martedì 8 luglio 2014

La transizione energetica sostenibile: Giorgio Nebbia sulla circolazione natura-merci-natura


 
A commento del recente post di Sgouris Sgouridis sulla necessita di una "transizione finanziaria" per affrontare la transizione energetica, ecco un post di Giorgio Nebbia che risale a qualche anno fa, ma che è ancora attualissimo.




La circolazione natura-merci-natura:
Alla ricerca di nuove scale di valori


Ambiente Costruito, 2, (2), 4-11 (aprile-giugno 1998)

di Giorgio Nebbia



La tecnosfera --- l'insieme di abitazioni, fabbriche, città, affollate di oggetti fabbricati dagli esseri umani --- è un organismo vivente che “funziona”, come qualsiasi altro essere vivente, grazie ad un flusso di materia e di energia: la materia è rappresentata da “cose” ottenute dalla biosfera --– dall’aria, dalle acque, dal suolo, dal mondo vivente vegetale e animale --- per lo più gratis, e da molte altre cose provenienti dalla tecnosfera, dall’universo degli oggetti fabbricati dagli esseri umani per trasformazione dei beni tratti dalla natura: vegetali, animali, fonti di energia, pietre, acqua, minerali, eccetera.

Chiamerò, per intenderci, “merci” gli oggetti “fabbricati” nella tecnosfera: a rigore, come vedremo, dovremo fare i conti anche con “beni” scambiati, senza pagare niente, fra gli umani e le loro attività e il mondo circostante della natura: l’ossigeno “acquistato” gratis dall’aria, necessario per la respirazione umana e per le combustioni; l’anidride carbonica “venduta” gratis all’atmosfera come risultante della respirazione, delle combustioni, della scomposizione delle pietre, eccetera.

Non è possibile avere idee chiare sul funzionamento della tecnosfera e su quanto attraversa un territorio se non si fa qualche passo avanti nella comprensione di questi complessi scambi e “commerci” di materiali e di energia, nei quali il denaro può entrare o no.

Cominciamo con l’osservare che i processi di produzione e di “consumo” delle merci presentano alcune interessanti analogie con i processi viventi: entrambi traggono dalla natura risorse (aria, acqua, minerali, prodotti vegetali e animali) e le trasformano in cose utili. Nel processo di trasformazione e nel processo di “uso” delle “cose”, i materiali usati e i loro sottoprodotti ritornano nell’ambiente naturale circostante sotto forma di gas, liquidi e solidi, nella stessa quantità in peso in cui sono entrati nel processo.

Per questo motivo d’ora innanzi non userò più il termine “consumo” delle cose fabbricate, delle merci, perché in realtà ciascun “consumatore” non consuma niente, ma si limita ad usare, per un tempo più o meno lungo, le merci stesse. Anche i processi dell’economia, come quelli della vita, sono perciò caratterizzati da una circolazione natura-merci-natura, o N-M-N (se vogliamo ricorrere ad una analogia con la simbologia marxiana); a differenza, però, di quanto avviene nei processi vitali, nei quali tutte le scorie rientrano in ciclo, che operano con cicli “chiusi”, alla fine del ciclo delle merci prodotte dalle attività umane, la natura risulta impoverita di alcune delle sue risorse e la qualità di alcune delle sue risorse risulta peggiorata per l’immissione delle scorie e dei rifiuti.

Fino a quando, nei processi “economici” di produzione e uso delle merci, l’estrazione delle risorse naturali e la restituzione delle scorie sono state abbastanza lente nel tempo e diluite nello spazio, la natura ha avuto il tempo di rimettersi in equilibrio; nelle società industriali moderne, invece, l’estrazione delle risorse dalla natura, la massa delle scorie prodotte e l’immissione delle scorie nei corpi naturali riceventi sono molto veloci e concentrate nello spazio. E’ questa una delle cause dei guasti ambientali che si manifestano come peggioramento della qualità dell’aria e delle acque o come impoverimento delle riserve di risorse naturali, della fertilità del suolo, della stabilità delle valli, e che appaiono evidenti quando si sono già verificati.

Alla vera base di questi guasti sta il fatto che gli esseri umani nelle loro attività economiche sono incapaci di valutare correttamente i fenomeni dell’estrazione di materia dalla natura e di contaminazione della natura. L’efficienza di un processo che produce e usa merci viene descritto soltanto con indicatori monetari nei quali il concetto di scarsità e di qualità delle risorse naturali non appare, se non per quella parte che tocca il “proprietario” di alcune delle risorse stesse: il proprietario delle miniere, o del campo coltivato, o delle sorgenti di acqua, che vede ridotte le sue possibilità di guadagno con l’esaurimento o la contaminazione della sua proprietà.

Quando, come nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse naturali non hanno un proprietario, cono cioè dei beni collettivi --- a chi appartiene l’aria, o il mare, o l’acqua del fiume, o la flora e la fauna non vendibile ? --- le loro modificazioni sono difficilmente prevedibili perché non sono misurabili con l’unità “denaro” e nessuno ha avuto finora interesse a misurarla con qualche altro strumento o indicatore diverso da quelli tradizionali del “mercato”. Da qui la necessità di cercare qualche altro indicatore dei flussi della materia e dell’energia che sono coinvolti nei processi di produzione e di uso delle merci: la ricerca, in altre parole, di una contabilità fisica, o “naturale” dei processi di trasformazione della natura che ci permetta di identificare qualche nuova unità di misura del “valore” diversa dal denaro.

L’idea non è nuova. Le prime contabilità degli scambi fra agricoltura, industria e consumi, a cominciare dalla celebre “tavola” di F. Quesnay, redatta nel 1758, sono state pensate in termini fisici. Il problema è trattato da Marx nella sua analisi della circolazione della ricchezza e l’economista Marshall, nei suoi “Principi” del 1890, scrisse che “la Mecca degli economisti” sarebbe stata l’economia biologica.

E i primi pianificatori sovietici, negli anni venti, hanno cercato, per liberarsi delle scorie del capitalismo precedente, di liberarsi anche dei limiti imposti dal suo principale indicatore, il denaro, e hanno tentato di redigere una contabilità nazionale in unità fisiche. Purtroppo, ai fini di una contabilità economica nazionale, è difficile sommare il peso delle patate con quello della lana o del tondino di ferro, tanto è vero che le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica hanno dovuto descrivere anch’esse gli scambi di merci in unità monetarie.

Sarebbe stato necessario aspettare i tempi attuali per vedere rinascere una nuova domanda di analisi dei flussi di materiali associati alle attività economiche, l’analisi del “metabolismo” delle fabbriche e dei processi di produzione e di consumo. Finalmente viene riconosciuto che non è possibile valutare i flussi di gas responsabili dell’effetto serra, o di rifiuti, e applicare corrette imposte, se non si conoscono esattamente le quantità fisiche dei materiali coinvolti nei processi economici, nella circolazione che ho prima chiamato natura-merci-natura.


L’energia e la materia contano più dei soldi



In questo campo, a differenza di quanto avviene con i prezzi monetari, abbiamo alcuni punti di riferimento solidi: per definizione la materia e l’energia che entrano in ciascun processo di produzione e di uso delle merci si ritrovano, alla fine, nella stessa quantità, anche se modificata; una parte di tale materia ed energia è sotto forma di merce vendibile in cambio di denaro, mentre una parte – anzi la maggior parte – è sotto forma di sostanze chimiche e di energia che finiscono come “scorie”, che vengono ”rifiutate” e immesse “da qualche parte” nella biosfera.

A titolo di esempio pensiamo alla benzina bruciata in un’automobile: La merce è la benzina e noi la paghiamo e il servizio reso è lo spostamento di una persona a bordo per un certo numero di kilometri. Possiamo perciò dire che il servizio costa tante lire per persona-kilometro.

Questo valore monetario non ci dice niente sulla storia naturale della benzina, prima che sia entrata nel motore, né ci dice niente sui gas che sin liberano nell’atmosfera durante la combustione, ne’ dell’amianto o della polvere di gomma che vengono immessi nell’aria durante il moto del veicolo per il kilometro considerato.

La contabilità fisica mostra che un kilogrammo di benzina brucia soltanto se interagisce con l’ossigeno contenuto in circa 20 kg di aria; il “servizio”, cioè lo spostamento dei veicolo, è accompagnato dall’immissione nell’ambiente degli stessi 21 kg di materiali immessi in ciclo. Le sostanze che escono dal tubo di scappamento, pur avendo la stessa massa della materia iniziale, hanno composizione chimica molto differente: troviamo gli stessi atomi che erano presenti negli idrocarburi della benzina, nell’ossigeno e nell’azoto dell’aria, ma adesso sono combinati in parte ancora come ossigeno e azoto, ma anche come anidride carbonica, ossido di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi diversi da quelli della benzina, e innumerevoli altre sostanze di “rifiuto” la cui misura e caratterizzazione è tutt’altro che facile, anche perché finora non interessava a nessuno.

