduzioni devono molto più profonde e devono arrivare molto prima.

Per avere una possibilità del 50% di raggiungere l'obbiettivo dei 2°C (che, i due scienziati e molti altri avvertono, comporta comunque il dover affrontare una serie di impatti climatici enormemente dannosi), i paesi industrializzati devono cominciare a tagliare le loro emissioni di gas serra di qualcosa come il 10%all'anno – e devono cominciare ora. Ma Anderson e Bow vanno oltre, sottolineando che questo obbiettivo non può essere raggiunto con la serie di modeste tassazioni del carbonio o le soluzioni green-tech normalmente sostenute dai grandi gruppi verdi. Queste misure aiuteranno certamente, per essere sicuri, ma non sono semplicemente sufficienti: un 10% di diminuzione delle emissioni, anno dopo anno, è virtualmente senza precedenti da quando abbiamo iniziato a potenziare le nostre economie col carbone. Di fatto, tagli al di sopra del 1% all'anno “sono stati storicamente associati solo con la recessione economica o la sommossa”, come ha detto l'economista Nicholas Stern nel suo rapporto del 2006 per il governo britannico.

Anche dopo che l'Unione Sovietica è collassata, riduzioni di questa durata e profondità non si sono verificate (i paesi dell'ex Unione Sovietica hanno visto riduzioni medie annue di circa il 5% su un periodo di 10 anni). Non si sono verificate dopo il crollo di Wall Street nel 2008 (i paesi ricchi hanno visto circa un 7% di diminuzione delle emissioni fra il 2008 e il 2009, ma le loro emissioni di CO2 si sono rifatte alla grande nel 2010 e le emissioni di Cina ed India hanno continuato ad aumentare). Solo subito dopo il grande crollo del mercato nel 1929 gli Stati Uniti, per esempio, hanno visto le emissioni diminuire per diversi anni consecutivi di più del 10% all'anno, secondo i dati storici del Centro di Analisi delle Informazioni su Biossido di Carbonio. Ma quella è stata la peggiore crisi economica dei tempi moderni. Se vogliamo evitare quel tipo di carneficina mentre raggiungiamo i nostri obbiettivi di emissione basati sulla scienza, la riduzione di carbonio dev'essere gestita con attenzione attraverso ciò che Anderson e Bows  descrivono come “radicali ed immediate strategie di decrescita negli Stati Uniti, nell'Unione Europea e in altri paesi ricchi”. Che va bene, eccetto per il fatto che si da il caso che abbiamo un sistema economico che idolatra la crescita del PIL su tutto il resto, a prescindere dalle conseguenze umane o ecologiche e in cui la classe politica neoliberista ha completamente abdicato alla sua responsabilità di gestire qualsiasi cosa (visto che il mercato è il genio invisibile al quale tutto deve essere affidato).

Quindi ciò che Anderson e Bows stanno in realtà dicendo è che c'è ancora tempo per evitare il riscaldamento catastrofico, ma non all'interno delle regole del capitalismo per come sono costruite ora. Il che potrebbe essere il migliore argomento che abbiamo mai avuto per cambiare quelle regole. In un saggio del 2012 apparso sull'influente rivista scientifica Nature Climate Change, Anderson e Bows hanno lanciato una specie di guanto di sfida, accusando molti dei loro compagni scienziati di non fare chiarezza sul tipo di cambiamenti che richiede il cambiamento climatico all'umanità. Su questo vale la pena citare per esteso la coppia:

. . . sviluppando gli scenari di emissione gli scienziati hanno ripetutamente e gravemente sottostimato le implicazioni delle loro analisi. Quando si tratta di evitare un aumento di 2°C, “impossibile” viene tradotto in “difficile ma fattibile”, mentre “urgente e radicale” emerge come “impegnativo” - tutto ciò placa il dio dell'economia (o, più precisamente, della finanza). Per esempio, per evitare di superare il tasso massimo di riduzione di emissioni dettato dagli economisti, vengono assunti picchi precedenti di emissioni “impossibili”, insieme alle nozioni ingenue sulla “grande” ingegneria e i tassi di dispiegamento delle infrastrutture a basso tenore di carbonio. Ancora più preoccupante, man mano che i bilanci delle emissioni diminuiscono,  il fatto che la geoingegneria venga proposta sempre di più per assicurare che il diktat degli economisti rimanga indiscusso.

