Questo post di Jacopo Simonetta è apparso il 28 Novembre 2017. Un mese e mezzo dopo, la pioggia invernale ci ha fatto dimenticare della terribile siccità della scorsa estate. E nessuno si preoccupa di quello che ci arriverà addosso la prossima estate. Siamo di memoria corta, e qusto post ce lo dovrebbe ricordare - anche se non ce lo ricorderemo
di Jacopo Simonetta
Articolo già apparso si Apocalottimismo
Ogni tanto c’è qualche temporale, ma sono oltre 6 mesi che non piove sul serio, al netto di qualche spettacolare e sparso nubifragio; eppure è dai primi di settembre che la siccità è scomparsa dagli schermi. Ma è finita davvero? Cominciamo col fare un po’ di chiarezza sui termini.
Siccità: Indica un periodo il cui la disponibilità di acqua è sensibilmente inferiore alla media. Sembra un concetto facile, ma non poi così tanto. Per cominciare è bene distinguere fra siccità meteorologica (carenza di pioggia) e siccità idrologica (carenza di acqua nel sistema delle falde freatiche dei laghi e dei corsi d’acqua). Le due sono correlate, ma in modo complesso. Qui ricordiamo solamente che la siccità meteorologica dipende in parte dal cambiamento del clima globale, in parte da fattori locali. Quanto alla siccità idrologica, nelle zone intensamente abitate e/o coltivate, dipende più dagli usi antropici dell’acqua che dalle precipitazioni.
Inoltre, bisogna ricordare che, quando si parla di precipitazioni sopra o sotto la media, di solito si fa riferimento alla media degli ultimi 30 anni, compreso quello in corso. Di conseguenza, il termine di riferimento cambia nel tempo e non aiuta ad evidenziare le variazioni di lungo periodo.
Comunque, a tutti gli effetti, siamo tuttora in piena siccità sia meteorologica che idrologica. La prima potrebbe finire nei mesi a venire, mentre per far finire quella idrologica ci vorrebbero diversi mesi di pioggia battente.
Inaridimento: E’ un processo di progressivo depauperamento delle riserve idriche. Quando, come in gran parte del mondo di oggi, si assiste ad un cronico abbassamento delle falde freatiche e/o alla riduzione delle portate medie e minime dei corsi d’acqua abbiamo a che fare con un inaridimento. Somiglia ad una siccità cronica e cumulativa, ma con qualcosa in più. Prima di tutto la ridotta capacità dei suoli di assorbire e trattenere l’acqua; poi la scomparse di zone umide anche temporanee, la canalizzazione del reticolo idrico, eccetera. L’inaridimento contribuisce anche a ridurre la piovosità media in quanto una percentuale importante dell’acqua che piove sulla terra era prima evaporata dalla terra medesima. Così come buona parte dell’acqua che evapora dal mare, ripiove poi in mare.
Desertificazione: E’ un fenomeno estremamente complesso ed insidioso che, di solito, si accompagna ad un inaridimento del territorio, ma non sempre. Vediamolo quindi un poco più da vicino.
Clima. La parola deserto richiama subito l’idea di caldo e di arido. In effetti, il processo di desertificazione in corso in molte regioni temperate si associa ad un innalzamento delle temperature e ad una maggiore irregolarità delle precipitazioni. Tuttavia è bene ricordare che esistono anche deserti molto freddi, come quelli dell’Asia centrale, e perfino deserti molto piovosi, come in gran parte dell’Islanda odierna. Vale la pena di ricordare anche che l’attuale fluttuazione climatica, calda ed arida sulla maggior parte delle terre emerse, rappresenta una forte anomalia. In tutta la storia climatica del Pianeta (per quanto ne sappiamo) le fluttuazioni calde sono state anche più piovose, mentre quelle fredde erano più aride. Questa peculiarità dipende almeno in buona parte dagli altri fattori in gioco (v. punti seguenti).
Un altro punto importante è che si parla molto (e talvolta a sproposito) del mutamento del clima a livello globale, mentre si parla più punto che poco del fatto che il clima effettivo nelle varie zone dipende da come i fattori globali (composizione chimica dell’atmosfera, correnti oceaniche, jet-stream, ecc.) interferiscono con fattori molto più locali (suoli, vegetazione, urbanizzazione, eccetera). Una lacuna importante perché se è vero che non si sta facendo niente di serio per ridurre le emissioni climalteranti globali, è ancor più vero che non si sta facendo niente (anzi peggio) sui fattori locali e regionali che possono pesare anche di più.
