mercoledì 28 maggio 2014

Come far ripartire la crescita economica in Italia




Vi preoccupa la caduta del PIL nazionale negli ultimi anni? Beh, non c'è problema. Abbiamo trovato il modo non solo di invertirla, ma anche di ritornare alla crescita!

Come si fa? Molto semplice: basta che l'ISTAT si metta a ricalcolare il PIL, aggiungendo un po' di cosette:



 
Le attività illegali di cui tutti i paesi inseriranno una stima nei conti (e quindi nel Pil) sono: traffico di sostanze stupefacenti, servizi della prostituzione e contrabbando (di sigarette o alcol)

 Vogliamo scommettere che quest'anno il PIL cresce? E al diavolo i catastrofisti.......

martedì 27 maggio 2014

Liberare l'Europa da Gazprom? La genialata dell'anno.


Da “Zerohedge”. Traduzione di MR

Nonostante le pressioni in corso da parte della macchina della propaganda per un piano di salvataggio per “liberare l'Europa dalle grinfie della Gazprom”, il Financial Times riporta che il capo della Cheniere Energy, che dovrebbe diventare il primo esportatore statunitense di gas naturale il prossimo anno, ha detto che la capacità dell'energia statunitense di salvare l'Europa dalla sua dipendenza dalle forniture russe è stata sopravvalutata. Detto in parole semplici, visto che Putin lo sa troppo bene (ma Obama e la sua allegra brigata nei media mainstream sembrano destinati a perpetuarla), l'AD della Cheniere spara: “E' lusinghiero che si parli di noi così, ma sono tutte sciocchezze. Sono delle sciocchezze così evidenti che non posso credere che qualcuno ci creda davvero”.

Come riporta il Financial Times:

Charif Souki, dirigente della Cheniere, ha detto che l'idea che le sole esportazioni la sua azienda liberino l'Europa dalla Gazprom russa era una “sciocchezza” e che solo solo dai 6 agli 8 degli oltre 20 progetti di esportazione concorrenti erano “reali”. 
...
Lo stallo oriente-occidente sull'Ucraina ha scatenato un dibattito politico sul fatto che gli Stati Uniti possano allentare le loro restrizioni alle esportazioni energetiche di modo che gli europei possano comprare gas naturale liquefatto, o GNL, dal boom del gas di scisto americano. 

Alla domanda se Cheniere possa salvare i paesi dell'est europeo dalla loro dipendenza dalla Russia, il signor Souki ha detto: “E' lusinghiero che si parli di noi così, ma sono tutte sciocchezze. Sono delle sciocchezze così evidenti che non posso credere che qualcuno ci creda davvero”. 

Gli Stati Uniti stanno lavorando per aumentare il numero di trattati commerciali per permettere qualsiasi esportazione di GNL ma...

Il signor Souki ha detto che i soli che ha considerato reali sono i 6-8 che hanno iniziato un processo separato – i quali ha detto che hanno comportato costi per 100 milioni di dollari – per ottenere i permessi dalla Commissione Federale Regolatrice per l'Energia (Federal Energy Regulatory Commission – FERC), che valuta gli standard ambientali e di sicurezza.

”Finché qualcuno non mi dice che sono disposto a spendere 100 milioni di dollari, non li considero reali”, ha detto.

E questo non avverrà presto in un'Europa a corto di contanti e limitata dalla burocrazia. Inoltre, è probabile che i prezzi aumentino, perché nemmeno Obama può imporre al mercato dove spostare i propri prodotti... 

Il signor Souki ha detto che non aveva alcun controllo su dove i suoi clienti vendevano quel GLN. “Sono sicuro che saranno opportunisti e, se serve loro per il mercato interno, lo prenderanno per il proprio mercato e, se non ne hanno bisogno, se ne andrà altrove”. 

O può andare altrove.

lunedì 26 maggio 2014

Proposte di politica europea per affrontare il Picco del Petrolio

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR

Cari lettori,

I compagni di Véspera de Nada mi hanno passato l'ultima versione del loro documento di proposte al Parlamento Europeo che dovrà essere eletto il prossimo fine settimana. Data l'importanza del documento, credo che valga la pena diffonderlo su questo blog.

Saluti.
AMT


Proposte di politica europea per affrontare il Picco del Petrolio 
dirette a tutte le formazioni politiche che si presentano alle elezioni del 25/05/2014 al Parlamento Europeo

(Versione 1.1.2 del 07/05/2014)



“Lasciamo il petrolio prima che lui lasci noi”.

  • Fatih Birol, economista capo della IEA)


“[...] una cosa è sicura, un giorno finiremo il petrolio e per prepararci a quel giorno potremmo essere a corto di tempo”. 

  • Andris Piebalgs, commissario per l'energia della UE (2004-2009)



Introduzione
Presentiamo questo documento come base di riferimento per quei candidati alle elezioni europee del 2014 che vogliano offrire all'elettorato un programma realista e responsabile che tenga conto della situazione alla quale ci espone il Picco del Petrolio.

Il documento è stato preparato con gli apporti delle seguenti persone e collettivi:

  • José Ramom Flores, Miguel Anxo Abraira e Manuel Casal, della Associazione “Véspera de Nada” per una Galizia senza petrolio”. (Galizia)
  • Antonio Turiel, dell'Oil Crash Observatory (Catalogna).


Facciamo notare che la premura con la quale si sono dovute riunire queste proposte e le caratteristiche peculiari del processo legislativo ed esecutivo dell'Unione Europea, hanno fatto sì che non potessero essere misure molto dettagliate né è stato facile tagliarle tutte all'interno delle possibilità di azione dei/delle parlamentari europei che risultino eletti in questo turno elettorale.

In ogni caso non vogliamo perdere l'occasione di fare queste proposte, anche se fossero incomplete, poiché siamo consapevoli del fatto che molto probabilmente il Parlamento Europeo che si produrrà da queste elezioni dovrà far fronte nei prossimi 5 anni a conseguenze della decrescita energetica che saranno già di portata e gravità impossibili da ignorare (vedi per esempio gli ultimi rapporti compilati su http://www.vesperadenada.org/category/informes/ come riferimento delle date e conseguenze previste). Pertanto consideriamo necessario rendere pubbliche queste proposte e richiedere ai diversi partiti e coalizioni che le incorporino nei loro programmi elettorali e nella loro azione politica in Europa, nel caso ottengano una rappresentanza nel Parlamento della UE.

Infine consigliamo che le misure qui descritte vengano integrate con altre che sono già state enumerate in un precedente documento dal tutolo “Proposte di politica a livello locale galiziano per affrontare il Picco del Petrolio dirette a tutte le formazioni politiche che si presenteranno alle elezioni del 21/10/2012 al Parlamento della Galizia”, disponibile su http://www.vesperadenada.org/2012/09/14/programa-de-goberno-para-galiza-afrontar-o-teito-do-petroleo-propostas-de-vespera-de-nada/ e che, sebbene faccia riferimento ad un ambito molto più locale, sono state definite e classificate in modo più esaustivo.

Misure proposte


  • Studiare il problema del Picco del Petrolio e creare strutture speciali per affrontarlo:
  • Promuovere che nel Parlamento Europeo si facciano studi realistici sulla sicurezza energetica europea, dove si tenga conto non solo delle fonti degli idrocarburi che alimentano le nostre società, ma anche il flusso netto degli stessi che ci possiamo aspettare a breve e medio termine. Questi studi potranno partire da altri già realizzati da analisti di prestigio, come per esempio quello realizzato da Benoît Thevard, su incarico dell'europarlamentare Yves Cochet.
  • Creare una Agenzia Europea per la Transizione Energetica Postpetrolio e per la Resilienza, che coordini l'attivazione di tutte le misure qui richieste e ne studi altre che vengono messe in pratica in altri luoghi e livelli dell'amministrazione (governo, municipi, regioni, altri Stati, ecc.). Dotazione economica prioritaria di questo nuovo organismo. 
  • Creazione di un Comitato Permanente nel Parlamento Europeo con rappresentanti di tutti i gruppi politici per studiare questo tema e realizzare un tracciato delle politiche europee nel contesto della Decrescita Energetica, sullo stile di quelle esistenti nei parlamenti di alcuni paesi membri come il Regno Unito. Coordinamento di questo Comitato con quello della Difesa del Popolo Europeo nella misura in cui il non adeguamento delle norme e delle istituzioni europee al contesto di fine dell'Era del Petrolio possano presupporre una minaccia per i diritti dei cittadini e delle cittadine

    Riconoscere ufficialmente e divulgare il problema del Picco del Petrolio:
  • Dichiarazione del Parlamento Europeo che riconosce l'esistenza e la gravità del Picco del Petrolio, l'impossibilità di andare avanti con la crescita infinita in un pianeta finito e la minaccia che questa situazione presuppone per la continuità della civiltà industriale. La dichiarazione spingerebbe anche gli Stati membri a realizzare dichiarazioni analoghe dirette a propri cittadini. 
  • Diffondere il problema del Picco del Petrolio fra gli Stati membri per stimolare la massa in moto di misure strategiche negli ambiti più prossimi ai cittadini, così come l'elaborazione di Piani di Emergenza Energetica per far fronte alle prevedibili carenze di combustibile e di materie di prima necessità, in collaborazione con la IEA.

