martedì 28 agosto 2012

Il Futuro Digitale

Da The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Immagine da http://www.tallerdecomputocancun.com/

Di Antonio Turiel


Cari lettori,

un paio di mesi fa un lettore del blog, professore molto impegnato nell'installazione delle Tecnologie di Informazione e Comunicazione (TIC) mi chiedeva per e-mail circa la possibilità che i sogni tecno-ottimisti di un futuro dominato da queste tecnologie possa un giorno vedere la luce. Risulta che da uno o due anni in Spagna il grande dibattito nelle aule fosse per l'installazione di lavagne digitali e delle nuove Tecnologie di Comunicazione, Solo un anno più tardi, la cruda realtà della crisi ha cancellato dalla mappa la prospettiva di marcia trionfante verso il nuovo Eldorado tecnologico e le proteste dei docenti, sempre più ridotta di numero e di efficacia, riempiono le strade un giorno sì e l'altro pure. Ma molti di coloro che allora hanno comprato questa propaganda credono che il sogno ipertecnologico sia ancora raggiungibile ed anche che un giorno le lezioni saranno online e non di presenza fisica – fra le altre cose perché non hanno capito che questa crisi non finirà mai.

Alla fine, questo lettore chiedeva una mia opinione sulle TIC. La verità è che e avesse saputo dove ci troviamo mentre avanziamo verso la Grande Esclusione, non sarebbe difficile supporre cosa avverrà alle TIC, che si ridurrebbero, se possibile, ad essere un prodotto per una minoranza di ricchi. Tuttavia, tale analisi è troppo banale per meritare un post specifico, così credo che sia più interessante adottare qui un altro punto di vista, anche se non è quello che può accadere con più probabilità. Supponiamo per un momento che avessimo un attacco collettivo di buon senso e ci sedessimo a pianificare in modo sereno e ragionevole la transizione a un mondo dove la quantità di energia disponibile sarà molto inferiore a quella attuale. Quale potrebbe essere il ruolo delle TIC durante la transizione ed eventualmente nello stato successivo? Qual è la dimensione ragionevole che può avere l'attuale elettronica di consumo?

L'argomento è abbastanza complesso e non posso fare una valutazione esaustiva della stessa, ma si possono indicare alcuni dati che ci permettono di immaginare come potrebbe essere, dove si riferisce ai limiti fisici, questo futuro. 

La fine della legge di Moore: dagli anni 70 del decennio passato si è osservato che la quantità di transistor che si poteva integrare in un chip decuplicava ogni 18 mesi circa: è la cosiddetta Legge di Moore. Ciò ha fatto sì che ogni 18 mesi, più o meno, uscissero CPU il doppio più veloci e che i chip di memoria e le capacità dei dischi seguissero dei ritmi analoghi. Tuttavia, la densità dei transistor era talmente alta che gli effetti quantici dovevano cominciare a manifestarsi, ponendo in breve fine a questa regola empirica. E anche se qualcuno pretende, come col picco del petrolio, che lo scarto della legge di Moore non sia importante o che la stagnazione attualmente osservata si debba alla paralisisi di varie fabbriche giapponesi a causa del terremoto e dello tsunami dello scorso anno, la realtà è che la Legge di Moore non è più quello che era, e che per compensare l'evidente incapacità di aumentare la miniaturizzazione dei circuiti integrati si ricorre a mettere sempre più microprocessori nei computer... ma senza tecniche adeguate di Calcolo Parallelo (che non sono per niente facili da attuare) è certo che buona parte di questa capacità extra di calcolo non si sfrutti e i nostri computer non sono, in pratica, sempre più potenti. La fine della Legge di Moore ha implicazioni anche in materia energetica, visto che un suo corollario è che nella misura in cui l'integrazione dei transistor avanzava, la quantità di energia e tempo necessari per fare un calcolo diminuiva. Ora non è più il caso e questi computer con nuclei multipli consumano come vari computer connessi fra loro, come di fatto sono. Per cui, il consumo di energia da parte del sistema informatico, che non è mai diminuito per la sua crescente proliferazione – una specie di paradosso di Jevons informatico – ora cresce a velocità doppia. Pertanto, non è il caso di aspettarsi molte migliorie, in quanto all'efficienza energetica dei nostri sistemi.

