Di Antonio Turiel.
Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR
[Le persone e le situazioni che appaiono in questa storia sono del tutto inventate. Qualsiasi riferimento a persone o fatti reali sarà sempre un pura coincidenza]
Quando la Repubblica invase il paese natale di Gianni Palermo e di Davide Rosi, sotto il comando di quest'ultimo, il piano era quello di prendere le vecchie zone industriali che si supponeva fossero ricche di reagenti chimici. La tremenda superiorità meccanica della Repubblica e l'esaurimento fisico e intellettuale del paese invaso, fece sì che il piano iniziale fosse ampliato. Così, in un paio di mesi, tutto il territorio fu sottomesso. Seguendo il piano di Davide, il paese fu raso al suolo e la distruzione si centrò soprattutto sulla poca capacità industriale rimasta. Nel precipitare il paese nel Medio Evo, la Repubblica eliminò la possibilità che potesse competere con essa per il consumo di quelle risorse preziose per molti anni.
Nel suo esilio nella piccola nazione montagnosa, Gianni percepiva gli echi di quella follia con grande preoccupazione. Sapeva che quando avrebbero esaurito le risorse di quel paese, gli occhi e i denti della Repubblica si sarebbero rivolti verso altre nazioni. Forse per questo la protesta internazionale contro la Repubblica era stata tanto tiepida, con quel suono dolce modulato dalla paura.
Ma Gianni aveva anche altre preoccupazioni a più breve termine: stava cercando lavoro. I suoi risparmi gli avevano permesso di vivere alcuni mesi senza problemi e forse avrebbe potuto stare alcuni anni senza lavorare, ma alla lunga sarebbero finiti piuttosto prima che la sua vita avesse fine - “E' curioso: non molto tempo fa avrei creduto di vivere più a lungo dei miei risparmi”, pensava.
A forza di insistere e dopo aver compilato tanti meriti per ever recuperato dalle biblioteche tecniche di quel paese che venivano ancora rispettate, era riuscito ad ottenere che si tenesse in considerazione il suo dossier e che venisse intervistato nell'Università Tecnica, una delle più prestigiose del mondo (anche se su questa classifica pesava il fatto che nel mondo restavano ormai poche università che meritassero tale nome). L'intervista sembrò più un interrogatorio, con un tribunale formato da cinque famosi ricercatori. Il Presidente del tribunale era il professor Wilhem Strauss, uomo già anziano ed emaciato ma con uno sguardo tagliente e feroce implacabile. Durante l'intervista, tutti i membri del tribunale gli fecero una gran quantità di domande facili da fare ma le cui risposte erano complesse. Grazie al suo lavoro al CRET, Gianni era riuscito a mantenere un livello tecnico molto elevato e poté rispondere a tutte le domande che gli posero, alcune volte persino andando oltre le conoscenze dello stesso tribunale – a parte quelle di Strauss, che era una vera eminenza. Alla fine, l'intervista di valutazione si trasformò in un duello fra Palermo e Strauss; la maggior parte dei membri del tribunale si ritenne soddisfatta dopo un'ora di esame, ma il professor Strauss ha continuato a fargli domande per altre due interminabili ore. Palermo non si fece scoraggiare da Strauss, nemmeno quando questi gli chiese sulle basi del reale funzionamento dei tremogeneratori. Sapendo che forse la Repubblica aveva delle orecchie in quella sala, spiegò che aveva un contratto scritto che non gli permetteva di divulgare quei dettagli, al che Strauss gli chiese direttamente per quale motivo avessero bisogno di tanto magnesio metallico. Palermo gli rispose che forse Strauss capiva il funzionamento di tutto quel macchinario meglio di quanto non lo capisse la Repubblica. Lo sguardo di Palermo a Strauss fu abbastanza significativa da permettere che i due si intendessero senza bisogno di altre parole e Strauss considerò conclusa l'intervista. Gli chiesero di aspettare cortesemente in una sala annessa.
Le deliberazioni non durarono più di mezz'ora, al termine della quale il professor Strauss andò a cercare Gianni Palermo.
- Io e i miei colleghi siamo d'accordo sulla sua qualità scientifica, anche se non su quella personale – gli disse Strauss mentre entrava nella stanza.
Gianni non disse nulla. Era chiaro cosa pensassero..
