lunedì 5 maggio 2014

La crescita anti-economica

Da "Uneconomic growth in theory and in fact"  (traduzione d Jacopo Simonetta)

Prolusione di  Herman E. Daly. tenutasi al Trinity College, Dublino, 26/04/1999

     
   Ciò di cui voglio parlarvi oggi è un concetto che ritengo importante, anche se non se ne sente parlare molto.   Si tratta dell’idea della crescita anti-economica.   Sentiamo anche troppo parlare di crescita economica, ma la crescita anti-economica è possibile?   Io ritengo di si.

Questo pomeriggio, il testo per la mia presentazione è preso da John Ruskin: “Ciò che sembra essere ricchezza in verità potrebbe essere soltanto una dorata indicazione verso la sopravveniente rovina”.   Questo è il mio tema e voglio svilupparlo nel modo seguente:  Prima discuterò la crescita anti-economica in teoria.    Ha teoricamente senso?   Si può ricavare dalla teoria economica corrente?   Io ritengo che ciò è molto coerente con la teoria micro-economica, ma che confligge con la teoria macro-economica così come viene correntemente considerata.

In seguito discuterò quello che potrei definire “il problema del paradigma”, anche se utilizzerò un termine economico.    Josef Schumpeter, un grande economista della prima parte di questo secolo (XX° secolo ndt) parlava di una visione pre-analitica.   Ogni volta che ci impegniamo nell'analisi di qualcosa non partiamo dal nulla  – partiamo da una qualche percezione della natura dell’oggetto che andiamo ad analizzare.   Questa visione pre-analitica determina in gran parte quelle che saranno le nostre conclusioni.    Questo non è un atto di analisi, non potete arrivare ad una visione pre-analitica attraverso un’analisi.
Quindi, se vi avrò convinti della possibilità che la crescita anti-economica abbia forse un senso in teoria, esiste la crescita anti-economica nei fatti?   Magari è solo una scatola teorica vuota, senza niente di reale dentro.   Voglio quindi presentare qualche prova che negli Stati Uniti ed in alcuni altri paesi la crescita aggregata ci sta di fatto costando più di quanto rende e, di conseguenza, erode il benessere.
Parlerò degli Stati Uniti e non dell’Irlanda per la semplice ragione che non so niente dell’Irlanda, malgrado i miei antenati vengano da qui.    Così io vi ringrazio per avermi spedito dagli antenati e per condividere i vostri geni con me:   Ma poiché nessuna informazione sull’Irlanda viene trasmessa geneticamente, ho qualcosa da imparare.
In terzo luogo, dal momento che ho ipotizzato che l’ideologia della crescita infinita non deriva veramente dalla teoria economica, perché dobbiamo enfatizzare la crescita economica per nascondere la crescita anti-economica?   Io suggerisco che questo abbia a che fare con fondamentali problemi associati con i nomi di Malthus,  Marx, Keynes e, più di recente, con la Banca Mondiale.
Se ne avrò il tempo, vorrei poi dire anche qualcosa sulla globalizzazione come il maggior ostacolo al riconoscimento dell’esistenza di una crescita anti-economica e particolarmente al fermarla od evitarla.   Infine ci sarà uno spazio per la discussione.

Permettetemi di cominciare con la domanda: può la crescita del PIL (è questo che di solito chiamiamo crescita economica, la crescita del PIL). Può la crescita del PIL diventare di fatto anti-economica?  