Di alcuni parleremo ai punti seguenti, qui vorrei intanto fare cenno al ruolo degli incendi. In condizioni naturali, incendi occasionali (di solito innescati da fulmini) giocano un ruolo importante nel mantenimento della biodiversità. E’ arduo stabilire quale sarebbe l’incidenza “spontanea” di tali eventi nei vari tipi di ambiente perché situazioni definibili come “naturali” (cioè non influenzate dall’uomo) hanno cessato di esistere. Tuttavia, si stima che le foreste temperate (come quelle che esistevano sulle nostre montagne) potevano essere percorse dal fuoco ogni 3-4 secoli circa. In altri tipi di ambiente accadeva molto più spesso, tanto che esistono specie che presentano vari tipi di adattamento al fuoco ed intere biocenosi che dipendono dalla frequenza di simili eventi.
Tuttavia, è importante tener presente che se la frequenza degli incendi aumenta, o se colpisce biocenosi già sotto stress per motivi climatici o di altro genere, l’effetto è sempre nocivo, talvolta devastante. Nell’attuale situazione, gli incendi forestali accelerano i processi di desertificazione già in atto, sia direttamente (riduzione della copertura vegetale, perdita di biodiversità, erosione dei suoli, riduzione della capacità di ritenzione idrica, ecc.), sia indirettamente (a livello globale gli incendi boschivi sono oramai una delle principali fonti di gas climalteranti e di aerosol in atmosfera.)
Orografia e rocce. La forma del rilievo e la natura delle rocce determinano in buona parte sia il clima locale, che la capacità del territorio nel trattenere acqua, ma le situazioni reali possono essere molto complesse e variare in relazione anche ad altri fattori. Ad esempio, le Alpi Apuane sono estremamente ripide ed in gran parte formate da rocce carbonatiche molto fratturate. Di conseguenza i suoli sono sottili e tendenzialmente instabili, mentre l’acqua scorre rapidamente a valle, sia in superficie che attraverso il sistema carsico.
In compenso, il fatto di costituire un’alta catena vicina e parallela al mare rendeva queste montagne una delle zone più piovose d’Europa il che, a sua volta, le rendeva una vera e propria spugna da cui zampillava acqua da tutte le parti. Tre fattori sono cambiati. Due globali: il minore innevamento e lo spostamento verso nord della posizione media dell’anticiclone delle Azzorre; uno locale, la quasi completa urbanizzazione della pianura posta fra le montagne ed il mare. La combinazione di questi tre fattori ha ridotto drasticamente le precipitazioni sulle Apuane (oltre il 30% in meno negli ultimi 40 anni - dati Lamma) da cui, oramai, di acqua ne zampilla ben poca e sempre di meno.
Suolo. Abbiamo fatto cenno al fatto che i suoli posti su pendenze notevoli sono strutturalmente più poveri e trattengono meno acqua, oltre ad essere facilmente erodibili. Vale a dire che sono strutturalmente fragili e che fattori di disturbo anche occasionali possono avviare processi di degrado talvolta irreversibili. Tuttavia, oggi i suoli di collina e di pianura sono nel complesso molto più degradati di quelli di montagna a causa dello sfruttamento molto più intenso cui sono soggetti.
Tralasciando l’ampia varietà di forme di degrado irreversibile che caratterizza le periferie allargate dei centri urbani ed industriali, vorrei far cenno al degrado dei suoli prettamente agricoli. La fertilità è il risultato di una molto complessa rete di co-fattori che comprendono la natura chimica dei suoli, la loro struttura fisica, la vegetazione che vi cresce e la miriade di organismi che vivono al suo interno (protozoi, batteri, lieviti, funghi, alghe, nematodi, insetti, ragni e l’elenco sarebbe ancora lungo).