- Alla fine – aggiunse il professor Strauss – non sempre il criterio di un vecchio professore di questa università tecnica viene tenuto presente, quindi la giunta di valutazione è stata d'accordo che il suo livello è talmente alto che vale la pena di farle un contratto.
Gianni non poté evitare di espirare l'aria dai suoi polmoni con una certa forza.
- Non tiri un sospiro di sollievo, professor Palermo – gli disse Strauss; lo disprezzava, ma rispettava la sua preparazione – qui non potrà ripetere il trucchetto di usare reagenti chimici in reazioni molto esoenergetiche mentre fa credere a tutti che sfrutta non si sa bene quale chimerica “energia libera”.
Gianni si meravigliò che in quegli anni tanto oscuri ci fosse ancora qualcuno sufficientemente intelligente che, con pochi dati, fosse capace di capire la verità.
- Non è tanto sorprendente che me ne sia reso conto, non faccia quell'espressione – continuò Strauss – è tutta mera stechiometria. La Repubblica importa soprattutto magnesio, e anche alcuni altri metalli reagenti, e ho visto che ultimamente esportano molto latte di magnesio come medicamento, com'è nobile la sua Repubblica – lo disse senza ironia, anche se evidentemente lo diceva in quel senso, e proseguì: - Entra magnesio in siti dove c'è acqua sufficiente ed escono idrossido di magnesio ed energia. Pensa che siano tutti stupidi?
Gianni rimase in silenzio per qualche secondo, quindi rispose a quella che era senza dubbio l'ultima domanda di quella valutazione.
- All'inizio di questo secolo, alcune imprese americane specializzate nell'estrazione di idrocarburi si accordarono con aziende di intermediazione finanziaria per promuovere lo sfruttamento di una fonte di energia che, promettevano, sarebbe stata meravigliosa ed avrebbe dato un taglio alla scarsità di petrolio e di gas naturale su scala mondiale. Arrivarono persino a dire che grazie a questa, gli Stati Uniti sarebbero tornati ad esportare petrolio. Naturalmente niente di tutto questo è accaduto. Peggio ancora, la tecnica di estrazione fu talmente aggressiva che causò molti danni ambientali tanto in superficie quanto in profondità.
- Il fracking – disse il professor Strauss, spazientendosi perché gli raccontavano una storia ovvia e risaputa.
- Effettivamente – Gianni riprese subito la parola per andare al punto – la bolla del fracking, dal suo apogeo al sul declino irreversibile, non durò nemmeno 10 anni, ma durante quei dieci anni ci fu chi divenne molto ricco – e fece una breve pausa per respirare – Io non sono diventato ricco con la truffa delle macchine di Tesla, professor Strauss. Ho progettato i primi prototipi, è vero, ma perché è ciò che quegli energumeni volevano sentirsi dire, lo feci semplicemente per salvarmi la vita. Non sono orgoglioso di questo, ma cosa avrebbe fatto lei al mio posto? Non lo sa; non lo sappiamo: lei ha avuto la fortuna di vivere in un paese che si è mantenuto civile, mentre io sono dovuto scappare dal mio paese per poi essere perseguitato in un altro. E dopo aver dato loro il giocattolo che mi chiedevano, mi feci da parte, lasciando che altri – il ricordo di Davide adombrava un Gianni stanco del mondo – si incaricassero di continuare a mantenere questa falsa illusione. E quando vidi dove li stava portando lo loro logica predatoria assurda, fuggii dal paese con quel poco di dignità che mi rimaneva.
Il professor Strauss rimase inespressivo. Non diceva nulla. Era impossibile sapere cosa pensasse, anche se non sembrava commosso dal racconto di Palermo.
- Il fatto è – proseguì Gianni – che durante quegli anni nella capitale della Repubblica ho tentato di fare una ricerca seria, per liberare l'Umanità da questa nuova era di oscurità che è calata improvvisamente su di noi. Guardi, professor Strauss, ho già compiuto 50 anni e voglio tornare a credere nella Scienza, in ciò in cui la Scienza può aiutare l'Uomo. Mi piacerebbe morire facendo ricerca, cercando una cura per questo male degli uomini che è di non saper vivere all'interno dei limiti di questo pianeta. Voglio aiutare a combattere la miseria, tanto fisica come mentale. Questo vorrei. Niente di più. E niente di meno.
