Di Antonio Turiel
Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR
[Le persone e le situazioni che appaiono in questa storia sono del tutto inventate. Qualsiasi riferimento a persone o fatti reali sarà sempre un pura coincidenza].
Gianni conosceva bene il paese vicino, la Repubblica, come gli piaceva dire ai suoi connazionali, da quando faceva il dottorato e ne parlava la lingua in maniera fluente. Per Davide era più faticoso comunicare, più che per mancanza di competenza linguistica era per la sua naturale timidezza e alla sua mancanza d'esperienza. Tuttavia, lo stesso giorno in cui entrarono nella prigione del piccolo paese di frontiera dove li rinchiusero, ebbero chiara una cosa: anche nella Repubblica venivano considerati dei criminali della peggior specie.
Come poteva essere stato tanto cieco Gianni? Aveva corso in cerca del paradiso e quello che aveva trovato era un'altra palude. Forse la gente era un po' meno selvaggia e brutale che non nel suo paese d'origine. Almeno sulla carta, il paese vicino era fondamentalmente una Repubblica Democratica. Tuttavia, presto compresero, grazie ai loro contatti con gli altri detenuti, che in realtà la Repubblica non era altro che una dittatura mascherata. Durante i mesi in cui Gianni e Davide avevano continuato a scappare, erano avvenuti molti cambiamenti, questo era sicuro, ma in realtà le trasformazioni erano avvenute parallelamente al suo paese natale e per gli stessi motivi: la crisi economica implacabile che si era andata acutizzando senza sosta, l'accesso sempre più difficile alle diverse risorse naturali, sempre più scarse... tutte le case senza corrente, tutte le pompe di benzina senza gasolio, tutti i forni senza pane avevano trascinato la Repubblica verso posizioni sempre più autoritarie e più repressive, l'unico modo col quale le forze politiche avevano convenuto che si potesse mantenere una fragile pace sociale. Gianni era rimasto accecato dalla mancanza di informazione di qualità su ciò che stava realmente succedendo nella Repubblica. Credette semplicemente a tutto quello che lesse nel suo paese finché era rimasto un uomo libero e confidò in quella vecchia massima “nessuna nuova, buona nuova”. Solo nel momento in cui si trovò in uno dei carceri repubblicane prese contatto diretto e brutale con la realtà del paese che prima idealizzava.
Comprese tardi che in realtà la democrazia nel suo stesso paese aveva cominciato a morire molto prima che di quanto gli fosse diventato evidente, dallo stesso momento in cui i mezzi di comunicazione filtravano, censuravano o semplicemente sminuivano l'informazione sul degrado sociale e sulla qualità democratica che venivano vissuti in altre nazioni. In più, i corrispondenti dall'estero erano cari ed era più economico ripubblicare semplicemente ciò che veniva diffuso dalle agenzie dai loro uffici stampa. Quante altre nazioni in Europa e nel mondo stavano attraversando la loro discesa all'inferno in quel modo? Se la Repubblica, un tempo baluardo delle libertà e faro della ragione per l'Occidente, aveva ceduto in modo così definitiva e imperdonabile, cosa sarebbe stato di tutte le altre nazioni di minore tradizione razionale e democratica? Gianni rabbrividì nel pensarlo. Se avesse potuto fuggire da quell'inferno, dove sarebbe potuto realmente andare? Dove si poteva rifugiare una persona sensibile? Si rese conto che non sapeva niente del mondo nel quale viveva.