Consumo energetico di Internet: Uno studio dell'Università della California di Berkeley delllo scorso anno calcola il consumo di energia di internet (inteso non solo come rete fisica, ma tutti i dispositivi ad essa collegato e conteggiando l'energia di fabbricazione dei diversi apparati) fra l'1 e il 2% di tutta l'energia (attenzione, non solo elettrica, di tutta l'energia) che si consuma sul pianeta. La cifra è impressionante, perché, essendo realisti, a lungo termine l'essere umano potrà conservare una frazione di tutta l'energia che consuma adesso, forse il 10% e se si gioca bene le sue carte, per cui quello che consuma internet su questa scala avrebbe un grande peso. Si deve inoltre pensare che la maggiore domanda di internet si ha nei paesi più ricchi che sono anche quelli che in questo momento consumano più energia e quelli ai quali costerà di più mantenere tali livelli di consumo. Tutto indica che internet dovrà ridursi probabilmente di una o due ordini di grandezza, per cui molti dei servizi di streaming di oggigiorno saranno semplicemente impossibili. E questo senza parlare del 'cloud computing', che sta ancora in fasce e che non supererà ma la condizione di esperimento su piccola scala, a causa degli innumerevoli requisiti in termini di capacità di computazione, che alla fine sarebbero richiesti anche in energia.

Impatto del silicio nei microchip: i chip di microelettronica si fabbricano col silicio, che è uno dei minerali più abbondanti sulla crosta terrestre (la comune sabbia è fondamentalmente ossido di silicio). Tuttavia, le cialde di silicio con le quali si fabbricano devono avere una purezza di silicio estrema, del 99,9999%, il che richiede stanze speciali in condizioni di pulizia eccezionale (stanze bianche), il che obbliga ad una grande spesa energetica, che è tanto più grande quanto è meno puro il materiale di partenza. E' per quello che per produrre silicio puro si è soliti esigere minerali speciali, non la semplice sabbia di una spiaggia, e il quarzo di grande purezza è uno dei preferiti, ma questo è un materiale abbastanza più scarso della sabbia (potete consultare un riassunto abbastanza buono sulla produzione di silicio in rete, sul sito Connexions, in un articolo dal titolo “Semiconductor grade silicon”). Quando la produzione di questi minerali speciali comincia a diminuire (per l'esaurimento dei giacimenti e per l'aumento dell'energia richiesta per lo sfruttamento di quelli rimanenti) la produzione dei microchip di silicio ne risentirà, rendendoli più cari. L'effetto di rincaro sarà fortemente non lineare, visto che ci sono tre fattori che contribuiscono all'aumento dei prezzi: primo, la crescente scarsità dei materiali que richiedono meno energia per essere purificati, il che porterà ad usarne altri con un maggior costo energetico; secondo, il rincaro intrinseco dell'energia in un mondo con minore disponibilità della stessa, il che in un processo come questo, che ne richiede molta, è determinante; e terzo, all'aumentare del prezzo la domanda cadrà, anche, appesantita dal resto dei problemi di degrado sociale, per cui la produzione di chip non potrà sfruttare più di tanto dei benefici dell'economia di scala ed il prezzo schizzerà ancora di più per questo effetto. Una politica di riciclaggio intelligente potrebbe mitigare questi effetti, ma per queste sarebbe necessario cambiare i piani attuali che non facilitano l'estrazione facile delle cialde (wafer) di silicio usate.

Difficoltà di accedere alle terre rare: abbiamo già discusso qui, due anni fa, i problemi di accesso alle terre rare, materiali che, nonostante la loro abbondanza sulla crosta terrestre, si presentano in depositi con una concentrazione non sfruttabile economicamente, il che comporta forti limitazioni nella loro produzione e che, in combinzaione a certi movimenti del mercato, hanno fatto sì che la Cina sia giunta a controllare il 97% della produzione di questi materiali. Molte terre rare, come detto a suo tempo nel post, sono di un'importanza capitale nei dispositivi ad alta tecnologia che usiamo oggigiorno, dai colori degli schermi LCD ai materiali per drogare le proprietà semiconduttrici del silicio o e che servono per servono per affinare la frequenza di lavoro dei chip, aumentarne la miniaturizzazione e diminuirne il consumo. Terre rare a parte, ci sono altri metalli che hanno usi importanti nei nostri sofisticati dispositivi e che stanno cominciando a scarseggiare come oro e argento (sui quali spero di fare un post quest'estate) e, a breve, anche il rame.