Politiche che presumano la fine della crescita economica:


  • Fare un'analisi rigorosa sui limiti della crescita e l'incompatibilità dell'attuale sistema finanziario, monetario ed economico in vista di questi limiti, derivati fondamentalmente dalla scarsità di risorse naturali e al costo eccessivo delle esternalità ambientali. Studiare le ripercussioni attuali e future per l'euro.
  • Tenere conto dello scenario di fine della crescita economica e di decrescita energetica irreversibili determinati dal Picco del Petrolio nel momento in cui si definiscono ed approvano i Bilanci della UE, che fra gli altri aspetti considerino una diminuzione degli introiti e dedichino spese importanti per promuovere e finanziare l'adattamento di tutta la società europea ad un nuovo mondo di petrolio scarso e caro. 
  • Attivare meccanismi di transizione di modo che la UE si adatti ad un mondo in decrescita forzata, prendendo misure che favoriscano la resilienza ed evitino costi finanziari inaccettabili in questo contesto di fine della crescita economica.

Politiche per la resilienza:


  • Appoggiare politiche tese ad una maggiore resilienza dei territori europei, proteggendo le iniziative locali che cerchino di aumentare le resilienza in ogni territorio (paese, regione o area).
  • Elaborare con la massima urgenza Piani di Attuazione per mitigare gli effetti del Picco del Petrolio sulla popolazione della UE e divulgare gli stessi con l'obbiettivo che si prendano misure non solo a livello di amministrazioni pubbliche ma anche a livello individuale. 
  • Dichiarazione del Parlamento Europeo che respinga lo sfruttamento degli idrocarburi mediante le tecniche conosciute come fracking, per il loro scarso o nullo rendimento energetico ed economico in rispetto ai suoi elevati rischi ambientali e sociali, appoggiata dai rapporti scientifici disponibili e dall'esperienza in altri paesi dove vengono praticate da un sufficiente lasso di tempo da rendere possibile un'analisi pratica di questi aspetti, oltre a coinvolgere la distruzione del mondo naturale, fonte di risorse rinnovabili imprescindibili per le necessità fondamentali delle popolazioni locali: acqua, suoli, biodiversità, biomassa... 
  • Attivare piani per la divulgazione del problema del Picco del Petrolio e dell'urto contro i limiti del pianeta a tutti i livelli educativi della UE.
  • Rifiutare l'Accordo Transatlantico con gli Stati Uniti.
  • Attivare misure per la protezione delle api ed altri insetti impollinatori come impulso vitale per gli ecosistemi e per la produzione di alimenti nella UE. Proibizione immediata in tutta la UE dei prodotti chimici che si dimostrino negativi per le popolazioni di questi insetti o di quelli sui quali ci siano sospetti fondati. 
  • Proibire l'obsolescenza programmata favorire la durevolezza e la riparabilità di qualsiasi tipo di prodotto industriale.
  • Proibire l'impiego di specie transgeniche in tutta la UE. Misure per la difesa della libera circolazione delle sementi tradizionali non certificate.
  • Dichiarare l'acqua bene di libero accesso e misure contro la sua privatizzazione.
  • Misure a favore della sovranità alimentare dei diversi paesi membri della UE basata sulla produzione agro-ecologica. Promozione della conversione degli sfruttamenti agricoli e di allevamento della UE dal modello industriale a un modello agro-ecologico non dipendente da input fossili. 
  • Promuovere le filiere corte e le strutture di produzione, distribuzione e conservazione locali di alimenti, così come quelle che siano meno dipendenti dai combustibili fossili.
  • Promuovere l'economia di prossimità e quella orientata alla soddisfazione delle necessità umane fondamentali col minor consumo energetico possibile. 
  • Subordinazione delle misure a favore dell'efficienza energetica ad un contesto generale di risparmio energetico e dei materiali.
  • Proibizione delle lampadine fluorescenti in tutta la UE e loro sostituzione gratuita con lampade LED e basate su altre tecnologie non inquinanti e di basso consumo, per il contenuto di mercurio delle prime. Revisione della proibizione delle lampade incandescenti analizzando il loro consumo energetico totale nel ciclo completo di vita utile, le possibilità tecniche di ampliare questa e il suo sfruttamento secondario come fonti di riscaldamento elettrico. 
  • Promuovere lo sfruttamento energetico sostenibile di energie rinnovabili a livello locale, favorendo in particolar modo i progetti cooperativi e comunitari.
  • Promuovere il district heating seguendo il modello esistente in Danimarca ed altri paesi della UE. 

Riforma legislativa profonda per adattarsi a un mondo con energia scarsa:


  • Rivedere tutte le direttive europee attualmente in vigore e quelle nuove che vengano proposte durante il nuovo periodo di sessioni del Parlamento Europeo, alla luce di uno scenario permanente caratterizzato dalla fine della crescita economica e dalla scarsità energetica.
  • Subordinare nelle normativa europea la produzione di agro-combustibili alla produzione di alimenti ed alla conservazione della fertilità naturale dei suoli e disincentivare la loro produzione basata su prodotti agricoli importati per il loro bilancio energetico negativo, per la distruzione degli ecosistemi che causano in altri paesi, per l'impatto negativo sulla sovranità alimentare dei paesi produttori e per la generazione di CO2 durante il trasporto. 
  • Riforma della PAC (Politica Agraria Comune) per dare priorità alla sovranità alimentare locale, alla produzione locale e su piccola scala e alla produzione ecologica. 
  • Eliminare gli aiuti europei a tutte le infrastrutture o progetti che dipendano dai combustibili fossili per il loro funzionamento: per esempio la costruzione di nuove strade o autostrade. 

Politica internazionale per evitare i conflitti per le risorse:

  • Sollecitare il governo della UE ad adottare il Protocollo di Uppsala: http://richardheinberg.com/odp e a promuovere la sua adozione a livello internazionale.
  • Dichiarazione a favore della risoluzione di qualsiasi conflitto internazionale provocato direttamente o indirettamente dalla competizione per le sempre più scarse risorse energetiche e materiali, per il suolo fertile, per l'acqua ed altro, per mezzo del dialogo e rinunciando all'impiego di mezzi bellici per contendersi queste risorse.