L’uso massiccio di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi, l’ampliamento degli appezzamenti e la monocoltura, l’uso di macchine sempre più pesanti e di lavorazioni profonde (queste in parziale disuso) hanno ridotto i suoli a poco più che dei substrati inerti, capaci di elevate produzioni solo ricorrendo al complesso di fattori artificiali sopra elencati. Cioè producono solo continuando a degradarli. Cambiare sistema è possibile e, spesso, vi sono margini di recupero, ma ci vuole tempo e lavoro e raramente questi metodi sono utilizzati. Fra le altre cose, ne consegue che la capacità dei suoli agricoli di assorbire e trattenere acqua (la cosiddetta “capacità di campo”) è drasticamente diminuita. Ciò è particolarmente devastante nelle vaste regioni temperate in cui il GW sta accrescendo l’irregolarità delle precipitazioni. Dunque il degrado dei suoli è un potente volano di desertificazione perché, riducendo la capacità di campo, si riduce la resistenza della vegetazione ai periodi di siccità e la resilienza complessiva degli agro-ecosistemi. Di solito, la risposta è quella di aumentare l’irrigazione (v. più avanti).
Inoltre, il degrado dei suoli è anche una delle principali fonti di CO2 in atmosfera e, dunque, una delle importanti con-cause del riscaldamento globale.
Biodiversità. Abbiamo accennato al fatto che la biodiversità rappresenta il fattore più importante a livello locale. La vegetazione e la citata miriade di organismi del suolo sono infatti in grado di modificare drasticamente la circolazione dell’acqua e quella dei nutrienti del suolo.
Quando la biodiversità declina, il suolo e (spesso) il ciclo dell’acqua si impoveriscono mettendo ulteriormente sotto stress l’ecosistema.
Si genera così una retroazione rinforzante che tende al progressivo depauperamento della sistema. In un simile contesto, eventi occasionali come siccità o incendi, che in altre condizioni farebbero danni limitati e temporanei, possono invece diventare l’innesco per bruschi avanzamenti nel processo di desertificazione.
Un punto importante da tener presente è che non conta solo la distruzione degli ecosistemi, ma anche il ben più vasto degrado dei medesimi. Per esempio, la superficie forestale italiana è sostanzialmente stabile, dopo alcuni decenni di forte espansione, ma praticamente ovunque sono evidenti segni di stress cronico dovuto a fattori climatici e ad errori di gestione. Il cattivo stato di salute dei boschi, a sua volta riduce la circolazione dell’acqua e rallenta l’assorbimento di CO2. Situazioni analoghe, ma ancor più gravi si riscontrano oramai ovunque, fin nel cuore di ciò che resta dell’Amazzonia.
La perdita di biodiversità è talvolta irreversibile, talaltra invece può essere arginato ed anche invertito, ma sempre con tempi molto più lunghi di quelli necessari per degradare il territorio. Per questo non solo la presenza di aree protette di ogni ordine e grado, ma anche di ambienti come stagni e pozzanghere, incolti, boschetti e tutto quel genere di micro-ambienti marginali che di solito guardiamo con disprezzo rappresentano altrettanti “fortini” contro la desertificazione del territorio.
Ciclo dell’acqua. Esiste un ciclo generale che è quello che si impara a scuola: mare-nuvole-pioggia-fiumi-mare. Ma, come abbiamo accennato sopra, anche terra-nuvole-pioggia terra e questo secondo può essere molto più importante del primo a seconda della regione e/o della stagione. Inoltre, ci sono anche una miriade di sotto-cicli che si auto-organizzano a livello di ecosistemi fra suolo, vegetazione, aree umide, atmosfera, falde freatiche e fiumi. La quantità di acqua disponibile per sostenere la biodiversità dipende in gran parte da questi.
A livello di ogni bacino e sotto-bacino imbrifero, esiste infatti un bilancio fra entrate ed uscite; se questo bilancio è in deficit, come quasi ovunque oggi nel mondo, il territorio si sta inaridendo. E l’inaridimento è una sotto-categoria del più complesso fenomeno della desertificazione. Ma quali sono le cause del deficit? Parecchie, qui faremo cenno alle principali. Per cominciare, la captazione di sorgenti, la trivellazione di pozzi e le derivazioni dai corsi d’acqua. A livello globale circa il 70% dell’acqua sottratta al bilancio idrico viene dispersa per irrigazione ed il rimanente per usi civili ed industriali, ma in zone ad alta densità abitativa le proporzioni sono molto diverse. Poi viene il prosciugamento delle aree umide e la trasformazione dei fiumi in canali, entrambe cose che accelerano molto il deflusso delle acque. Quindi il degrado dei suoli agricoli cui si è fatto cenno, e l’urbanizzazione che oramai riguarda superfici importanti e che, a livello italiano, continua a mangiarsi alcuni metri quadri di territorio ogni secondo che passa. In molti paesi una delle voci principali sono anche gli incendi ed il degrado delle foreste (ben più esteso del disboscamento vero e proprio – v. sopra).
