martedì 13 luglio 2010

Morire di Caldo


Questa immagine (da ScienceDaily) riassume i risultati di uno studio recente pubblicato sul PNAS. Sono le temperature che potrebbe raggiungere il pianeta in certe ipotesi - estreme ma non impossibili - se il riscaldamento globale continua. Le temperature sono "wet bulb", "a bulbo umido." Per un essere umano, è impossibile vivere a lungo a temperature a bulbo umido superiori a circa 36 °C. In questo scenario la maggior parte del pianeta diventerebbe inabitabile. 


La cosiddetta "temperatura di bulbo umido" si misura con un termometro avvolto in una garza bagnata e sottoposto a un flusso d'aria. E' una indicazione di quanto una condizione di calore e umidità è accettabile per gli esseri umani. Il corpo umano ha una temperatura interna di circa 37 °C, quella della pelle è un paio di gradi inferiore. Sudando, si possono sopportare temperature anche alcuni gradi più alte di 36 °C, ma solo se l'aria è secca. Ma se la temperatura di bulbo umido è di 36 °C - o più alta - sudare non serve. E' una questione di termodinamica: non è possibile raffreddare un corpo per evaporazione a temperature più basse di quelle di bulbo umido. Più di qualche ora in quelle condizioni e non c'è scampo. E' la morte per ipertermia.

Oggi, in nessun posto del mondo si arriva - normalmente - a temperature di bulbo umido tali da uccidere. Questa immagine è presa dall'articolo di Sherwood e Huber citato prima e mostra i massimi di temperatura di bulbo umido misurati oggi: 



Come vedete, i massimi sono intorno ai 30-31 °C di bulbo umido nell'India del Nord, in certe aree dell'Indocina, dell'Amazzonia e dell'Africa centrale. Vivere in queste zone in estate è possibile, anche se non certamente confortevole. In contrasto, i valori delle temperature di bulbo umido sono molto più bassi in luoghi caldi ma secchi, come il deserto del Sahara o l'Arabia Saudita.

La domanda che si sono posti Sherwood e Huber nell'articolo citato è se il riscaldamento globale potrebbe portare le temperature planetarie a livelli tali da rendere invivibile una frazione importante della superficie. Per rispondere, non basta parlare di "aumento medio", dato che sappiamo che il riscaldamento globale si manifesta soprattutto ad alte latitudini. Occorre fare una completa simulazione, cosa che gli autori hanno fatto. Questi sono i loro risultati principali:

"Concludiamo che un riscaldamento globale di circa 7 °C creerebbe piccole zone dove la dissipazione del calore metabolico diventerebbe impossibile per la prima volta, mettendo in dubbio la possibilità di sopravvivenza per gli esseri umani. Un riscaldamento di 11-12 °C espanderebbe queste zone a comprendere la maggior parte della popolazione umana di oggi."

Il risultato per un riscaldamento di 11-12 °C è mostrato graficamente nella figura all'inizio di questo post, che comunque ripeto qui per chiarezza:


In questa simulazione, tutta la fascia tropicale del pianeta è inabitabile per gli esseri umani, anche se non necessariamente per tutti i mammiferi, molti dei quali hanno temperature corporee più altre delle nostre.

Quali concentrazioni di CO2 occorrerebbero per arrivare a queste temperature? Questo lo discute Stuart Staniford nel suo blog "Early Warning". Si stima oggi un fattore di circa 3 °C di aumento medio delle temperature globali per ogni raddoppio della concentrazione di CO2 a partire dalla concentrazione pre-industriale di 280 ppm. Questo vuol dire che 2 raddoppi, ovvero circa 1000 ppm di CO2, ci porterebbero alle condizioni di quel mondo inabitabile di cui ci parlano Sherwood e Huber.