Siti per approfondire l'informazione (in spagnolo)
http://www.cenit-del-petroleo.info
http://crashoil.blogspot.com
http://www.vesperadenada.org
http://lacrisisenergetica.wordpress.com

Alcuni riferimenti sul Picco del Petrolio e la UE
http://www.vesperadenada.org/2011/05/12/a-directora-europea-de-transportes-advirte-de-que-a-ue-esta-a-cometer-un-erro-fatal-ao-non-reducir-a-sua-dependencia-do-petroleo/
http://www.vesperadenada.org/2010/11/12/a-union-europea-reconece-o-teito-do-petroleo/
http://www.vesperadenada.org/2009/05/16/o-comisario-de-enerxia-tamen-avisa-imos-cara-unha-nova-crise-do-petroleo/

Alcuni riferimenti bibliografici fondamentali per queste proposte
ASSOCIAZIONE VÉSPERA DE NADA (2013): Guida per la decrescita energetica. Preparare una Galizia post-petrolio. Asoc. Véspera de Nada per una Galizia senza petrolio, Santiago de Compostela.
BERMEJO, ROBERTO (2008): Un futuro senza petrolio. Collassi e trasformazioni socioeconomiche. Los libros de la catarata, Madrid.
BUTLER, TOM; WUERTHNER, GEORGE (eds.) (2012): Energia: sviluppo eccessivo e illusione della crescita infinita. Watershed Media, Healdsburg, California, USA.
DEFFEYES, KENNETH S. (2003): Il picco di Hubbert: l'imminente scarsità mondiale di petrolio. Princeton University Press, Princeton, Nova Jersey, USA.
DOLDÁN GARCÍA, XOÁN RAMÓN (2008b): “Crisi economica o crisi energetica?”Tempos Novos, nº 134 (xullo 2008).
DOLDÁN GARCÍA, XOÁN RAMÓN (2013): “Picco del petrolio, crescita economica e capitalismo”, O Golpe, n. 2, Economia e crisi. URL: http://galiza.pospetroleo.com/2013/09/13/pico-do-petroleo-crescimento-economico-e-capitalismo/
EKONOMIAZ (2009): Società in emergenza energetica. La transizione verso un'economia post carbon, Ekonomiaz – Rivista Basca di Economia, nº 71, II/2009. Servizio centrale di pubblicazioni del Governo Basco, Vitoria-Gasteiz. URL: http://www1.euskadi.net/ekonomiaz/taula1_c.apl?IDPUBL=66
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FERNÁNDEZ DURÁN, RAMÓN (2008): Il crepuscolo dell'era tragica del petrolio: picco dell'oro nero e collasso finanziario (ed ecologico) mondiale. Virus Editorial, Barcelona.
FERNÁNDEZ DURÁN, RAMÓN (2011): El Antropoceno. La expansión del capitalismo global choca con la Biosfera. Virus Editorial, Barcellona.
FERNÁNDEZ DURÁN, RAMÓN (2011): Fallimento del capitalismo globale: 2000-2030. Preparsi per l'inizio del collasso della civiltà industriale. Virus Editorial, Barcellona.
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TURIEL, ANTONIO (2010a): “Diciamocelo forte e chiaro: questa crisi non finirà mai”.URL: http://ugobardi.blogspot.it/2011/12/diciamocelo-forte-e-chiaro-questa-crisi.html
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E' fondamentale comprendere che se inevitabilmente l'economia (misurata col PIL) decrescerà in modo definitivo (forse con brevi periodi di ripresa compensati da periodi più lunghi di discesa più pronunciata), un sistema finanziario basato sull'interesse smette di essere funzionale, visto che quel tipo di interesse viene fissato dall'aspettativa di crescita, e se l'economia decresce nel medio-lungo termine, l'interesse dovrebbe essere negativo. Le misure di stimolo che si prendono abitualmente riflettono proprio questo quadro macro, ma a livello di istituzioni private che creano soldi a partire dal debito (le banche) viene mantenuta l'idea che bisogna prestare ad un certo interesse quando in realtà non ci sono grandi affari in vista e questo genera una crisi del credito - credit crunch – (le banche non prestano perché non si fidano). Questo genera 1) una massa di banche zombi; 2) un impoverimento della società che tenta di ripagare dei debiti che in realtà sono impagabili in un contesto di decrescita forzata irreversibile e 3) una perdita dell'opportunità di investire nelle opzioni che sono realmente futures, che non sono contemplate attualmente perché non redditizie nell'attuale schema di breve termine e che esclude le esternalità e i costi di sostituzione dell'energia fossile, ma che sono le uniche che ci possono avvicinare alla resilienza in futuro (da Politiche per la resilienza).

sabato 24 maggio 2014

Perché Godzilla non esiste?




Una dotta disquisizione sul mostro giapponese seguita da una comparazione a sorpresa con un altro mostro, molto più impressionante.

Jacopo Simonetta

La domanda è futile, ma la risposta no: perché la fantasia non ha limiti; la realtà invece si.

Per cominciare Godzilla è troppo grande per stare in piedi.  Gli ingegneri studiano che le strutture non possono superare dei limiti oltre i quali pesano più del peso che dovrebbero sostenere e collassano.  L’animale terrestre più grande mai esistito è probabilmente il Bruhathkayosaurus che  si stima potesse pesare fra le 150 e le 200 tonnellate, vale a dire quanto una balenottera azzurra.   Meglio conosciuto, il suo probabile parente Brachiosaurus pesava "appena" una quarantina di tonnellate.  Per confronto, gli elefanti più grandi odierni sono fra le 4 e le 5 tonnellate.   In passato ci sono stati mammiferi più grandi, ma non di moltissimo, ad es. Indricotherium che probabilmente pesava 10 tonnellate o poco più.   Le ossa di qualcosa di ancora più grande si spezzerebbero, sia per il peso, sia per gli sforzi determinati da una muscolatura capace di sollevare e muovere una simile massa.   I Godzilla  si stima che pesino fra le 20.000 e le 60.000 tonnellate, dunque non si potrebbero alzare da terra e, probabilmente,  morirebbero schiacciati sotto il loro stesso peso.  Oppure sprofonderebbero perché per quanto larghi abbiano i piedi ci sono dei limiti alla portanza del terreno.

Poi c’è un problema: cosa mangia Godzilla?   I più grandi sauropodi probabilmente dovevano mangiare almeno un paio di quintali di cibo con un buon contenuto energetico ogni giorno.   In pratica, o dormivano o mangiavano, tutto il resto era ridotto al minimo. Godzilla non solo sposta una massa pari a centinaia di Brachiosauri, ma è anche in grado di sputare fasci di plasma, probabilmente ad almeno 1.500 C° di temperatura, a giudicare dagli effetti.   Logicamente, la sua dieta comprende solo marginalmente pesci, balene e calamari giganti.   Il suo alimento principale è l’uranio arricchito che “digerisce” nel reattore a fissione che ha nello stomaco, ma questo pone un altro problema strutturale: di cosa è fatto il suo corpo?   Sicuramente con qualcosa di strano visto che non viene ustionato dal plasma che sputa, né dal reattore nucleare che ha nella pancia, mentre sua epidermide è perfettamente flessibile, pur resistendo ai proiettili dei pezzi da 120 dei carri Abrams  (capaci di perforare 670 mm d'acciaio inclinato di 60° a 2000 m di distanza).

Inoltre, cosa mangiava prima che noi gli costruissimo delle bombe atomiche da sgranocchiare come biscotti? La radiazione terrestre, anche se in passato superiore a quella attuale, è diffusa.   In effetti esistono organismi anche molto grandi che vivono di radiazione diffusa: si chiamano alberi e non vanno in giro a distruggere le città per la semplice ragione che per captare una quantità sufficiente di radiazione hanno bisogno di superfici enormi incompatibili con la mobilità.  In pratica, l’energia necessaria per spostare la chioma sarebbe superiore a quella che la chioma riesce a catturare. Si deve considerare anche l’anatomia del bestione che è tipica di un animale terrestre.   Respira evidentemente coi polmoni, ma può rimanere sott'acqua per millenni e più senza aver traccia di branchie o di pinne;  per non parlare dell’idrodinamica che in acqua lo renderebbe praticamente immobile anche se propulso da un metabolismo nucleare.  Se un animale è in grado di vivere sulla terra non può vivere in acqua e viceversa. Le balene discendono da animali terrestri, ma se si spiaggiano muoiono inesorabilmente ed i sauropodi giganti affogavano se cadevano in acque abbastanza profonde. La struttura di un essere vivente lo vincola ad un determinato ambiente.

Animali in grado di spostarsi dall'acqua alla terra e viceversa esistono, ma in uno di queste due ambienti sono necessariamente molto impacciati (v. le foche in terra o gli elefanti in acqua).
Infine dobbiamo considerare il fattore tempo e le condizioni ambientali.   L’evoluzione dei titanosauri ha richiesto oltre 100 milioni di anni in cui gli ecosistemi si sono evoluti in continuazione, ma con un ritmo pressoché costante.   I mammiferi non hanno dato giganti di simile mole probabilmente perché non ne hanno avuto il tempo: il cenozoico è stato un periodo molto più breve ed instabile di quello giurassico-cretaceo.