Il punto fondamentale da capire è che, riducendo le riserve idriche e la circolazione locale dell’acqua, si riducono anche le precipitazioni, anche se la correlazione è tutt’altro che lineare.
Un altro punto da tener presente è che il prosciugamento dei torrenti facilita enormemente la
diffusione degli incendi boschivi. A cavallo di ogni torrente si trovava infatti una fascia di vegetazione diversa e molto più umida di quella sulle pendici, capace quindi di rallentare e spesso fermare le fiamme. Chiaramente, captando la sorgente, tutto questo scompare (anche se in teoria esisterebbero cose come “il deflusso minimo vitale” ed altre leggende metropolitane analoghe).
Un problema molto serio è che tutto ciò non interessa minimamente la grande maggioranza della popolazione e, di conseguenza, agli amministratori. Il tragicomico circo che abbiamo visto a Roma l’estate 2017 (e che rivedremo l’estate ventura) è solo uno degli infiniti esempi che si potrebbero fare.
Cerchiamo di capire bene una cosa: la desertificazione e la crisi idrica sono fenomeni correlati, ma non sinonimi. Ed entrambi ci accompagneranno per il prossimo secolo e forse più. Rassegnamoci e cominciamo ad occuparcene seriamente.
In un prossimo articolo parleremo di come ciò potrebbe essere fatto.
Per chi vuole saperne di più sul “quadro d’unione” fra i vari termini della crisi sistemica in corso.
https://luce-edizioni.it/prodotto/picco-capre-libro-crisi-collasso-simonetta-pardi-vassallo/
di Jacopo Simonetta
Articolo già apparso si Apocalottimismo
Ogni tanto c’è qualche temporale, ma sono oltre 6 mesi che non piove sul serio, al netto di qualche spettacolare e sparso nubifragio; eppure è dai primi di settembre che la siccità è scomparsa dagli schermi. Ma è finita davvero? Cominciamo col fare un po’ di chiarezza sui termini.
Siccità: Indica un periodo il cui la disponibilità di acqua è sensibilmente inferiore alla media. Sembra un concetto facile, ma non poi così tanto. Per cominciare è bene distinguere fra siccità meteorologica (carenza di pioggia) e siccità idrologica (carenza di acqua nel sistema delle falde freatiche dei laghi e dei corsi d’acqua). Le due sono correlate, ma in modo complesso. Qui ricordiamo solamente che la siccità meteorologica dipende in parte dal cambiamento del clima globale, in parte da fattori locali. Quanto alla siccità idrologica, nelle zone intensamente abitate e/o coltivate, dipende più dagli usi antropici dell’acqua che dalle precipitazioni.
Inoltre, bisogna ricordare che, quando si parla di precipitazioni sopra o sotto la media, di solito si fa riferimento alla media degli ultimi 30 anni, compreso quello in corso. Di conseguenza, il termine di riferimento cambia nel tempo e non aiuta ad evidenziare le variazioni di lungo periodo.
Comunque, a tutti gli effetti, siamo tuttora in piena siccità sia meteorologica che idrologica. La prima potrebbe finire nei mesi a venire, mentre per far finire quella idrologica ci vorrebbero diversi mesi di pioggia battente.
Inaridimento: E’ un processo di progressivo depauperamento delle riserve idriche. Quando, come in gran parte del mondo di oggi, si assiste ad un cronico abbassamento delle falde freatiche e/o alla riduzione delle portate medie e minime dei corsi d’acqua abbiamo a che fare con un inaridimento. Somiglia ad una siccità cronica e cumulativa, ma con qualcosa in più. Prima di tutto la ridotta capacità dei suoli di assorbire e trattenere l’acqua; poi la scomparse di zone umide anche temporanee, la canalizzazione del reticolo idrico, eccetera. L’inaridimento contribuisce anche a ridurre la piovosità media in quanto una percentuale importante dell’acqua che piove sulla terra era prima evaporata dalla terra medesima. Così come buona parte dell’acqua che evapora dal mare, ripiove poi in mare.