L'immersione nella realtà della Repubblica gli arrivò dalla conoscenza di molti detenuti, incarcerati per motivi molto stupidi in alcuni casi, attraverso i diversi carceri nei quali avevano fatto sosta nel loro lento peregrinare verso la capitale dove sarebbero stati giudicati per crimini contro l'Umanità (“avranno perso la grandiosità, ma non la magniloquenza”, pensò Gianni la prima volta che gli formularono le accuse). C'era gente condannata a 10 anni per aver tentato di rubare qualcosa da mangiare per i propri figli, o a 5 anni per aver osato protestare contro alcune imposte che li stavano dissanguando. E, invariabilmente, che fosse un piccolo carcere di campagna o un grande carcere di città, vedevano solo gli altri detenuti quando tornavano la notte in carcere dopo aver passato la loro penosa giornata ai lavori forzati. Come nel suo paese natale, la Repubblica era diventata dipendente dalla forza muscolare umana, mancando di altre fonti più potenti di energia, anche se, ad onore di quella frase che gli disse il gendarme che li arrestò (“noi siamo più civili”) le condizioni di questa schiavitù legale erano più ragionevoli che a casa ed erano pochi coloro che morivano sul campo di lavoro. La maggioranza viveva per poter uscire dal carcere e cercare di non tornarci (in genere in modo infruttuoso).
Tuttavia, né Gianni né Davide furono obbligati a lavorare in uno di quei campi. Questo sorprese e preoccupo Gianni allo stesso tempo. Era ovvio che non li consideravano dei detenuti qualsiasi, da quello che capì parlando con gli altri detenuti, così come nel suo paese, gli scienziati erano stati pubblicamente ripudiati in primo luogo e poi perseguitati con accanimento. Curiosamente, i politici erano riusciti a conservare un certo rispetto da parte della popolazione. Nemmeno tanto curioso; per la storia che Gianni era riuscito a ricostruire con frammenti sparsi qua e là, i politici erano riusciti a scaricare tutte le colpe su diversi settori della società, in particolar modo sugli scienziati. La Repubblica, che nei secoli era stata un baluardo della Scienza, la nazione che portò al mondo la Ragione, non era riuscita a perdonare all'onnipotente Scienza il fatto di non essere stata in grado di aiutarla nei momenti di necessità. Gianni si sorprese nel rendersi conto di quanta gente fosse convinta che gli scienziati fossero parte di un'odiosa congiura internazionale per tenere l'Umanità sottomessa ad una nuova Era di Oscurantismo. Non pochi detenuti, alcuni accusati di crimini davvero importanti, reagivano violentemente quando scoprivano che Gianni e Davide erano scienziati. In una di queste occasioni, addirittura, il professore salvò i suoi denti grazie all'azione rapida del suo pupillo (il quale, a forza di disavventure, aveva cominciato a darsi da fare). Nelle ultime prigioni prima di arrivare nella capitale della Repubblica, Gianni e Davide si fecero passare per contrabbandieri del sud che avevano assassinato un gendarme che stava sul punto di catturarli, per poi essere catturati. E per spiegare il perché non li mettessero ai lavori forzati, dicevano di supporre perché i gendarmi volevano rifarsi col loro bottino e non avevano interesse a che morissero o scappassero nei campi di lavoro. Con questa storia rocambolesca, riuscivano ad essere il pettegolezzo della prigione per il giorno o due che passavano di lì, ma nessuno faceva loro nulla, pensando a come approfittare di quei contrabbandieri tanto ricchi e vigilati dalle guardie e, nel momento in cui alcuni detenuti più audaci avevano ordito un piano per estorcere loro dei soldi, questi si erano già incamminati verso un nuovo presidio. Gianni si rese conto che la sua vita era più facile se lo prendevano per un criminale che non se lo prendessero per un professore universitario e concluse che la decadenza della Repubblica doveva essere totale.