Lo stesso vale per l’energia che era originariamente “contenuta” dentro la benzina, come energia potenziale a bassa entropia, e che durante la combustione si libera come calore ad alta temperatura e ancora bassa entropia (quel calore che muove i cilindri del motore e le ruote) e alla fine si ritrova anch’esso nei gas di scappamento e nel riscaldamento provocato dagli attriti, come calore a bassa temperatura e ad alta entropia. La quantità di energia è sempre la stessa, ma la sua qualità “merceologica”, la sua attitudine ad essere ancora utilizzata per qualche fine utile, è molto diminuita, una perdita di utilità che si può indicare come aumento di entropia.

Le poche precedenti considerazioni forniscono la base per la ricerca di qualche indicatore fisico del valore che ci liberi dall’arbitrio del denaro e ci fornisca qualche informazione convincente. Per esempio potremmo caratterizzare una merce o un servizio (ricordando che ogni servizio, anche apparentemente immateriale) richiede degli oggetti fisici e materiali), sulla base della quantità di materia che richiede nel suo processo di produzione e di uso, nel suo “ciclo vitale”.

Si potrà così dire che è tanto più utile, o apprezzabile -– o ecologicamente “virtuoso” -- un processo o un servizio che consente di ottenere la stessa merce e lo stesso servizio con un minore consumo di materia prime, o con un minore consumo di energia, o con un minore inquinamento ambientale.

Si potrebbe così parlare di “costo energetico”, di “costo in risorse naturali”, di “costo ambientale”, di ciascuna merce o di ciascun servizio, essendo, proprio come si usa considerare nel caso del valore monetario, tanto più apprezzabile una merce o un servizio che hanno un minore “costo naturale” (1).

Ciascuno di questi tre caratteri possono essere misurati in kilogrammi o in joule per cui il confronto può essere considerato universale (o quasi).


Il costo energetico delle merci



Prima di chiarire a che cosa potrebbe servire, in pratica, questa ricerca di nuovi indicatori “naturali” del valore, e anche per mostrare alcune delle grandi difficoltà del loro computo, vorrei soffermarmi sul caso dell’energia, certamente il più studiato e quello relativamente più facile. Secondo quanto detto prima è possibile confrontare le merci e i servizi sulla base della quantità di energia richiesta per la fabbricazione di una unità di peso di una merce, o per una unità di un servizio: per esempio per consentire ad una persona di percorrere un kilometro. Potremmo così parlare del costo energetico di una merce o di un servizio.

Questa maniera di ragionare tocca, però, anche alcuni aspetti più delicati della stessa teoria del valore: del resto gli economisti classici, e Marx stesso, pensavano a qualcosa di fisico quando elaborarono una teoria del valore sulla base della quantità di lavoro “incorporato” in una merce, necessario a produrla. Sostanzialmente il valore-lavoro è associato in qualche modo ad una misura della quantità di energia --- umana, in questo caso --- necessaria per produrre le merci, è associata a quell’entità misteriosa che è il “valore d’uso” delle merci, un valore legato in qualche modo alla “natura”, come sostiene Marx nella “Critica del programma di Gotha” (1875) quando afferma che “la natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva !) altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana”.

Martinez-Alier in un suo libro (2) ha analizzato numerosi contributi di persone che hanno cercato di elaborare una teoria energetica del valore delle merci o una analisi del rapporto fra energia, lavoro e merci.

Il medico ucraino Sergei Podolinskij scrisse nel 1881 un saggio, apparso in tedesco, francese, italiano e russo, su una proposta di valore fisico delle merci. Il saggio è stato, di recente, tradotto e analizzato criticamente da Tiziano Bagarolo (3).

Ma continuamente varie persone, più o meno motivate ideologicamente, sono state attratte dalla ricerca di qualche scala del valore che fosse libera dalla schiavitù delle unità monetarie imposte dalla contabilità capitalistica.

Negli anni venti di questo secolo, per esempio, una teoria del valore in unità fisiche è stata proposta da F. Soddy (che aveva ottenuto il premio Nobel per la scoperta degli isotopi degli elementi), dallo scrittore H.G. Wells (quello della “guerra dei mondi”), e da altri.

Di particolare interesse è il movimento, sorto ai tempi della grande crisi 1929-33 e sull’onda delle idee di Thorstein Veblen, denominato “tecnocrazia” (4) e basato sull’idea che i tecnici, piuttosto che il potere finanziario, avrebbero dovuto avere un ruolo predominante nelle decisioni economiche e produttive. Nell’ambito di questo movimento un certo Howard Scott propose una curiosa teoria della distribuzione delle merci, secondo la quale il denaro avrebbe dovuto essere sostituito da una moneta basata sulle unità energetiche. La proposta, pubblicata da Scott nel fascicolo del gennaio 1933 di “Harper’s Magazine”, sosteneva che l’industria avrebbe prodotto nella maniera più efficiente una grande quantità di merci utili se il governo avesse stampato dei certificati energetici in quantità equivalente alla quantità totale di energia che considerava utile impiegare in un anno nella produzione delle merci.

Tali certificati avrebbero dovuto essere distribuiti in parti uguali fra la popolazione: ciascun cittadino avrebbe usato i certificati a sua disposizione per acquistare le merci o i servizi occorrenti, ciascuno caratterizzato sulla base di un suo valore energetico, regolando i suoi gusti e le sue scelte sulla base del vincolo fisico costituito dalla quantità di energia assegnatagli dalla collettività.

Chi avesse voluto acquistare una merce con elevato costo energetico avrebbe avuto meno certificati per acquistare altre merci, però avrebbe potuto acquistare certificati energetici da altri. I certificati di energia avrebbero dovuto essere trasferibili e avrebbero dovuto avere una durata limitata.


L’italiano Salvadori e la sua dimenticata misura del valore energetico delle merci


La misura del costo energetico delle merci fu proposta, ancora negli anni trenta, da Roberto Salvadori, un oscuro professore di merceologia dell’Università di Firenze, che propose una unità di misura del valore espresso in energon-merce. Di Roberto Salvadori 1873-1940) esistono poche notizie; da un “curriculum vitae” datato 1931 si apprende che si era laureato in chimica a Padova nel 1896; nel 1899 si recò con una borsa di studio nell’Università di Gottingen nel laboratorio del prof. Nernst. Dopo due anni di insegnamento a Sassari, nel 1902 vinse il concorso di professore ordinario di chimica nell’Istituto Tecnico di Firenze e nello stesso anno ottenne la libera docenza. Dal 1926 al 1934 tenne per incarico il corso (allora biennale) di Merceologia presso la Facoltà di Scienze economiche e commerciali di Firenze. Per altre notizie su questo importante e dimenticato studioso si veda: http://www.ilmondodellecose.it/dettaglio.asp?articolo_id=2830

Nel suo libro “Merceologia generale. Principi teorici. II. Le proprietà delle cose. III. Concetto merceologico dell’energia”, Firenze, Editore Cya, 1933, ha introdotto il concetto di “energia-merce” definito come “la somma algebrica delle energie necessarie alla creazione di una entità merceologica, per cui si può stabilire il valore commerciale energetico”. Per “valore commerciale energetico” Salvadori intendeva “il valore assoluto dell’unità di misura di un prodotto merceologico, determinato dalle condizioni tecniche della sua preparazione. Ogni tipo di merce rappresenta, in definitiva, una somma di energie che è sempre superiore all’energia teorica che il prodotto ha in sé”.

Salvadori definì gli “energon-merce” come la somma dell’energia spesa per produrre una unità di peso di ciascuna merce; tale somma è sempre superiore al ”contenuto energetico” della merce stessa e dipende dalle inefficienze e perdite del processo. A Salvadori va quindi il merito di aver introdotto, pur con un linguaggio poco chiaro, l’idea che esiste un consumo minimo teorico di energia per produrre ciascuna merce – equivalente, in un certo senso, al rendimento di Carnot delle macchine termiche – e che il consumo reale di energia dipende dalle perdite, dalle inefficienze tecniche, e così via.

Per inciso lo stesso concetto per alcuni cicli produttivi è stato ripreso dall’americano Gyftopoulos nel 1974 (5).

Utili informazioni su questi tentativi di misurare il valore --- il “valore d’uso” --- delle merci e dei servizi in unità fisiche, e in particolare energetiche, si trovano nel libro già citato, di Martinez-Alier, e in quello dell’inglese Peter Chapman, “Il paradiso dell’energia” (6).


La crisi energetica del 1973 e la nuova curiosità per il costo energetico


L’interesse per la misura del costo energetico delle merci è ripreso negli anni settanta, in seguito alle oscillazioni del prezzo del petrolio e delle materie prime: il petrolio era la stessa cosa, aveva lo stesso valore energetico, quando costava 10.000 lire alla tonnellata nel 1972 o 300.000 lire/t nel 1985 o 200.000 lire/t (circa 100 euro/t) come costa nel 2003. Il calore che libera, i servizi che rende, la quantità di merci che può contribuire a fabbricare, sono grandezze indipendenti dal prezzo unitario.