Desertificazione: E’ un fenomeno estremamente complesso ed insidioso che, di solito, si accompagna ad un inaridimento del territorio, ma non sempre. Vediamolo quindi un poco più da vicino.
Cos’è la desertificazione?
La parola evoca immediatamente le dune mobili sahariane e, giustamente, pensiamo che qui, in Italia ed in Europa, non succederà mai. Ma la desertificazione è qualcosa di molto più diffuso, insidioso e graduale. Vediamone le principali componenti.Clima. La parola deserto richiama subito l’idea di caldo e di arido. In effetti, il processo di desertificazione in corso in molte regioni temperate si associa ad un innalzamento delle temperature e ad una maggiore irregolarità delle precipitazioni. Tuttavia è bene ricordare che esistono anche deserti molto freddi, come quelli dell’Asia centrale, e perfino deserti molto piovosi, come in gran parte dell’Islanda odierna. Vale la pena di ricordare anche che l’attuale fluttuazione climatica, calda ed arida sulla maggior parte delle terre emerse, rappresenta una forte anomalia. In tutta la storia climatica del Pianeta (per quanto ne sappiamo) le fluttuazioni calde sono state anche più piovose, mentre quelle fredde erano più aride. Questa peculiarità dipende almeno in buona parte dagli altri fattori in gioco (v. punti seguenti).
Un altro punto importante è che si parla molto (e talvolta a sproposito) del mutamento del clima a livello globale, mentre si parla più punto che poco del fatto che il clima effettivo nelle varie zone dipende da come i fattori globali (composizione chimica dell’atmosfera, correnti oceaniche, jet-stream, ecc.) interferiscono con fattori molto più locali (suoli, vegetazione, urbanizzazione, eccetera). Una lacuna importante perché se è vero che non si sta facendo niente di serio per ridurre le emissioni climalteranti globali, è ancor più vero che non si sta facendo niente (anzi peggio) sui fattori locali e regionali che possono pesare anche di più.
Di alcuni parleremo ai punti seguenti, qui vorrei intanto fare cenno al ruolo degli incendi. In condizioni naturali, incendi occasionali (di solito innescati da fulmini) giocano un ruolo importante nel mantenimento della biodiversità. E’ arduo stabilire quale sarebbe l’incidenza “spontanea” di tali eventi nei vari tipi di ambiente perché situazioni definibili come “naturali” (cioè non influenzate dall’uomo) hanno cessato di esistere. Tuttavia, si stima che le foreste temperate (come quelle che esistevano sulle nostre montagne) potevano essere percorse dal fuoco ogni 3-4 secoli circa. In altri tipi di ambiente accadeva molto più spesso, tanto che esistono specie che presentano vari tipi di adattamento al fuoco ed intere biocenosi che dipendono dalla frequenza di simili eventi.
Tuttavia, è importante tener presente che se la frequenza degli incendi aumenta, o se colpisce biocenosi già sotto stress per motivi climatici o di altro genere, l’effetto è sempre nocivo, talvolta devastante. Nell’attuale situazione, gli incendi forestali accelerano i processi di desertificazione già in atto, sia direttamente (riduzione della copertura vegetale, perdita di biodiversità, erosione dei suoli, riduzione della capacità di ritenzione idrica, ecc.), sia indirettamente (a livello globale gli incendi boschivi sono oramai una delle principali fonti di gas climalteranti e di aerosol in atmosfera.)
Orografia e rocce. La forma del rilievo e la natura delle rocce determinano in buona parte sia il clima locale, che la capacità del territorio nel trattenere acqua, ma le situazioni reali possono essere molto complesse e variare in relazione anche ad altri fattori. Ad esempio, le Alpi Apuane sono estremamente ripide ed in gran parte formate da rocce carbonatiche molto fratturate. Di conseguenza i suoli sono sottili e tendenzialmente instabili, mentre l’acqua scorre rapidamente a valle, sia in superficie che attraverso il sistema carsico.