Per una decina di secondi il volto impenetrabile di Strauss fece trasparire un breve sorriso e ci fu un lampo di soddisfazione nei suoi cocci. Forse Gianni lo sognò, forse era vero. Il fatto è che il professor Strauss si voltò e di spalle gli disse:
- Vada all'Amministrazione e consegni le sue carte, comincerà domani mattina alle 8 – e girando leggermente il volto, per vedere l'espressione di Gianni, aggiunse – come assistente di laboratorio.
Gianni annuì. Non si meritava nulla di meglio ed era grato che lo lasciassero entrare di nuovo nella Casa della Scienza. Dall'altra parte, non aveva nessun documento che accreditasse la sua formazione accademica. Al massimo gli potevano far fare l'assistente. Essere assistente di laboratorio non era male.
Nei due o tre mesi seguenti, mentre la Repubblica piantava i suoi denti affilati su altre nazioni (embarghi commerciali un giorno, istituzione di protettorati quello seguente e in un paio di casi con l'invasione totale), Gianni si chiuse nel suo lavoro come assistente di laboratorio. Il lavoro che gli affidavano richiedeva un'attenzione minuziosa ed era lento, molto lento, a volte esasperatamente noioso. Ma Gianni intuiva la strada principale di ricerca nella quale si inserivano le sue insipide manipolazioni e per questo il lavoro gli piaceva. In molte occasioni si meravigliava dell'eccellente livello tecnico che era riuscito a conservare quell'Università nel bel mezzo di uno sprofondamento generalizzato del sapere nel resto del mondo. Durante quei lunghi e tediosi mesi, i professori e il pubblico coi quali lavorava lo umiliavano, dimostrandogli che non valeva niente o obbligandolo a rimanere fino a tardi a pulire e mettere in ordine materiale inutile, anche se si nascondevano sempre dietro le norme di rispetto e dei modi urbani, all'antica, si potrebbe dire – cioè, come si faceva quando nel mondo c'erano leggi che valevano per il quieto vivere e la convivenza pacifica fra gli esseri umani. Tale maleducazione a Gianni sembrava un privilegio, se lo paragonava con la barbarie che aveva visto nell'ultimo decennio. Inoltre, si rendeva perfettamente conto che c'era molta ipocrisia in quei gesti, che alcuni di coloro che lo ingiuriavano con le parole o coi fatti, con gli occhi gli chiedevano scusa, talvolta persino a bassa voce. Senza dubbio era una parte del periodo di prova. Alla fine de conti se quell'Università gli aveva fatto un contratto per via del suo eccellente curriculum come ricercatore, non era per tenerlo come assistente di laboratorio. Ma, nonostante il livello inferiore alle sue competenze e nonostante le umiliazioni orchestrate da Strauss per rendergli la vita lavorativa più penosa, a Gianni Palermo piaceva quel lavoro. Perché finché durava, egli sarebbe stato un semplice subalterno, l'ultimo nella catena di comando, e non avrebbe dovuto assumersi alcuna responsabilità. Questo gli dava sicurezza: la sicurezza di obbedire, la sicurezza di non sbagliarsi, perché non prendeva nessuna decisione. Sapeva, tuttavia, che questa comodità di vivere estraneo alla responsabilità non sarebbe durata per sempre e che sarebbero tornati tempi duri di decisioni difficili, che si intuivano nel modo sempre più attenta con cui i suoi colleghi ascoltavano i suoi dati tecnici sugli esperimenti in corso (Gianni non poteva evitare di introdurre discussioni più generali per contestualizzare e proporre modi per migliorare le esperienze) e anche per l'ombra minacciosa che andava crescendo alle frontiere di quel piccolo paese, sempre più circondato dalla malvagità e il saccheggio di una Repubblica insaziabile. Così, per strano che potesse sembrare, Gianni prese quel periodo come una lunga vacanza, le uniche che avrebbe avuto nel resto della sua vita.