Bene, prima di rispondere, penso che sia bene porsi una domanda simile in micro-economia.   Può la crescita di attività micro-economiche (cioè quelle di imprese e famiglie), possono queste attività diventare anti-economiche?   Certo che si.   Lo scopo stesso della micro-economia è trovare il livello ottimale di ogni attività.   Man mano che un’attività cresce, ne crescono i costi marginali che possono incrociare i guadagni marginali che decrescono.   Se si cresce oltre questo punto, diviene anti-economico.   L’essenza della micro-economia è l’ottimizzazione e questo implica fermarsi.   Così la regola dei costi marginali uguali ai benefici marginali, che vi è familiare se avete fatto il primo corso di economia, è efficacemente chiamata in alcuni testi “la regola del quando fermarsi”.    Mi piace questo ter mine: “la regola del quando fermarsi”.
Bene, avete avuto il vostro corso di micro-economia.   Ora viene il corso di macro-economia.  Niente più equiparazione dei costi e dei benefici marginali, niente più regola del quando fermarsi.   Semplicemente aggregate tutto nel PIL che si suppone poter crescere per sempre.    Questa trovo che sia una cosa curiosa.  Alla base della teoria economica, nella micro-economia,  l’idea della crescita anti-economica è fondamentale e  nient’affatto controversa, ma quando si passa alla macro-economia semplicemente si aggrega tutto.   Oops!   Di colpo non c’è più la regola del quando fermarsi e neppure una qualsiasi domanda circa un livello ottimale di attività.   Così, permettetemi di ragionare un po’ sul perché accada questo e, per farlo, consentitemi di tornare all'idea della visione pre-analitica, o paradigma che ho menzionato.

Vorrei prima presentare la visione pre-analitica dell’”Economia Ecologica”.

Questo è condiviso da molti altri economisti anche se ci sono varie discussioni.   Ho chiamato questo la macro-visione della macro-economia.   La cosa importante in questa visione è che l’economia viene considerata un sottosistema di un più grande ecosistema.   E l’ecosistema è delimitato, non cresce ed è chiuso dal punto di vista della materia.   Vi è un flusso in entrata di energia solare nel sistema maggiore ed un flusso in uscita di calore.   Degradandosi, l’energia solare fa girare i cicli bio-geo-chimici che sostengono la vita; è tutta quella roba verde che fa muove ogni cosa.   L’economia è quindi vista come un sotto-sistema aperto.   E’ aperto sia nei confronti della materia che dell’energia.   Preleva materia/energia a bassa entropia dall'ecosistema dove scarica materia/energia ad alta entropia e vive di questo gradiente.   Vive degradando materia ed energia.  

Quindi cominciamo esaurendo e terminiamo inquinando.   Non c’è modo di evitare questo salvo smettere di mangiare ed eliminare i rifiuti.   E’ una parte naturale dell’economia.   E’ il suo apparato digerente e deve stare dov'è.  

La materia può essere riciclata.   Possiamo prendere qualcosa dalla spazzatura ed usarlo di nuovo.   Qualcuno potrebbe pensare: “Bene, allora ricicliamo anche l’energia”, ma i fisici ci dicono che invece non possiamo.   Più esattamente, ci dicono che possiamo, ma che per raccogliere l’energia scartata, riportarla indietro ed usala di nuovo ci vorrà sempre più energia di quanta se ne possa recuperare.   Il costo energetico del riciclo di energia è sempre maggiore della quantità di energia riciclata.   Quindi è una proposta perdente e gli economisti devono capirlo.   Non è questione di quanto costa l’energia, non sarà mai possibile riciclare l’energia perché c’è una costrizione fisica sotto cui dobbiamo vivere: la seconda legge della termodinamica o legge dell’entropia.  Un’altra cosa.   Tutto ciò che si trova all'interno del cerchio che rappresenta l’ecosistema è misurato in unità fisiche.   Ma non possiamo analizzare l’economia in unità fisiche perché, se lo facciamo, raggiungiamo la conclusione che il prodotto fisico finale dei processi economici sono energia e materia di scarto e non ha molto senso avere un’economia il cui prodotto finale sono i rifiuti.   E’ una sorta di macchina idiota, ma questo è il prodotto fisico finale.  

Così, se volete ridare senso all'economia, dovete evitare le dimensioni fisiche e procedere verso qualcosa che imponga valore o benessere, soddisfazione psicologica dei desideri.   Ho messo questo fuori del cerchio e lo ho chiamato “Benessere”  (soddisfazione dei desideri) ed ho indicato due fonti di servizi.   La prima è la linea di sopra , servizi economici, che rappresenta il soddisfacimento di desideri tramite quello che ho chiamato “capitale antropico;” la roba marrone dell’economia, i manufatti.   La linea di sotto rappresenta invece  i servizi ecosistemici (la soddisfazione dei nostri desideri da parte degli ecosistemi, la roba verde).   In quanto economisti, quello che ci preme è massimizzare il benessere totale, cioè massimizzare la somma dei due flussi di benessere.   Non vogliamo massimizzarne uno solo, vogliamo che la somma fra i due sia più grande possibile.