Declino del capitale disponibile, collasso della complessità: il grande problema che quasi nessuno sembra in grado di vedere, è che la nostra società industriale è essenzialmente instabile. E' progettata per produrre una gran quantità di merci, distribuirle rapidamente e consumarle allo stesso ritmo. Ma siamo in una situazione in cui la produzione di nuove merci richiede quantità crescenti di capitale e sta arrivando ad un punto in cui i conti economici non tornano (in fondo, a causa del declino della redditività energetica) e la redditività non è sufficiente a mantenere il macchinario in funzione. I flussi di capitale diminuiscono e così anche il capitale disponibile. Il problema è che quanto più ci addentriamo in questo sentiero di perdita e distruzione di capitale verso una crescita già ora impossibile, più difficile è finanziare nuove imprese. E arriva un momento in cui non potremo neanche mantenere le strutture esistenti, perché la società non si autofinanzia, non produce sufficienti risorse per mantenere tutte le infrastrutture (è di nuovo il problema dell'EROEI decerscente: con meno energia netta si possono mantenere meno infrastrutture). Come abbiamo detto da poco, i problemi delle risorse vengono visti abitualmente come problemi intrinsecamente economici e non collegati all'energia, per cui non vien riconosciuto che la decadenza economica che stiamo vivendo non può cambiare internamente perché è limitata da fattori esterni (la mancanza di materie prime). 

Senza renderci conto, a poco a poco stiamo perdendo la capacità di fare le cose più complesse in primis (quelle che richiedono più capitale umano, nel senso di specializzazione, e di risorse) e progressivamente stiamo perdendo anche la capacità di fare le cose più semplici, fondamentali e necessarie. Essenzialmente, si produce una riduzione forzata della complessità della società (ciò che secondo Joseph Tainter – vedi anche qui, ndT. - è la causa del collaso della società). Non è necessario percorrere questo sentiero, almeno non fino alla fine, anche se disgraziatamente è ciò che stiamo facendo. E nel contesto della discussione di oggi, la perdita di complessità fa sì che le apparecchiature informatiche e ad alta tecnologia siano le prime a cadere. Un giorno chiudono le fabbriche di certi microchip disperse su tutto il pianeta finché non rimarranno che due o tre siti che possono fornire, a causa della loro grande dimensione, tutto il mondo. Poi, la diminuzione delle vendite fa chiudere tutte le fabbriche tranne una. Poi, questa fabbrica si vede obbligata a fare cambiamenti, aggiustamenti, a causa del crollo della domanda causata da una esclusione sociale crescente e dalla caduta del consumo di massa. Alla fine, si producono chip più semplici, più economici, meno funzionali, ma con una redditività maggiore adattata ai sempre meno apparecchi con elettronica digitale... Insisto, non è per forza il futuro, ma al momento è la direzione nella quale stiamo camminando. 

Alla fine, in uno scenario che assumesse anche le tinte più luminose, per noi sarebbe di scarsità e sarebbe naturale ripensare la scala sulla quale vogliamo usare l'informatica. Non dobbiamo rinunciare ad avere dei computer, di fatto sarebbe molto conveniente che non perdessimo questa tecnologia data la sua incredibile utilità nella gestione di un'infinità di sistemi complessi che per noi sono vitali. Tuttavia, quello che risulta abbastanza discutibile è se questi computer debbano essere personali. Il grande vizio della società industriale è quello di fomentare il consumo per accrescere il beneficio anche quando questo presuppone uno spreco ingiustificabile.  Mi risulta difficile capire perché in ogni casa debbano esserci due, tre, quattro o più dispositivi in grado di connettersi a internet e tutti con un'enorme capacità di elaborazione. Sì, è divertente, ma non necessario e in realtà non ce lo possiamo permettere per ciò che ho spiegato prima. Ciò implica anche che internet dovrebbe avere una dimensione più ridotta e meglio adattata alla circolazione di vera informazione (e non a tanto rumore, come ora). Dobbiamo ripensare il nostro concetto di proprietà ed evolvere verso quello di condivisione delle risorse che non si possono generalizzare per la loro scarsità, per il loro costo energetico e per il loro impatto ambientale, ma che conviene che siano accessibili a tutti, come lo sono le TIC. E' un diverso modello di proprietà, ma probabilmente non ci resta alternativa e sicuramente può essere ugualmente soddisfacente si viene gestito adeguatamente e senza abusi. Purtroppo, la cultura umana, soprattutto in Occidente, deve evolversi ancora molto per imparare a condividere senza abusare...

Saluti.
AMT




















domenica 26 agosto 2012

Preghiamo per la Pioggia!

Da “Cassandra's Legacy”.Traduzione di Massimiliano Rupalti

























La scritta “Preghiamo per la Pioggia” è stata attaccata col nastro adesivo alla porta di ingresso del santuario della Madonna del Sasso, non lontano da Firenze.