Secondo gli scenari dell'ultimo rapporto IPCC, sarebbe possibile arrivare a 1000 ppm di CO2 verso la fine del secolo XXI. In questo caso, ci troveremmo vicini alla condizione simulata da Sherwood e Huber. E' improbabile che continueremo a bruciare carbone fino a quel momento, ma va notato che non è strettamente necessario. L'aumento di temperatura di cui stiamo parlando potrebbe essere causato da altri gas serra, come il metano che potrebbero essere emessi all'improvviso e in grande quantità se superiamo il "tipping point" della decomposizione degli idrati. Neppure possiamo escludere che il fattore di sensibilità dell'effetto della CO2 sia sottostimato. Potrebbe essere più alto di 3 °C per raddoppiamento. Infine, notiamo che stiamo parlando di eventi fisicamente possibili, dato che sono già avvenuti. Temperature come quelle di cui stiamo parlando c'erano nel  Paleocene e nel cosiddetto "PETM" (Paleocene-Eocene thermal maximum) che si è verificato circa 55 milioni di anni fa.

Insomma, non si può escludere che il pianeta diventi in gran parte inabitabile per gli esseri umani in qualche secolo, o forse anche prima della fine di questo secolo. I pochi sopravvissuti - posto che ce ne fossero - potrebbero soltanto vivere in zone vicine ai circoli polari; Siberia, Groenlandia, Canada e - forse - Antartide. Tutto questo sa di film dell'orrore o di catastrofismo super-spinto. Vero, però non è catastrofismo quantificare anche l'ipotesi peggiore; e questa certamente lo è.

D'altra parte, non c'è nemmeno bisogno di arrivare alle condizioni estreme considerate da Sherwood e Huber per trovare condizioni di temperatura tali da rendere difficile la vita umana; anche se non immediatamente mortale. Uno dei problemi è che abbiamo costruito gran parte della nostra edilizia residenziale senza minimamente preoccuparci del cambiamento climatico: moltissimi appartamenti moderni in Italia e nel sud-Europa in generale sono invivibili in estate senza l'aria condizionata. E se c'è un black out e l'aria condizionata manca per qualche giorno? E se uno non se la può permettere? Beh, allora è male per chi è anziano o non è in buona salute; di caldo si può benissimo morire. Succede, ed è già successo, per esempio, con la grande ondata di calore del 2003 che causò almeno 30.000 morti in Europa.

Certo, non possiamo attribuire uno specifico evento come l'ondata di calore del 2003 al riscaldamento globale ma, con il graduale aumento delle temperature, le ondate di calore sono destinate a diventare sempre più frequenti e più intense. E allora non ci resta che l'aria condizionata per proteggerci. Peccato che per avere aria condizionata bisogna bruciare petrolio e che quindi si contribuisce al riscaldamento globale......


Nota: l'articolo di Sherwood e Huber è disponibile soltanto a pagamento. Credo però che sia corretto scambiarselo nell'ambito del "peer to peer". Chi non ha un'abbonamento a ScienceDirect e ne vuole una copia, mi scriva pure (ugo.bardichiocciolaunifi.it) che glie la spedisco.

sabato 10 luglio 2010

Clima e parrucconi


Di Ugo Bardi



Questa vignetta è abbastanza nota e, ovviamente, va intesa come uno scherzo. Però viene anche da domandarsi se non ci sia qualcosa di vero. Non potrebbe essere che il cambiamento climatico influisca sul modo di vestire della gente?

L'idea è interessante e possiamo cominciare a esplorarla partendo dai dati che abbiamo sul clima del passato. Qui di seguito vedete un'immagine presa dall'ultimo rapporto dell'IPCC (riprodotta su "skeptical science") che riassume i dati paleoclimatici. E' il famoso "hockey stick," la "mazza da hockey" che ha dato origine a tante polemiche ma che è risultato alla fine essere sostanzialmente corretto.



Nel grafico, si intravvedono i due periodi storici noti come "il periodo caldo medievale" con un massimo verso il 1000-1100 e la "piccola era glaciale" con un minimo di temperature, grosso modo, verso il 1600-1700. Sono entrambi effetti piuttosto deboli, qualche decimo di grado in più o in meno. Non c'è dubbio che la "piccola era glaciale" sia esistita; un po' meno chiaro il periodo caldo medioevale, ma qualcosa c'è.
Allora, cosa possiamo dire sulla moda dei tempi? Come si vestiva la gente al tempo della "piccola era glaciale" del "periodo caldo medievale"?