Dunque Godzilla non potrà mai esistere, ma qualcuno pensa invece di si e non mi riferisco ai fans del mostro, bensì a Robert Solow, premio nobel per l’economia, che con il “modello neoclassico di crescita” ha inventato un soggetto non molto più realistico di Godzilla (guarda caso negli stessi anni). Un soggetto su cui i Chicago boys, Friedman, Stiglitz  ed una pletora di economisti alla moda hanno poi scritto sceneggiature più o meno fantasiose, ma sempre rigorosamente incontaminate dalla realtà bio-fisica.   Il problema è che tutti noi, indipendentemente da come la pensiamo, siamo parte del cast di questo film in cui di mostri, a ben vedere,  ce ne sono parecchi; e tutti molto pericolosi.


Fra questi, quello cui si guarda di meno è proprio il più formidabile: il Leviatano.   Si stima che il suo peso sia fra 400 e 450 milioni di tonnellate con un tasso di incremento annuo poco superiore all’1% (dunque oltre 12.000 tonnellate al giorno) e non ha alcun problema a muoversi. Anzi, pur essendo un animale terrestre, si muove con relativa disinvoltura anche in acqua e in aria; occasionalmente può perfino compiere delle brevi scorribande nello spazio.   Non ha neppure problemi a lanciare fiamme ed ordigni capaci di distruggere intere regioni a migliaia di chilometri di distanza.   Naturalmente, il metabolismo di un simile mostro è estremamente dispendioso e necessita una dieta adeguata: si nutre di quasi tutto ciò che esiste, ma principalmente di biomassa, metalli ed idrocarburi fossili per  un totale equivalente a circa 80 miliardi di barili di petrolio al giorno!   Certamente il più straordinario dei figli di Gaia, ma come è stato possibile che un essere simile esista e si sia evoluto in appena due secoli?

Come genialmente compreso dal suo scopritore, Thomas Hobbes, il Leviatano è un animale coloniale i cui singoli individui sono funzionalmente interdipendenti, ma fisicamente autonomi e pesano mediamente fra il 50 e gli 80 chili ognuno ,anche se ne esistono di più grandi.   Questo risolve tutti i problemi strutturali che hanno ostacolato l’evoluzione dei dinosauri, mente lo sviluppo di una dieta a base di idrocarburi ha risolto i maggiori problemi metabolici.   Infine, il Leviatano ha un’evoluzione di tipo lamarckiano, praticamente indipendente dai complicati meccanismi genetici e dunque
rapidissima, pressoché fulminea.


Nessun autore di fantascienza ha mai immaginato un mostro simile, ma talvolta la realtà va ben oltre la fantasia.   Questo sembra contraddire quanto  affermato in apertura, ma solo in apparenza, perché i limiti esistono anche per il Leviatano che, infatti, ultimamente versa in pessime condizioni di salute.   Alcuni ricercatori ne temono anzi l’estinzione a causa di difficoltà crescenti nell'approvvigionamento, nello smaltimento dei suoi escrementi e nel costo fisiologico di una struttura oramai talmente complessa da essere diventata incapace di reagire agli stimoli.  Ipotesi che pare confermata dal fatto che l'attività attuale del mostro somiglia molto ad  una sorta di accesso febbrile accompagnato da crisi di panico, convulsioni ed allucinazioni collettive.

Tutto sommato, alla fine dei suoi film,  Godzilla è solito uscire di scena più dignitosamente.

mercoledì 21 maggio 2014

Collasso globale e Colonie resilienti

 Una riflessione di Alessandro Corradini sulle cause ultime del collasso in corso (che ci si ostina ancora a chiamare "crisi")
Di Alessandro Corradini

Siamo pieni zeppi di problemi spaventosi:

-          picco del petrolio,
-          cambiamenti climatici,
-          crollo della biodiversità,
-          crisi economica inarrestabile,
-          mafie e corruzioni dilaganti,
-          disoccupazione tecnologica,
-          armi di distruzione di massa (e convenzionali),
-          collasso oceanico (acidificazione, innalzamento dei livelli, anossia, inquinamento da microplastiche, collasso delle specie ittiche, ecc...),
-          inquinamenti d'ogni genere e tipo,
-          mancanza di istituzioni di governo globali a fronte di gravi problemi su scala planetaria,
-          crescenti diseguaglianze sociali, ecc... ecc... ecc...

Un sacco di problemi!

Tutti fenomeni concreti e pervasivi. Non catastrofismo, ma rilevazione oggettiva di un’autentica catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. Per quanto gravi e spaventosi, tuttavia, tali fenomeni sono sintomi, non cause. Risalendo le catene di causa-effetto che generano questa spaventosa moltitudine di devastazioni, si può risalire ad una sola causa iniziale che le accomuna tutte. L’identificazione di un’unica causa scatenante semplifica enormemente lo scenario complessivo, ma c’è poco da rallegrarsene, poiché tale origine riguarda un fenomeno così radicato ed onnipresente da essere pressoché intrattabile. Mi riferisco ai soldi. Il problema, per inciso, non è che ne abbiamo pochi. Il problema è che ci ostiniamo ad usarli come mezzo di regolazione generale dell’economia nonostante ogni evidenza scientifica ce lo sconsigli!

Il collasso globale a cui stiamo assistendo increduli da ormai sei anni (e che ancora viene eufemisticamente chiamata “crisi”) altro non è che l’accumulo e l’intrecciarsi di tutti quei gravi sintomi generati da un’infinità di comportamenti distorti connessi all’uso del denaro. Di fatto tale pratica consiste in un groviglio di usanze socialmente ed universalmente accettate che danno forma a tutta la nostra realtà, imbrigliandola in una oppressiva varietà di relazioni impersonali che allontanano i decisori dalle conseguenze delle loro decisioni. Questo complesso intreccio è riconducibile a 3 elementi principali:

1)     la massimizzazione della ricchezza monetaria (sia in termini privati, sia in termini collettivi, ossia di PIL),
2)     l’uso del debito (a cui oggi è connesso tra l’altro la creazione stessa della moneta),
3)     gli scambi commerciali (ossia le logiche di mercato e la speculazione).

Il mix di questi tre elementi comporta da un lato una forte de-responsabilizzazione sia degli individui sia delle comunità e dall’altro lato una feroce competizione causata da una scarsità indotta attraverso una redistribuzione della ricchezza completamente iniqua. Una trattazione dettagliata del perché l’uso del denaro, del debito e delle logiche di scambio commerciale abbiano effetti tanto devastanti sulle sorti del nostro pianeta richiederebbe tuttavia un’esposizione troppo estesa e complessa per essere qui riportata. Per chi volesse farsene un'idea approssimativa, potrà trovare qualche interessante spunto di riflessione qui , qui , qui, qui, qui, e qui. Questo microscopico elenco, tutt’altro che esaustivo ed omogeneo, non è che una capocchia di spillo dei motivi per considerare il “Business As Usual” (o BAU, ovvero il solito modo di condurre gli affari) come un vero e proprio "ordigno fine-di-mondo".

Ma non è questo il punto.

Ammesso e non concesso che si condivida questa “radicale” critica all’economia imperante, esistono alternative pratiche all’uso del denaro e dei suoi corollari? Se sì, è possibile realizzare concretamente tali opzioni?

Iniziamo col dire che ogni eventuale alternativa è destinata ad apparirci strana ed aliena. Non può che apparirci così, abituati come siamo ad un’unica e monolitica realtà economica. La quasi totalità degli esseri umani, negli ultimi millenni, sono nati, cresciuti, vissuti e morti in una società monetaria e/o basata sul debito. La stratificazione ed il consolidamento culturale, psicologico e politico dell’attuale paradigma è quindi colossale. Pensare di uscirne collettivamente e rapidamente da questo paradigma appare perciò un’impresa improba e folle. Il pianeta, però, è un paziente ormai grave ed il nostro futuro è fortemente incerto. La comunità scientifica internazionale ci sta avvertendo che siamo ormai ad un passo dalla soglia che conduce alla sesta estinzione di massa del pianeta (e forse abbiamo già iniziato a varcare tale soglia). Un cambiamento radicale è quindi divenuto necessario ed urgente. Serve una cura drastica, ma soprattutto serve una cura che ci appaia molto… “strana”. Non per il gusto di stupire, ma poiché, come sostenne una volta Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato”. Tentativi di riformare, regolarizzare ed addomesticare l’attuale economia monetaria e finanziaria, oltre che tardivi, al momento, risulterebbero probabilmente vani e persino controproducenti. È più probabile, infatti, che i grandi capitali, grazie al loro strapotere, addomestichino facilmente qualsiasi tentativo di riforma, piuttosto che il contrario.