Un mese dopo essere stati arrestati alla frontiera, arrivarono finalmente nella capitale. Li non furono alloggiati in una delle tante prigioni affollate che c'erano allora nella grande città, ma furono portati direttamente nelle segrete della Corte Nazionale. Venti anni prima, un Gianni studente aveva visitato la parte turistica, decorata con gusto straordinario, della Corte Nazionale. Ora, già uomo di mezza età, visitava la parte meno lucente e più sordida. Rimasero ancora un paio di giorni nelle segrete, senza avere notizie dall'esterno, ma mangiando in modo regolare – cosa che era un gran lusso per una prigione. Finché un giorno andò il Procuratore Generale dello Stato in persona a far loro visita, accompagnato da un seguito di venti persone fra guardie, segretari ed avvocati, che a malapena riuscivano a stare in quelle segrete così anguste. Gianni guardava il Procuratore con incredulità, quando, dopo una lunga e pomposa introduzione – tradizione nazionale – gli disse che lo si accusava di crimini contro l'umanità per aver partecipato come importante leader alla grande cospirazione internazionale degli scienziati di tutto il mondo per occultare i segreti dell'energia libera, che non si affannasse a negarlo perché avevano moltissimi documenti a riguardo, compresa la dichiarazione del direttore del Laboratorio Nazionale di Energie Rinnovabili nella quale si citava esplicitamente il nome di Gianni Palermo come uno dei leader della Grande Cospirazione. Con un gesto sprezzante, il Procuratore Generale mostrò a Gianni la dichiarazione di Pierre Lamarck che lo incolpava, ma Gianni glissò sullo stupido testo pieno di cazzate dettate da funzionari abbruttiti e guardò solo la firma tremolante. Rabbrividì immaginando in che stato si dovesse trovare Pierre nel momento in cui firmava quel documento pieno di follie ed atrocità. Povero Pierre, uomo integerrimo come pochi che aveva conosciuto. Posto di fronte alla scelta del male minore, sicuramente incolpò colleghi di altri paesi, lontani dalle grinfie di questa plebaglia impazzita, sperando così di salvare i suoi compatrioti anche se nel processo condannasse sé stesso, riconoscendo di far parte della “Grande Cospirazione”. Sentì la tentazione di chiedere al Procuratore Generale che sorte avesse subito Pierre, ma la sua naso rugoso ed il disprezzo contenuto che riflettevano le sue labbra strette fino a farle diventare livide, lasciava pochi dubbi al fatto che, se fosse dipeso da lui, Pierre sarebbe morto da tempo. Sfortunatamente, era dipeso da lui. Questo pensiero fece arrossire di rabbia Gianni, finché realizzò che ora la sua sorte e anche quella di Davide dipendeva dallo stesso energumeno omicida.
Dopo quello che considerava un argomento irrefutabile (la dichiarazione strappata con la tortura a Pierre Lamarck) il Procuratore rimase ancora vaneggiando trionfalmente per un interminabile quarto d'ora, riempendosi la bocca di parole che dalla sua voce pomposa suonavano più vuote del solito: “responsabilità”, “destino”, “aiutare l'Umanità in tempi di grande bisogno”, “dovere ineludibile”, “la Repubblica non lesinerà mezzi per porre fine a simili atrocità” ed espressioni di stile attuale. Ciò che lasciò perplesso Gianni, fu il finale del suo discorso, di una banalità tipica di un bambino di sei anni :
- La cosa è semplice – disse il Procuratore – lei libera le sue conoscenze sui dispositivi ad energia libera e la repubblica le perdonerà i suoi errori e – il ghigno di disprezzo si fece del tutto evidente – la coprirà persino di onori. Se decide di mantenere il segreto se lo porterà nella tomba, questo già lo sa, solo che che ci arriverà prima di quanto crede.
Gianni lo guardava con gli occhi aperti, con l'espressione di un pugile suonato. Pensava alle torture che aveva sopportato Pierre ed alla assurdità che gli poneva quell'uomo, che sarà stato anche dotto in legge, ma del tutto ignorante in buon senso e nella più minima intuizione delle leggi della Natura. Alla fine, abbassò lo sguardo:
- Questo non potrei farlo – scosse leggermente il capo, come per cercare di allontanare un pensiero molesto e doloroso. E lo ripeté perché fosse chiaro – No so come fare una cosa simile. Semplicemente, non è possibile fare una cosa del genere.
- Immaginavo già che avrebbe detto una cosa simile disse il Procuratore, le labbra in una sottile linea biancastra, mentre si girava – Le procureremo un avvocato per una sua migliore difesa.
Come se questo servisse a qualcosa, pensò Gianni.
