Di Igor Giussani
16 novembre 2017
Qualche giorno fa su Facebook Fabio Saracino mi ha segnalato un’interessante intervista di un paio di anni fa a Dennis Meadows, che poi ho scoperto essere stata tradotta in italiano da Massimilano Rupalti e pubblicata sul blog Effetto Cassandra di Ugo Bardi. Per chi non lo sapesse, Dennis Meadows è uno dei tre ricercatori del MIT – insieme alla moglie Donella Meadows, scomparsa prematuramente nel 2001, e a Jorgen Randers – autori della ricerca commissionata dal Club di Roma e poi pubblicata sotto forma di libro con il titolo di The limits to growth (I limiti dello sviluppo nell’edizione italiana). Ho trovato molto interessante l’intervista perché, a mio giudizio, sintetizza perfettamente sia le grandi intuizioni che i limiti del pensiero ecologico legato al Club di Roma.
Per quanto riguarda i meriti, probabilmente non basterebbero centinaia di pagine per rendere onore agli sforzi del team del MIT: sono stati veri e propri pionieri della dinamica dei sistemi, implementando un sistema di analisi che ancora oggi per la sua raffinatezza viene scarsamente compreso da gran parte della scienza ancorata a paradigmi tradizionali. Dopo essere stati oggetto di innumerevoli critiche – spesso volgari e violente – alla fine è venuto fuori che le loro previsioni erano corrette; rimando al capitolo ‘Limiti dello sviluppo o dell’intelligenza?’ di Insostenibile. Le ragioni profonde della decrescita. dove ho cercato di confutare l’insensatezza di gran parte delle denigrazioni ricevute. In questa sede, riporto semplicemente una frase dell’intervista che dimostra come il pensiero di Meadows sia una spanna sopra l’ecologismo convenzionale:
Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.Il ‘cancro del pianeta’, ovviamente è la ricerca della crescita continua su di un pianeta finito, tema molto caro a noi decrescenti.
Anche la successiva constatazione è particolarmente degna di nota:
Lavoriamo solo sugli aspetti tecnici ma trascuriamo del tutto il fattore relativo alla popolazione e crediamo che il nostro standard di vita migliorerà o almeno rimarrà invariato. Ignoriamo la popolazione e gli elementi sociali dell’equazione, e ci focalizziamo totalmente sulla soluzione degli aspetti tecnici del problema. Falliremo, perché la crescita della popolazione e gli standard di vita sono molto più rilevanti di tutto quanto possiamo risparmiare con una migliore efficienza o con le energie alternative. Pertanto, le emissioni di CO2 continueranno a salire. Non ci sarà soluzione al problema dei cambiamenti climatici se non affronteremo i fattori sociali che ne sono alla base.A dirla tutta, il pensiero ecologico ispirato a I limiti dello sviluppo – che a torto o a ragione potremmo definire ‘malthusiano’ – ha per lo più totalmente ignorato la questione degli elementi sociali nella problematica ecologica; anzi, ricollegandomi all’ultimo pezzo che ho scritto per DFSN Aboliamo l’umanità, le responsabilità sono state per lo più ricercate in presunte caratteristiche intrinseche al genere umano. Dai prossimi estratti dell’intervista si evince chiaramente come Dennis Meadows non si discosti da lì:
E’ il problema fondamentale. Se in un villaggio chiunque può pascolare il suo gregge su un prato rigoglioso (aperto a tutti, N.d.T.) – chiamato in inglese arcaico “Commons” – entro poco tempo ne beneficeranno soprattutto quelli che scelgono di avere più bestiame. Ma se si va avanti in quel modo troppo a lungo, l’erba finisce e con quella tutto il bestiame…
Dovrebbe cambiare la natura dell’uomo. Siamo tuttora programmati come 10.000 anni fa. Visto che uno dei nostri antenati poteva essere attaccato da una tigre, non si poteva preoccupare del futuro ma solo della propria sopravvivenza. La mia preoccupazione è che, per motivi genetici, non siamo adatti a fare i conti con problemi di lungo termine come i cambiamenti climatici. Fino a che non impareremo a farlo, non ci sarà modo di risolvere problemi simili. Non c’è niente che possiamo fare. La gente dice sempre: “Dobbiamo salvare il pianeta”. No, non dobbiamo.E’ curioso come, nelle visioni malthusiane, l’entità ‘uomo’ compaia solo nelle versioni ‘cavernicolo’ e ‘industrializzato’, ignorando completamente svariati millenni di storia. Nella prima parte della citazione Meadows fa chiarimente riferimento alla cosiddetta ‘tragedia dei Commons’ di Garret Hardin, omettendo anch’egli il non trascurabile fatto che tale situazione si verifica solo se la mentalità industriale della crescita esponenziale si sostituisce a quella della conservazione che ha caratterizzato per secoli la gestione dei commons. Se esaminiamo le società umane prima dell’avvento dell’industrializzazione, spesso esse erano totalmente concentrate sul futuro; Jeremy Rifkin in Entropia e Donella Meadows (pensatrice che ritengo superiore al suo pur ottimo marito) in Thinking Systemshanno fatto un parallelo tra i proverbi della tradizione contadina e dell’economia domestica con le leggi della termodinamica, evidenziando come la saggezza popolare spesso non sia altro che una versione molto semplificata e grossolana di complessi concetti della fisica. Le civiltà contadine vantavano una genetica diversa dalla nostra? Ne dubito, più probabile che fosse radicalmente diversa la cultura che influenzava la visione del mondo. E se c’è stato un certo interesse per lo studio dell’ascesa e del declino di grandi civiltà del passato, perché sono state quasi completamente ignorate quelle società – come i masi alpini o l’isola di Tikopia, per fare un paio di esempi – le quali sono state capaci di efficaci politiche di restrizione dei consumi e addirittura di controllo demografico? Perché, invece di tirare in ballo a sproposito la genetica, non si è investigato sui rapporti di potere che hanno consentito l’instaurarsi di pratiche talmente virtuose a fronte di scarse o nulle nozioni di ecologia?