La siccità in Italia è così terribile che possiamo soltanto pregare per un po' di pioggia, la quale sembra non essere in arrivo, comunque. Per fare un esempio di quanto si terribile, non ho mai visto i fichi che si seccano sui rami, ma quest'anno sta accadendo. Guardate:


Potete trovare altre immagini della siccità in campagna questo link.

Ora, perché questa terribile siccità (direi “Biblica”)? Be', è un fenomeno in corso, chiaramente collegato al cambiamento climatico. Guardate questa immagine del NOAA (fonte).




















Guardate la zona del Mediterraneo: è previsto che sarà la più colpita dalla siccità di tutto il pianeta. Quindi, quello che stiamo vedendo oggi è solo un preludio a qualcosa di molto peggiore che potrebbe svilupparsi negli anni e nei decenni a venire.

Ora siamo ridotti a pregare per la pioggia e a sperare che il Buon Dio faccia il miracolo per noi. Ma non possiamo dire di non essere stati avvisati.



sabato 25 agosto 2012

Luca Mercalli risponde a Vaclav Klaus




Questo articolo di Luca Mercalli non sembra esistere on-line sul sito de "La Stampa". "Effetto Cassandra" lo ha ottenuto direttamente dall'autore e lo riproduciamo qui. Sul disgraziato sfogo di Vaclav Claus apparso qualche giorno fa, vedi anche il post precedente su "Effetto Cassandra"


I termometri europei bruciano i record. Ecco perché ridurre i gas serra conviene 


di Luca MERCALLI

LA STAMPA 22.08.2012

Il tifone «Tembin» minaccia Taiwan, fa molto freddo solo alla base di ricerca Vostok, in Antartide, con 78 gradi sottozero alla fine dell’inverno australe, ma è l’ondata di caldo africano sull’Europa a dominare la cronaca meteorologica di questa settimana.

A partire da venerdì 17 agosto l’ennesima struttura anticiclonica subtropicale di questa stagione si è espansa dal Marocco – dove lunedì 20 Marrakech boccheggiava a 47 gradi – alla Spagna, da giorni sotto una cupola d’aria ad oltre 40 C – giungendo in Francia, dove sabato Montgivray, nell’Indre, toccava i 42,4 C, un primato assoluto per la regione centro-settentrionale dell’Esagono, e anche Parigi non scherzava con 38 C. Domenica 19 oltre ai 41,5 C di Châtillon-sur-Seine (Côte-d’Or), cadevano i record termici del 2003 nelle Alpi francesi, con 35,8 C ai 1300 metri di Briançon, 37,4 C a Bourg Saint Maurice (865 m) e ben 13,4 C ai 3845 m dell’Aiguille du Midi, nel cuore del massiccio del Bianco. Poco più a ovest, 30 gradi a Zermatt, 7 ai 4560 metri della Capanna Margherita sul Monte Rosa e 12,8 all’osservatorio dello Jungfraujoch (3580 m), record assoluto della serie di misura dal 1959, mentre nelle città elvetiche a bassa quota i valori non hanno superato quelli del luglio 1983 e agosto 2003. Ma non è finita, lunedì 20 ha visto i record termici fioccare in Germania, con i 37,2 C di Lipsia e Dresda, i 38,7 C di Holzdorf e i 16,1 C sulla Zugspitze, a quasi 3000 metri.

Nuovi massimi termici assoluti pure su gran parte della Repubblica Ceca, culminati a Dobrichovice, presso Praga, dove il termometro ha toccato 40,4 C. Dati che dovrebbero far riflettere il presidente ed economista ceco Václav Klaus che su questo giornale se la prendeva con gli “adepti del riscaldamento globale” confondendo l’ideologia con la fisica dell’atmosfera, affetta beninteso da incertezze come tutte le scienze, ma non certo dottrinaria.

Mario Molina, docente all’Università della California e Nobel per la chimica insieme a Crutzen e Rowland per la scoperta del buco dell’ozono, ha dichiarato ieri a Filadelfia al meeting dell’American Chemical Society, che riguardo al riscaldamento globale: “non c’è dubbio che il rischio è molto alto e possiamo andare incontro a conseguenze anche molto dannose e, sia pure con bassa probabilità, perfino catastrofiche” perciò la riduzione delle emissioni di gas serra avrebbe “un costo per la società minore di quello dei danni climatici qualora la società non faccia nulla”.