La ricerca di un indicatore energetico del valore delle merci fu ripresa da Martha Gilliland (7), il cui lavoro fu criticato da David Huttner (8); un’altra proposta di misura del costo energetico fu avanzata dall’inglese Peter Chapman, già ricordato (6), e alcuni studi sul “costo energetico delle merci” sono stati condotti anche nell’Università di Bari (9). Una critica alla proposta di misurare in unità energetiche il valore delle merci è contenuta in un celebre articolo di Nicholas Georgescu-Roegen (10) sulla base del fatto che bisogna considerare non soltanto l’energia, ma anche la materia (“matter matters too”).

La base razionale della ricerca di un valore energetico, o di un costo energetico delle merci e dei servizi, sta nel fatto che, conoscendo tali valori, un soggetto economico, una persona, un’azienda, che voglia consumare meno energia ha (avrebbe) a disposizione un indicatore fisico, in un certo senso “assoluto”, per scegliere fra diversi processi o modi di comportamento. Ad esempio fra due processi produttivi “varrà” di più quello che fornisce la stessa merce con minore consumo di energia. I diversi modi di trasporto delle persone e delle merci possono essere confrontati sulla base del consumo di energia per kilometro percorso da una persona o da una tonnellata di merce.

La valutazione del costo energetico delle merci pone vari problemi metodologici. Il primo punto riguarda l’identificazione di una nuova unità delle attività umane che è il “processo” di trasformazione della natura in merci e poi in scorie e rifiuti. Il “processo si svolge dentro confini fisici che devono essere definito abbastanza bene, a pena di commettere errori. Il processo è quanto avviene entro i confini di una fabbrica o nei confini di una città o in quelli di una abitazione.

Prendiamo un processo produttivo, quello di fabbricazione dell’alluminio, che consiste, come è noto, nel trattare un minerale, la bauxite, con agenti chimici che consentono di ricuperare l’ossido di alluminio. Una seconda fase trasforma l’ossido di alluminio, miscelato con adatti fondenti, in alluminio metallico per elettrolisi, con l’uso dell’elettricità.

In prima approssimazione si può misurare la quantità di energia elettrica consumata per ottenere un kg di alluminio e si può affermare che tale energia rappresenta il costo energetico dell’alluminio, o l’energia “incorporata” nel metallo. Però bisognerebbe valutare anche il “costo energetico” degli elettrodi di carbone e dei fondenti impiegati nell’elettrolisi e che sono “consumati” nel processo. Per fare le cose meglio bisognerebbe anche aggiungere il costo energetico del trasporto di questi agenti dal luogo di produzione alla fabbrica di alluminio, e poi il “costo energetico” del trasporto dalla bauxite dalla miniera alla fabbrica e il costo energetico degli agenti con cui viene trattata la bauxite, e avanti di questo passo.

Includendo tutti i costi energetici dei vari fattori della produzione, il “costo energetico” vero e proprio della merce, cioè il consumo di energia nell’intero ciclo produttivo, può anche raddoppiare. Se, con lo stesso procedimento, si calcola il costo energetico dell’alluminio ricavato dalla fusione del rottame, si vede che l’operazione di riciclo consente di ottenere alluminio, che è sempre lo stesso, con un costo energetico che è circa un ventesimo rispetto a quello che si ha quando si parte dalla bauxite; quasi come se il trattamento del rottame consentisse di ricuperare una parte dell’energia spesa quando lo si è fabbricato la prima volta partendo dal minerale e che è rimasta “incorporata” nel metallo.

Altri indicatori del valore


L’analisi del valore delle merci sulla base del costo energetico può perciò aiutare a scegliere le materie prime, a progettare i materiali, gli imballaggi, i manufatti, sulla base di nuovi vincoli, quali la scarsità di energia o di materie prime. Sulla base di simili considerazioni si possono cercare altri indicatori fisici, naturali, del valore, come il costo in risorse naturali e il costo ambientale.

Il primo potrebbe essere misurato sulla base della quantità di acqua, o di minerali, o di vegetali, richiesti per produrre una unità di peso di merce; il secondo potrebbe descrivere la quantità di rifiuti --- gassosi, liquidi o solidi --- che accompagnano la produzione o l’uso di una unità di peso di merce.

La crescente scarsità di acqua nel mondo, anche nei paesi industrializzati, induce a prestare crescente attenzione alla misura – e alla diminuzione – del “costo in acqua” delle merci (11) attraverso innovazioni nel campo del riciclo dell’acqua, dell’uso di acqua di qualità inferiore per usi meno nobili, come il raffreddamento dei processi industriali, l’irrigazione, l’annaffiatura dei giardini e ... la pulizia dei gabinetti: E’ assurdo che ogni italiano, nella propria vita urbana e domestica, usi ogni anno 20.000 litri di acqua di alta qualità per usi alimentari e igienici e altri 80.000 litri di acqua, ugualmente di alta qualità, per i gabinetti e per la pulizia delle strade.

Vale” perciò, ha un maggiore “valore d’uso”, la merce o il servizio che richiedono minore quantità di acqua. Analogamente vale di più la merce o il servizio che, nel corso della produzione o dell’uso, richiede meno risorse naturali e ha un minore “costo di natura”. Anche in questo caso si tratta di misurare la quantità di risorse naturali – minerali, energie fossili, foreste, eccetera – per unità di merce prodotta o per ciascun servizio.

Infine si può misurare il “costo ambientale” di ciascuna merce o servizio sulla base della quantità di residui o scorie che vengono immessi nell’ambiente nel corso della produzione o alla fine della vita utile. Ormai cominciano ad essere emanate leggi che stabiliscono la massima quantità di agenti inquinanti che possono essere immessi nei corpi riceventi ambientali: la massima quantità di ossido di carbonio, o di ossidi di azoto o di zolfo o di idrocarburi policiclici che possono essere immessi nell’ambiente per ogni kg di benzina o gasolio bruciato in un motore o per ogni km percorso o per ogni kilowattora di elettricità prodotta.

Comunque nella maggior parte dei processi si hanno ben poche informazioni sulle sostanze che accompagnano ciascun processo, benché da tali sostanze dipenda anche la salute dei lavoratori oltre che l’effetto ambientale associato alla fase di produzione o di uso finale delle merci.

Il ritardo delle conoscenze che consentirebbero la misura del “costo (o valore) fisico” delle merci e dei processi dipende anche dal fatto che i processi educativi --- per esempio di formazione dei chimici, degli ingegneri, degli economisti --- sono centrati sulla misura della quantità dei prodotti principali, che sono quelli a cui sono associati scambi monetari, e ben poco attenzione è rivolta all’analisi della quantità e del tipo di prodotti secondari, dei residui e delle scorie, la cui composizione, fra l’altro, è più difficile da misurare, valutare, conoscere, rispetto a quella dei prodotti principali economici.

Ci sono stati dei tentativi, in passato, di elaborare delle “enciclopedie dei processi”, cioè dei bilanci dei flussi di materie e di energia, in unità fisiche, associati ai processi di produzione e di uso delle merci, ma ben poco cammino è stato finora fatto su questa strada.

A che cosa serve ?


La ripresa dell’interesse per nuove scale di valori avrebbe il fine di capire qualcosa di più nel campo ancora poco esplorato della teoria del valore nei rapporti uomo-natura-società. Ma avrebbe anche qualche utilità pratica, consentirebbe di identificare le scelte economiche più razionali in un’epoca di risorse scarse.

Insomma anche la società strettamente capitalistica, basata sulle rigorose leggi del libero mercato, sta cominciando a riconoscere che qualcosa nei meccanismi dei prezzi non funziona.

Per esempio in questi ultimi anni si stanno moltiplicando l’interesse e gli studi sulla caratterizzazione di alcune merci, considerate meno dannose per l’ambiente con una “etichetta ecologica” o “ecolabel”, assegnata sulla base del minore consumo di materiali o di energia o del minore inquinamento, rispetto ad altre merci. Gli acquirenti potrebbero così essere orientati, a parità di prezzo o anche pagando un prezzo maggiore, verso le merci più “amiche” della natura. In un certo senso questo orientamento si sta già verificando con gli alimenti cosiddetti “biologici”, più costosi ma apparentemente ottenuti con meno pesticidi o concimi rispetto a quelli tradizionali. E’ facile costatare che l’operazione si presta a frodi se le misure dei valori “naturali” delle merci non sono effettuate correttamente.

Un altro interessante esempio di utilità dell’analisi del flusso di materiali e di energia associato alla produzione e all’uso di merci e servizi riguarda l’applicazione delle imposte ecologiche. Sempre più spesso, per diminuire l’inquinamento, vengono proposte e ormai anche applicate imposte proporzionali alla quantità fisica dei materiali in gioco: alla quantità di anidride carbonica emessa dagli impianti di combustione, alla quantità di ossido di azoto e zolfo emesse durante la combustione e i processi produttivi; proporzionali alla quantità di rifiuti solidi prodotti, eccetera.