Stava preparando la strumentazione per l'esperimento di quel giorno, quando Strauss in persona apparve in laboratorio – raramente ci metteva piede – e gli chiese di accompagnarlo nel suo ufficio. Gianni replicò che doveva terminare di preparare il materiale, ma Strauss gli disse che non era necessario e diede indicazione ad un altro assistente perché continuasse la preparazione. Gianni abbassò la testa e non disse nulla, seguì Strauss come un condannato a morte sale sul patibolo. Il professor Wilhelm Strauss non era il direttore di quel dipartimento universitario, ma lo era stato per molto tempo e la sua parola era più che considerata nelle delibere interne – l'unica eccezioni in anni, a quanto commentarono a Gianni, era stato proprio il suo contratto. E proprio perché Gianni era il sasso nella scarpa di Strauss, non gli parve sorprendente che questi si riservasse il piacere colpevole di comunicargli il suo licenziamento.
Arrivati al suo ufficio, Strauss gli chiese amabilmente di entrare. A Gianni non era mai piaciuta l'armamentario dei licenziamenti. Nei suoi ultimi anni all'Università aveva dovuto vedere come buttavano decine di giovani talenti in maniera sbrigativa, talenti che in seguito emigravano in altri paesi più avanzati. Uno dei pochi studenti che riuscirono a trattenere fu proprio Davide Rosi. Pensare a Davide lo mise di umore ancora peggiore.
Nemmeno Strauss era un uomo al quale piacesse sguazzare nei procedimenti, preferiva spedire le cose direttamente, andando ai fatti. Come se Strauss indovinasse i suoi pensieri, gli disse direttamente:
- Non faccia quell'espressione, professor Palermo: non la licenzieremo, la riassegneremo a un posto più degno della sua categoria. Concretamente, a professore titolare di Università, con posto fisso.
Gianni sbatté le palpebre per qualche secondo, incredulo:
- Non può essere – disse infine – non ho le mie credenziali accademiche, sono un requisito indispensabile. Tutti i documenti sono rimasti nel mio paese natale e sicuramente da tempo sono stati preda delle fiamme.
- Può, per cortesia, aprire quella cartella rossa che ha di fronte a lei, professore – gli disse Strauss.
Gianni, confuso, aprì la cartella. Al suo interno c'era tutta la sua vita accademica, così come l'aveva registrata l'Università dove aveva lavorato per tanti anni. Aveva incluso una copia del suo registro accademico degli anni da studente, la sua Laurea, il suo titolo di Dottore, il curriculum della sua vita lavorativa e i diplomi di accreditamento di tutti i premi e i meriti fino al giorno fatidico in cui dovette scappare correndo con uno zaino sulle spalle come unico equipaggiamento.
- No... non può essere – disse Gianni. Naturalmente tutti i documenti sembravano autentici. Come minimo era conformi agli originali. Alzò lo sguardo perplesso verso Strauss, il quale sorrideva soddisfatto: quell'uomo era in grado di fare l'incredibile – Come li ha ottenuti?
- Mi segua. Qui di fianco c'è qualcuno che la vuole salutare – gli disse Strauss mentre continuava a sorridere sotto la barba ordinata. Gianni non lo aveva mai visto tanto gioviale in tutti quei mesi in cui era stato lì. E mentre camminavano verso la sala riunioni aggiunse: - E' stato lui a portarmi personalmente i suoi documenti, si è preso molto disturbo nel conservarli, mi creda. Da parte mia, mi sono preso la libertà di sollecitare l'omologazione di tutti i suoi titoli e meriti, professore. Ho parlato personalmente con la Segreteria del Ministero che mi ha assicurato che i suoi documenti saranno legalizzati entro una settimana.
Gianni non poteva credere a quello che stava succedendo. Indugiò un attimo prima di entrare nella sala delle riunioni. La sala delle riunioni era dove il personale scientifico si riuniva per prendere il tè e – quando c'era – il caffè, durante qualche breve pausa di lavoro. Come assistente, a Gianni era vietato entrare in questo ambiente se non perché vi venisse convocato: una proibizione che mai nessuno gli esplicitò, ma che aveva compreso rapidamente, come molte altre. Quella Università era l'ultimo baluardo del sapere in centinaia, forse migliaia, di chilometri tutt'intorno e forse per quello si affermava questo aspetto reverenziale della gerarchia intellettuale, cosa che Gianni trovava disgustosamente classista.
All'interno della sala lo aspettava Angelo Santi.
