Il ponte sullo Stretto di Messina? Perché no? Non crollerebbe mai. . . No di sicuro. . . Come potrebbe mai succedere?
Due giorni dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, avevo pubblicato sul "Fatto Quotidiano" il commento che trovate più sotto. Era un tentativo di ragionare su quella che io consideravo e considero una tragedia causata da ragioni "sistemiche." In sostanza, il declino dell'EROEI della nostra società ci rende difficile, se non impossibile, manutenzionare strutture che in epoche di abbondanza potevamo costruire senza problemi.
Come avrete notato, questo tipo di interpretazione non ha avuto molto successo e siamo arrivati alle conclusioni più o meno condivise da tutti, che:
1. E' colpa di quelli che dicono sempre di no a tutto. Ma anche di Benetton. E poi, dell'Europa che non ci da i soldi. In ogni caso c'entrano di mezzo le banche, i capitalisti, gli Gnomi di Zurigo, il Grande Vecchio di Montecatini, i Rettiliani e forse anche gli immigrati.
2. Bisogna punire i colpevoli anche prima di sapere esattamente cosa è successo e perché. Basta con il garantismo e chi non è d'accordo offende le vittime innocenti del crollo del ponte.
3. Bisogna costruire di più e costruire opere sempre più grandi in modo tale da far ripartire la crescita.
4. Più un politico urla, più riceve consensi.
Dal "Fatto Quotidiano" del 16 Agosto 2018
di Ugo Bardi
Siamo ancora tutti sotto l’impressione della tragedia di Genova
ma, prima ancora di sapere esattamente cosa è successo e perché, è
partita la caccia al colpevole. E’ normale: di fronte a un disastro
immane e inaspettato, la prima reazione è sempre di cercare qualche
responsabile da punire. Così, vediamo i ministri, assessori, opinionisti
e notabili vari che si lanciano contro i tangentisti degli anni 60, la
politica, la società autostrade, il capitalismo, il governo, i comitati
per il no, e quant’altro.
E’ probabile che qualcuno abbia fatto degli errori,
questo va accertato e quel qualcuno va punito. Ma il problema è più
profondo e più difficile di quanto sembri, e non un problema che si
possa risolvere dando la caccia agli untori di turno. Quello che è
successo al ponte Morandi di Genova ci apre davanti un abisso, non solo quello creato della campata crollata, ma un abisso ben più preoccupante per il futuro. Tutta la stagione delle Grandi Opere degli anni 60 e 70 è a rischio. Era un epoca di grande innamoramento nel cemento armato,
ma nessuno poteva sapere esattamente quanto a lungo le strutture che si
costruivano sarebbero durate. Il ponte Morandi è durato poco più di 50
anni, sarà forse un esempio particolarmente disgraziato, ma se leggete i commenti degli ingegneri sul web
vedete come sia forte la preoccupazione per tutta la nostra
infrastruttura in cemento armato: viadotti, ponti, gallerie, edifici e
tutto quanto.
Certo, tutte queste strutture possono resistere a lungo se sono oggetto di manutenzione appropriata. Ma il problema è che le grandi infrastrutture in cemento armato furono costruite in un periodo di rapida crescita economica.
La crescita assicurava un surplus tale da potersi permettere queste e
altre cose. Ma sono anni, ormai, che il paese decresce o, comunque, non
cresce più in modo significativo. Allo stesso tempo, l’obsolescenza
delle infrastrutture costruite nel passato costringe a investimenti
sempre maggiori per la manutenzione.
E qui sta il grosso problema: si è detto che il ponte Morandi aveva raggiunto il punto in cui demolirlo
e costruirne un altro sarebbe costato meno che continuare ad effettuare
la manutenzione. Probabilmente questo non è ancora valido per tutto
quello che è stato costruito negli anni 50 e 60, ma ci dobbiamo arrivare
e probabilmente ci arriveremo prima di quanto non si pensi. E allora ci
troveremo nella necessità per un’economia in declino di impegnarsi
nella ricostruzione di quello che era stato costruito in un’economia in
crescita. Forse non impossibile, ma non c’è più il surplus di una volta
bisogna tirar fuori le risorse da qualche altro settore che ne avrebbe
altrettanto bisogno: sanità, istruzione, previdenza, eccetera. Scelte
dure, per non dire altro.
A questo punto, qualcuno dirà, “bisogna far ripartire la
crescita” – slogan ormai assai logoro ma ancora popolare. Il problema è
che siamo di fronte a una crisi strutturale di cui ci aveva allertati già nel 1972 lo studio “I Limiti dello Sviluppo.” Ve ne ricordate? Eh, si, si parlava appunto di allerte inascoltate!
E allora, che facciamo? Cerchiamo di tenere in piedi
quello che abbiamo e evitiamo di impegnarci in imprese folli che ci
metterebbero in guai ancora peggiori: vi rendete conto che solo pochi
anni fa si parlava ancora del ponte sullo stretto di Messina
come una cosa da farsi? E speriamo bene, perché la questione della
manutenzione si pone in modo ancora più critico per certe strutture che
sono altrettanto instabili e che richiedono una manutenzione prolungata,
costante e costosa: mi riferisco alle centrali nucleari. Per fortuna,
in Italia non ne abbiamo, ma fa impressione ricordare come fino a non
tanti anni fa se ne parlava come di un obbiettivo importante e utile.
Perlomeno su quelle, non abbiamo creato un debito che sarebbe spettato
alle future generazioni pagare.