Luca Mercalli

venerdì 24 agosto 2012

La testa nella sabbia: credere solo a chi è d'accordo con te






Pochi giorni fa, "La Stampa" ha pubblicato un pezzo di Vaclav Klaus il cui contenito si può riassumere in due righe come: "Io al cambiamento climatico non ci credo e solo quelli che sono d'accordo con me sono persone serie. Tutti gli altri sono dei fanatici pseudo-religiosi". Di fronte a un atteggiamento del genere da parte te di uno che non ha qualifiche di nessun tipo in scienza del clima, ti cadono le braccia e ti viene voglia di lasciar perdere. Tuttavia, Sandro Federici, esperto di mitigazione climatica nel settore agro-forestale , prova a rispondere riga per riga alle sciocchezze dell'articolo con una lettera al direttore de "La Stampa".



From: Sandro Federici
Date: 2012/8/21
Subject: Cambiamenti Climatici
To: mario.calabresi@lastampa.it


Egregio Direttore,

ho appena terminato di leggere l'articolo di Vaclav Klaus sul riscaldamento globale. Anzi sulla "dottrina del cambiamento climatico che minaccia la prosperita' della nostra societa".

Tale scritto mi ricorda letteratura di regime dove a prescindere dalle evidenze si esprimono opinioni basate a volte sull'ignoranza a volte sullo scientifico uso di argomenti che facciano presa sull'ignoranza del lettore. Mi rendo conto della necessita' di garantire liberta' di opinione a tutti ma le opinioni del sig Vaclav Klaus meritano una risposta per garantire, a sua volta, il diritto dei lettori di essere informati correttamente.

A questo link  http://www.giss.nasa.gov/research/news/20120806/) trova informazioni che chiariscono che quanto stiamo vivendo e' un profondo cambiamento del clima che sta determinando oltre che un riscaldamento globale una variazione della frequenza e dell'ampiezza degli eventi estremi. Per il nostro Paese le conseguenze sono estati calde e siccitose ed autunni molto pivosi (con conseguenti alluvioni).

Sul fatto che il cambiamento climatico sia conseguenza dell'alterata composizione chimica dell'atmosfera, dovuta all'immissione di gas ad effetto serra quale conseguenza delle attivita' umane, e di conseguenza delle sue qualita' fisiche c'e' totale congruenza di vedute per circa il 99.9% del mondo della scienza. In Italia c'e' un sito web http://www.climalteranti.it/ che si occupa di cio'.

Sul fatto che i costi dei cambiamenti climatici siano gia' ad oggi alti e' facile dimostrarlo. Si leggano i bollettini del costo delle alluvioni dello scorso autunno (e si preventivino quelli delle alluvioni di questo autunno) e si quantifichino i danni all'agricoltura di questa estate infuocata; ed i costi, anche energetici, delle misure che ognuno di noi sta prendendo per sfuggire al calore.
 Per non parlare dei costi che la siccita' (http://droughtmonitor.unl.edu/) impone agli USA e che se il Mississippi dovesse chiudere esploderebbero considerando che il 60% dei cereali, il 20% del petrolio e del carbone americani su quel fiume vengono trasportati (sempre che si trovi un sufficiente numero di trucks per movimentarle). http://usnews.nbcnews.com/_news/2012/08/15/13295072-drought-sends-mississippi-into-uncharted-territory?lite

Sui danni futuri, e' facile prevedere che un intensificazione nella freuenza, nell'intensita' e nella durata degli eventi estremi aumentera' esponenzialmente i costi. Costi molto piu' grandi di quelli necessari per decarbonificare oggi la nostra economia. Si veda ad esempio la Stern Review on the economics of climate change (allego l'executive summary).
Costi comunque che determinerebbero anche risposte di altro genere, essendo troppo costosi o non essendo l'economia in grado di affrontarli; si veda ad esempio questo articolo http://grist.org/climate-policy/2011-03-10-nicholas-stern-climate-inaction-risks-new-world-war/ o il piu' esplicito http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2011/may/20/climate-change-climate-change-scepticism che lega la sicurezza nazionale al cambio climatico.

Se si considera poi che la vera unica ricchezza del nostro Paese e' ed e' stato il clima, si vede che l'Italia ha molto piu' da perdere di altri da un cambiamento del clima. Dovrebbe quindi essere una delle piu' attive nel combattere i cambiamenti climatici, ma cosi' non e'. Sarebbe meritorio se il suo giornale volesse impegnarsi in una simile battaglia.