Infine la conoscenza dei flussi materiali è richiesta dalle procedure che richiedono una misura e valutazione del cosiddetto “impatto ambientale” l’effetto delle attività produttive sull’ambiente. Per poter giudicare se una località è adatta ad ospitare un impianto produttivo viene (dovrebbe essere) richiesto un bilancio dei materiali in gioco.

Inutile dire che, a parte le reali difficoltà tecnico-scientifiche di misurare le grandezze richieste, la procedura è quanto mai inefficace per la resistenza dei produttori a indicare quello che effettivamente trattano, le esatte quantità di scorie prodotte, il pericolo dei processi e dei prodotti. Infine la ricerca delle nuove scale “naturali” del valore è di grande utilità anhe per misurare e pianificare il funzionamento di quel tipico ecosistema artificiale che è la città umana (12).



Note



1) Alcune considerazioni su questo tema si possono trovare in: G. Nebbia, “Sul valore energetico delle merci”, Politica ed Economia, (III), 21, (7/8), 49-50 (luglio-agosto 1990) e “L’energia come altro indicatore del valore delle merci”, Giano, n. 10, 89-93 (aprile 1992); anche Verdesalute, vol. 7, n. 4, 16-20 (ottobre-dicembre 1997) e G.Nebbia, "Risorse merci ambiente", Bari, Progedit, 2001, e "Merci e valori", Milano, Jacabook, 2002

2) Juan Martinez-Alier, “Ecological economics”, Oxford, Basil Blackwell, 1987; traduzione italiana col titolo: “Economia ecologica”, Milano, Garzanti, 1991

3) T. Bagarolo, ”Marx-Engels-Podolinskij: una traccia teorica perduta”, Giano n. 10, 37-74 (aprile 1992)

4) Cfr. W.E. Akin, “Technocracy and the American dream. The Technocrat movement, 1900-1941”, Berkeley, University of California Press, 1977. Un movimento “Technocracy” sopravvive ancora adesso. Si possono trovare informazioni nel sito Internet .

5) E.P. Gyftopoulos e altri, “Potential fuel effectivenesse iin industry”, Cambridge, Ballinger, 1974

6) P. Chapman, “Fuel’s paradise. Energy options for Britain”, Harmondworth, Penguin Books, 1975. Traduzione italiana col titolo: “Il paradiso dell’energia. Introduzione all’analisi energetica”, Milano, Clup/Clued, 1982, introduzione di Giorgio Nebbia. Purtroppo nella traduzione italiana è stata omessa la bibliografia.

7) M. Gilliland, “Energy analysis and public policy”, Science, 189, 1051-1056 (26 September 1975) e “Energy analysis”, Science, 192, 8-12 (2 April 1976)

8) D. Huettner, “Net energy analysis and economic assessment”, Science, 192, 101-104 (9 April 1976) e varie “Lettere” in Science, 196, 259-262 (15 April 1977)

9) Cfr. G. Nebbia, “Storia naturale delle merci”, Rassegna chimica, 43, (6), 241-249 (novembre-dicembre 1991)

10) N. Georgescu-Roegen, “Energy analysis and economic valuation”, Southern Economic Journal, 45, (4), 1023-1058 (April 1972), traduzione italiana in: N. Georgescu-Roegen, “Energia e miti economici”, Torino, Bollati Boringhieri, 1998

11) Cfr., per esempio: G. Nebbia, ”Il problema dell’acqua”, Bari, Cacucci, 1966, e G. Nebbia, “Sete !”, Roma, Editori Riuniti, 1991

12) Cfr. V. Bettini, “Elementi di ecologia urbana”, Torino, Einaudi, 1996


lunedì 7 luglio 2014

La transizione energetica sostenibile. Parte II: la necessità di riformare il sistema finanziario

Da “Resource crisis”. Traduzione di MR




Nella prima parte di questa serie, Sgouris Sgouridis ha evidenziato quanta dell'energia attualmente prodotta dovrebbe essere messa da parte secondo la "Strategia del seminatore” per ottenere una transizione dolce da un'economia basata sui combustibili fossili ad una rinnovabile. In questo post discute in che modo può essere ottenuta nella pratica questa transizione, tenendo conto delle caratteristiche del sistema finanziario e di come dovrebbe essere riformato in termini di un sistema di valuta basato sull'energia.


Guidare la Transizione Energetica (Parte 2)
Riportare il sistema finanziario alla realtà (fisica): un'ipotesi di valuta energetica

Di Sgouris Sgouridis (Parte 1)

Pagare i costi della Transizione Energetica Sostenibile (TES) introdotta nella prima parte è necessario, ma non sarà sufficiente a superare i significativi problemi di coordinamento coinvolti – su scala regionale o globale. Ci sono fattori multipli in gioco. La psicologia cognitiva ha ripetutamente mostrato la grave attualizzazione del futuro che mostra gran parte degli esseri umani (occidentalizzati). Come descritto da Mancur Olson, i processi regolatori chiave vengono catturati da gruppi di lobby e le elezioni vengono influenzate dagli interessi monetari attraverso il controllo dei media. Ciò rappresenta un'inerzie significativa nelle componenti abituali e sistemiche del comportamento quotidiano – anche se volessimo cambiare il nostro comportamento, ciò richiede uno spirito ribelle per andare contro norme radicate e senza la giusta infrastruttura alcune scelte potrebbero essere impossibili (per esempio la pedonabilità e il trasporto pubblico nei sobborghi statunitensi). Ma questi fattori sono un qualche modo un riflesso della realtà economica di base – un ostacolo di fondo sta nella sconnessione fra economia fisica e finanziaria.

L'attuale economia finanziaria è il risultato di un processo rinforzante nel quale la ricchezza sembra diventare sempre più astratta e con valori nominali che superano la capacità produttiva del pianeta. In larga misura, ciò è un altro artificio della nostra capacità di imbrigliare a nostra discrezione l'energia. Prima della rivoluzione industriale, le società tendevano a crescere a un ritmo molto più lento e quando entravano in periodi di “esuberanza irrazionale” e di eccessiva diffusione del debito, giubilei, rivoluzioni, migrazioni o guerre riuscivano a cancellare il debito. Questi ultimi 300 anni, però, hanno probabilmente visto la sola volta nella storia in cui la crescita economica continua ha permesso che gran parte dei debiti emessi fossero ripagati. Dovrebbe essere chiaro adesso, la capacità di espandere l'economia ad un tasso sufficiente a ripagare il debito (collettivamente) è reso possibile solo dalla capacità di espandere la fonte energetica per alimentare la crescita economica. Quando i combustibili fossili raggiungono il picco, rientriamo nelle dinamiche di un'economia di flussi ed sarà necessaria una strada alternativa alla finanziarizzazione.

Nella prima parte mi sono concentrato sui requisiti fisici per completare una TES. In questa seconda parte, rivisito il Principio V che ho descritto nella prima parte. Il principio dichiara “che l'impegno per il consumo futuro (per esempio l'emissione di debito) venga accoppiato alla, e limitato dalla, futura disponibilità di energia”. La questione è quale potrebbero essere le ripercussioni economiche della transizione e se è possibile evitare un collasso economico invalidante. Ancora più importante, come sarà possibile ottenere la continuità di investimento necessaria per completare una TES. Sulla base del quinto principio, possiamo vedere che in un'economia post picco la capacità di estendere il debito (che ci si aspetta che nel complesso potrebbe ragionevolmente essere ripagato) dipenderebbe dalla futura disponibilità di energia e dal tasso al quale l'uso di energia diventa più efficiente. E' possibile pertanto scrivere questa equazione per la nostra economia strettamente di Earthship del post picco come:


Questa equazione lega la quantità di nuovo debito che ci si può aspettare che una società emetta in rapporto all'investimento critico in energia rinnovabile (epsilon). Se il rapporto del debito rispetto a potenziale di riscaldamento globale rimane al di sotto di questo limite, ridurrebbe le possibilità di una crisi finanziaria e di una depressione economica in futuro, causate da un debito non pagato.

Mettendo insieme le implicazioni dei principi normativi della TES (vedi prima parte) e le loro equazioni risultanti, diventa chiaro che per far partire una transizione adeguata dobbiamo controllare sia il sistema finanziario sia aumentante rapidamente il rapporto di investimento in energia rinnovabile, Un'opzione ideale sfrutterebbe le due cose in una dinamica positivamente rinforzante. Rendendosi conto che il debito è, di gran lunga, il meccanismo predominante per l'aumento dell'offerta di soldi, esplorare l'idea di un sistema di valuta energetica diventa una deduzione logica. Sono molti gli aspetti che un sistema di valuta energetica può assumere e sono presentati in dettaglio nel mio recente articolo su Frontiers in Energy Policy. Ne distinguo due tipi fondamentali: un sistema di crediti energetici e uno di emissione del debito (e quindi di offerta monetaria), è in parte o interamente adattato sulla base dell'equazione energia/debito sopra.