Ci serve disperatamente un’opzione sufficientemente radicale e “strana”, ma quale?

La più ovvia e razionale è l’abbandono completo (e sufficientemente repentino) dell’uso del denaro, del debito e degli scambi commerciali. L’intera economia monetaria andrebbe sostituita da una più pratica e realistica economia basata sulle risorse. Le risorse (naturali e non) sono l'unica vera ricchezza materiale. La loro monetizzazione al contrario, per quanto importante all'interno dell'attuale paradigma, è solo un'astrazione mentale funzionale alla ripartizione della ricchezza globalmente presente sul pianeta. La moneta da accesso alla ricchezza materiale, non è la ricchezza materiale, né la può creare “magicamente dal nulla”. Poiché le risorse naturali, a seguito del superamento della capacità di carico del pianeta, sono in via di rapido esaurimento, parrebbe logico strutturare l'economia, la politica e la società in modo da opporsi strenuamente a tale esaurimento. L’idea di fondo è quindi banale: affinché un sistema economico sia sostenibile sul lungo termine, le risorse a sua disposizione devono essere l’elemento da cui partire per regolare produzione e consumi. Non è certo un’idea particolarmente nuova, ne hanno già parlato noti movimenti come il Venus Project e il Zeitgeist Movement (su cui non intendo esprimere giudizi di sorta). L’idea circola ormai da anni e sembrerebbe logico attendersi che l’attuale collasso economico favorisca un suo approfondimento ed un serio e vasto dibattito. Eppure nulla è ancora accaduto in tal senso. Tutto tace, persino a livello teorico ed accademico. Ciò avvalorerebbe l’idea che “mettere in discussione denaro, debito e logiche di scambio” equivalga a pretendere un cambio di prospettiva semplicemente troppo estremo per l’attuale cultura dominante. Movimenti di massa simili alla cosiddetta “Primavera Araba”, agli indignados e ad Occupy Wall Street, ma in senso apertamente anti-monetarista, per ora, non se ne vedono. Si parla di libertà e democrazia, spesso di equità economica, ma non di riformare il sistema economico fin dalle sue fondamenta. Ciò è ritenuto quasi universalmente un’utopia. I pensatori e gli intellettuali di ogni genere e tipo sembrano fermi ad un: “No grazie! Ci siamo già passati, si chiama comunismo e non funziona”. Il fatto che l’economia delle risorse non abbia nulla a che fare con i regimi del cosiddetto “socialismo reale” (i quali mai e poi mai hanno abolito l’uso di denaro, debiti e scambi commerciali) non smuovere minimamente il dibattito. Sia l’immaginario collettivo, sia la classe intellettuale, sia quella politica sembrano completamente soggiogati da un falso e cinico “realismo” imposto dallo stesso sistema economico che ormai nessuno riesce più a gestire e nemmeno moderare. La nostra civiltà è ostaggio di un pseudo-realismo che ritiene plausibile e doverosa una crescita economica infinita utilizzando le risorse finite (ormai quasi letteralmente) del pianeta.

Quindi come se ne esce?

Se un ostacolo è troppo grande per scavalcarlo, si può sempre girarci attorno. La cultura di massa e le istituzioni politiche e sociali sono ormai del tutto impermeabili e refrattarie verso proposte politiche pragmatiche. Queste vengono confuse sistematicamente per estremismi, stramberie ed utopie. È quindi necessario agire per una via meno diretta, cioè quella della colonizzazione. Il nome “colonizzazione” è tristemente associato a pratiche di sfruttamento e dominio. La colonizzazione a cui qui mi riferisco, tuttavia, non ha nulla a che vedere con quella triste esperienza storica. Qui, con “colonizzazione”, ci si vuol riferire semplicemente ad una modalità di diffusione dell’economia basata sulle risorse, attraverso l’inoculazione di detto sistema economico all’interno di quello esistente. Per disfarsi delle logiche monetaristiche, del debito e dello scambio e passare al nuovo paradigma si deve raccogliere subito il consenso immediatamente disponibile. Date le circostanze, sarà un consenso fortemente minoritario e “di nicchia”, ma rapidamente ed economicamente organizzabile. In termini pratici, parliamo quindi di un consenso che tale proposta può raccogliere e concentrare agevolmente in un solo luogo per formare appunto una colonia iniziale, il cui scopo sia quello di fungere da esempio e da “replicatore” per nuove future colonie a lei analoghe. Non potendo convincere e convertire l’economia globale per intero, si parta convertendone un pezzetto alla volta, partendo da chi è già convinto, in modo da minimizzare i tempi di realizzazione da un lato ed i costi di un’eventuale inazione dall’altro. In tal modo si evita di sprecare tempo, risorse, talenti e speranze nell’affannoso ed illusorio tentativo di risolvere tutti i nostri problemi tramite la creazione di un consenso vasto e diffuso. Ci si scorda facilmente infatti che un consenso vastissimo non solo è estremamente improbabile, ma persino inutile. Perché inutile? Beh, diciamo così: esiste un vastissimo consenso planetario che considera la fame nel mondo uno scandalo inaccettabile, ma questo non ha ancora eliminato “lo scandalo”. Meglio una nicchia motivata ed attiva che una massa concorde, ma dissipativa ed inamovibile (soprattutto se per rendere la massa “concorde” si devono spendere colossali risorse mediatiche, finanziarie, politiche e temporali). Per citare l’antropologa Margaret Mead:

« Non dubitate che un piccolo gruppo di cittadini coscienti e risoluti non possa cambiare il mondo. In fondo è così che è sempre andata ».

Il concetto di “colonia” parte da questa constatazione storica per saltare dalla fase di analisi e discussione collettiva a quella dell’azione, nella speranza di spezzare l’attendismo lassista e suicida su cui sembra essersi ripiegato il mondo.

Ma cosa sarebbe una “colonia”  di preciso?

Beh, una colonia, prima di tutto, sarebbe una comunità di persone, una comunità coesa attorno ad idee economiche rigidamente coerenti con l’effettiva disponibilità e la massimizzazione delle risorse. L’attuale economia è tutta concentrata sulla massimizzazione monetaria a noi tanto famigliare e grazie a questa spacca la società sottostante in una miriade di strutture ed individui separati da vorticosi fiumi di concorrenza, diffidenza e contrattazione. Con le “colonie” parliamo invece di realtà organizzative in cui aspetti economici, tecnico-scientifici e politici non sono separati e conflittuali, bensì fusi insieme in un approccio istituzionalmente pragmatico e razionalista. Per giungere a tale traguardo occorre possedere un alto grado di complessità interna. Una colonia quindi non ha nulla a che vedere con una minuscola comunità, basata sul pauperismo o su filosofie analoghe a quelle dei “figli dei fiori” o della “New Age”. Le colonie sono comunità dalla dimensione minima di diverse centinaia di persone (senza un limite massimo) e caratterizzate da una densissima consistenza tecnologica, scientifica ed organizzativa.

Una colonia sarebbe qualcosa di mai visto prima. Sarebbe una comunità opulenta, determinata ed acculturata. Sarebbe però anche un luogo fisico attraente, un sistema produttivo iper-efficiente ed un micro-mondo con una struttura organizzativa mai sperimentata prima. Una realtà assolutamente NON spontanea, ma frutto piuttosto di un accurato e laborioso lavoro di progettazione, studio e pianificazione. Un lavoro decisamente impegnativo, collettivo e multidisciplinare, al punto da potersi definire olistico e perpetuo. Le risorse risparmiate dal “rinunciare a convincere tutti” a creare un mondo migliore devono essere in gran parte spese in questa intensissima fase di progettazione e riprogettazione perenne. Per questo stesso motivo non è possibile dare ora una rappresentazione completa e precisa di cosa sarà una colonia. Una descrizione puntuale sarà possibile solo dopo quella fase di progettazione multidisciplinare iniziale che ancora non è mai avvenuta.