Se cominciamo dalla piccola era glaciale, sembra che un effetto ci sia stato per davvero. Il '600 è stato il tempo delle parrucche per uomini e per donne. Guardate questa immagine che arriva da wikipedia.



Sono parrucche seicentesche, veramente molto esagerate ma che probabilmente davano un certo "status" a chi le indossava. Nel '700, le parrucche si erano molto ridotte in dimensioni e peso, ma rimanevano comunque in uso. (immagine da wikipedia, 1784)





Ora le parrucche sicuramente tenevano bene al caldo la testa di chi le portava e non è fuori luogo dire che il raffreddamento dei tempi ne aveva favorito la diffusione. Notate anche, nel quadro del '600, che razza di palandrani indossa la gente nel quadro. Evidentemente, erano ben paludati contro il freddo.

Nell'800, le parrucche sono gradualmente sparite. Ci sono stati, evidentemente, dei fattori sociali ed economici, ma la sparizione coincide bene con il graduale aumento delle temperature.

E' molto più difficile, invece, trovare un effetto del genere per il periodo caldo medievale. Un problema è che non ci sono tante immagini di quel tempo. Spigolando qua e là, ho trovato questa che viene dalla Germania e risale probabilmente al secolo XII (da wikipedia)


Non è che siano tutti in costume da bagno ma, perlomeno, nessuno sembra che portasse parrucconi o palandrane. In questa immagine - come in molte altre del tempo - vediamo gente vestita con tuniche corte, mantelli non competamente coprenti, niente cappelli o capelli molto lunghi. E' una debole evidenza che questo modo di vestire sia il risultato di un clima più caldo; ma perlomeno rinforza l'idea che le parrucche del '600 e del '700 siano state il risultato di un raffreddamento.


Ho anche domandato anche alla dott.sa Naomi Kato, che è una specialista di storia dell'abbigliamento, se c'era qualche evidenza di questi fenomeni in Giappone. Mi ha detto che non le risulta che in Giappone la gente si vestisse in modo più leggero durante il periodo caldo medievale ma che, si, durante la "piccola era glaciale", in Giappone erano venuti di moda dei pesanti vestiti di cotone che prima non usavano. Anche questo sembra confermare i dati sperimentali.

Tutto questo non basta certamente a fare un'esame completo della storia climatica dell'ultimo millennio, ma ci da una certa idea che i risultati degli esami dei "proxy" hanno una logica. Le variazioni climatiche del passato  - molto probabilmente - si sono riflesse sul modo di vestire.

Una volta entrati in questa logica, possiamo divertirci a correlare la moda del ventesimo secolo con l'andamento delle temperature. Ecco i dati aggiornati (da James Hansen)


Anche qui, le correlazioni sono qualitative, ma ci sono. Per esempio, fino agli anni '20, le donne Europee portavano la gonna lunga fino ai piedi. La moda delle gonne corte è arrivata in corrispondenza al riscaldamento cominciato - appunto - negli anni 20-30.

Dalle due immagini che seguono, sembra proprio che l'impennata delle temperature degli anni '20 si sia fatta sentire sulla moda femminile







Notate poi come - a partire dagli anni '60 - uomini e donne hanno smesso di portare cappelli; anche questo sembra corrispondere a una fase di riscaldamento, quella tuttora in corso.

Oggi, con le temperature più alte mai registrate nell'ultimo millennio, il modo di vestire di uomini e donne si è molto semplificato. Basta confrontare come era vestita vestita normalmente la gente nell'800 per vedere che un grado in più di differenza ha avuto i suoi effetti. Questo esempio è del 1823 (link). Guardate che razza di palandrana porta questo qui.



Oggi vanno più di moda cose di questo genere (da Wikipedia):




Certo, da qui a dire che il tanga sulle spiagge è il risultato del riscaldamento globale, ce ne passa un bel po'. Però, alla fine dei conti, qualcosa di vero c'è!


martedì 6 luglio 2010

Se siamo fortunati.....