L'avvocato difensore arrivò il giorno dopo. Uno zoticone squallido il cui maggior merito era stato difendere lo stupratore del ponte del nord, impresa che valse a lui una certa notorietà mediatica ed al suo cliente una esecuzione rapida. Il tipo vedeva nel caso di Gianni Palermo e del suo subalterno Davide Rosi l'opportunità di essere ancor di più famoso, anche se gli importava ben poco chi fossero i suoi clienti; in realtà, si vedeva chiaramente che dava per scontato che sarebbero stati condannati e giustiziati. Ma la Repubblica non poteva, o non poteva permettersi, di pagare un avvocato migliore per difendere coloro dall'altra parte considerava la causa di tutti i loro mali. Alcune notti, mentre si preparava il giudizio-farsa in arrivo, Davide singhiozzava immobile, cosa che Gianni gli perdonava per la sua giovinezza. Gianni rimaneva sereno: si sentiva stanco di dover sopportare tanta stoltezza e anche se non voleva morire, vedeva ciò che stava succedendo con una certa distanza, come se tutto fosse il risultato logico ed ineludibile di un macabro esperimento sociologico.
Il giudizio si sviluppò come previsto: le accuse a Gianni vennero formulate in pompa magna e con ostentazione: crimini contro la Repubblica e contro l'Umanità, cospirazione, associazione a delinquere, distruzione di beni pubblici e privati (si vede che gli davano la colpa di tutte le rivolte provocate dalla penuria), migliaia di morti e feriti, ecc. La procura chiedeva la pena di morte per Gianni ed il sequestro di tutti i beni che gli si potessero attribuire. Per Davide, la lista era molto più breve: complicità e occultamento. Per lui la procura chiedeva solo 20 anni di lavori forzati.
Il suo avvocato difensore fece il buffone sin dal primo momento, scrisse un'accusa iniziale tanto esagerata da ottenere un'ammonizione del tribunale. Concluse con una dichiarazione di innocenza da tutte le accuse per i suoi difesi così poco credibile e con alcune contraddizioni palesi, dando adito a fatti sui quali in realtà nessuno poteva testimoniare (perché del tutto inventati).
Il giudizio consistette in una interminabile sequele di testimonianze di gente che aveva sofferto le conseguenze del fatto di non disporre di energia magica che avrebbe soddisfatto le loro necessità e di rimproveri agli scienziati che la negavano. Presero un paio di poveri diavoli dai campi di lavoro, un tempo scienziati, che testimoniarono di aver visto meraviglie in funzione, con le quali sperimentavano i capi del laboratorio, ed uno disse perfino di ricordare di aver visto Gianni ad uno di questi test, nonostante che nelle date di cui egli riferiva, Gianni si trovava senza dubbio ad un congresso annuale dall'altra parte dell'Europa, il che sarebbe stato facile da verificare consultando gli annuari di quel congresso. Ma Gianni non volle segnalare questa contraddizione, una fra le tante in un oceano di contraddizioni: sicuramente quei poveri diavoli avevano ottenuto una riduzione di pena con quelle dichiarazioni, le quali in realtà non condannavano Gianni di più, perché oltre ad ucciderlo non avrebbero potuto fare di più, e lui era condannato e morto in anticipo. Chi sa se nel giro di pochi anni anche lo stesso Davide non sarebbe dovuto ricorrere allo stesso stratagemma per ridursi la pena di quattro o cinque anni...
Dopo una settimana , la pantomima di testimonianze era terminata e Gianni disse al suo avvocato che voleva fare una dichiarazione. Questi lo guardò, sospettoso, ma con le parole giuste e con tono sereno lo convinse che ciò che avrebbe detto sarebbe stato giusto ed indimenticabile. Il suo avvocato vide l'opportunità di ottenere ancora più pubblicità e chiese il permesso al tribunale perché Gianni potesse fare la dichiarazione. Il giudice parlò con i suoi assistenti per qualche secondo: “Giudizio curioso sarebbe quello in cui nessuno fosse interessato a ciò che l'accusato ha da dire”, pensò Gianni. In un momento, forse per il fatto che questa dichiarazione avrebbe dovuto essere necessaria, i giudici concordarono di ascoltare Gianni, anche se lo avvertirono che non avrebbero consentito la benché minima mancanza di rispetto. Gianni ringraziò con deferenza e li assicurò che non voleva fare altro che una dichiarazione moderata e ponderata.