Da un punto di vista generale e concreto, tuttavia, si può già dire che una colonia sarà un luogo in cui le cose di cui si necessita non si comprano, ma si prendono liberamente in prestito senza che avvengo nessun tipo di scambio commerciale tra le parti. Anche per beni di consumo quali alimenti, bevande, vestiti e quant’altro, non dovrebbe esserci nessuno scambio, né di moneta, né di merci, né di diritti od altre utilità. Tale economia, ai nostri occhi, può apparire a prima vista come una società inauditamente generosa. Si tratta tuttavia di un’illusione: si può tagliar gole per una goccia d’acqua, se ci si trova persi in un deserto; regalarne a litri a degli sconosciuti parrebbe follemente generoso in quella situazione, ma basta uscire dal deserto per considerare immediatamente tale morbosa attenzione per l’acqua una follia. L’essere umano è un animale fortemente adattativo e se cambia completamente il contesto in cui opera, allora cambia anche completamente il suo modo di pensare e comportarsi. Uscendo dall’economia di scambio basata sul denaro e sul debito ci si sbarazza anche di gran parte di quell’egoismo e quella bramosia di soldi che ci contraddistingue ora. Non si tratta di rendere “perfetti” gli esseri umani privandoli delle normali pulsioni egoistiche (operazione impossibile e/o sconveniente). Si tratta piuttosto di creare un contesto “migliore” per facilitare comportamenti positivi ed auspicabili. Quel contesto “migliorativo” sarebbe appunto la colonia.

Le prime colonie, in particolare, dovendo fungere da esempio e supporto per tutte le colonie future, dovranno essere lussureggianti, sovra-strutturate, riccamente attrezzate, tecnologicamente avanzatissime, risolute nel perseguire gli obiettivi comuni e profondamente acculturate (soprattutto sul piano tecnico e scientifico). In poche parole dovrebbero essere realtà… fortemente elitarie. Può suonare ingiusto, ma si tratta di una necessità, poiché su di esse graverà la responsabilità di garantire il successo dell’intero processo di colonizzazione (con tutto ciò che questo implica a livello globale). Le prime colonie oltre a favorire l’intera opera di colonizzazione con la loro “robustezza” devono anche apparire attraenti sotto ogni possibile punto di vista: il ché implica possedere sistemi produttivi iper-efficienti, sistemi organizzativi impeccabili, un’estetica affascinante, una convivialità seducente, ecc... Chi non è un colono deve desiderare ardentemente di poterlo divenire un giorno. Guardando una colonia, dall’esterno si deve rimanere sbalorditi al punto di sforzarsi di voler sapere e capire come funziona prima e di volerne far parte dopo. Creare una tale “attrattività estrema” partendo dall’economia monetaria in cui attualmente ci troviamo implica inevitabilmente creare delle enclavi inizialmente molto elitarie. Tale difetto iniziale andrebbe però via via stemperandosi ed infine sparirebbe completamente man mano che le colonie si moltiplicano. Scopo delle colonie, infatti, rimarrebbe ovviamente quelle di creare sempre nuove colonie e di sostenersi vicendevolmente in modo da espandere ed irrobustire l’economia non-monetaria, non-creditizia e non-mercantilista a tutto vantaggio delle sorti del pianeta, ma anche a proprio vantaggio. Ma mano che le colonie si moltiplicano, l’accumulo di conoscenze, esperienze e risorse condivise rende i costi di fondazione delle nuove colonie decrescenti e la necessità di vincere le resistenze psicologiche e l’incredulità dei non-coloni, meno pressante. Ciò renderà le nuove colonie sempre  meno elitarie e sempre più “ordinarie” ed inclusive.

L’atto stesso della colonizzazione, in quest’ottica, è quindi opposta al concetto storico di violenza o sfruttamento del colonizzato. Al contrario la colonizzazione dell’economia attuale da parte di economie basate sulle risorse appare di fatto come una liberazione ed un’emancipazione dell’intera umanità basata sull’adesione spontanea e volontaria al nuovo paradigma. Non è solo umanità e benevolenza a chiedere un tale comportamento, lo chiede anche la logica: le persone motivate sono più efficienti ed efficaci di quelle indotte o costrette ad operare in un modo che non le rappresenta. L’adesione spontanea, oltre che democraticamente corretta, è fondamentale per una società che brama un efficientismo senza precedenti come appunto dovranno fare le colonie.

Ma perché le colonie abbiano successo devono avere effettivamente un’economia più efficiente di quella monetaria. E sarà così.

Perché?

Saranno efficienti anche ma, non solo per la leva motivazionale e l’approccio scientifico/razionalista che le modellerà. Essendo organizzate per massimizzare le risorse (non solo quelle materiali come l’energia e le materie prime, ma anche quelle umane, immateriali ed organizzative), all’interno delle colonie è possibile strutturare produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi con modalità molto difficili od impossibili da attuare e/o sostenere in modo sistematico all’interno di economie monetarie/creditizie/mercantiliste in cui attualmente noi tutti viviamo.

Farò qui 5 esempi per rendere quest’ultimo concetto meno nebuloso e più concreto. Tali esempi non sono da considerarsi esaustivi, ma piuttosto minimali e basilari. Essi hanno uno scopo meramente illustrativo volto a facilitare una visione di come le cose potrebbero funzionare dentro un tale “strano” sistema economico e allo stesso tempo per mostrarne i possibili vantaggi e peculiarità. Di seguito parlerò quindi di:

1)     Omniteche;
2)     Tassazione temporale;
3)     Efficienza sostenibile;
4)     Propagazione accelerata delle conoscenze;
5)     Prevenzione sociale.

                                                  
Le “OMNITECHE”

Una biblioteca è un’istituzione che presta libri, una videoteca una che presta filmati ed una ludoteca un’istituzione che presta giocattoli. Nulla di strano in questo. Estendendo tale concetto, tuttavia, si può anche immaginare un’istituzione che presta qualsiasi cosa: un’omniteca per l’appunto. Le omniteche sono entità alquanto improbabili in un sitema economico di mercato poiché la loro presenza è in antitesi alla concezione di scambio economico di mercato. In un’economia basata sulle risorse, tuttavia, tale istituzione potrebbe non solo esistere, ma essere l’istituzione più diffusa per eccellenza, così come ora lo sono i negozi per noi. Come abbiamo detto, infatti, una colonia è un luogo in cui i beni di cui si necessita non si comprano, né si noleggiano, né si barattano o scambiano.

Una biblioteca non può prestare libri che non ha e di solito lo fa seguendo determinate regole interne (presta solo ai tesserati, un numero massimo di libri, da restituire entro un limite massimo di tempo, ecc…) e così pure l’omniteca non può prestare beni che non possiede e quando li presta lo fa seguendo delle proprie regole (che rispecchiano la strategia dell’intera colonia per preservare o accrescere il più possibile le risorse globalmente disponibili all’interno di quel micro-mondo).

A differenza della biblioteca però l’omniteca presta di tutto e non solo libri, il ché implica anche beni di consumo come cibo, acqua, vestiti, medicinali. Anche per i beni di consumo, nella colonia, si mangia, beve, ecc… liberamente e gratuitamente, ma sempre e solo all’interno della disponibilità e sostenibilità delle risorse collettive, quindi all’interno delle regole imposte dall’ominiteche. Parliamo di regole condivise, appositamente architettate e costantemente perfezionate dalla colonia nella sua totalità al fine di minimizzare sprechi ed abusi.

Sul piano fisico e logistico, non è detto che un’omniteca debba essere intesa come un unico ed immenso magazzino con tutti i possibili beni concepibili. Può essere intesa piuttosto come un a serie di punti di distribuzione variamente disposti e specializzati, ma facenti tutti capo ad una sola autorità: la colonia stessa. Ogni colono non è quindi solo un utente delle omniteche, ma anche un proprietario, un gestore, un amministratore, un controllore. Questa sovrapposizione ed alternanza di ruoli deve far leva su un senso di appartenenza e di responsabilizzazione perenne che coinvolta tutti i coloni, senza eccezione alcuna.