Il primo tipo (e quello che probabilmente verrà attuato per primo) può essere dal basso. Valute locali e regionali complementari basate sull'energia possono essere introdotte in modo relativamente facile per sostenere le economie locali che hanno limiti energetici specifici. Come descritto anche in Sgouridis e Kennedy 2009, i crediti energetici vengono emessi in anticipo (analogamente al credito telefonico prepagato) in un modo nel quale rappresentano l'offerta energetica disponibile (o mirata) per il periodo di emissione. Mentre cittadini ed aziende consumano servizi energetici prelevano dalle loro porzioni. Per evitare l'accaparramento o il consumo anticipato forte e squilibrato, i crediti dovrebbero essere emessi ad intervalli ragionevolmente brevi (giornalieri/settimanali) ed scadere successivamente. Un mercato asimmetrico per quei crediti può sostenere sia questi obbiettivi sia adattare la domanda alla reale offerta energetica. Questo mercato opera permettendo agli utenti di vendere i loro crediti al mercato se trovano il prezzo spot interessante e sono disposti ad adattare il proprio consumo. Il prezzo spot viene generato con un algoritmo confrontando la reale curva energetica cumulativa alla curva cumulativa prevista e aumentando (diminuendo) il prezzo se la domanda reale supera (è più bassa di) quella prevista nel tentativo di correggere la divergenza. Una parte chiave del sistema è l'esistenza di future energetici (che potrebbero agire da investimenti fruttiferi in scadenza) quando un investitore decide di investire in un futuro di generazione di energia rinnovabile. I future energetici scadrebbero alla fine e fornirebbero come rendimento una certa quantità di crediti energetici regolari.

E' possibile che se emergono alcuni di questi sistemi di credito energetico i future potrebbero agire come sostituto più sicuro delle valute di corso forzoso che presentano un percorso dal basso verso un sistema di valuta energetica completo.

In alternativa, un percorso dall'alto per l'istituzionalizzazione della valuta energetica è a sua volta possibile se si materializza la volontà politica di controllare in modo efficace l'offerta monetaria – forse come risultato di una crisi in corso. In teoria, ci sono diversi modi per controllare l'emissione di debito da parte dei governi, ma nessuno che sia coerentemente efficace (anche in un'economia controllata come quella cinese), in quanto il debito emesso dalle banche tende ad essere di più (alimentando bolle) o di meno (strangolando l'economia produttiva) di quanto desiderato. Questo problema è stato notato nella Grande Depressione ed è stata fatta una proposta, conosciuta come il Piano di Chicago, da parte di un gruppo di economisti guidati da Irving Fisher. L'idea che il debito emesso dalle banche debba essere controllato e pienamente regolato se non utilizzano i risparmi di investimento (per esempio il consumo differito) sta riguadagnando terreno, condotto dall'economista del FMI Michael Kumhoff.

Però, la domanda su quanto debito estendere è ancora non chiara – quale dovrebbe essere il livello desiderato di debito che permetterebbe ad un'economia la giusta crescita? La mia tesi è che in una società post picco dei combustibili fossili, dovrebbe essere governato esattamente dall'equazione energia/debito. Se dovesse diventare così, il capitale finanziario improvvisamente avrebbe un caso chiaro per investire in generazione di energia rinnovabile, di modo che la quantità di credito estensibile disponibile aumenti (il solo modo di fare leva di capitale nei mercati finanziari in regime di Piano di Chicago). Dovrebbe essere abbastanza banale collegare alcuni termini preferenziali e dare priorità agli investitori attivi nei mercati dell'energia fisica perché abbiano accesso al debito per rendere questo un circolo virtuoso. Naturalmente, potrebbe essere possibile che il mercato energetico possa surriscaldarsi e superare i livelli desiderati di investimento, ma questo è ancora controllabile dall'autorità della banca centrale che potrebbe mettere dei limiti massimi.

Riassumendo, mentre gli obbiettivi di un bilancio del carbonio e i pericoli di un picco dell'energia fossile sono stati ripetutamente discussi, uno sguardi coerente e sistematico al sistema economico energetico ci ha permesso di collegare il tasso al quale dobbiamo investire energia nella costruzione di un'infrastruttura energetica rinnovabile coi requisiti e vincoli sociali, ambientali ed economici. E' chiaro che i vincoli di carbonio sono più stringenti dei tassi di esaurimento, ma in entrambi i casi un'accelerazione significativa della costruzione dell'infrastruttura di energia rinnovabile è necessaria se vogliamo evitare la trappola energetica. Il nostro sistema finanziario basato sul debitoagisce ancora come una maschera aggiuntiva dell'esaurimento dei combustibili facilmente accessibili e se lo manteniamo intatto in futuro, questo agirà da ostacolo agli sforzi per invertire il declino della disponibilità di energia. Un'anticipazione di come potrebbe agire la trappola si può vedere oggi nei paesi del sud dell'Europa. Una volta che il declino della disponibilità di energia non può essere mascherato dal debito, l'investimento in infrastrutture si congela e l'attenzione si sposta ad affrontare necessità più pressanti di sopravvivenza quotidiana. Un sistema di valuta energetica fornisce un'opzione degna di ulteriore approfondimento per negare questo circolo vizioso e accoppiare il sistema finanziario alle realtà di un'economia basata sui flussi di energia rinnovabile. Naturalmente, ci potrebbero essere altri fattori limitanti al di là della sfera energetica (per esempio l'inquinamento), ma questi dovrebbero comunque affrontare quello dell'energia.

La transizione energetica sostenibile: quanto costerà?

DaResource crisis”. Traduzione di MR


In un precedente post, ho usato il concetto di “strategia del seminatore” per proporre che il modo di risolvere il nostro dilemma dell'esaurimento e della distruzione climatica è quello di usare i combustibili fossili per sbarazzarci dei combustibili fossili. In altre parole, dobbiamo usare energia fossile – finché ce l'abbiamo – per sviluppare sostituti all'energia fossile. Ciò equivale alla vecchia strategia dei contadini di “tenere da parte le proprie sementi”. Ma quante sementi dobbiamo mettere da parte esattamente? In questo post, Sgouris Sgouridis fornisce una risposta. Risulta che per avere una transizione dolce e graduale all'energia rinnovabile prima che l'energia fossile diventi troppo costosa, dobbiamo intensificare gli investimenti in rinnovabili di un fattore 4-10 che dovrebbe essere raggiunto per mezzo di un aumento annuale dell'attuale investimento fra il 6% e il 9%. Alla fine, il tasso di investimento dovrebbe raggiungere delle quantità nell'ordine degli 1,5-2,5 trilioni di dollari per il 2045. E' un risultato stuzzicante, perché un 9% di aumento annuale è possibile: abbiamo fatto crescere le rinnovabili a tassi più rapidi fino ad ora. Ed anche una quantità totale di un paio di trilioni di dollari non è impossibile, considerando che l'attuale PIL mondiale è di circa 72 trilioni di dollari (in confronto anche agli 1,7 trilioni di dollari all'anno spesi per il sistema militare mondiale). Sfortunatamente, è del tutto possibile che l'azione della lobby dei combustibili fossili sarà capace di rallentare la crescita delle rinnovabili o persino di fermarla completamente. In questo caso, non saremo in grado di evitare un crollo significativo (e probabilmente disastroso) della quantità di energia disponibile in tutto il mondo, quando il declino inevitabile dell'energia fossile farà il suo corso. Ciononostante, ogni investimento in energia rinnovabile che possiamo fare ora, nel prossimo futuro aiuterà a rendere la transizione meno dura per tutti noi. 

Guidare la transizione energetica (parte 1): principi ed implicazioni

Di Sgouris Sgouridis (*)

Abstract: Seguendo la metafora del seminatore, vi presento una visione quantificata di quanta energia esattamente abbiamo bisogno di investire del nostro attuale paniere per essere in grado di navigare in sicurezza in una transizione energetica sostenibile. Ciò è nel contesto di una definizione formale di cinque principi per la transizione energetica. Attualmente investiamo circa lo 0,25% del nostro surplus di energia disponibile netta in capacità di generazione di energia rinnovabile (questo è il rapporto di investimento in energia rinnovabile - “epsilon”). Deve essere aumentato fino a circa il 3% (un ordine di grandezza) perché i nostri sistemi energetici siano in grado di fornire una società da 2000W pro capite su scala globale senza superare il bilancio del carbonio del IPCC (notate che la moderna vita occidentale consuma circa 8000W pro capite). Se permettiamo emissioni sfrenate, allora dobbiamo aumentare questo tasso ancora del 1,5%. 