Teoricamente, Gianni avrebbe dovuto rispondere alle domande del suo avvocato, ma nessuno, nemmeno il diretto interessato, aveva interesse di chiedergli alcunché ed una volta che cominciò a parlare tutti ebbero la curiosità di ascoltare ciò che aveva da dire. Gianni fu conciso e convincente. Usò le parole migliori che conosceva della lingua di quel paese, che non era la sua, in una accusa che da giorni stava provando nella sua cella. Semplice e diretto, sapendo che non lo avrebbero lasciato parlare più di un paio di minuti al massimo.
- Vostro Onore, signore e signori della giuria, pubblico in aula per questo giudizio, popolo della Repubblica, del mio paese, d'Europa, del mondo... Esordì Gianni – voglio chiedervi perdono. Perdono per non aver risolto i problemi tanto gravi che hanno avuto le nostre società. Perdono per non aver fornito soluzioni fattibili e rapide alla mancanza di energia e di risorse che hanno fatto precipitare le nostre città nella oscurità, nell'inattività e la nostra società nel Medio Evo. Vi chiedo perdono.
Il giudice sorrise, soddisfatto, dall'atto di contrizione di Gianni. Ma questi proseguì:
- Ma non vi chiedo perdono perché io o i miei colleghi abbiamo queste soluzioni e ce le teniamo malevolmente occultate. No. Vi chiedo perdono per aver permesso che vi facessero credere che la Scienza fosse in grado di risolvere tutti i problemi che si fossero presentati. Vi chiedo perdono per non aver protestato di fronte a queste notizie che uscivano ripetutamente nei supplementi di scienza e tecnologia dei quotidiani e nei notiziari televisivi che annunciavano l'arrivo prossimo di una meraviglia tecnologica, di una qualche nuova fonte energetica e di risorse, che poi non si sarebbe mai esaurita negli anni. Vi chiedo perdono perché alcune volte, stupidamente, abbiamo incitato e propiziato tali notizie come un mezzo di propaganda per ottenere soldi per la nostra ricerca, senza renderci conto che stavamo gonfiando le aspettative di una società in stato di bisogno. Una società che aveva bisogno di credere, di credere in qualcosa che gli riportasse la prosperità perduta, una società che non abbiamo sufficientemente contribuito ad educare, nella quale siamo stati d'accordo che la gente dicesse cose come “credo nel Cambiamento Climatico” o “non credo nel Cambiamento Climatico”, “credo nel picco del petrolio” o “non credo nel picco del petrolio”, “credo nelle energie libere” o Non credo nelle energie libere” ed espressioni simili che avrete sentito tante volte durante la vostra vita.
Il giudice cominciava ad aggrottare le sopracciglia. Gianni avrebbe potuto parlare solo qualche altro istante, così si decise a venire al punto.
- Tutte queste cose non riguardano la fede, non possiamo “credere” o “non credere” in esse. Non sono questioni di credenza, ma di scienza. La nostra scienza è umana e pertanto, come noialtri, incompleta ed in continuo progresso. Ma nonostante i suoi limiti, sapevamo – e e ancora sappiamo, almeno chi come noi è orgoglioso di praticare la Scienza – ciò che era ragionevolmente possibile e ciò che non lo era. Non “credevamo”: “sapevamo”. Ma non siamo stati capaci di vedere che la società non sapeva, credeva soltanto. Abbiamo permesso per omissione che la Scienza fosse la nuova religione, la religione del XX secolo e quando arrivarono i tempi di necessità, nel XXI secolo, e la Scienza disse. “ci dispiace, la Terra ha dei limiti, le risorse sono finite, non esistono fonti energetiche miracolose poiché tutte sono sottomesse alle Leggi della Termodinamica, l'inquinamento non può aumentare all'infinito senza danneggiarci gravemente” i nostri seguaci si sentirono offesi e traditi. Ed ora vogliono farci pagare il nostro tradimento senza comprendere che non esistono soluzioni miracolose; che l'errore lo abbiamo commesso prima, facendovi credere che la Scienza non aveva limiti, non ora che vi diciamo la verità. Smettete di rincorrere chimere! Dobbiamo lavorare insieme per costruire una nuova società nella quale le risorse siano gestite in modo sostenibile e...”