In altre parole, per sembrare ragionevoli all'interno dei circoli economici neoliberisti, gli scienziati hanno drammaticamente ammorbidito le implicazioni della loro ricerca. Dall'agosto 2013, Anderson è stato disposto ad essere ancora più franco, scrivendo che abbiamo perso il treno del cambiamento graduale. “Forse al tempo dell'Earth Summit del 1992, o anche al cambio di millennio, i livelli di mitigazione di 2°C potevano essere raggiunti attraverso cambiamenti evolutivi significativi all'interno dell'egemonia politica ed economica. Ma il cambiamento climatico è un problema cumulativo! Ora, nel 2013, noi che ci troviamo in nazioni (post)industriali che emettono molto abbiamo di fronte una prospettiva molto diversa. La nostro attuale e collettiva dissolutezza in fatto di carbonio ha sperperato qualsiasi opportunità di “cambiamento evolutivo” che poteva permettersi dal nostro bilancio precedente (e maggiore) di carbonio per i 2°C. Oggi, dopo due decenni di bluff e bugie, il bilancio rimanente per i 2°C richiede un cambiamento rivoluzionario della egemonia politica ed economica” (grassetto suo). Probabilmente non ci dovremmo sorprendere del fatto che alcuni scienziati del clima sono un po' impauriti dalle implicazioni radicali anche della loro stessa ricerca. La maggior parte di loro stava silenziosamente facendo il suo lavoro misurando carote di ghiaccio, provando modelli climatici globali e studiando l'acidificazione dell'oceano solo per scoprire, come dice l'esperto climatico e scrittore australiano Clive Hamilton. “stavano involontariamente destabilizzando l'ordine politico e sociale”.

Ma ci sono molte persone che sono ben consapevoli della natura rivoluzionaria della scienza del clima. E' per questo che alcuni dei governi che hanno deciso di buttare i loro impegni climatici in favore dell'estrazione di più carbonio hanno dovuto trovare modi sempre più delinquenziali di mettere a tacere e intimidire gli scienziati delle loro nazioni. In Gran Bretagna, questa strategia sta diventando più evidente, con Ian Boyd, il consigliere scientifico capo del Dipartimento per l'Ambiente, il Cibo e gli Affari Rurali, che scrive di recente che gli scienziati dovrebbero evitare “di suggerire che le politiche siano giuste o sbagliate” e dovrebbero esprimere i loro punti di vista “lavorando coi consiglieri integrati (come me) e essendo la voce della ragione, piuttosto che del dissenso, nell'arena pubblica”. Se volete sapere dove porta questo, guardate cosa succede in Canada, dove vivo. Il governo conservatore di Stephen Harper ha reso efficace il bavaglio agli scienziati ed ha chiuso progetti di ricerca cruciali che, nel luglio del 2012, un paio di migliaia di scienziati e sostenitori hanno tenuto un funerale ironico a Paliament Hill ad Ottawa, piangendo la “morte delle prove”. I loro cartelli dicevano: “Niente scienza, niente prove, niente verità”.

Ma la verità viene fuori comunque. Il fatto che la ricerca dei profitti e della crescita BAU stia destabilizzando la vita sulla Terra non è più una cosa di cui dobbiamo leggere sulle riviste scientifiche. I primi segni si stanno svelando davanti ai nostri occhi. E un numero sempre maggiore di noi sta rispondendo di conseguenza: bloccando l'attività del fracking a Balcombe, interferendo con le preparazioni delle trivellazioni nell'Artico in acque russe (a costi personali tremendi), portando a giudizio gli operatori delle sabbie bituminose per aver violato la sovranità degli indigeni e innumerevoli altre azioni di resistenza grandi e piccoli. Nel modello computerizzato di Brad Werner, questo è “l'attrito” necessario per rallentare le forze della destabilizzazione. Il grande attivista Bill McKibben li chiama “anticorpi” che emergono per combattere la “febbre alta” del pianeta. Non è una rivoluzione, ma è un inizio. E ci potrebbe far guadagnare giusto il tempo sufficiente per immaginare un modo di vivere su questo pianeta che sia nettamente meno fottuto.