In compenso, il fatto di costituire un’alta catena vicina e parallela al mare rendeva queste montagne una delle zone più piovose d’Europa il che, a sua volta, le rendeva una vera e propria spugna da cui zampillava acqua da tutte le parti. Tre fattori sono cambiati. Due globali: il minore innevamento e lo spostamento verso nord della posizione media dell’anticiclone delle Azzorre; uno locale, la quasi completa urbanizzazione della pianura posta fra le montagne ed il mare. La combinazione di questi tre fattori ha ridotto drasticamente le precipitazioni sulle Apuane (oltre il 30% in meno negli ultimi 40 anni - dati Lamma) da cui, oramai, di acqua ne zampilla ben poca e sempre di meno.
Suolo. Abbiamo fatto cenno al fatto che i suoli posti su pendenze notevoli sono strutturalmente più poveri e trattengono meno acqua, oltre ad essere facilmente erodibili. Vale a dire che sono strutturalmente fragili e che fattori di disturbo anche occasionali possono avviare processi di degrado talvolta irreversibili. Tuttavia, oggi i suoli di collina e di pianura sono nel complesso molto più degradati di quelli di montagna a causa dello sfruttamento molto più intenso cui sono soggetti.
Tralasciando l’ampia varietà di forme di degrado irreversibile che caratterizza le periferie allargate dei centri urbani ed industriali, vorrei far cenno al degrado dei suoli prettamente agricoli. La fertilità è il risultato di una molto complessa rete di co-fattori che comprendono la natura chimica dei suoli, la loro struttura fisica, la vegetazione che vi cresce e la miriade di organismi che vivono al suo interno (protozoi, batteri, lieviti, funghi, alghe, nematodi, insetti, ragni e l’elenco sarebbe ancora lungo).
L’uso massiccio di fertilizzanti di sintesi e di pesticidi, l’ampliamento degli appezzamenti e la monocoltura, l’uso di macchine sempre più pesanti e di lavorazioni profonde (queste in parziale disuso) hanno ridotto i suoli a poco più che dei substrati inerti, capaci di elevate produzioni solo ricorrendo al complesso di fattori artificiali sopra elencati. Cioè producono solo continuando a degradarli. Cambiare sistema è possibile e, spesso, vi sono margini di recupero, ma ci vuole tempo e lavoro e raramente questi metodi sono utilizzati. Fra le altre cose, ne consegue che la capacità dei suoli agricoli di assorbire e trattenere acqua (la cosiddetta “capacità di campo”) è drasticamente diminuita. Ciò è particolarmente devastante nelle vaste regioni temperate in cui il GW sta accrescendo l’irregolarità delle precipitazioni. Dunque il degrado dei suoli è un potente volano di desertificazione perché, riducendo la capacità di campo, si riduce la resistenza della vegetazione ai periodi di siccità e la resilienza complessiva degli agro-ecosistemi. Di solito, la risposta è quella di aumentare l’irrigazione (v. più avanti).
Inoltre, il degrado dei suoli è anche una delle principali fonti di CO2 in atmosfera e, dunque, una delle importanti con-cause del riscaldamento globale.
Biodiversità. Abbiamo accennato al fatto che la biodiversità rappresenta il fattore più importante a livello locale. La vegetazione e la citata miriade di organismi del suolo sono infatti in grado di modificare drasticamente la circolazione dell’acqua e quella dei nutrienti del suolo.
Quando la biodiversità declina, il suolo e (spesso) il ciclo dell’acqua si impoveriscono mettendo ulteriormente sotto stress l’ecosistema.
Si genera così una retroazione rinforzante che tende al progressivo depauperamento della sistema. In un simile contesto, eventi occasionali come siccità o incendi, che in altre condizioni farebbero danni limitati e temporanei, possono invece diventare l’innesco per bruschi avanzamenti nel processo di desertificazione.
Un punto importante da tener presente è che non conta solo la distruzione degli ecosistemi, ma anche il ben più vasto degrado dei medesimi. Per esempio, la superficie forestale italiana è sostanzialmente stabile, dopo alcuni decenni di forte espansione, ma praticamente ovunque sono evidenti segni di stress cronico dovuto a fattori climatici e ad errori di gestione. Il cattivo stato di salute dei boschi, a sua volta riduce la circolazione dell’acqua e rallenta l’assorbimento di CO2. Situazioni analoghe, ma ancor più gravi si riscontrano oramai ovunque, fin nel cuore di ciò che resta dell’Amazzonia.