L'energia è una condizione sine qua non per qualsiasi sistema auto-organizzato, eppure è rappresentata solo marginalmente in ciò che passa per essere una pianificazione a lungo termine delle nostre società. Siamo diventati dipendenti da carbonio fossile a buon mercato e energeticamente denso in modo critico, ma il suo prezzo e le esternalità climatiche sono andati aumentando mentre ci avviciniamo al picco di produzione. Ciò necessita una transizione a fonti energetiche rinnovabili. Questo post affronta i requisiti fisici e finanziari impliciti se questa Transizione Energetica Sostenibile (TES) deve avvenire come risultato di una trasformazione pianificata e senza soluzione di continuità, non forzata sulle nostre società. Più specificamente, nella prima parte presento cinque principi (i primi tre sono limitanti e gli ultimi due normativi) che possono essere usati come una guida per la transizione. Sulla base del quarto principio, dimostro la necessità di aumentare la quantità di investimento in risorse di energia rinnovabile globalmente di un ordine di grandezza per raggiungere una Transizione Energetica Sostenibile all'interno del bilancio del carbonio del IPCC. I dettagli degli assunti e la metodologia si possono trovare in Sgouridis & Csala 2014. Nella seconda parte, a partire dal quinto principio, presento un concetto di una valuta energetica che possa mobilitare risorse per raggiungere questo obbiettivo, allineando meglio il sistema monetario ai limiti della biosfera.

In genere è buono cominciare con una definizione per creare le basi comuni necessarie a comprendere e giudicare un'idea. In questo caso, definirò la TES come:

un processo controllato che porta ad una società tecnica ed avanzata per sostituire tutti i grandi input di energia primaria dei combustibili fossili con risorse rinnovabili sostenibili, mantenendo un livello di servizio energetico finale pro capite sufficiente. 

Come sono solite fare le definizioni, questa cerca di catturare molti concetti in modo sintetico. Ma le parole chiave sonocontrollata”, “tecnica”, “tutti” e “sufficiente”. Le idee espresse indicano che la transizione debba essere dolce e non associata a un drammatico sconvolgimento sociale (controllata). Dovrebbe permettere alla società perlomeno di mantenere le proprie capacità tecnologiche (tecnica) e a livello individuale di soddisfare una certa soglia di disponibilità di energia finale (sufficiente).

Sapendo che la transizione sarà completa quando praticamente tutti i combustibili fossili saranno sostituiti, possiamo tracciare l'evoluzione della transizione fino all'attuale situazione energetica. In questo esercizio, è istruttivo usare una prospettiva di metabolismo energetico concentrandoci sulla disponibilità netta di energia. In questo modo emerge un quadro trasparente e non ambiguo che toglie il velo che le economie hanno posto sulla pianificazione a lungo termine.

Perché questa transizione si di fatto “sostenibile”, dovremmo preoccuparci dei tre pilastri della sostenibilità (ambientale, sociale, economica). Estendendo le idee di Daly, proponiamo cinque principi che devono essere soddisfatti - de minimis – perché una TES abbia successo:

I. Che il tasso di emissioni inquinanti sia inferiore alla capacità di assimilazione dell'ecosistema.

II. Che la generazione di energia rinnovabile non superi la capacità di carico a lungo termine dell'ecosistema, né che lo comprometta irreparabilmente. 

III. Che la disponibilità energetica pro capite rimanga al di sopra del livello minimo richiesto per soddisfare i bisogni sociali in qualsiasi momento durante la TES e senza discontinuità distruttiva nel suo ritmo di cambiamento.  

IV. Che il tasso di investimento per l'installazione di generazione rinnovabile e il consumo di capitale sia sufficiente a creare una fornitura di energia rinnovabile a lungo termine  prima che le risorse non rinnovabili recuperabili in sicurezza siano esaurite. 

V. Che l'impegno per il consumo futuro (per esempio l'emissione di debito) venga accoppiato alla, e limitato dalla, futura disponibilità di energia.

Il primi due principi affrontano l'aspetto ambientale (né i fossili né le rinnovabili devono avere un impatto irreparabile sull'ambiente entro una generazione umana). Il terzo affronta l'aspetto sociale assicurando che (i) sia disponibile un livello minimo di energia e (ii) che il ritmo di cambiamento nella disponibilità di energia non sia troppo drastico da creare collassi dei sistemi di supporto sociali. Un corollario direttodi questo è che una società più equa affronta una TES più facile di una iniqua. Infine, gli ultimi due principi affrontano la sostenibilità economica (fisica e finanziaria). Il principio IV, una variante della regola di Hartwick in letteratura economica, garantisce che il tasso di investimento in energia rinnovabile sia sufficiente a compensare la riduzione della fornitura di combustibili fossili, mentre il principio V fa la connessione fra emissione di debito e disponibilità di energia per servire il debito in futuro (che è il tema della seconda parte).

Visti da una prospettiva normativa, i primi tre principi fungono da vincoli della funzione di transizione – il primo da un limite superiore nella quantità di energia fossile disponibile, il secondo mette un limite alla quantità di rinnovabili che possono essere istallate, il terzo fornisce un confine inferiore nella disponibilità di energia pro capite (e della sua prima derivata durante la transizione). Gli ultimi due però sono prescrittivi e perseguibili – offrono un approccio quantificabile per stimare il minimo di investimento energetico in energia rinnovabile e il debito massimo che può essere esteso per quel livello di investimento.

Concentrandosi sul lato fisico, possiamo essenzialmente creare un'equazione che colleghi il rapporto di investimento in energia rinnovabile (epsilon) alla disponibilità netta di energia per la società che può essere vista sotto (derivazione nel saggio e nel supplemento):


Questa equazione ricorsiva può essere risolta numericamente o analiticamente per stabilire la potenza netta disponibile secondo differenti ipotesi del valore di epsilon. Sotto fornisco, come punto di partenza della discussione, un confronto dell'evoluzione della disponibilità futura di energia secondo lo scenario che segue. Tipico delle transizioni energetiche (e per compensare i vincoli di discontinuità del principio III), ipotizziamo nel saggio che ci vogliano 30 anni per cambiare epsilon dal suo valore attuale di circa 0,25% (in realtà ipotizziamo lo 0,375% in questo modello) per “individuare” il valore e confrontare semplicemente la disponibilità di energia con la domanda di energia, assumendo che (a) la popolazione segua le previsioni a medio termine dell'ONU e si stabilizzi a 9 miliardi di persone per il 2050, (b) che la domanda pro capite di energia converga verso i 200oW e (c) che l'efficienza con cui convertiamo l'energia primaria in energia finale migliori del 25% (i dettagli sulle ipotesi che riguardano la popolazione sono descritti nel saggio di Sgouridis e Csala).


Friggere il pianeta
Energia disponibile senza nessuna limitazione di carbonio: ε = 0.375 %, minima ε = 1.5 %.
Sinistra: crollo per fonte. Destra: la linea rossa indica l'energia netta disponibile. La linea blu indica un minimo in cui dobbiamo trovarci 



Il 50% di possibilità di cuocere lentamente il pianeta
Energia disponibile con la limitazione massima di carbonio del IPCC: ε = 0.375 %, minima ε = 3.0 %.
Sinistra: crollo per fonte. Destra. La linea rossa indica l'energia netta disponibile. La linea blu  indica un minimo in cui dobbiamo trovarci

I risultati sono molto chiari: se permettiamo ai combustibili fossili di fare il loro corso friggendo il pianeta nel processo, dobbiamo comunque aumentare il nostro tasso di investimento in rinnovabili di quattro volte. Se decidiamo di salvare il clima e di aderire alle raccomandazioni del IPCC di non più di 3010 Gigatonnellate di CO2 antropogenico nell'atmosfera per il 2100 per avere il 50% di possibilità di rimanere al di sotto dei +2°C per la fine del secolo (che, apropos, é ancora l'equivalente morale di caricare un revolver con tre pallottole e giocare alla roulette russa coi nostri nipoti), ci serve un aumento di otto volte tanto il tasso di investimento in rinnovabili. Naturalmente, ci sono assunzioni chiave sensibili come l'EROEI delle rinnovabili (in questi scenari parte da 20 ed aumenta con le installazioni) – i lettori sono invitati a inserire i propri assunti nel nostro modello – tuttavia crediamo che le nostre scelte non siano ne prudenti né aggressive e intendiamo migliorare la risoluzione della simulazione disaggregando le tecnologie rinnovabili specifiche come abbiamo fatto coi combustibili fossili.



