domenica 24 maggio 2020

Sul piacere di rileggersi: è soltanto narcisismo?


Un post di Bruno Sebastiani


Ho appena terminato di correggere le bozze del mio prossimo libro (al quale dedicherò un articolo a tempo debito) e tale attività ha indotto in me una riflessione che può condurre a interessanti approfondimenti di tipo “neuro-pseudo-scientifico”.

Ho provato -lo confesso- un intimo piacere nel rileggere le pagine da me scritte e con esse ho sperimentato una sincera consonanza.

Bella forza, voi direte! Ci mancherebbe che l’autore non sia d’accordo con le sue tesi!

Ma credo che la questione meriti un’analisi di maggior spessore: essere l’autore preferito di se stessi è semplice manifestazione di narcisismo o sottintende questioni neurologiche più complesse?

Avevo già sperimentato il fenomeno. Ogni volta che prendo in mano un mio libro o un mio articolo, lo leggo e rileggo approvando mentalmente ogni singolo passaggio, e la lettura scorre veloce senza incepparsi come spesso capita con gli scritti altrui.

Certo, quando leggo Dostoevskij o Manzoni vengo rapito dal loro modo di scrivere e riconosco che non sarò mai in grado di raggiungere la loro perfezione stilistica né il loro livello di approfondimento psicologico dei personaggi.

Eppure essi il più delle volte scandagliano abissi al di fuori dei miei interessi primari.

È importante, fondamentale la lettura di altri autori, perché aiuta a mostrarci sfaccettature della realtà da noi poco o per nulla percepite.

Ma poi i nostri pensieri, pur arricchiti da questi apporti, tornano a ruotare intorno ai “perni” propri della nostra visione del mondo.

Cosa si nasconde dietro a questo meccanismo neurologico?

Io credo che nel cervello super-evoluto di ognuno di noi i neuroni e le sinapsi si dispongano e si colleghino in modo tale da rendere più probabile l’insorgere di un determinato tipo di ragionamento anziché di un altro. È una questione “meccanica”, seppur di altissima precisione.

Non chiedetemi quali neuroni, quali sinapsi e quali collegamenti siano responsabili di tutto ciò. Non so rispondervi io, ma temo che non saprebbe rispondervi neppure il più illustre dei neuroscienziati.

Però mi pare indubitabile che dietro ad ogni tipo di ragionamento vi sia un “set” di dispositivi fisici scatenanti. Le idee non nascono dal nulla e l’estrema complessità della nostra materia grigia non deve costituire alibi per “smaterializzare” gli apparati che producono i pensieri.

Le nozioni di hardware e software ci vengono incontro per illustrarci, pur in modo assai approssimativo, quale sia il meccanismo alla base di ogni ragionamento.

E l’hardware di ciascun essere umano è affine a quello di tutti i suoi simili, ma non identico, esattamente come ognuno ha un naso, due occhi, due orecchie, ecc., ma con differenze più o meno marcate.

Le differenze a livello di architettura neuronale si trasformano in differenze di vedute, sensazioni, opinioni.

Che sia così è senz’altro un bene. Pensate alla tristezza di una totale uniformità di vedute abbinata alla completa prevedibilità di ogni comportamento umano.

Ma l’abnorme sviluppo del nostro cervello ha comportato anche l’insorgere di una ulteriore caratteristica nella nostra specie, e cioè la possibilità di modificare l’architettura neuro-sinaptica in base a input di natura culturale. È un po’ come se il software potesse modificare l’hardware di un computer (a chi volesse approfondire questo argomento consiglio la lettura di questo articolo).

Dunque all’interno della nostra scatola cranica non sempre i nostri ragionamenti ruotano attorno ai medesimi perni.

Dal che ne discende un importante corollario alle affermazioni poste in apertura di questo articolo: capita ad alcuni (non a tutti) di prendere in mano propri libri o articoli scritti in anni passati e di non trovarsi più in consonanza con i medesimi. Cosa è accaduto? Non siamo più noi stessi? Perché abbiamo sostenuto certe teorie e ora non le riconosciamo più come nostre?

Semplicemente abbiamo appreso strada facendo nel corso della vita nuove nozioni, siamo entrati in contatto con nuove teorie che hanno modificato il nostro modo di pensare. Probabilmente i neuroni sono gli stessi (o si rinnovano?), ma i collegamenti tra le sinapsi si sono modificati. Il nostro modo di pensare ruota attorno a nuovi perni e ci ha fatto perdere la sintonia con i nostri lavori più o meno giovanili.

Così accadde a Nietzsche nei confronti de “La nascita della tragedia” e della sua infatuazione giovanile per il wagnerismo, così accadde a Lorenz che rinnegò in gran parte “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, così pare sia accaduto a Lovelock, che all’età di 97 anni avrebbe rinnegato il suo pessimismo di oltre trent’anni prima nei confronti del destino di Gaia (a dimostrazione di come le modifiche “culturali” non conoscano limiti di età).

Dunque noi amiamo il nostro modo di ragionare e siamo in completa sintonia con noi stessi, ma le forme del pensiero non sono fisse.

Le nostre argomentazioni sono in grado di influenzare il modo di pensare altrui, che a sua volta può indurre modifiche nel nostro.

Ognuno sostiene con vigore le proprie affermazioni, ritenendole in assoluto le migliori. Ma vi sono visioni del mondo più coerenti di altre e alla lunga queste tendono a diffondersi, in special modo se avvenimenti del mondo della natura spingono in tal senso.

Oltre che dal pensiero altrui, infatti, il nostro modo di ragionare può essere prepotentemente condizionato da ciò che accade nel mondo reale.

Quest’ultima osservazione rafforza in me il convincimento che la mia teoria, il Cancrismo (ma anche ogni altra visione radicale sulla nocività umana), potrà purtroppo trovare ampia diffusione solo in concomitanza con l’esaurirsi delle risorse e con l’insorgere di gravi crisi economico – sociali – ambientali.

Siete in sintonia con questo modo di pensare? O le vostre connessioni inter-sinaptiche fanno ruotare i vostri pensieri attorno ad altri perni?