Se la competizione commerciale offre forse i suoi vantaggi, anche la collaborazione evoluta sicuramente ne ha di importanti, ad esempio: in un’economia basata sulle risorse, se lascio morire di fame un mio simile (o anche solo se lo mantengo in uno stato sub-ottimale), non sto solo commettendo qualcosa di moralmente discutibile, sto anche danneggiando il mio stesso patrimonio, poiché quella persona, la sua forza fisica e le sue competenze sono parte della mia stessa ricchezza (che è poi quella di tutti gli altri coloni). Allo stesso modo se un colono distruggesse un bene della colonia, farebbe non solo un atto eticamente discutibile, ma danneggerebbe sé stesso in modo del tutto paragonabile a quello di un appartenente ad un nucleo famigliare che devasti i beni della propria famiglia. Il mondo e gli esseri umani non sono perfetti ed eventi deleteri possono sempre accadere, ma è evidente che la struttura sociale della colonia, analogamente a quella della famiglia rendono più improbabili incidenti del genere. Un contesto che, ai diritti legati alla proprietà privata, sostituisce, come perno dell’intera economia, il dovere di conservare, arricchire e condividere beni comuni, è un contesto che tende a minimizzare “incidenti” invece abbastanza frequenti in una realtà come la nostra. In quest’ultima è nettamente distinto “ciò che è mio da ciò che è tuo” e quindi anche i pesi e gli oneri su cui ricade ogni danno accidentalmente o volutamente arrecato. Ciò causa una tensione perenne verso la competizione e la sfiducia reciproca anche quando queste risultano dannose od eccessivamente onerose.

La pressione sociale esercitata dalla collettività coloniale, tramite le regole dell’omniteche, sui singoli coloni, non è un’intrusione dispotica all’interno delle libertà personali, così come la fruizione gratuita degli stessi beni e servizi non è un eccesso di prodigalità. E’ semplicemente la logica conseguenza che scaturisce dalla piena consapevolezza del fatto che non ci possono essere “scelte personali” completamente slegate dalla disponibilità collettiva delle risorse condivise. In ultima analisi, infatti, indipendentemente dal sistema economico adottato, le risorse presenti su un pianeta finito devono essere obbligatoriamente finite e qualsiasi “scelta personale” che finga che siano infinite è semplicemente un’illusione.

La presenza capillare delle omniteche rende il concetto stesso di proprietà privata non inutile, né proibita, ma certamente marginale. La ricchezza personale e quella collettiva divengono quindi tendenzialmente la stessa cosa. D’altra parte essere liberi, in funzione di espedienti connessi a regole condivise, di poter distruggere le altrui potenzialità, per non dire l’intero pianeta ed il futuro delle generazioni a venire ad esso connesso, in una civiltà degna di questo nome, non dovrebbe far parte delle opzioni considerate tollerabili.

Le omniteche, cioè i bazar che “regalano” o prestano i beni a disposizione dell’intera economia, non sono l’albero della cuccagna né una forma di comunismo rivisitato. Sono il trionfo della logica razionalista, dell’onestà intellettuale e della collaborazione civile. Le omniteche benché possano apparirci utopiche, sono solo un sistema di distribuzione delle risorse economiche la cui estensione reale oltrepassa i confini fisici dell’omniteca stessa e permea l’intera colonia sotto forma di pressione sociale, controllo distribuito e partecipazione attiva (il sistema immunitario della colonia che garantisce la possibilità di mantenere il sistema nel lungo periodo).

La TASSAZIONE TEMPORALE

In un’economia monetaria, un sistema di tassazione perfettamente egualitario ed equilibrato pare un obiettivo quasi impossibile da raggiungere. In un colonia, priva di denaro, invece è piuttosto semplice istituire un sistema di tassazione perfettamente equo. Dato che non circolano soldi e che le 24 ore giornaliere sono uguali per qualsiasi colono, porre una quota di tale tempo ad esclusiva disposizione delle esigenze della collettività è un modo estremamente semplice, verificabile e pratico per organizzare una tassazione non-monetaria. Eliminando la tassazione monetaria, si eliminano anche tutti gli intrighi politici, le sperequazioni sociali, i costosi sistemi di regolamentazione e controllo, le farraginose e gigantesche infrastrutture burocratiche e tutte le deformazioni di mercato legate alla concorrenza scorretta che caratterizzano le economie monetarie in merito all’annosa questione delle tasse nonché alla loro evasione ed elusione. Tali costi ed inefficienze sono semplicemente estranee ed inapplicabili ad un’economia basata sulle risorse che operi tassazioni temporali.

Benché teoricamente semplicità, efficienza ed equità siano raggiungibili anche tramite la “normale” tassazione monetaria, all’atto pratico, esse sono difficilmente raggiungibili nella realtà quotidiana e comunque non senza asprissime lotte sociali. Il fatto è che, in un’economia monetaria, le differenze di reddito e patrimonio, cioè le differenze monetarie tra individui, sono la misura stessa della differenza sociale e materiale che passa tra l’essere avvantaggiati o svantaggiati rispetto agli altri. La tassazione, in una società che fa delle differenze monetarie la principale leva motivazionale e competitiva, non può risultare miracolosamente affrancata dalla faziosità ed arbitrarietà che un tale atteggiamento discriminatorio inevitabilmente implica. Viceversa l’inclusione di una quota fissa di tempo da parte di ogni persona esistente nell’economia, all’interno dell’apparato pubblico coloniale, ha il vantaggio di aumentare enormemente il controllo distribuito ed una partecipazione non solo “premurosa” ma anche tecnicamente consapevole della “cosa pubblica”. Un tale livello di coinvolgimento collettivo è semplicemente impossibile in un’economia in cui circola denaro. In essa, infatti, l’apparato statale ed i cittadini sono due entità disgiunte e sovente contrapposte. Da tale separazione scaturiscono inevitabilmente una lunga serie di dinamiche di coercizione, collusione e corruzione che degradano gravemente le potenzialità teoriche dell’economia monetaria nel suo complesso e ,al tempo stesso, gettano le basi per un clima di insicurezza, sfiducia e contrapposizione che paralizza i vari attori attorno a comportamenti egoistici ed opportunistici tipicamente di breve o brevissimo respiro. 
                 
L’EFFICIENZA SOSTENIBILE

L’introduzione della produzione industrializzata ha creato un’abbondanza senza precedenti nella storia. Allo stesso tempo però, rimanendo in economie monetarie, si è presto incappati in un colossale problema di inquinamento e di sperpero sistemico di risorse fisiche legato a fenomeni industriali come l’obsolescenza programmata, l’usa-e-getta e tante altre modalità di produzione, consumo o speculazione finanziaria volte unicamente a massimizzare la movimentazione complessiva del denaro a scapito di tutto il resto (sopravvivenza a lungo termine dell’intero pianeta compresa). La concorrenza economica derivante da “l’uso di denaro, del debito e dello scambio commerciale” spinge, infatti, gli individui a fomentare in ogni modo (ed ad ogni costo) i propri simili a consumare sempre di più (contribuendo a fomentare un perverso, frustrante e perenne ciclo di illusione ed insoddisfazione). I soggetti economici che non si adeguano a tale esasperazione grottesca del consumo, nella nostra economia, risultano competitivamente inadeguati e quindi tendono purtroppo ad incappare nel fallimento economico a cui sono poi associati il discredito sociale e un restringimento delle libertà di scelta a livello personale. La pressione sociale verso una tale deviata omologazione culturale e quindi fortissima.

Tale tendenza collettiva sfocia in una colossale distruzione di risorse (energia e materia) priva di una reale utilità sia per i singoli sia per la collettività nel suo complesso. I bisogni ed i desideri spontanei hanno un grado di disomogeneità e limitatezza che mal sia adatta sia alla produzione di massa sia alla religione “della crescita economica infinita”. Tali bisogni sono quindi stati rapidamente affiancati da ben più numerosi e lucrosi “bisogni e desideri indotti”, il cui soddisfacimento non implica una reale utilità, ma sfortunatamente implica un reale consumo di preziose risorse, cioè uno spreco. A tale insostenibile danno, si aggiunge poi un corrispondente livello d’inquinamento legato alla produzione prima ed al consumo poi, fino allo smaltimento dei beni prodotti con tali logiche di brevissimo respiro.