(*) Sgouris Sgouridis è professore associato all'Istituto Masdar di Scienza e Tecnologia (Emirati Arabi Uniti). I suoi interessi di ricerca sono concentrati nella comprensione delle transizioni all'energia sostenibile usando la modellazione di sistemi tecnico-sociali. Ha lavorato sul concetto di valuta energetica, su quello dell'adozione di veicoli elettrici, sull'aviazione sostenibile e sulle transizioni energetiche sostenibili locali e globali. Ha dato inizio allo sviluppo del Consorzio per la Ricerca della Bioenergia Sostenibile all'Istituto Masdar ed è stato un membro del comitato di revisione del Premio Energia Futura Zayed negli ultimi quattro anni. Ha un dottorato in Sistemi Ingegneristici (MIT-2007), un Master in Tecnologia e Politica e un Master in Trasporti (MIT-2005) ed una Laurea in Scienze (ad honorem) in Ingegneria Civile ed Ambientale (199-Università di Aristotle).  


domenica 6 luglio 2014

Clima, dollari e buon senso – prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica.

Da “The Guardian”. Traduzione di MR

Le argomentazioni secondo le quali l'adattamento climatico sia più economico sono come la macedonia – limoni, banane e confrontare mele e arance. 



Prevenire il riscaldamento globale è l'opzione più economica. Foto: Christopher Furlong/Getty Images

L'IPCC ha appena pubblicato tutti e tre i rapporti inclusi nella sua Quinta Valutazione della scienza del clima. Il primo rapporto ha affrontato i cambiamenti fisici nel clima globale, il secondo ha affrontato gli impatti climatici e l'adattamento e il terzo ha riguardato la mitigazione del cambiamento climatico. Ironicamente, dopo che è stato pubblicato il secondo rapporto, molti mezzi di comunicazione hanno sostenuto che l'IPCC stava spostando la sua attenzione, apparentemente inconsapevoli che il suo rapporto sulla mitigazione era programmato per la pubblicazione solo poche settimane dopo. Altri mezzi di comunicazione hanno scorrettamente sostenuto che i rapporti del IPCC concludono che sia più economico adattarsi che evitare il cambiamento climatico. Questo errore scaturisce dal fatto che il secondo rapporto dice, circa i costi dei danni climatici,

“le stime incomplete delle perdite annuali globali per una temperatura aggiuntiva di ~2°C si collocano fra lo 0,2 e il 2% del reddito... E' molto più probabile che le perdite siano maggiori, piuttosto che minori di questa forbice... Le perdite accelerano con un maggior riscaldamento, ma sono state completate poche stime quantitative per un riscaldamento aggiuntivo di 3°C o oltre”.

Il terzo rapporto poi ha detto riguardo ai costi per evitare il riscaldamento globale,

“gli scenari di mitigazione che raggiungono concentrazioni atmosferiche di circa 450 ppm di CO2eq per il 2100 comportano perdite del consumo globale – non includendo i benefici del cambiamento climatico ridotto così come i benefici associati e gli effetti collaterali avversi della mitigazione... [che] corrispondono ad una riduzione annua di crescita del consumo da 0,04 a 0,14 (in media: 0,06) di punti percentuali sul secolo relativo alla crescita del consumo annua sul riferimento che si trova fra 1,6 e 3% all'anno”.

La sfida è che questi due numeri non sono direttamente confrontabili. Uno ha a che fare con le perdite economiche annuali globali, mentre l'altra è espressa come una crescita del consumo globale leggermente rallentata.

Riordinare i numeri con Chris Hope

Per riordinare questi numeri, ho parlato con l'economista climatico di Cambridge Chris Hope, che mi ha detto che se l'obbiettivo è immaginare la quantità economicamente ottimale di mitigazione del riscaldamento globale, l'IPCC riporta “non ci porterà lontano su questa strada”. Per fare questo confronto in modo appropriato, i benefici della riduzione dei danni del cambiamento climatico e i costi della riduzione delle emissioni di gas serra devono essere confrontati in termini di “valore attuale netto”. E' questo il tipo di stima che i Modelli di Valutazione Integrata come il PAGE di Hope erano stati approntati a fare. Secondo il modello di Hope, il picco economicamente ottimale di concentrazione di biossido di carbonio è intorno alle 500 ppm, con un picco globale di riscaldamento della superficie di circa 3°C al di sopra delle temperature preindustriali (circa 2°C più caldo di adesso).

Nel suo libro Il Casinò del Clima, l'economista di Yale William Nordhaus osserva di essere arrivato ad una conclusione simile nel suo modello di ricerca. Per limitare il riscaldamento globale a quel livello servirebbero grandi sforzi per ridurre le emissioni di gas serra, ma come ha osservato il rapporto del IPCC, ciò rallenterebbe soltanto il tasso di crescita economica globale da circa il 2,3% all'anno al 2,24% all'anno. Secondo questi modelli economici, questo tasso di crescita economica rallentato sarebbe più che compensato dai risparmi derivati dall'evitare i danni climatici al di sopra dei 3°C di riscaldamento. Anche se l'IPCC non ha fatto questo confronto, questi modelli economici risultano essere coerenti coi suoi rapporti. Come mostrato nella citazione sopra, il secondo rapporto è stato solo in grado di stimare i costi dei danni climatici per un riscaldamento globale di 2°C ed ha osservato che oltre quel punto i costi accelerano fino al punto in cui diventano molto difficili da stimare. Nordhaus ha osservato in modo analogo,

“In realtà, le stime delle funzioni di danno sono virtualmente inesistenti per aumenti di temperatore al di sopra dei 3°C”.

Insalata di frutta australiana e turca

L'autore ed analista Bjorn Lomborg del Copenhagen Consensus Center è stato la voce più importante nel dichiarare in modo non corretto che l'IPCC ha concluso che l'adattamento climatico sarebbe più economico della mitigazione. Per esempio, è stato intervistato sull'Australian di Rupert Murdoch ed è stato autore di un pezzo sul turco Today's Zaman. Entrambi i pezzi sono erronei per le stesse ragioni. Lomborg ha sostenuto,

“Se non facciamo niente, i danni causati dal cambiamento climatico costeranno meno del 2% del PIL del 2070 circa. Eppure il costo di fare qualcosa sarà probabilmente maggiore del 6% del PIL, secondo il rapporto del IPCC”. 

Ciò è paragonabile alle cifre delle perdite economiche globali annuali del secondo rapporto con le cifre del rallentamento della crescita del consumo globale nel terzo – mele e arance. Senza gli strumenti di modellazione usati da economisti come Hope e Nordhaus, queste cifre non possono essere messe in un confronto 'mela a mela' in modo appropriato. Ho discusso questo punto con Lomborg e lui era d'accordo,

“Sono d'accordo sul fatto che il modo giusto per guardare il problema climatico sia quello di operare modelli integrati e trovare dove i costi e i benefici sono uguali (così non investiamo in difetto sul clima ma neanche ci investiamo in eccesso)... Tuttavia, il Gruppo sul Clima del IPCC ha deciso attivamente nel 1998 di non fare il rapporto costi benefici del clima”.

Quindi Lomborg e Hope sono d'accordo sul fatto che l'IPCC non permette un semplice confronto fra i costi della prevenzione del riscaldamento globale  e l'adattamento. Lomborg ha usato le immagini discusse sopra per fare l'unico confronto, incoerente coi risultati provenienti dai modelli economici. Lomborg ha anche preso arbitrariamente il 2070 per fare il suo confronto economico fa i costi dell'adattamento e quelli della mitigazione. Perché il 2070? A quel punto, in uno scenario business-as-usual il pianeta non si sarà probabilmente scaldato di più di 2°C rispetto alle temperature attuali. Il problema con questo scelta arbitraria è che il mondo non finirà nel 2070, infatti, gran parte dei bambini di oggi saranno ancora vivi nel 2070. Se continuiamo su questa strada come di consueto, il riscaldamento globale continuerà ad accelerare dopo il 2070, oltre il punto in cui gli economisti non possono nemmeno stimare accuratamente i sui costi in aumento. Queste sono banane.



Cambiamenti della temperatura della superficie previsti dal AR5 del IPCC in uno scenario BAU (RCP8.5; rosso) e dallo scenario a basse emissioni (RCP2.6; blu).

Un altro problema in questa disputa è che come mostrato nella seconda citazione sopra, le stime del costo della riduzione delle emissioni di gas serra del IPCC “non includono i benefici della riduzione del cambiamento climatico così come i benefici aggiuntivi ed i diversi effetti collaterali della mitigazione”. Per esempio, l'aria e l'acqua più pulite e benefici alla salute associati che provengono dall'allontanarsi da fonti di energia ad alta intensità di carbonio e sporche risparmia dei soldi che l'IPCC non mette nel conto. Quindi i costi per evitare il riscaldamento globale è probabile che siano in realtà anche inferiori dello 0,06% stimato all'anno di rallentamento nel tasso al quale l'economia globale continua a crescere. Nel frattempo, l'IPCC ha osservato che i costi dei danni climatici per soli altri 2°C di riscaldamento “è più probabile che siano maggiori, piuttosto che minori”, delle sue stesse stime. E se non intraprendiamo passi importanti per ridurre le emissioni di gas serra, supereremo i 2°C di riscaldamento entrando in un territorio inesplorato di danno economico.