Il professor Angelo Santi era un compagno del dipartimento di Gianni Palermo nei giorni precedenti alla barbarie. Gianni aveva un buon rapporto con lui, anche se negli ultimi anni prima della fuga si vedevano molto poco – generalmente con un paio di birre sul tavolo – a causa del fatto che Angelo era entrato nell'equipe del rettore. Gianni era sorpreso di vedere Angelo lì, ma ciò che lo commosse realmente fu di vederlo tanto peggiorato: aveva perduto molto peso – lui che era sempre stato un omone – e i suoi vestiti erano sporchi e sgualciti come se ci avesse dormito dentro per dei giorni. Ma ciò che lo impressionò di più furono i suoi occhi: le occhiaie profonde, gli occhi leggermente smarriti, umidi. Gianni non poté evitare di andare verso il suo vecchio collega e dargli un abbraccio profondo e sentito, mentre il suo amico si scioglieva in lacrime.
- Angelo – gli disse – come sei riuscito ad arrivare fino a qui? - e staccandosi da lui per guardarlo negli occhi – perché sei qui?
La seconda domanda, in realtà, non aveva molto senso: ovviamente Angelo era sfuggito alla barbarie e dal suo aspetto era chiaro che non era stato un viaggio comodo. Tuttavia Angelo non era scappato dalla stessa orda dalla quale era dovuto scappare Gianni: molto più abile politicamente, Angelo era riuscito a negoziare con il Presidente e collaborò per anni per mantenere un certo status in cambio di informazioni su diverse questioni tecniche con le quali il dittatore manipolava l'opinione pubblica.
- Sai Gianni? - gli diceva Angelo – non sono per nulla orgoglioso di ciò che ho fatto in quegli anni.
- Ssssshhh. Lo so, Angelo - la voce di Gianni era calma, infondeva tranquillità, era la voce di un uomo che aveva fatto la sua penitenza, che aveva raggiunto il suo nirvana dopo un lungo processo di espiazione – Cercavi solo di sopravvivere. Nessuno ti può incolpare di questo – e dicendo questo, Gianni volse lo sguardo a Strauss, che osservava la scena impassibile, probabilmente perché non capiva la lingua.
- Forse hai ragione, Gianni. Non lo so. Per colpa mia molti nostri colleghi finirono in esilio o in campi di concentramento.
“Evviva, finalmente chiamiamo le cose col suo nome. Campi di concentramento”, pensò Gianni.
- Ma, lo sai già, sono arrivati gli invasori. Sono entrati come cani rabbiosi in cerca della preda, cercando di strapparci le carni e ci hanno attaccato al collo – aggiunse Angelo, tanto agitato che gli mancava il fiato.
“Questo Angelo, sempre tanto retorico e tanto portato alla drammatizzazione”, pensò Gianni e non riuscì ad evitare un mezzo sorriso che dovette nascondere per non offendere il povero amico.
- La Repubblica ci ha schiacciati con la sua macchina da guerra – aggiunse Gianni con disinvoltura, per continuare sulla falsariga teatrale iniziata dal suo amico e per farsi perdonare lo scivolone espressivo.
- La Repubblica e il tuo caro pupillo! - la voce di Angelo era quasi un urlo – Guarda, guarda il fottuto bastardo sopra questo blindato!
Angelo gli aveva allungato un pezzo di giornale. Non era di un quotidiano della sua nazione natale – dove l'invasione era stata tanto folgorante che praticamente non c'era stata reazione – ma di un famoso rotocalco straniero, e ciò che mostrava era un'altra invasione, quella del secondo paese che la Repubblica aveva sottomesso. Era lo stesso: Angelo vedeva in quell'immagine ciò che era avvenuto a casa sua e in fondo non era tanto diverso. Lesse in fondo alla pagine, capiva abbastanza il tedesco da comprendere che Davide Rosi aveva assunto il comando delle operazioni di occupazione, come aveva sicuramente fatto nel suo paese natale. Sotto alla foto c'era scritto “Colonnello Rosi” e, effettivamente, Davide aveva abiti militari. E nientemeno che da colonnello! Il degrado della Repubblica era proprio totale, se in un pugno di mesi elevava a tale rango un moccioso arrivista. Il degrado e la disperazione. E una capacità di manipolazione per nulla disprezzabile da parte di Davide Rosi di tutti gli inetti che lo circondavano... Immaginò dove si fosse guadagnato i galloni Davide: sul campo di battaglia. E non si sbagliava: l'avidità di Davide non aveva limiti e dirigeva personalmente alcune delle operazioni più rischiose per garantire che i materiali che gli interessavano non subissero danni. Tutto in favore della Repubblica.