Tale assurdo e triste comportamento collettivo non è strettamente legato a bontà d’animo o all’intelligenza dei singoli. Per sopravvivere e prosperare (ma anche più banalmente per essere socialmente accettati) all’interno di un’economia monetaria si è spronati ad agire così. Se però si abbandona l’uso di denaro, del debito e degli scambi commerciali, allora tutto ciò che brucia risorse senza produrre un’utilità reale smette d’essere un cosiddetto “male necessario” per tornare ad essere quel che in effetti è: solo e soltanto “un male”. Non dovendo vendere qualcosa né comprare altre cose, non v’è necessità di esasperare, ingannare e convincere gli altri ad espandere al massimo i propri consumi. Anzi, in un economia delle risorse, meno i singoli consumano a parità d’utilità e meglio è per tutti. Il concetto stesso di rifiuto, spreco od inquinamento sono antitetici ad un’economia volta a massimizzare le risorse poiché tali concetti ne sono una negazione di fatto. Mentre in un’economia consumista c’è un interesse strategico a ché gli altri siano perennemente insoddisfatti, in un’economia “coloniale” v’è un interesse strategico a ché gli altri siano il più soddisfatti possibile. La maggior efficienza a cui il sistema delle colonie spinge non riguarda perciò solo l’uso efficiente delle risorse materiali, ma anche lo sviluppo armonico ed il benessere delle persone (intese sia come lavoratori, sia come consumatori, sia come persone e basta). In un’economia “coloniale”, ad esempio, venendo meno il rapporto reddito/consumo, decade anche l’enorme alibi psicologico, politico e sociale con cui si accetta l’inaccettabile in nome di una piena occupazione (per altro impossibile da realizzare pienamente in società altamente tecnologiche).

Inoltre nelle economie monetarie ogni reale incremento d’efficienza raggiunto, traducendosi in una maggior disponibilità del bene risparmiato, porta sovente al paradosso di Jevons ovvero ad un maggior consumo collettivo di tale bene (poiché la maggior disponibilità complessiva del bene risparmiato comporta un suo abbassamento di prezzo che ne favorisce il consumo). Un’economia coloniale, al contrario, tende spontaneamente a tradursi in una forma di economia circolare in cui ogni risorsa è rimessa “in circolo” anziché smaltita anticipatamente e dannosamente in una discarica o in un  “termovalorizzatore” (che rappresentano la fase finale della consueta logica lineare di estrazione, lavorazione, consumo nelle economie monetarie). La circolarità dei beni e servizi, in una colonia, non è d’altra parte ostacolata da interessi privati che potrebbero vedere in tale virtuosismo un attentato ai loro profitti, poiché il concetto stesso di “profitti” non è contemplato, mentre quello di utilità sì (ed essa è collegata inesorabilmente alle risorse reali e quindi al loro sfruttamento razionale e moderato).

La PROPAGAZIONE ACCELERATA DELLE CONOSCENZE

Un’economia monetaria pone drastici vincoli alla libera circolazione della conoscenza. Vincoli quali, ad esempio, i diritti d’autore, i segreti industriali, i brevetti, ecc… Tali tutele legali sono di fatto un freno socialmente accettato che ferma o rallenta (a seconda dei casi) la circolazione di idee e conoscenze. Tale vincolo però svanisce, se si eliminano i soldi, il debito e lo scambio dall’economia. Svanendo quest’ultimi, infatti, svanisce anche la necessità di porre tutele legali (e non) al loro sfruttamento economico/monetario. Inoltre, dato che la psicologia ha dimostrato che la creatività è sfavorita ed inibita dalle mere ricompense in denaro, ingabbiare la produzione intellettuale, scientifica e tecnologica all’interno di logiche monetarie deprime oltre alla loro circolazione anche le potenzialità produttive in tali ambiti. Come se tutto ciò non bastasse, va poi ricordato che, nella nostra attuale economia, libera ed imparziale circolazione della conoscenza tecnica lede gravemente i vantaggi competitivi derivanti dalle asimmetrie informative di mercato. Attualmente, retorica e buoni propositi a parte, esiste quindi una convenienza diffusa a mantenere le conoscenze tecniche al livello minimo necessario a far funzionare l’economia monetaristica stessa. La circolazione delle idee, delle conoscenze scientifiche e di quelle tecnologiche è poi ulteriormente ostacolata, nell’attuale economia, da logiche volte ad ammortizzare pienamente gli investimenti in specifiche unità produttive. Nelle economie attuali, esiste inoltre la necessità di massimizzare i profitti tramite il rilascio sul mercato di prodotti con numerose versioni intermedie, caratterizzate da piccoli miglioramenti graduali e da incompatibilità possibilmente totali rispetto ai modelli precedenti, in modo da spingere i consumatori ripetuti ad acquisti ripetuti con la maggior frequenza possibile a fronte di costi di ricerca e sviluppo mantenuti il più possibile bassi. Tutte queste logiche distorsive perdono completamente utilità e senso in un’economia che si basa sulle risorse anziché sul lucro monetario derivante dal loro scambio.

Per motivi analoghi a quelli sopraccitati, non solo le conoscenze già disponibili sono ostacolate dalle logiche monetaristiche, ma anche l’uso dei dati grezzi lo è. Dal momento che i singoli soggetti economici non desiderano che altri sappiano cose che li possano danneggiare. Non vivendo in un ambiente economico che premia la collaborazione, l’attuale tendenza generalizzata è quella di tenere i dati raccolti (di qualsiasi tipo essi siano) a proprio esclusivo vantaggio, perdendo così gli infiniti vantaggi che deriverebbero invece da una loro aggregazione, integrazione e/o incrocio. Questo aspetto, dati i bassissimi costi di calcolo già oggi raggiunti, implica un danno latente immenso per le attuali comunità.
                         
Nonostante l’economia monetaria abbia creato un mito popolare del progresso scientifico e tecnologico, facendo credere che esso possa risolvere praticamente ogni cosa, la realtà è che essa si oppone fortemente a tale progresso, non di rado arrivando persino ad impiegare ingenti risorse finanziarie per screditare la comunità scientifica in modo da preservare forme di business altrimenti screditati (il caso delle lobby del tabacco sia preso a caso esemplare, ma non unico, di tale tendenza). Inutile dire che anche questi aspetti illeciti e/o illegali perdono di valore e significato se si esce dalle logiche basate sullo scambio commerciale.

Sul lato opposto, la conoscenza, in una economia coloniale, sarebbe la più preziosa delle risorse, poiché essa è di fatto l’unica che può espandersi senza limiti e che comporta ricadute a cascata su tutte le altre risorse. 

La PREVENZIONE SOCIALE

Un’economia monetaria è un’economia piena di contrasti, conflitti d’interesse e contraddizioni. L’interesse di una buona salute pubblica, ad esempio, confligge con l’esigenza di un’industria farmaceutica di vendere farmaci e cure di vario genere. L’interesse di società private che utilizzano od operano intorno alle carceri, contrasta con l’interesse collettivo di una giustizia imparziale e con la prevenzione (anziché la repressione ex-post) del crimine. L’interesse ad una pace duratura confligge con l’interesse dell’industria bellica a vendere armi. L’interesse collettivo ad un’ottima cultura generale confligge con il vantaggio competitivo dei singoli tra classi sociali differenti e con l’esistenza di asimmetrie informative. Si potrebbe andare avanti all’infinito a descrivere interessi generali rilevanti che contrastano con interessi privati di pari importo. Tali conflitti e le loro deleterie conseguenze sussistono in un’economia monetaria, ma sono degli intollerabili “non-senso” in economie non-monetarie.

Un’economia non-monetaria potrebbe facilmente basare la strategia di salute pubblica sulla prevenzione invece che sulla cura delle patologie, un approccio difficile da realizzare in un economia che venera l’aumento infinito del PIL. Non solo, grandissima parte (se non tutta) la corruzione e la criminalità (organizzata e non) deriva dalla possibilità e dalla necessità di convertire denaro in utilità. Se si spezza tale legame, allora si elimina anche la prima causa del crimine “professionale” e dei sistemi di corruzione sistemica degli apparati pubblici e privati. La prevenzione sociale (intesa in senso lato), in un’economia delle risorse, non è un costo, una scelta ideologica o un sogno, ma un semplice e banale investimento per minimizzare i costi e massimizzare l’utilità sia dei singoli sia della collettività.

Venendo meno le sperequazioni sociali inoltre vengono meno tutte criticità associate a tali sperequazioni reddituali e patrimoniali. Ciò vuol dire che le economie coloniali, a livello sociale partirebbero immediatamente avvantaggiate rispetto ad economie monetarie di entità analoga. Le colonie avrebbero non solo meno sprechi, ma anche meno esternalità negative non solo in ambito ambientale ma anche relazionale e sociale.


Concludo dicendo con piena convinzione che l’utopia è impossibile, ma se pensiamo che anche il “meglio” sia impossibile e persino un modesto “più efficiente” possa essere impossibile, allora non siamo poi così moderni come vorremmo far credere a noi stessi e agli altri.


Alessandro