(The rise and fall of debate in economics – by Joe Francis)
Tradotto e chiosato da Jacopo Simonetta
Ci fu un tempo in cui gli economisti usavano criticare pubblicamente il lavoro gli uni degli altri sulla stampa accademica. Ma non avviene più.
Nella figura 1 ho illustrato il grado in cui gli economisti hanno smesso di dibattere. I dati sono stati ricavati da jstor , il database online delle riviste accademiche. Per stimare il numero degli articoli di dibattito di ogni anno, ho cercato gli articoli con “commento”, “replica” e/o “risposta” nel titolo, in quanto sono le parole chiave per indicare un commento su di un articolo di qualcun altro e per le repliche a questi commenti. Ho eseguito la ricerca per le cinque riviste di economia più prestigiose.
Quindi ho usato il numero totale di articoli di ogni anno in queste cinque riviste come denominatore.
La figura 1 mostra come ci sia stato un drammatico incremento nel livello del dibattito dagli anni ’20 fino alla fine degli anni ’60. Quindi un ugualmente drammatico calo. In corrispondenza del picco, nel 1968, il 22% degli articoli pubblicati in queste riviste erano relativi ad un dibattito. Nel 2013 invece, solo il 2%.
Cosa ha provocato questa crescita e crollo?
Il dibattito comincia a montare negli anni ’30, presumibilmente per la sofferenza indotta negli economisti dai dubbi conseguenti la Grande Depressione. Keynes fece il massimo per alzare il livello del dibattito, ma la forza delle idee marxiste deve aver giocato un ruolo importante nell'incoraggiare una cultura polemica. Per esempio, Paul M. Sweezy, il principale economista marxista nord-americano, contribuì al dibattito su questi giornali (vedi Sweezy 1950a, 1950b, 1972).
Il declino del dibattito appare quindi essere associato con l’emergere dell’egemonia “neo-liberale” dagli anni ’70 in poi. Il keynesismo appassì ed i marxisti furono confinati nelle loro pubblicazioni di nicchia. E’ notevole, per esempio, che Robert Pollin, probabilmente il principale economista marxista nord- americano di oggi, abbia pubblicato un solo articolo di 6 pagine in una di queste riviste (v. Pollin 1985).
La crescita, quindi, è stata associata con la sfida alla vecchia ortodossia liberale, mentre il declino è stato accompagnato dallo stabilirsi di una nuova ortodossia liberale. Questo, almeno, è il mio schizzo approssimativo di ciò che è accaduto.
La questione quindi diventa se ciò sia importante. A mio avviso, la mancanza di dibattito non sarebbe un problema se gli economisti avessero risposto con successo alle domande che si suppone si pongano. Tuttavia, gli eventi recenti suggeriscono che forse non lo hanno fatto.
In effetti, il grafico illustra una fase di picco che dura praticamente fino alla metà degli anni ’70, seguito da un vero tracollo coincidente con lo stabilirsi delle nuova ortodossia. Ma in effetti non è che manchino oggi economisti che criticano le posizioni neo-liberali con cognizione di causa, solo che non hanno accesso alle riviste prestigiose le cui redazioni sono composte da “veri credenti” tutti d’un pezzo. Ed è questo il fatto grave: che interessi di scuola e di lobby prevalgano sul valore scientifico dei lavori. Niente di nuovo. E’ quasi sempre avvenuto così sulla stampa scientifica; si veda ad esempio la diatriba fra darwinisti e lamarkiani. Ma in quei casi il mondo si poteva permettere di aspettare. La vita di milioni, forse miliardi di persone non dipendeva dalla comprensione dei meccanismi dell’evoluzione biologica. Viceversa, il dominio assoluto dell’ortodossia neo-liberale ha conseguenze politiche enormi e la difesa della patinata trincea delle riviste che contano non è quindi indifferente per il destino di tutti noi.
In estrema sintesi, l’effetto di questa strenua difesa è quello di contribuire a ritardare una risposta adattativa della politica alla realtà. Ma il ritardo nella risposta è il principale prodromo di catastrofe, come ci insegna l’ABC della dinamica dei sistemi.