Il cambiamento climatico è un problema di sicurezza nazionale superiore a tutti gli altri, per tutte le nazioni, e lo sarà per parecchi secoli. Ovvero, se siamo fortunati.

Gen. Gordon Sullivan
Ex- capo di stato maggiore dell'esercito degli Stati Uniti

Da "Climate Crook of the Week"

sabato 3 luglio 2010

I soliti catastrofisti



Quello che vedete qui sopra è un grafico storico della concentrazione atmosferica del metano (fonte). A un certo punto, sembrava che si volesse stabilizzare, ma negli ultimi anni ha preso una netta tendenza a risalire. Il metano, a differenza del CO2, non viene generato dalla combustione dei fossili, per cui questo aumento potrebbe essere un effetto di ritorno (un "feedback") del riscaldamento planetario in corso. Non si può escludere che sia un'indicazione che la "bomba a clatrati" sta cominciando a esplodere. Ovvero, l'aumento potrebbe indicare che lo scioglimento dei ghiacci sta portando al rilascio di grandi quantità di metano intrappolato in forma di idrati (o clatrati). Il metano è un gas serra molto più potente del CO2 e questo rilascio potrebbe auto-intensificarsi, portando a un riscaldamento globale enormemente più rapido e disastroso di qualsiasi cosa che i modelli abbiano previsto finora. (vedi qui, qui e qui).

Ovviamente, soltanto i soliti catastrofisti potrebbero pensare a una cosa del genere.



Dal blog "The Cost of Energy"  di "Lou" (traduzione di Ugo Bardi)

Da un paio di anni sto facendo un esperimento informale. Ho chiesto a persone che conosco personalmente, o che sono "amici elettronici" dove pensano che siamo diretti sui fronti del clima e dell'energia. Ho scelto soltanto persone che, per quello che ne posso dire, sanno veramente qualcosa a proposito di uno o entrambe gli argomenti e sono qualcosa di più di qualcuno che dice la sua online. Ho cercato persone con una rosa di vedute piuttosto ampia e non ho selezionato gente che la pensa come me. Le regole di base erano che io non avrei mai rivelato quello che una certa persona aveva detto, indipendentemente dall'attribuzione, o identificato nessuna delle persone alle quali avevo fatto le domande.

Ho trovato sorprendenti i risultati. Solo in un caso le vere impressioni della persona corrispondevano alle sue espressioni pubbliche, ma in questo caso queste erano molto pessimistiche. In tutti gli altri casi la risposta è stata da un po' più pessimistica a significativamente più pessimistica di quanto la persona non apparisse pubblicamente. Mentre alcune delle persone alle quali ho chiesto sarebbero riconoscibili ai lettori di questo sito, nessuno di loro era un politico o uno scienziato di altro profilo (mi piacerebbe enormemente avere la possibilità di una conversazione privata col presidente Obama, alcune figure chiave del Senato degli Stati Uniti, climatologi, eccetera, e sentire che cosa loro pensano veramente di queste cose dopo che si sono surbiti un cocktail robusto o altre forme potenti di solventi di inibizioni. Chiunque abbia le connessioni che potrebbere fare avvenire una cosa del genere, mi mandi un e-mail)


Non voglio saltare a nessuna conclusione sul fatto che "gli esperti sanno che siamo fottuti e hanno paura di dirlo" sulla base di un campione così piccolo e decisamente non scientifico. Ma mi fa impressione pensare a quanto ci stiamo sforzando per evitare di arrivare a certe conclusioni ovvie e terrificanti.

lunedì 28 giugno 2010

Il pianeta e i nostri corpi.


Dei vari guai che ci affliggono, uno è l'epidemia di obesità che colpisce in particolare gli Stati Uniti. E' un vero disastro umano e economico; una ragione di sofferenza, malattie e morte precoce per decine - forse centinaia - di milioni di persone. Ne sappiamo anche le cause e i rimedi; eppure, non riusciamo a metterli in pratica. Il nostro corpo è un po' come l'intero pianeta, non riusciamo a gestire bene nessuna delle due cose.