Cordiali Saluti


Sandro Federici

giovedì 23 agosto 2012

Non si contratta lo spread con la natura!

di LUCA MERCALLI (da "La Stampa")

Ad aprile è stato inserito nella Costituzione italiana il pareggio di bilancio, ovviamente riferito al denaro. Ma c’è un bilancio estremamente più importante per la nostra vita. Vita che prima di essere soggetta ai capricci dell’economia è ferreamente dominata da flussi di energia e materia: è quello delle valute «fisiche» disponibili sul pianeta Terra. Un dato che, per quanto denso di conseguenze per il futuro dell’Umanità, nessuno considera strategico, né lo si inserisce nelle Costituzioni, salvo forse che in quella dell’Ecuador. In sostanza, non si possono prelevare dal conto terrestre più risorse di quante i sistemi naturali siano in grado di rigenerare né immettere rifiuti e inquinanti più di quanto la biosfera sia in grado di metabolizzare.

L’Overshoot Day di quest’anno, annunciato ieri, definisce la data nella quale il nostro conto corrente con l’ambiente è andato in rosso. Abbiamo speso tutti gli interessi in questi primi 234 giorni dell’anno, e da oggi al 31 dicembre dilapideremo una parte del capitale, con conseguenze talora irreversibili, come il riscaldamento globale o l’estinzione di specie viventi.

Il pareggio di bilancio mondiale è stato rispettato più o meno fino alla metà degli Anni 70, quando l’umanità contava 3,5 miliardi di individui. Oggi siamo 7 miliardi, consumiamo e inquiniamo come non mai e preleviamo l’equivalente di una terra e mezza. La biosfera è un sistema resiliente, e per brevi periodi può sopportare uno stress senza collassare, a patto che si rientri nei limiti imposti dalle leggi universali che governano i cicli biogeochimici, il clima, la riproduzione della fauna ittica, la rigenerazione delle foreste. Ma, come accade a un motore lanciato a folle corsa, quando la lancetta del contagiri entra in zona rossa, per non sbiellare bisogna ridurre la velocità.

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martedì 21 agosto 2012

Gli esseri umani sono troppo insignificanti per condizionare il clima?

Da Cassandra's Legacy. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Gli esseri umani sono davvero così piccoli ed insignificanti che le loro attività non hanno alcuna influenza sul clima? Alcune persone lo sostengono ma, se siete anche voi di questa opinione, dovreste cambiare idea una volta che avrete letto quanto le attività umane influenzino la crosta terrestre. Per esempio, la quantità di roccia e suolo che movimentiamo ogni anno potrebbe riempire il Gran Canyon in circa 50 anni.



Estratto da un libro in preparazione di Ugo Bardi - titolo provvisorio "risorse minerali e il futuro dell'uomo”

Le quantità di minerali estratte oggigiorno sono immense e diventano anche più grandi se consideriamo come “estrazione” anche l'uso del suolo fertile in agricoltura, suolo che viene consumato dal processo chiamato erosione. E' stato stimato che vengono erosi e scaricati negli oceani circa 4 miliardi di tonnellate di suolo agricolo ogni anno solo negli Stati Uniti (1). In tutto il mondo, la quantità totale è stata stimata in 75 miliardi di tonnellate all'anno da Pimentel et al. (2) e in 120 miliardi di tonnellate da Hooke (3). Queste quantità fanno sembrare insignificanti quelle create dall'erosione naturale, almeno di un ordine di grandezza più piccole.

A questa quantità collegata all'agricoltura dobbiamo aggiungere la quantità di roccia e sabbia spostata dall'industria dell'edilizia. Dai dati del USGS (United Staes Geological Survey), scopriamo che la produzione mondiale di sabbia e ghiaia potrebbe superare i 15 miliardi di tonnellate all'anno. La produzione mondiale complessiva di cemento nel 2008 è stata di 2,8 miliardi di tonnellate. La Cina, da sola, ne produce più di un miliardo di tonnellate all'anno, che sono circa 450 kg a persona di media. Secondo Bruce Wilkinson (4), possiamo visualizzare la quantità totale di roccia e suolo movimentati dagli esseri umani annualmente considerando che queste quantità sono “circa 18.000 volte quella dell'eruzione del Krakatoa, in Indonesia, nel 1883, circa 500 volte il volume del Bishop Tuff in California e circa due volte il volume del Monte Fuji in Giappone. A questi ritmi, questa quantità di materiali riempirebbe il Grand Canyon in Arizona in circa 50 anni”.