- Basta così! - il giudice era rosso d'ira – Signor Palermo, ha dileggiato questo tribunale col suo discorso pieno di malvagità e menzogne! Si ritiri dal banco degli imputati e che uno sceriffo la porti nelle segrete. E che non le diano la cena! - aggiunse il giudice con determinazione infantile.
Passando, ammanettato, di fianco al suo avvocato, questi gli sussurrò all'orecchio: “Hai firmato la tua sentenza di morte”. Gianni non poté reprimersi nel rispondergli amaramente: “In realtà è firmata da mesi, e non da me”.
Dalle segrete, Gianni poteva continuare a sentire le grida dell'aula del tribunale. Era chiaro che la sua accusa non era stata ben ricevuta, ma non aveva lasciato indifferenti. In seguito, Davide gli avrebbe spiegato le cose orrende che quelle persone, in gran parte gente di legge, avevano detto e come chiedevano per Gianni una tortura esemplare prima di giustiziarlo e – purtroppo – che la pena di Davide era salita a 40 anni, di fronte alla quale il suo avvocato poté solo balbettare un disarticolato “Mi dispiace, mi dispiace”. Davide aveva gli occhi distrutti dalle lacrime. Se 20 anni sembravano una vita, 40 gli garantivano la morte. Tuttavia, non osò rimproverare nulla al professore, forse perché aveva ragione. La sua accusa era “L'eppur si muove” di Gianni Palermo. Gianni inspirò profondamente, quando il suo aiutante tacque e gli disse: “Non preoccuparti, Davide. Ne usciremo”. Davide alzò rapidamente lo sguardo e lo guardò attonito. Si stava trasformando in professore pazzo per via di tanta pressione? Intuendo il suo pensiero, Gianni gli disse:
- E' venuto i Procuratore Generale. Sono giunto ad un accordo con lui. Ho fatto tutto ciò che ho potuto per salvare questa gente dall'ignoranza e la mia morte mi interessa poco, ma non posso trascinarti nella mia caduta, giovane aiutante.
Gianni guardava Davide. Se non lo avesse portato con sé quel maledetto giorno nella capitale del suo paese! Cosa avrebbe potuto fare quel povero ragazzo. Ma credeva ancora che il giovane fosse chiamato a fare grandi cose.
- Ma, signore, a che tipo di accordo è giunto? Cos'ha da offrirgli? - riuscì a dire alla fine Davide, con la respirazione disturbata dal singhiozzo.
- Domani lo vedrai. Ora riposa, che domani intraprenderemo un nuovo viaggio, come uomini liberi, o quasi.
Davide non credeva alle sue orecchie. C'era speranza dopo tutto ciò? O il professore era impazzito senza rimedio? Il giorno era stato intenso e molte le emozioni, così che il giovane si addormentò in fretta, senza ricordare di non aver nemmeno cenato.
Li svegliarono presto il mattino seguente; il giudice voleva emettere la sentenza molto rapidamente. “Niente sottigliezze di procedimento”, pensò Gianni, “come cambiano le cose quando la necessità è stringente”. Gianni e Davide entrarono in aula fra i fischi di tutti, che dovevano essere graditi al giudice visto che tardò diversi minuti prima di richiamare all'ordine. Il suo avvocato rimaneva seduto al suo fianco, di sicuro pensando che forse non era tanto buona la pubblicità di questo caso. Alla fine venne fatto silenzio e il giudice si dispose ad ordinare al presidente della Giuria che leggesse la sentenza, quando Gianni parlò con voce forte e chiara:
- Vorrei fare una dichiarazione accordata col Procuratore generale!
