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martedì 24 novembre 2020

Quanta decrescita e per chi? Una valutazione del progetto ECOESIONE


Seconda puntata dedicata al progetto “Ecoesione” dell’Università di Pisa su conversione ecologica e conflitto. Già pubblicato su Apocalottimismo" il 24/10/2020

Di Jacopo Simonetta

Nella prima puntata abbiamo visto alcune delle ragioni per cui un’ulteriore crescita economica non solo è estremamente improbabile, ma sarebbe anche in netto contrasto con l’imperativo di ridurre il più rapidamente possibile l’impatto dell’umanità sul Pianeta. Sarebbe anche prodromo di maggiore conflittualità sociale poiché, salvo opportuni provvedimenti, con ogni probabilità contribuirebbe ad accrescere ulteriormente le differenze di reddito.

Ma se la crescita ha il potere di mitigare i conflitti sociali, la decrescita ha l’effetto opposto, specialmente se, mentre i più decrescono, alcuni continuano a crescere in ricchezza e potere. Non è certo l’unico fattore in gioco, la struttura demografica è anche più importante nel favorire la violenza, ma resta comunque una delle forzanti importanti di cui occuparsi. 

Ogni società elabora i propri criteri per decidere cosa è giusto e cosa no, ma sempre vi è un limite oltre il quale la classe dirigente cessa di essere considerata una guida e comincia ad essere vista come un parassita. Di qui la seconda domanda che pongo: Quanta decrescita e per chi? 

La decrescita è un concetto alieno, tanto che la parola stessa è un neologismo di assai recente invenzione e gli stessi suoi fautori si affrettano a specificare che, sostanzialmente, si tratta di fare a meno del superfluo, guadagnando però in termini di qualità della vita grazie al venir meno del consumismo compulsivo. Che il consumismo sia una strategia basata sulla cronicizzazione di una stato di frustrazione e solitudine non ho dubbi, ma la questione di quanto sia necessario decrescere per evitare il collasso planetario è parecchio più complicata. Vediamo alcuni dei punti che credo dovrebbero essere tenuti in conto. 

Quanto bisogna decrescere? Una serie di indicatori concordano nel suggerire che l’umanità nel suo complesso abbia superato la capacità di carico del pianeta nei primi anni ’70. Vale a dire che sono circa 50 anni che l’effetto combinato di popolazione, consumi e tecnologia ha superato la “capacità di carico” del Pianeta, avviandone un degrado progressivamente accelerato. Moltissime specie, soprattutto di grande fauna, erano già state eliminate dai nostri antenati fin dal tardo paleolitico, ma fino ai primi anni ’70 questo non aveva messo in forse il permanere sulla Terra di condizioni chimico-fisiche compatibili con la vita. A far data da allora invece si. 

Di qui l’imperativo, ossessivamente ed inutilmente ribadito ad ogni occasione, di riportare gli impatti complessivi, far cui le famigerate “emissioni climalteranti”, entro dei limiti di sicurezza. Ma se cinquant’anni or sono questo sarebbe stato sufficiente, oggi non lo è più perché nel frattempo biosfera, atmosfera e idrosfera sono state pesantemente modificate cosicché, per consentire al pianeta di recuperare, sarebbe oggi necessario riportare l’impatto antropico ben al di sotto di quella soglia.

Tanto per farsi un’idea di larga massima possiamo comunque darci l’obbiettivo di riportare i nostri consumi globali a quelli di 50 anni or sono. Non dovrebbe essere molto traumatico, visto che chi c’era non ha un cattivo ricordo di allora, per non parlare dei miliardi di persone che vivono ben al di sotto dello standard europeo degli anni ’60 e che, quindi, avrebbero un buon margine di miglioramento. Ma non è così semplice. 

Un calcolo preciso sarebbe molto complicato ed aleatorio, ma per farsi un’idea molto approssimativa basta pensare che, da allora, la popolazione è più che raddoppiata, così come i consumi medi pro capite. Ne consegue che, per tornare all’impatto antropico di allora occorrerebbe ridurre ad un quarto i consumi medi attuali. Significherebbe un livello di consumo analogo a quello attuale della Moldavia, per avere un’idea molto approssimativa. Una cosa che non sarebbe certo indolore, soprattutto per noi euro-occidentali, e che ci porta direttamente nel cuore dei possibili conflitti sociali ed internazionali legati a politiche (per ora ipotetiche) di sufficiente riduzione dei consumi.

Chi deve decrescere fra classi. Una così drastica riduzione dei consumi medi può avere effetti estremamente diversi a seconda di come vengono ripartiti fra le classi sociali, dal momento che anche nei paesi più poveri ci sono ricchi e ricchissimi. Anzi, è proprio in questi stati che le disparità di reddito raggiungono l’apice (ad oggi, la UE ha uno dei livelli di sperequazione minori al mondo). 