1) Azimut, 29 giugno 2011, John Baez http://johncarlosbaez.wordpress.com/2011/06/27/this-weeks-finds-week-315/ (Visitato il 12 agosto 2011)
2) David Pimentel; C. Harvey; P. Resosudarmo; K. Sinclair; D. Kurz; M. McNair; S. Crist;. L. Shpritz; L. Fitton; R. Saffouri; R. Blair. 1995, Science, New Series, Vol. 267, p. 1117-1123
3) Hooke, R.L.B., 2000, On the history of humans as geomorphic agents, Geology, v. 28 p 843-846
4) Wilkinson, Bruce, 2005, “Humans as geologic agents: a deep-time perspective”, Geology, 22 pp 161-164


domenica 19 agosto 2012

Una recensione di Giorgio Nebbia de "I limiti alla crescita rivisitati"

Ugo Bardi, “The Limits to Growth Revisited”, Springer, New York, 2011





Di Giorgio Nebbia

Due vite parallele a migliaia di chilometri di distanza. Un ingegnere nordamericano, Jay Forrester (nato nel 1918), specializzato nella progettazione dei calcolatori elettronici, docente nel prestigioso Massachusetts Institute of Technology, stava utilizzando, già negli annicinquanta, i calcolatori per risolvere dei problemi di previsione. Per esempio come cresce la produzione industriale in seguito alla crescita o alla diminuzione dei soldi disponibili; come la mobilità in una città è influenzata dalla crescita del numero degli abitanti, delle automobili o dei mezzi di trasporto pubblico. Forrester aveva chiamato “dinamica dei sistemi” lo studio dei rapporti fra fenomeni il cui cambiamento può essere previsto mediante equazioni matematiche differenziali. Per inciso, equazioni simili erano già state usate trent’anni prima, per descrivere come aumentano le popolazioni animali, dagli studiosi di ecologia, un esempio della unità dei fenomeni dell’economia e dell’ecologia. Forrester aveva pubblicato libri di grande successo come “Industrial dynamics” (1961) e “Urban dynamics” (1969).

Dall’altra parte del continente americano, in Argentina, un economista italiano, Aurelio Peccei (1908-1984), alto dirigente della Fiat e di imprese impegnate nella progettazione e costruzione di opere pubbliche nei paesi emergenti, aveva cominciato a chiedersi quale avrebbe potuto essere il futuro dell’umanità davanti ad una popolazione rapidamente crescente, ad una crescente richiesta di beni materiali e di risorse materiali; negli anni sessanta si cominciavano infatti a vedere i segni di quella che sarebbe stata chiamata la crisi ecologica.

L’incontro fra Peccei e Forrester, nel 1968, è stata l’occasione per progettare una ricerca sul futuro dell’umanità. Peccei aveva creato da poco il “Club di Roma”, un circolo internazionale di intellettuali attenti al futuro, che dette incarico a Forrester di analizzare il sistema planetario globale con le sue tecniche. Il risultato fu rivoluzionario. Nel 1971, quarant’anni fa, Forrester e i suoi collaboratori, i giovani coniugi Meadows, furono in grado di presentare al Club di Roma i risultati di uno studio che analizzava le conseguenze di una continua crescita della popolazione mondiale. Lo studio non faceva previsioni, ma indicava che la crescita della popolazione avrebbe richiesto una crescita della produzione industriale, della richiesta di prodotti agricoli alimentari e che di conseguenza si sarebbe verificata una crescita dell’inquinamento planetario e un impoverimento delle riserve di
risorse non rinnovabili come petrolio, carbone, minerali, eccetera.

Le anticipazioni dello studio cominciarono ad arrivare anche in Italia; furono inviate nel 1971 da Aurelio Peccei, presidente del Club di Roma, al Senato dove era in corso una indagine sui problemi dell’ecologia; furono oggetto di uno speciale fascicolo della rivista inglese “Ecologist”, subito tradotto in italiano da Laterza col titolo: ”La morte ecologica”, e alla fine divennero un agile libretto, pubblicato in molte lingue contemporaneamente, intitolato “I limiti alla crescita” (ma l’edizione italiana fu pubblicata con un titolo ingannevole, “I limiti dello sviluppo”). Nel libro erano contenuti alcuni grafici, ottenuti con i calcolatori elettronici, da cui appariva che se fosse continuata la crescita della popolazione mondiale ai ritmi che nel 1970 erano di
80 milioni di persone all’anno, un giorno non ci sarebbero state risorse e materie prime sufficienti e sarebbero scoppiati conflitti per la loro conquista, la scarsità di cibo avrebbe diffuso epidemie e morti per fame, l’inquinamento avrebbe diffuso malattie e le condizioni di vita della popolazione mondiale sarebbero peggiorate al punto da provocare un forzato declino del numero dei terrestri. Se ciò fosse avvenuto, la minore popolazione restante avrebbe potuto far fronte ai problemi di scarsità e di inquinamento. Altrimenti la crescita della popolazione e della produzione industriale e della pressione sull’ambiente sarebbero diventate un giorno insostenibili.