Il giudice gli avrebbe tagliato la testa a Gianni in quello stesso momento se avesse avuto un'ascia ed aprì molto la bocca, rosso di rabbia, per ordinare che lo riportassero nelle segrete – e chissà, che nel percorso gli spaccassero la faccia – quando vide in fondo fra il pubblico la figura imponente del Procuratore Generale, vestito completamente di nero, che con un gesto imperioso assentì. Il giudice rimase paralizzato, ridicolo, con la sua bocca aperta e la sua carnagione che era passata rapidamente dal rosso al bianco più pallido. Finalmente disse:
- Faccia in fretta, signor Palermo.
"Montesquieu deve rivoltarsi nella tomba”, pensò Gianni e un secondo dopo si rese conto di essere di nuovo “professore”. Non gli erano mai piaciuti troppo i titoli, ma il loro uso rifletteva abbastanza chiaramente l'opinione di chi parlava di lui. Andò direttamente al punto:
- Chiedo scusa per il mio comportamento di ieri. Fino a ieri temevo per la mia vita e per quella della mia famiglia se avessi rivelato i segreti che conosco. L'associazione degli illuminati, alla quale appartenevo, ci aveva liquidati – gli costò molto dire quelle parole senza ridere. Davide lo guardava attonito, come se non lo conoscesse.
- Ma il Procuratore Generale mi ha dato le massime garanzie personali – proseguì Gianni – e ora posso dire quello che realmente so. Mi sono accordato col governo della repubblica per recuperare il progetto di Tesla, al quale partecipai. Mi mancano materiali e schemi dei sistemi di generazione di energia libera, distrutti dagli Illuminati, ma spero in poco tempo di fare i primi prototipi e che nell'arco di qualche anno la Repubblica recuperi lo splendore che merita e che di nuovo sia il faro che illumina il mondo.
Al giudice gli occhi uscivano dalle orbite, la mandibola era irrimediabilmente cadente. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma il Procuratore Generale si fece avanti fra la moltitudine e disse con voce forte:
- E' sicuro. Infatti, ho l'ordine del Governo - e lo consegnò al giudice – di trasferire immediatamente il professor Palermo ed il suo aiutante in una installazione militare di massima sicurezza nella quale svilupperanno le nuove centrali di Tesla che saranno l'invidia del mondo e l'orgoglio della Repubblica – e, girandosi verso il pubblico con le braccia alzate disse: “Viva la Repubblica!!”. Gli risposero con tre “Viva!!” come nei giorni della Festa Nazionale. Un gruppo di dieci soldati circondarono Gianni Palermo e Davide Rosi e li scortarono verso l'uscita. Quando uscirono dalla porta, Gianni poté vedere che il giudice seguiva con la stessa espressione meravigliata e con la bocca grottescamente aperta.
- Quello che propone è assurdo, professore – disse Davide una volta nel camion che li trasportava verso la loro destinazione ignota. Lo disse nella sua lingua d'origine, ma anche così lo fece a voce bassa, per timore di essere sentito.
- Lo so – rispose Gianni senza nemmeno guardarlo – Non solo questo: è completamente in contraddizione con la mia accusa dell'altro giorno. Ma risuona bene coi pregiudizi di questa povera gente. Sono stati incapaci di capire ciò che dicevo ieri perché contraddiceva le loro aspettative, per questo erano tanto infuriati. Oggi, tuttavia, ho detto loro ciò che volevano sentire e questo sì che l'hanno ascoltato.
Davide si azzittì. Aveva la tentazione di chiedere al professor Palermo che piano aveva per evadere mentre montavano questo progetto fantasioso, ma pensò che lo potessero sentire e non poteva formulare la domanda tanto apertamente. Da quello che sembrava, sarebbero passati sotto custodia militare per tutto il tempo – era ovvio che il governo della Repubblica attribuiva molta importanza a questo progetto – ed evadere non sarebbe stato per niente facile. Era solo questione di allungare il progetto per anni fino a che i loro aguzzini non si fossero rilassati e loro non avessero trovato il modo di scappare.
- E in quanti anni volete che montiamo il primo impianto? - chiese Davide.
Gianni sorrise cinicamente e disse: In sei. – e di fronte al ghigno di Davide aggiunse – Mesi, non anni.
Davide sbiancò. Sei mesi. Avevano guadagnato sei mesi, ma erano ugualmente morti.