Evitare il riscaldamento globale è più economico di adattarvisi

La linea di fondo è che gli economisti non riescono nemmeno a stimare con precisione quanti danni climatici ci costerà se non riusciamo a intraprendere passi importanti per rallentare il riscaldamento globale. Dall'altra parte, intraprendere quei passi può avere un impatto trascurabile sulla crescita economica globale. Il rapporto del IPCC sostiene anche che più aspettiamo per ridurre le nostre emissioni, più diventerà costoso. Nel determinare che mitigare il riscaldamento globale è conveniente, l'IPCC ha usato gli scenari seguenti.

“Scenari in cui tutti i paesi del mondo cominciano la mitigazione immediatamente, c'è un unico prezzo globale del carbonio e tutte le tecnologie chiave sono disponibili, sono state usate come riferimento di costo-efficacia per stimare i costi macroeconomici della mitigazione”

E' importante capire che le nostre scelte non sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di non fare niente. Le nostre opzioni sono o di ridurre le emissioni di carbonio o di continuare con le emissioni solite che causeranno un'accelerazione del cambiamento climatico e dei costi del danno oltre alla nostra possibilità di stimarli con precisioni. Da un punto di vista economico e da una prospettiva di gestione del rischio, questo dovrebbe essere un gioco da ragazzi. Come lo espone l'economista Paul Krugman,

“La minaccia climatica è quindi risolta? Be', dovrebbe. La scienza è solida; la tecnologia c'è; l'economia sembra di gran lunga più favorevole di quanto ci si aspettasse. Tutto ciò che sta in mezzo al salvataggio del pianeta è una combinazione di ignoranza, pregiudizio e interessi personali. Cosa potrebbe andare storto?”

sabato 5 luglio 2014

IEA: la festa è finita

DaPost Carbon Institute”. Traduzione di MR 

Di Richard Heinberg 


Palloncini scoppiati via danielmohr/flickr. Licenza Creative Commons 2.0

L'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA) ha appena pubblicato un nuovo rapporto speciale chiamato “Panoramica sull'Investimento Energetico Mondiale” che dovrebbe far correre i responsabili politici verso le uscite urlando – se sono disposti a leggere fra le righe e vedere il rapporto nel contesto delle attuali tendenze finanziarie e geopolitiche. Ecco come l'agenzia di stampa UPI comincia il suo sommario:

Serviranno 48 trilioni di dollari di investimento fino al 2035 per compensare i bisogni crescenti di energia mondiale, ha detto giovedì la IEA da Parigi. Il Direttrice Esecutiva della IEA Maria van der Hoeven ha detto in una dichiarazione che l'affidabilità e la sostenibilità delle future forniture energetiche dipendono da un alto livello di investimento. “Ma questo non si materializzerà a meno che non ci siano quadri politici credibili in atto così come un accesso stabile a fonti finanziarie a longo termine”, ha detto. “Nessuna di queste condizioni dovrebbe essere data per scontata”.

Ecco una parte del contesto che manca nel rapporto della IEA: l'industria petrolifera sta di fatto tagliando gli investimenti a monte. Perché? I prezzi globali del petrolio – che nell'attuale forbice da 90 a 110 dollari al barile sono a livelli storicamente alti – sono ciononostante troppo bassi per giustificare di affrontare una geologia sempre più impegnativa. L'industria ha bisogno di un prezzo del petrolio di almeno 120 dollari al barile per finanziare l'esplorazione nell'Artico ed in alcuni giacimenti in acque ultra profonde. E non dimentichiamo: gli attuali tassi di interesse sono ultra bassi (grazie all'alleggerimento quantitativo - Quantitative Easing - della Federal Reserve), quindi smistare capitale di investimento dovrebbe essere più facile adesso di quanto è probabile che diventi mai in futuro. Se il QE finisce e i tassi di interesse aumentano, la capacità dell'industria e dei governi di aumentare drammaticamente l'investimento in produzione futura di energia svanirà.

Altri elementi dal rapporto che dovrebbero ugualmente essere in grado di indurre i responsabili politici a dare di matto:

La bolla dello scisto sta per scoppiare. Nel 2012, la previsione della IEA secondo la quale i tassi di estrazione petrolifera dalle formazioni di petrolio di scisto statunitensi (principalmente Bakken in Nord Dakota ed Eagle Ford in Texas) avrebbero continuato a crescere per molti anni, con l'America che avrebbe superato l'Arabia Saudita nel tasso di produzione petrolifera per il 2020, per poi diventare esportatrice netta di petrolio nel 2030. In questo nuovo rapporto, la IEA dice che la produzione di tight oil statunitense comincerà a declinare circa nel 2020. Si potrebbe quasi pensare che la gente della IEA abbia letto l'analisi del Post Carbon Intitute delle prospettive del tight oil e del gas di scisto!www.shalebubble.org Questa è una dose di realismo benvenuta, anche se la IEA sta probabilmente ancora sbagliando in senso ottimistico: la nostra lettura dei dati suggerisce che il declino comincerà prima e sarà probabilmente erto.

Aiutateci, OPEC – siete la nostra sola speranza! E' così che il Wall Street Journal inquadra la sua storia sul rapporto: “Un cane da guardia di punta dell'energia ha detto che il mondo avrà bisogno di più petrolio mediorientale nel prossimo decennio, in quanto l'attuale boom statunitense svanisce. Ma la IEA ha avvertito che i produttori del Golfo Persico potrebbero ancora non riuscire a colmare il divario, rischiando così prezzi del petrolio più alti”. Vediamo, come se la passa l'OPEC in questo periodo? Iraq, Siria e Libia sono in agitazione, l'Iran sta languendo sotto le sanzioni economiche statunitensi. Le riserve petrolifere dell'OPEC sono ancora ridicolmente esagerate. E mentre i sauditi hanno compensato i declini nei vecchi giacimenti petroliferi mettendone in produzione dei nuovi, hanno finito i nuovi giacimenti da sviluppare. Quindi sembra come se questo rischio di più alti prezzi del petrolio sia un rischio piuttosto forte.

Una previsione del prezzo “cosa mi preoccupa”? Nonostante tutte questi sviluppi terribili, la IEA non offre alcun cambiamento della sua previsione del prezzo del petrolio del 2013 (cioè, un graduale aumento dei prezzi mondiali del petrolio fino a 128 dollari al barile per il 2035). Il nuovo rapporto dice che l'industria petrolifera avrà bisogno di aumentare il suo investimento a monte sul periodo di previsione di 2 trilioni di dollari al di sopra della precedente previsione di investimento della IEA. Da dove dovrebbe prendere questi 2 trilioni di dollari l'industria petrolifera se non da prezzi significativamente più alti – più alti nel breve periodo, forse, rispetto alla previsione a lungo termine del prezzo della IEA di 128 dollari al barile – e che crescono ancora di più? La previsione del prezzo è ovviamente inaffidabile, ma non è una cosa nuova. La IEA ha pubblicato previsioni sul prezzo molto imprecise nel decennio scorso. Infatti, se l'enorme aumento dell'investimento energetico consigliato dalla IEA dovesse verificarsi, sia l'elettricità che il petrolio stanno per diventare significativamente meno accessibili. Per un'economia globale strettamente legata al comportamento dei consumatori e dei mercati, ed un'economia che si sta già contraendo, i vincoli energetici significano una cosa e solo una cosa: tempi duri.

E le rinnovabili? Le previsioni della IEA sono che solo il 15% dei 48 trilioni di dollari necessari andranno alle energie rinnovabili. Tutto il resto serve solo per tamponare il nostro attuale sistema energetico petrolio-carbone-gas di modo che non finisca nel burrone a causa della mancanza di combustibile. Ma quanto investimento servirebbe se si volesse seriamente affrontare il cambiamento climatico? Gran parte delle stime si occupano solo dell'elettricità (cioè, sorvolano il problema cardine del settore dei trasporti) e ignorano la questione del EROEI. Anche se semplifichiamo artificialmente il problema in questo modo, 7,2 trilioni di dollari spalmati su oltre venti anni, semplicemente non lo tagliano. Un ricercatore stima che gli investimenti dovranno salire a 1,5-2,5 trilioni di dollari all'anno. In effetti, la IEA ci sta dicendo che non abbiamo ciò che serve per sostenere il nostro attuale regime energetico ed è improbabile che investiremo a sufficienza per passare ad un altro.

Se si guardano le tendenze citate e si ignorano le esplicite e fuorvianti previsioni dei prezzi, il messaggio implicito della IEA è chiaro: la continua stabilità del prezzo del petrolio sembra problematica. E coi prezzi dei combustibili fossili alti e volatili, i governi troveranno probabilmente ancora più difficile dedicare un sempre più scarso capitale di investimento verso lo sviluppo di capacità di produzione di energia rinnovabile.

Quando leggete questo rapporto, mettetevi nei panni di un responsabile politico di alto livello. Non pensereste di andare in pensione in anticipo?