mercoledì 1 luglio 2015

lunedì 29 giugno 2015

Le ragioni nascoste dietro alla crescita economica lenta: EROI in declino, energia netta vincolata

Da “Resource Insights”. Traduzione di MR (via Post Carbon Institute)

Dovrebbe apparire ovvio che ci vuole energia per avere energia. E quando ci vuole più energia per avere l'energia che vogliamo, di solito questo implica prezzi più alti dal momento che l'energia usata in ingresso costa di più. In tali circostanze rimane meno energia da usare per il resto della società, cioè, per le parti che non raccolgono energia – i consumi industriali, commerciali e residenziali di energia – di come sarebbe in caso contrario. Non dovrebbe sorprendere quindi che mentre i combustibili fossili, che forniscono più del 80% dell'energia usata dalla società moderna, diventino più energeticamente impegnativi da estrarre e raffinare; c'è una resistenza crescente all'attività economica man mano che sempre più risorse dell'economia vengono dedicate semplicemente ad ottenere l'energia che vogliamo. Un modo più formale di parlare di questo è l'EROI (o EROEI – Energy Returno on Energy Investment). Il “ritorno energetico” è l'energia che otteniamo da un particolare “investimento” di una unità di energia. Più è alto l'EROI di una fonte energetica, più economica questa sarà sia in termini energetici sia finanziari – e più sarà l'energia che resta ad uso del resto della società. Ma abbiamo assistito ad un declino permanente dell'EROI del petrolio e del gas naturale degli Stati Uniti nell'ultimo secolo, una tendenza che è probabile che si rifletta anche altrove nel mondo. Ecco un riassunto dall'abstract di uno studio del 2011:

venerdì 26 giugno 2015

La senilità delle élite: l'estrazione di carbone deve continuare, a prescindere dai costi umani

DaResource Crisis” e “Chimeras”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




La miniera di carbone di Bihar, India. Foto: Nitin Kirloskar 


Questo post è stato ispirato da un recente articolo sull'estrazione di carbone in India di David Rose su The Guardian. In India la gente sta morendo per strada a causa del calore eccessivo causato dal riscaldamento globale, ma Rose ci informa che “... per un'ampia gamma di politici di Dehli c'è unanimità. Semplicemente non c'è, dicono, la possibilità che in questa fase del suo sviluppo l'India acconsenta a qualsiasi forma di limitazione delle emissioni e di tagli nemmeno a parlarne.” In altre parole, l'estrazione di carbone deve continuare in nome della crescita economica, a prescindere dai costi umani.

Penso che sia difficile vedere un esempio più evidente della senilità delle élite mondiali. Sfortunatamente non si tratta di una cosa che riguarda solo l'India. Le élite di tutto il mondo sembrano quasi completamente cieche rispetto alla situazione disperata in cui ci troviamo tutti.

Su questo argomento ho scritto un post sul blog “Chimeras” (che segue) che descrive come la cecità delle élite non è solo tipica dei nostri tempi, ma era la stessa al tempo dell'Impero Romano: E' una discussione su come un membro della élite Romana, Rutilio Namaziano, avesse completamente frainteso la situazione degli ultimi anni dell'Impero. E la nostra caratteristica di esseri umani quella di non capire il collasso, nemmeno quando lo viviamo.

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Del suo ritorno: un patrizio Romano ci racconta come ha vissuto il collasso dell'impero. 



Il V secolo ha ha visto gli ultimi sussulti dell'Impero Romano d'Occidente. Di quei tempi difficili abbiamo solo pochi documenti ed immagini. Sopra, potete vedere uno dei pochi ritratti sopravvissuti di qualcuno che è vissuto a quel tempo: l'Imperatore Onorio, capo di ciò che restava dell'Impero Romano d'Occidente dal 395 al 423. La sua espressione sembra essere di sorpresa, come se avesse cominciato a vedere i disastri che avevano luogo durante il suo regno. 

Ad un certo punto durante i primi decenni del V secolo DC, probabilmente nel 416, Rutilio Namaziano, un patrizio Romano, ha lasciato Roma – a quel punto l'ombra della gloriosa Roma di prima – per rifugiarsi nei suoi possedimenti nel sud della Francia. Ci ha lasciato una relazione del suo viaggio intitolata “De Reditu suo”, che significa “del suo ritorno”, che possiamo leggere ancora oggi, quasi completo.