Secondo la vulgata, per risolvere la situazione sarebbe sufficiente tassare pesantemente i super-redditi e super patrimoni per ridistribuire il denaro fra i poveri, ma ancora una volta non è così semplice. 

Innanzitutto, se ci fidiamo di Piketty che parla dell’Europa, per quanto spropositati, i super redditi sono troppo pochi per fornire un gettito fiscale adeguato ai bisogni. Bisognerebbe quindi estendere le super-tasse ad un buon 10-20% della popolazione, vale a dire all’intera classe dirigente. La probabilità che ciò avvenga è estremamente ridotta, malgrado questo porterebbe indubbi vantaggi proprio all’élite in termini di recupero di credibilità e di legittimità. 

Inoltre, proprio i patrimoni ed i redditi maggiori sono i più difficili da accertare e “catturare”, come dimostrato dal fatto che un miliardario come Trump non solo può impunemente eludere le tasse in un paese assai severo con gli evasori, ma addirittura diventarne il capo.

Comunque, anche immaginando una “Robin Tax” efficace, non è affatto detto che la ridistribuzione del reddito verso il basso sia compatibile con lo scopo dichiarato di ridurre gli impatti antropici. E’ infatti certamente vero che i ricchi consumano e inquinano più dei poveri, ma stimare quanto non è così semplice come Oxfam sostiene con la sua pubblicazione che è perfettamente condivisibile sul piano politico, ma che ha ben poco valore su quello scientifico. 

Anzi, uno dei meccanismi automatici che portano alla crescita spropositata dei massimi patrimoni, mentre quelli relativamente modesti rendono poco, è proprio il fatto che i grandissimi capitalisti possono devolvere in consumi solo una piccola parte dei loro redditi, cosicché ne reinvestono una percentuale tanto maggiore, quanto più grande è il patrimonio accumulato. Un classico anello a retroazione positiva; uno dei tanti annidati nel cuore del capitalismo. 

Inoltre, dal punto di vista ambientale, il risultato sarebbe diverso a seconda di come la ricchezza vaisse distribuita. Per esempio, se super-tassassimo alcune persone ed imprese europee per distribuire il ricavato fornendo trasporti pubblici gratuiti i consumi diminuirebbero. Viceversa, se lo distribuissimo sotto forma di “ecoincentivi” per l’acquisto di auto elettriche i consumi presumibilmente aumenterebbero.

Comunque, al di là delle questioni di dettaglio, rimane il fatto che ridurre di molto il potere d’acquisto di poche persone per aumentare di poco quello di molte probabilmente manterrebbe i consumi costanti. 

Anzi c’è il rischio che li incrementi e, con essi, probabilmente, anche la natalità. Per dirla con un aforisma: la sostenibilità si persegue impoverendo i ricchi, non arricchendo i poveri. Un fatto che in molto subodorano e che cementa quindi una singolare alleanza proprio fra i ricchi (che non vogliono rinunciare ai loro privilegi) e molti poveri e medi (che non vogliono rinunciare al sogno di arricchirsi o, perlomeno, di mantenere lo status quo).

Chi deve decrescere fra stati. E’ perfettamente vero che noi occidentali, chi più chi meno, abbiamo sfruttato ignobilmente altri popoli e paesi per lungo tempo. Ed è vero che, anche se la palma della maggiore potenza coloniale mondiale sta passando in mano cinese, una parte consistente del nostro residuo benessere deriva ancora da accordi commerciali a noi favorevoli. Sono quindi giustificate le rivendicazioni di altri paesi e il desiderio di una parte degli europei di porre fine a questa situazione, ma difficilmente si tenta di analizzare a fondo le implicazioni di una simile operazione. 

Noi occidentali siamo stati, complessivamente, i più ricchi e potenti del mondo per talmente tanto tempo da credere che questo sia un fatto naturale ed irreversibile. Non è stato così in molti periodi della storia e non è scritto da nessuna parte che debba restare così per sempre. Anzi, abbiamo ben visto che nel giro di appena 20 anni abbiamo perso parecchie posizioni. Anche questo è un fattore di tensione e di possibile conflitto, stavolta su di un piano internazionale, ma c’è un problema anche maggiore: una rapida decrescita comporterebbe una riduzione del peso politico, economico e militare dello stato, in un contesto di crescente conflittualità non solo con paesi e governi tradizionalmente ostili, ma anche fra paesi che vantano decenni di ottimi rapporti. 

Si possono pensare dei sistemi per gestire la questione riducendo i rischi, ma occorre che il problema sia tenuto ben presente e analizzato senza nascondersi il fatto che molti degli stati nostri vicini sono destinati, comunque, ad attraversare fasi di violenza estrema e che non è assolutamente detto che questo non ci coinvolga, in un modo o nell’altro. Come non è assolutamente detto che le potenze maggiori decidano di non approfittare della nostra debolezza, come noi approfittiamo di quella altrui. In particolare mi preoccupano sia gli USA che la Cina che, impegnate nello scontro per la supremazia mondiale, stanno facendo di tutto per colonizzare l’Europa ancor più di quanto non abbiano già fatto.