Se vivi negli Stati Uniti per un po', non puoi fare a meno di notare come sia ossessiva e onnipresente la pubblicità dei fast food. C'è uno spot che mi è rimasto in mente; ancora dopo parecchi anni. Era la storia di una bambina che tornava a casa dopo essere stata in un campo scout o qualcosa del genere. Si intuiva che al campo le avevano dato da mangiare una sana dieta bilanciata, poveretta, dato che, in macchina con il babbo e la mamma, guardava con aria famelica tutti i ristoranti di fast food che incrociavano. Il babbo, diabolico, le faceva l'occhiolino e le diceva "niente patatine fritte al campo, vero?" e poi si fermava per portarla, tutta contenta, a mangiarsi una bella porzione di roba fritta e inzuppata nel ketchup e nella maionese.

E così quella bambina, con gli anni, sarebbe diventata una gran palla di lardo, anche se questo, ovviamente, non c'era nello spot. Infatti, un'altra cosa che non potete fare a meno di notare negli Stati Uniti è l'epidemia di obesità che pervade la nazione. E' una cosa che non si può descrivere; bisogna vederla per capirla. Qui da noi, per fortuna, le cose vanno meglio, ma il problema esiste.


Sappiamo cosa dovremmo fare per evitare questi problemi: dovremmo fare una dieta variata che comprenda giuste quantità di proteine, carboidrati e grassi. Ma, nella pratica, la dieta americana include quantità veramente eccessive di "junk food" ovvero "cibo spazzatura:" merendine, snack, panini, patatine fritte, bibite sintetiche, caramelle, dolci, biscotti, eccetera. Questo è il cibo che si mangia tipicamente nei ristoranti di fast food, ma è comunque una caratteristica della cucina moderna, soprattutto in termini di eccesso di carboidrati, anche di quella casalinga. I risultati si vedono, purtroppo.

Come è stato possibile ridursi in queste condizioni? In effetti, è stato il risultato inevitabile della nostra struttura economica e decisionale.

La prima causa dell'epidemia di obesità è la politica dell'industria alimentare. Come per tutte le industrie, la salute della gente non è cosa di cui loro si debbano occupare; il loro scopo è vendere i loro prodotti. E, per vendere, bisogna fare pubblicità. Avvertire la gente del danno che viene da una dieta scorretta è compito di altre entità, come la FDA (Food and Drugs Administration). Così, da una parte vediamo il bombardamento mediatico ossessivo che invita a mangiare cibo spazzatura; dall'altra comunicati che invitano a mangiare cibo sano. Ben pochi sono i consumatori che sono in grado di valutare correttamente i messaggi contraddittori che ricevono. E' una forma di vera schizofrenia sociale e specialmente i poveri non hanno gli strumenti culturali per riuscirci e sono i più colpiti dall'epidemia di obesità.

C'è poi un altro effetto perverso che favorisce il cibo spazzatura: il suo costo. Il cibo ad alto contenuto di carboidrati (merendine, bibite, patatine, ecc.) è quello che fornisce la maggior quantità di calorie a parità di costo. In confronto a una merendina o alle patatine inzuppate nel ketchup, una quantità equivalente di calorie in forma di spinaci o broccoli è molto più costosa. Così, quello che succede è che la gente ottimizza il valore del dollaro in termini di calorie alimentari, senza preoccuparsi del danno che si procura a lungo andare in termini di obesità e di altri problemi di salute.

Questi fattori sociali ed economici che portano la gente all'obesità sono esattamente gli stessi che ci portano a surriscaldare il pianeta. L'industria dei fossili gioca lo stesso ruolo dell'industria alimentare nel promuovere aggressivamente i propri prodotti, denigrando il più possibile le alternative, come pure chi si preoccupa del riscaldamento globale. Lo scopo dell'industria dei fossili è di vendere i propri prodotti, non di preoccuparsi del surriscaldamento del pianeta. Così, anche qui ci troviamo di fronte a una forma di schizofrenia sociale in cui il pubblico è bombardato di messaggi contraddittori senza avere gli strumenti culturali per discernere

Poi, avere energia sana - così come mangiare sano - costa ancora abbastanza caro. Così, anche per quanto riguarda l'energia, tendiamo a ottimizzare il valore del dollaro (o dell'euro) in termini di chilowattora prodotti. Quindi, continuiamo a usare i combustibili fossili senza preoccuparci dei danni che ci procuriamo a lungo andare. E' una specie di epidemia planetaria che non riusciamo a controllare.