Il libro fu venduto nel mondo a milioni di copie, provocò innumerevoli dibattiti e critiche. Fu visto con interesse dal nascente movimento ambientalista (stiamo parlando del 1971-72); il mondo cattolico intravvide dietro le curve tracciate dai calcolatori lo spettro del detestato Thomas Malthus (1766-1843), l’economista inglese che per primo, nel 1799, aveva auspicato un controllo delle nascite; i comunisti sostennero che in una società socialista la pianificazione avrebbe risolto tutti i problemi. Ma soprattutto si arrabbiarono gli economisti che furono spietati nella critica di un testo che metteva in discussione il mito fondamentale della scienza economica, quello della crescita. Dopo pochi anni, peraltro, l’interesse per i “Limiti alla crescita” declinò; due aggiornamenti a venti e trenta anni dalla prima edizione passarono quasi inosservati. Finalmente, proprio in questo periodo di disordine economico mondiale, il prof. Ugo Bardi dell’Università di Firenze ha ripreso in mano lo studio del Club di Roma, analizzandolo alla luce di quanto è avvenuto negli ultimi decenni in un libro, pubblicato nel 2011 dall’editore internazionale Springer, col
titolo, tradotto in italiano: “I limiti alla crescita rivisitati”.

Il grande interesse del libro sta nella ricostruzione storica degli eventi che hanno portato alla pubblicazione, quarant’anni fa, del libro del Club di Roma, nella rassegna delle lodi e critiche che il libro ha suscitato nel mondo. Ma l’importanza del libro di Bardi sta soprattutto nell’esame di come sono cambiate, negli ultimi quarant’anni, le variabili allora considerate: il numero dei terrestri e le condizioni di benessere, la produzione di merci industriali e agricole, la disponibilità di risorse non rinnovabili e l’inquinamento ambientale. Purtroppo, al di là dei numeri assoluti, molte tendenze indicate nel libro si sono verificate: il prof. Bardi è il presidente della sezione italiana di una associazione internazionale per lo studio del “picco” del petrolio (ASPO) ch eanalizza come nel mondo, a mano a mano che “cresce” la domanda di una risorse non rinnovabile (sia petrolio o zolfo, litio o la stessa fertilità del suolo) l’entità delle riserve residue diminuisce e crescono le tensioni e le guerre per conquistare quanto resta: nello stesso tempo cresce l’inquinamento ambientale e crescono i danni alla salute e al benessere delle persone sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri.

Il messaggio che emerge da una rilettura del libro sui “limiti alla crescita” non è di
disperazione; niente a che fare con possibili “limiti dello sviluppo” umano, che dipende dalla libertà, dalle condizioni igieniche e alimentari, dalle conoscenze, e che può benissimo crescere anche in un mondo con meno e differenti merci e consumi e minore sfruttamento della natura. Il libro anzi stimolava a fare, come diceva Croce, “delle difficoltà sgabello” a condizione di riconoscere che la “crescita”, quel nome magico, che canoro discende dalle bocche di economisti, uomini politici e imprenditori, dipende dalle cose materiali, e che la crescita della produzione delle merci (siano acciaio per le navi o cemento per gli edifici, o occhiali, o conserva di pomodoro, o divani, o telefoni cellulari) comporta una inevitabile diminuzione delle risorse disponibili per le generazioni future e una inevitabile crescita della quantità di gas e di sostanze che inquinano l’aria e i fiumi e il suolo. A questa realtà, alla necessità di scegliere, sotto questi vincoli naturali, che cosa produrre, la rilettura dei “Limiti alla crescita”, offerta dal libro di Bardi, richiama coloro che devono prendere delle decisioni per il futuro dei singoli paesi e dell’intera comunità umana. Non a caso i rapporti risorse-merci-ambiente (per citare il titolo di un dimenticato libro del 1966) sono l’oggetto degli studi universitari di Merceologia; non a caso il prof. Bardi è un chimico, docente delle disciplina che, per eccellenza, insegnano a fare i conti con i chili di materia e i chilowattora di energia.