Nella parte finale dell’intervista, Meadows si produce in una breve riflessione politica, definendo la democrazia “un esperimento socio-politico molto giovane” che “produce soltanto crisi che non è in grado di risolvere”, paventando l’ipotesi dell’avvento di una rigida dittatura che si faccia carico di affrontare le emergenze ambientali. Personalmente, ritengo che su questo versante sia più attendibile un altro noto esponente del mondo ecologista, l”arcidruido’ John Michael Greer. Nel libro La lunga caduta (in corso di traduzione e pubblicazione per Lu::Ce edizioni) rimarca il fatto che le attuali forme politiche statuali, presentino esse caratteristiche elettorali o dittatoriali, traggono la forza – e di conseguenza anche la debolezza – dallo smisurato approvigionamento energetico reso disponibile dai combustibili fossili e dal petrolio in primis, cioé qualcosa che non può sopravvivere al picco degli idrocarburi, oramai alle porte. Ecco quindi che, invece della ‘oligarchia elettorale’ (così Greer definisce la liberaldemocrazia) o di improbabili fascismi ecologici, potrebbe aprirsi la porta per una riscoperta della democrazia basata su organizzazioni di prossimità e mutuo-aiuto alla maniera delle comunità cittadine nordamericane descritte mirabilmente da Tocqueville in Democrazia in America, quelle che propugnavano un american way of life incentrato sul senso della misura ben diverso dal consumismo esploso nei ‘ruggenti anni Venti’ e proseguito nelle sue degenerazioni fino a oggi. Possibile che questo recupero della dimensione comunitaria e diretta della politica, invece del meccanismo della delega, alla maniera delle riunioni claniche di Tikopia, possa servire per attuare quelle strategie decisive contro il collasso ambientale che oggi sembrano tanto inattuabili?
Solo il futuro potrà dircelo. E’ invece certo che la scienza legato alla studio dei limiti dello sviluppo è uno strumento prezioso e fondamentale per comprendere il mondo e capire che cosa possiamo ragionevolmente permetterci in termini materiali e che cosa no, ma si tratta di uno strumento tecnico che non può funzionare da guida morale o da motore di cambiamenti politici (almeno di quelli auspicabili). Non a caso, Donella Meadows parlava della necessità della ‘visione’, avendo purtroppo capito che ‘tirare a campare’, sopravvivere per sopravvivere, non sono incentivi né per sostenere grandi cambiamenti sociali né per giustificare l’esistenza personale, come dimostrano purtroppo i numerosi casi di suicidio di persone che non riescono a dare un senso alla propria esistenza. Per quanto possa sembrare un imperativo categorico senza appello, anche ‘salvare il pianeta per salvare il pianeta’ potrebbe dimostrarsi solamente un ottimo incentivo per pessimi propositi.
Forse, se oltre agli indispensabili approcci alla sostenibilità si discutesse sul senso di una società che, tanto aumenta la sua distruttività sulla biosfera, tanto più si rivela autoreferenziale (crescita per la crescita, lavorare per lavorare, ecc) allora potremmo trovare la base per quella quadratura del circolo che oggi sembra tanto lontana tra scienza ecologica e cambiamento sociale. Riscoprire una dimensione che sappia riscoprire un controllo sulla propria esistenza e sulla propria comunità contro l’alienazione da megamacchina potrebbe rivelarsi un potente incentivo. A tale scopo sarebbe altresì opportuno mettere da parte un armamentario socio-biologico deterministica che puzza di stantio e ragionare sulla formazione dei modelli mentali del mondo, che occupano un ruolo di primo piano nell’analisi de I limiti dello sviluppo ma che sembrano essere stati completamente ignorati da alcuni suoi presunti estimatori.
“Senza una forte ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l”intellighenzia’ artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciò non pertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atto ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo” . (Aurelio Peccei)