Gianni sospirò. La paura ci porta a far follie, lui lo sapeva bene. La paura ci porta ad aggredire senza essere provocati, rifletté, e la paura di Davide era quattro volte più grande di quella di Gianni, perché aveva moglie e figli. In realtà doveva essere anche peggiore, perché anche se non lo avrebbe ammesso, Davide Rosi conosceva bene il problema del peak everything (“picco di tutto”) quanto Gianni Palermo, quindi per forza sapeva che la sua impresa era condannata al fallimento finale totale, inappellabile.
Gianni si destò dai suoi pensieri e si concentrò su Angelo:
- Angelo, non potrò mai ripagarti per quello che hai fatto per me. Ti sono debitore.
- oh, tranquillo Gianni, non è niente di personale. Sono semplicemente scappato con tutto l'archivio dei professori del Dipartimento. Non potevo permettere che Davide si dedicasse cercarli per schiavizzarli. Anche se, dopo le visite obbligate ai campi di concentramento, l'archivio non era tonto voluminoso – disse Angelo, indicando un semplice archivio di cartone
- Suppongo li dentro ci sia anche il tuo curriculum.
- Naturalmente.
- Quindi forse herr professor Strauss può farti avere un lavoro in questa università prestigiosa – e rivolgendosi a Strauss in tedesco (lingua che Angelo conosceva) gli disse: - Credo che abbiamo trovato il mio sostituto perfetto per il laboratorio.
Negli anni successivi, la vita passò tranquilla per Gianni e gli altri esiliati che erano approdati in quel piccolo paese fra le montagne. Ma la guerra del magnesio si estese a macchia d'olio intorno ad esso, paesi rapidamente sottomessi al giogo della Repubblica, paradossalmente loro alleata per pochi decenni. La superiorità meccanica dei repubblicani e, soprattutto, la sua inesauribile energia, li portava a vincere un paese dopo l'altro, ma anche ad aumentare in modo ancora più rapido il suo consumo e la sua necessità di trovare nuove risorse. Gianni seguiva con dolore l'evoluzione dei fatti. Seppe dalla stampa che Davide era giunto ad essere il generale più giovane della Repubblica, bruciando le tappe e lasciando probabilmente molti feriti per strada, ma nulla era abbastanza per la sua ambizione. Davide aveva capito che l'unico modo di assicurare la forniture di materie prime, da parte dei paesi occupati ai suoi impianti di energia Tesla molto redditizi, era attraverso l'esercito. Veniva da lì il suo interesse nel perseguire una rapida carriera militare, approfittando dell'amicizia col Presidente della Repubblica e fregandosene di quanti militari di carriere avrebbe dovuto calpestare nella sua folle corsa verso il nulla. Ma mentre la vita di Davide era una frenetica fuga in avanti, sempre a pensare ad un nuovo bastione da conquistare la notte stessa in cui metteva piede nella sua ultima conquista, Gianni si sentiva relativamente in salvo nel suo nuovo ambiente. Il piccolo paese, con una lunga tradizione di neutralità durante gli anni della guerra, aveva tre fattori a suo favore. In primo luogo non aveva magnesio – l'industria fu abilmente e rapidamente convertita senza lasciare materiali inutilizzati e, grazie alla sua produzione di legname, il legno era allora la materia prima fondamentale. In secondo luogo, le alte montagna che formavano le sue frontiere e il freddo che vi faceva erano una barriera naturale per chi non vi fosse abituato. E, in terzo luogo, la popolazione aveva un grande spirito di cooperazione nelle avversità e tutti avevano ricevuto una formazione militare per due anni, quindi il paese era sempre pronto a far fronte a qualsiasi emergenza.
Ma è quando l'ardore guerriero della Repubblica si era visto molto ridotto, esaurita com'era per lo sforzo militare delle ripetute guerre di conquista e per i crescenti costi per il controllo di un vasto territorio di molte volte più ampio della Repubblica stessa, che Gianni si sentì più sicuro e fiducioso. Insomma, quando sembrava che la pace tornasse nella vecchia Europa, la tranquillità nella quale viveva Gianni si dimostrò essere più fragile di quanto non credesse. In una fredda mattina gli arrivò la brutta notizia: la Repubblica esigeva l'estradizione immediata e incondizionata di Gianni Palermo per alto tradimento. Erano passati cinque anni da quando era scappato dalla repubblica, eppure la dichiarazione dell'accusa era definitiva: Gianni Palermo era accusato di essersi portato dietro segreti di Stato, più precisamente i piani della nuova generazione di tremogeneratori.