La perdita di biodiversità è talvolta irreversibile, talaltra invece può essere arginato ed anche invertito, ma sempre con tempi molto più lunghi di quelli necessari per degradare il territorio. Per questo non solo la presenza di aree protette di ogni ordine e grado, ma anche di ambienti come stagni e pozzanghere, incolti, boschetti e tutto quel genere di micro-ambienti marginali che di solito guardiamo con disprezzo rappresentano altrettanti “fortini” contro la desertificazione del territorio.
Ciclo dell’acqua. Esiste un ciclo generale che è quello che si impara a scuola: mare-nuvole-pioggia-fiumi-mare. Ma, come abbiamo accennato sopra, anche terra-nuvole-pioggia terra e questo secondo può essere molto più importante del primo a seconda della regione e/o della stagione. Inoltre, ci sono anche una miriade di sotto-cicli che si auto-organizzano a livello di ecosistemi fra suolo, vegetazione, aree umide, atmosfera, falde freatiche e fiumi. La quantità di acqua disponibile per sostenere la biodiversità dipende in gran parte da questi.
A livello di ogni bacino e sotto-bacino imbrifero, esiste infatti un bilancio fra entrate ed uscite; se questo bilancio è in deficit, come quasi ovunque oggi nel mondo, il territorio si sta inaridendo. E l’inaridimento è una sotto-categoria del più complesso fenomeno della desertificazione. Ma quali sono le cause del deficit? Parecchie, qui faremo cenno alle principali. Per cominciare, la captazione di sorgenti, la trivellazione di pozzi e le derivazioni dai corsi d’acqua. A livello globale circa il 70% dell’acqua sottratta al bilancio idrico viene dispersa per irrigazione ed il rimanente per usi civili ed industriali, ma in zone ad alta densità abitativa le proporzioni sono molto diverse. Poi viene il prosciugamento delle aree umide e la trasformazione dei fiumi in canali, entrambe cose che accelerano molto il deflusso delle acque. Quindi il degrado dei suoli agricoli cui si è fatto cenno, e l’urbanizzazione che oramai riguarda superfici importanti e che, a livello italiano, continua a mangiarsi alcuni metri quadri di territorio ogni secondo che passa. In molti paesi una delle voci principali sono anche gli incendi ed il degrado delle foreste (ben più esteso del disboscamento vero e proprio – v. sopra).
Il punto fondamentale da capire è che, riducendo le riserve idriche e la circolazione locale dell’acqua, si riducono anche le precipitazioni, anche se la correlazione è tutt’altro che lineare.
Un altro punto da tener presente è che il prosciugamento dei torrenti facilita enormemente la
diffusione degli incendi boschivi. A cavallo di ogni torrente si trovava infatti una fascia di vegetazione diversa e molto più umida di quella sulle pendici, capace quindi di rallentare e spesso fermare le fiamme. Chiaramente, captando la sorgente, tutto questo scompare (anche se in teoria esisterebbero cose come “il deflusso minimo vitale” ed altre leggende metropolitane analoghe).
Tirando le somme.
Senza andare a cercare lontano, vediamo quale è la situazione in Italia (v. fig in apertura). Non ci sono e non ci saranno dune mobili, ma processi di desertificazione sono evidentemente in corso su buona parte del territorio, ivi compresa tutta la costa adriatica e buona parte della Pianura Padana. In effetti solo le aree montane sono per ora scarsamente toccate (dati CNR). Interessante è osservare che le aree dove il fenomeno è più avanzato (cartina a sinistra) non corrispondono a quelle dove il tasso di aggravamento è maggiore (cartina a destra).Un problema molto serio è che tutto ciò non interessa minimamente la grande maggioranza della popolazione e, di conseguenza, agli amministratori. Il tragicomico circo che abbiamo visto a Roma l’estate 2017 (e che rivedremo l’estate ventura) è solo uno degli infiniti esempi che si potrebbero fare.
Cerchiamo di capire bene una cosa: la desertificazione e la crisi idrica sono fenomeni correlati, ma non sinonimi. Ed entrambi ci accompagneranno per il prossimo secolo e forse più. Rassegnamoci e cominciamo ad occuparcene seriamente.
In un prossimo articolo parleremo di come ciò potrebbe essere fatto.
Per chi vuole saperne di più sul “quadro d’unione” fra i vari termini della crisi sistemica in corso.
https://luce-edizioni.it/prodotto/picco-capre-libro-crisi-collasso-simonetta-pardi-vassallo/