Per evitare questi danni, bisognerebbe cominciare a pensare a lungo termine. Dovremmo evitare la trappola mortale del profitto immediato e fornire al pubblico delle informazioni chiare sui danni di certi comportamenti. Ma non lo stiamo facendo. L'epidemia di obesità continua, come pure continua il riscaldamento globale.


(Per fortuna, l'epidemia di obesità sembra mostrare qualche segno di rallentamento negli Stati Uniti. Magari succedesse lo stesso per il riscaldamento globale!)

domenica 27 giugno 2010

Chiodo non scaccia chiodo: il picco non ci salva dal riscaldamento globale



Picco del petrolio o riscaldamento globale, qual'è il problema più importante? Difficile dirlo, ma una cosa è sicura; non possiamo aspettarci di risolvere un problema con un altro. Ovvero: chiodo non scaccia chiodo.


Quello di Parigi, nel 2003, fu il primo convegno ASPO - l'associazione per lo studio del picco del petrolio - al quale partecipai. Erano tempi in cui tutto era ancora nuovo per me; la prima volta in cui incontrai i grandi maestri del petrolio in carne ed ossa: Jean Laherrere, Colin Campbell, Kenneth Deffeyes, Ali Morteza Samsam Bakthiari e tanti altri.

A quel convegno, non ero il solo che rimase impressionato dal messaggio di ASPO. Mi ricordo che a un certo punto qualcuno del pubblico prese la parola; evidentemente piuttosto scosso. Disse, più o meno, "non è possibile che abbiamo sprecato tanto tempo a preoccuparci del clima per poi accorgerci che il petrolio finisce e allora finisce anche il problema del riscaldamento globale".

Quel tale aveva torto marcio, come mi accorsi più tardi. Ma, in quegli anni, mi parve veramente che il picco del petrolio avesse tolto importanza al riscaldamento globale. Certo c'era stata la grande ondata di calore estivo del 2003  che provocò la morte di decine di migliaia di persone in Europa. Ma a me sembrò più che altro un evento speciale, non un sintomo di una tendenza. Gli scenari dell'IPCC indicavano un graduale riscaldamento che si stemperava all'orizzonte verso la fine del ventunesimo secolo. Invece, il picco del petrolio veniva previsto entro un decennio e il solo concetto di "picco" indicava qualcosa di drammatico, un cambiamento epocale. Sembrava veramente che fosse fuori luogo preoccuparsi di eventi lontani e poco definiti come le temperature della fine del secolo.

Eppure, via via che mi approfondivo l'argomento del petrolio, mi accorgevo che non potevo trascurare la questione del clima. Con gli anni, credo di aver capito bene come stanno le cose. Per centinaia di milioni di anni il clima è stato controllato (e tuttora lo è) dallo scambio di carbonio fra l'atmosfera e il sottosuolo. Quel carbonio che si trova sottoterra non è lì per essere bruciato da noi; è lì come risultato dei processi di controllo climatico che permettono la vita sulla terra. Tirarlo fuori, e bruciarlo è una cosa pericolosissima perchè andiamo ad alterare quei cicli che ci fanno vivere.

Messo il problema in prospettiva, mi è chiaro oggi che il riscaldamento globale non è da trascurare rispetto al picco. La fisica del riscaldamento è altrettanto chiara di quella dell'esaurimento del petrolio: come il petrolio si deve esaurire a furia di estrarlo, così il clima terrestre si deve scaldare a furia di immettere gas serra nell'atmosfera. Ma le incertezze sulle conseguenze del riscaldamento sono molto più grandi di quelle per l'esaurimento.