L'iniziale incredulità di Gianni quando gli comunicarono l'ordine di estradizione da parte del funzionario del Ministero della Giustizia lasciò il posto ad una riflessione truce. Si rese conto che Davide si trovava fra l'incudine e il martello. Ovviamente il trucco del magnesio non aveva più futuro. Davide aveva imperversato con l'esercito in mezza Europa ed era chiaro che non c'erano ormai che quantità marginali di magnesio metallico distribuite qua e là. Paradossalmente, il magnesio che poteva ancora saccheggiare la repubblica era più di quello che aveva quando Gianni installò i primi tremogeneratori di Tesla, ma con le necessità della nuova Grande Repubblica e, in particolar modo, del suo esercito, ciò che rimaneva era una miseria. La tragedia della funzione esponenziale, ancora una volta. Davide aveva bisogno, e disperatamente, di nuovi trucchi, ma dopo tanti anni di fuga in avanti a ritmo accelerato, sempre preoccupato per le nuove conquiste, per le filiere della fornitura, per i nuovi impianti... era rimasto a corto di idee. Davide aveva bisogno di Gianni per apportare concetti nuovi. Aveva già spremuto i ricercatori del CRET fino allo stremo o alla morte, ormai non aveva più nessuno a cui ricorrere. Davide aveva bisogno di Gianni per salvarsi la pelle.
I termini della richiesta di estradizione erano nitidi, imperiosi, arroganti. Riflettevano chiaramente l'anima della nuova Repubblica. La Repubblica non negoziava: esigeva. La Repubblica non chiedeva: prendeva. La Repubblica dava al piccolo paese che accoglieva Gianni un ultimatum di due giorni perché lo consegnassero, altrimenti “la Repubblica avrebbe preso le misure necessarie per prendere in custodia l'imputato”. Se non era chiaro, più in basso si diceva esplicitamente che la non consegna di Gianni avrebbe implicato la guerra. Si vedeva chiaramente che il testo era stato redatto a più mani, dalla più educata alla più abbruttita.
Gianni aveva imparato ad amare quel rifugio di pace e civiltà e non voleva vederlo profanato e distrutto dalla Repubblica. Ricordò le immagini della sua città natale in fiamme. No, mai più. Così disse al funzionario che voleva consegnarsi per evitare mali peggiori. Il funzionario, un tipo molto alto, biondo e con occhi piccoli di un azzurro intenso, sorrise discreto sotto i baffi e disse: “Qui non facciamo le cose così. Questa è una nazione civile, professor Palermo”. Dodici anni dopo tornava a sentire quasi le stesse parole di quel gendarme alla frontiera fra il suo paese e la Repubblica, ma questa volta non c'era cinismo in esse, ma onorevolezza.
L'estradizione di Gianni fu sottomessa al voto dell'assemblea locale quella stessa sera, data l'urgenza della situazione. Gianni parlò all'assemblea e spiegò che conosceva bene la repubblica e che non voleva pregiudicare il piccolo paese. Ma dopo di lui parlarono molte persone, lodando il buon lavoro che aveva fatto per la comunità. Anche lo stesso Wilhelm Strauss fece una difesa breve e concisa, ma convincente, del perché non potevano lasciarsi saccheggiare dalla repubblica, che se avessero ceduto avrebbero ceduto sempre. L'assemblea votò con schiacciante unanimità di non accogliere la richiesta della Repubblica. Il popolo, orgoglioso, si preparò per andare in guerra, una guerra dove era in gioco la loro ragione d'essere.
Si cominciò a preparare la difesa in montagna, mentre le colonne dell'esercito invasore avanzavano verso la frontiera.
- Senza dubbio – disse Gianni a sé stesso pensando a quella mattina di dodici anni prima nella Città Universitaria – avrei dovuto abbandonare Davide a Roma.
Antonio Turiel.
Giugno 2013