Impatti su settori irrinunciabili. Quando si parla di abbandono del petrolio, si parla di energia per uso domestico, di agricoltura, trasporti ed altro, ma vi sono interi settori vitali di cui non si parla mai. Qui mi limiterò a citarne uno solo: la sanità. Oggi, soprattutto in Europa ma non solo, praticamente chiunque ha accesso ad un livello di cure che un re od un miliardario di soli 50 anni fa neppure si immaginava e questa è considerata una delle conquiste principali ed irrinunciabili del progresso. Solo che tutto ciò di cui vive il sistema sanitario (medicinali, ospedali, materiali di tutti i generi, protesi ecc.) proviene direttamente o indirettamente dal petrolio e non ci sono alternative possibili, neppure in prospettiva. 

In un'ottica di rapida e radicale decabonizzazione, sarebbero anche altri i settori socialmente vitali ad andare in forte crisi. Diciamo che l’intero sistema di welfare (Sanità, sussidi, pensioni, ecc.), già fortemente sotto stress, diventerebbe impossibile da mantenere. 

Si potrebbe pensare di conservare una modesta estrazione petrolifera per soddisfare questi e gli altri bisogni per i quali non vi sono alternative, ma non sarebbe possibile; perlomeno non in un’economia di mercato perché, venendo meno le economie di scala, i costi diventerebbero impossibili.

Impatti demografici. Senza qui indugiare su di un tema così complesso, ignorare o trattare sulla base di comodi luoghi comuni uno dei fattori principali in gioco, anzi IL fattore principale in gioco, è come pensare di cucinare una torta usando zucchero e lievito, ma senza farina. Vale quindi la pena di ricordare che la sovrappopolazione non è un fatto assoluto, bensì relativo in quanto dipende certamente dal numero di persone, ma anche dalla struttura della popolazione, dalle condizioni economiche, dal livello tecnologico e dalla capacità di carico del territorio in questione. Il ultima analisi, è il rapporto fra impatti antropici complessivi ed ambiente che determina lo stato di sovrappopolamento. 

Tendenzialmente, la crescita economica, anche se “verde”, favorisce la natalità, riduce la mortalità e favorisce l’immigrazione. Il contrario di solito avviene quando la crescita finisce, ma gli effetti reali sono difficili da prevedere perché dipendono anche da molti altri fattori politici, sociali e culturali. 

Resta comunque il fatto che, di solito, la crescita demografica segue quella economica con un'inerzia che tende ad erodere i vantaggi raggiunti, generando situazioni di stress sociale particolarmente gravi se associati ad un vistoso “bubbone giovanile”. Masse di giovani senza reali sbocchi professionali sono infatti un viatico sicuro per un elevato grado di turbolenza e di conflittualità, finanche estrema come già stiamo vedendo in molti dei paesi maggiormente prolifici, alcuni molto vicini a noi.
 

Comunque, modifiche sensibili nelle condizioni di vita hanno sempre conseguenze demografiche, anche se si riescono ad evitare scoppi di violenza. Per fare un esempio pratico, l’aspettativa di vita in Italia è oggi di circa 83 anni, mentre nei citati anni ’70 era di 72; quella odierna della Moldavia è di 76. Ciò non significa che qui accadrebbe lo stesso che là, oppure che si torni indietro nel tempo, ma la correlazione fra consumi e aspettativa di vita è stretta e ben motivata. Certo, se volendo essere cinici, una riduzione della vita media sarebbe un considerevole vantaggio economico sia per i governi che per i giovani, ma politicamente la questione è improponibile, tanto è vero che si evita accuratamente anche solo di farvi cenno.

Uno dei libri più straordinari mai scritti è “I Limiti della Crescita” che dopo 50 anni non solo non è invecchiato affatto, ma anzi è più di attualità che mai. Decenni di verifiche e controlli sui dati reali hanno infatti confermato oltre ogni possibile dubbio l’esattezza dell’impostazione di quel lavoro e che quello che oramai stiamo vivendo sono le prime fasi di un collasso dell’intera civiltà industriale mondiale. Questo significa che una brutale decrescita non è più una scelta, ma un fatto ineluttabile e nasconderselo non ci aiuterà a sopravvivere.

La buona notizia è però che, anche se oramai è troppo tardi per evitare il “Picco di Tutto”, siamo ancora in tempo a mitigare i danni del “rientro” entro quei limiti che abbiamo cercato di esorcizzare negandoli, con l’unico risultato di sfracellarci contro di essi alla massima velocità possibile.

Ma, si obbietta spesso, se si ammette che il collasso sia ormai inevitabile (fatto sul quale molti peraltro dissentono energicamente), a che pro darsi da fare? E’ una strana obbiezione perché è proprio quando la nave affonda che c’è il massimo di lavoro da fare, non quando la crociera procede tranquilla.

Di questo parleremo nel terzo ed ultimo episodio.