Del picco, in fondo, sappiamo tante cose. Tutte le previsioni che avevamo fatto nel 2003, al tempo del convegno ASPO di Parigi, si sono avverate o si stanno avverando: aumento dei prezzi petroliferi, produzione statica o in calo, recessione economica, guerre per il petrolio, crisi politica planetaria. Non sappiamo esattamente se il picco del petrolio sia già arrivato nel 2008, oppure debba ancora arrivare entro qualche anno. Ma non fa molta differenza. La strada è tracciata, sappiamo dove andiamo, sappiamo cosa dobbiamo fare: imparare a fare a meno del petrolio. Potremo riuscirci più o meno bene ma, di per se, il picco del petrolio non distruggerà la civiltà umana.

Ma per il riscaldamento globale, dove andiamo a finire, esattamente? E cosa possiamo fare nel caso si avverassero certi scenari estremi? L'IPCC parla di sei gradi in più come una possibilità reale per la fine del secolo. E' uno scenario fisicamente possibile dato che, nel remoto passato, ci sono stati periodi in cui alte concentrazioni di CO2 hanno portato a temperature del genere. Ma sei gradi in più sono sufficienti per distruggere quella cosa che si chiama "civilizzazione." Probabilmente ne bastano anche di meno per per distruggerci. Che danno ci possono fare i famosi "due gradi" in più che si cerca disperatamente di stabilire come limite massimo ammissibile? E in quanto tempo cominceremo ad avere questi danni? Chi ci dice che dovremo aspettare la fine del secolo?

Non c'è un limite preciso al danno che possiamo fare al pianeta e a noi stessi con il riscaldamento globale, e nemmeno un tempo preciso sul quale possiamo fare affidamento prima che arrivi il peggio. Questo fa paura, molta più paura di quanta non ne faccia la scarsità di petrolio.

Una cosa che abbiamo capito di recente è che il picco del petrolio non riduce le emissioni di CO2 nell'atmosfera; anzi, la ricerca disperata di "alternative" ci sta spingendo a tirar fuori combustibili "sporchi" (carbone, sabbie bituminose, eccetera) che fanno enormemente più danni. Insomma, chiodo non scaccia chiodo; il picco non ci salva dal riscaldamento.  Se non cominciamo a considerare entrambe i problemi insieme, non ci salveremo.

giovedì 24 giugno 2010

Clima: cambia il vento.

Di Ugo Bardi


I ghiacci artici sono al collasso (immagine da "the cost of energy"). Nonostante qualche patetico tentativo di nascondere la verità, la situazione sta diventando sempre più evidente; con il 2010 che si avvia a essere l'anno più caldo della storia. Questo è uno dei fattori che stanno portando alla sconfitta dell'azione propagandistica contro la scienza del clima che era cominciata l'anno scorso con il "Climategate"


L'offensiva del negazionismo climatico sta perdendo colpi. Era cominciata con grande fanfara con il furto dei dati dell'università di East Anglia, a Novembre del 2009 (il "climategate"). Con tanti soldi a disposizione, gentilmente forniti dalle Koch industries e da altre lobby dei combustibili fossili, l'onda mediatica del climategate sembrava in grado di travolgere completamente la scienza del clima. Gli scienziati erano resi oggetto di pubblico ludibrio con tecniche che ricordavano il tempo di Stalin; alcuni di loro portati vicino al suicidio. L'IPCC, criticata per ogni piccola imprecisione nei suoi rapporti, sembrava vicina a essere classificata, insieme ad Al Qaeda e il partito comunista, fra le organizzazioni da estirpare per il bene dell'umanità.

E invece, tutto sta cambiando. Il negazionismo climatico ha perso forza: a corto di argomenti, in discesa nei sondaggi, in generale difficoltà a mantenere l'offensiva. Vediamo cosa è successo ultimamente:

1. I sondaggi di opinione negli Stati Uniti indicano una chiara inversione di tendenza. Ci sono oggi molte più persone che ritengono che il riscaldamento globale esista e sia causato dall'attività umana di quante non ce ne fossero sei mesi fa, al momento di picco dell'offensiva del climategate. Si sa che i sondaggi vanno su e giù, ma questa è una forte indicazione che la strategia del climategate sta perdendo forza

2. I blog dei negazionisti climatici principali (climateaudit, wattsupwiththat, e altri) stanno perdendo lettori. Anche qui, si sa che i rating dei blog vanno su e giù; ma dopo il "picco" di attenzione del climategate abbiamo una chiara evidenza che i negazionisti si sono cacciati in un vicolo cieco.

3. A maggio, è uscito un editoriale sulla prestigiosa rivista "Science"a supporto della scienza del clima, firmato da 250 scienziati di prestigio, incluso 11 premi Nobel. Qualcuno, evidentemente, ha cominciato a capire che bisogna muoversi per contrastare la propaganda anti-scienza.

4. Un recente studio, pubblicato su PNAS, ha dimostrato come gli scienziati che sono convinti dell'interpretazione antropogenica del cambiamento climatico sono nettamente più attivi, pubblicano di più e su riviste migliori di quelli che invece negano quella interpretazione (vedi anche questo commento di J. Roff). Questo risultato è un duro colpo contro quelli che continuano a sostenere che la posizione negazionista sia scientificamente alla pari con quella standard.

5. Il Sunday Times si è visto costretto a ritrattare ufficialmente e pubblicamente un vergognoso attacco contro l'IPCC - accusata di aver esagerato il pericolo che il riscaldamento globale causa alla foresta pluviale amazzonica. Anche qui, dopo che l'IPCC era diventata un pò il bersaglio di tutto e di tutti, è un evidente segnale di un cambiamento di tendenza.

6. Christopher "Lord" Monckton - negazionista climatico a tempo pieno -  è stato demolito da John Abraham, professore dell'università del Minnesota.  Non solo demolito, ne è uscito letteralmente devastato: praticamente ogni cosa che Monckton dice è una bugia. E' uno psicopatico; un mentitore patologico. Monckton è rimasto così privo di argomenti che non ha potuto rispondere in altro modo che  prendersela personalmente contro Abrahms. Gli imbrogli di Monckton sono stati anche messi in luce in un recente articolo sul "Guardian". Monckton è un pagliaccio, certamente, ma non va sottovalutato perché c'è chi gli da retta. Questa sua disfatta è sintomatica della situazione.

7. Naomi Oreskes e Richard Conway sono usciti in pubblico con una fortissima accusa contro i "mercanti del dubbio" mostrando come i moderni negazionisti climatici stanno utilizzando le stesse tecniche usate nel passato dalla lobby del tabacco per negare il legame fra fumo e cancro. Anche questo è un sintomo della reazione in corso.


Ci sono altri esempi che dimostrano come il vento sta cambiando, anche se i nostri tronfi intellettuali sembrano un po' lenti ad accorgersene. Questo cambiamento si può attribuire a vari fattori. In parte è dovuto al fatto che il 2010 si sta rivelando un anno caldissimo, forse l'anno più caldo della storia. Questo lo si vede anche dalla situazione tragica dei ghiacci artici. C'era stato, ad Aprile, qualche patetico tentativo di far credere che  "I ghiacci ritornano!", salvo poi stare zitti quando si è visto come stanno veramente le cose.

Ma non è soltanto il caldo del 2010 che sta rovesciando la situazione mediatica. C'è anche una reazione da parte degli scienziati e da parte di tutti quelli che capiscono come stanno le cose. Gli scienziati rimangono - in generale - degli ingenui in campo comunicativo, ma alcuni hanno tirato fuori le unghie e hanno detto le cose come stanno, soprattutto negli Stati Uniti. C'è anche - evidentemente - la debolezza intrinseca delle argomentazioni dei negazionisti climatici che si sono ridotti a basarsi su sottili chiose di qualche messaggio scritto 10 anni fa.

Insomma, la battaglia non è ancora vinta, ma io credo che questa inversione di tendenza sia un momento storico. Continuiamo a tenere duro, ma possiamo aspettarci che la scienza del clima ritornerà ad essere il paradigma accettato - come è giusto che sia. A questo punto, potremo smettere di perdere tempo con inutili polemiche e tornare cercare soluzioni contro il disastro del riscaldamento globale. Su questo, dobbiamo ancora cominciare: il bello deve venire.