Ora, quello che accade con la crescita economica è che la dimensione fisica dell’economia cresce trasformando quello che era roba verde (capitale naturale) in roba marrone (capitale antropico).   Un albero viene tagliato e trasformato in un tavolo; un albero in meno nella foresta, un tavolo in più in casa vostra e così via.   Ma via via che l’economia cresce, c’è un’occupazione nei confronti del rimanente ecosistema che si traduce in costo dipendente dalla perdita di opportunità (con un albero si possono fare sia tavole che sedie od armadi, mentre un tavolo resta tavolo finché lo si butta via. ndt).

Man mano che si espande il flusso marrone si riduce quello verde.   E magari continueremo finché l’incremento del flusso marrone sarà superiore alla riduzione di quello verde in termini di utilità per noi.   Ma ad un certo punto, molto prima di occupare tutto lo spazio verde trasformandolo in roba marrone, arriveremo ad un optimum: un punto oltre il quale ogni ulteriore crescita diventa anti-economica in quanto riduce i servizi eco sistemici più di quanto non incrementi quelli economici.

A quel punto l‘economia avrà raggiunto la sua dimensione ottimale in rapporto  all'ecosistema.
Notate qui che sto considerando esclusivamente il benessere umano.   Ho scelto di proposito un approccio estremamente antropocentrico.   Solamente gli esseri umani vengono qui presi in considerazione per il benessere.   Se volessimo valutare anche il senziente di godimento della vita da parte delle altre specie come parte del benessere, avremmo una ragione in più per mantenere parte della roba verde che è l’habitat delle altre specie.   Questo riduce ulteriormente le possibilità di espansione dell’uomo, nella misura in cui nell'equazione contiamo la riduzione del godimento della vita da parte delle altre creature senzienti.

Kenneth Boulding una volta presentò un teorema molto profondo: disse che quando qualcosa cresce diviene più grande.   Io chiamo le schema in alto lo scenario “mondo vuoto” e quello in basso “mondo pieno”.   Questo è un poco ingannevole perché il mondo non è mai vuoto.   Prima era vuoto di noi e dei nostri oggetti mentre era pieno di altre cose.   Ora è pieno di noi con la nostra roba e relativamente vuoto di quello che c’era prima; così è leggermente ingannevole, ma voi capite quel che voglio dire.

Le due figure sono fondamentalmente le stesse: entrambe mostrano l’economia come un sotto-sistema di un più grande sistema che è delimitato, progressivo e chiuso dalla materia.   In entrambi i casi l’economia dipende per il suo mantenimento dall'ecosistema che la contiene.   Possiamo essere in disaccordo su quale dei due schemi rappresenti meglio il mondo in cui viviamo.   Io tendo a dire che lo rappresenta meglio il mondo pieno.   Qualcun altro potrebbe dire: “No, il mondo vuoto, abbiamo ancora un sacco di spazio”.   Siamo entrambi nella medesima visione analitica e possiamo argomentare pro e contro, e possiamo mostrarci l’un l’altro delle prove per convincerci.

C’è un altro tipo di dibattito.   Magari non è un dibattito perché comincia con una visione pre-analitica molto diversa.   Dice: “No, questo non è il modo giusto di guardare la realtà.   State osservando il problema sbagliato.   L’economia non è un sotto-sistema di un più grande ecosistema delimitato eccetera; è tutto il contrario.    L’economia è il sistema globale di cui l’ecosistema è un settore ed a causa di questo errore che lo avete disegnato in questo modo”.

Che cos’è l’ecosistema?   Beh sono le cave e le discariche; cose di questo tipo e noi possiamo riciclare questi materiali sempre più in fretta man mano che l’economia cresce.   In questa rappresentazione l’economia cresce nel vuoto.   In questa visione, la crescita non occupa spazi a nient’altro.   Non c’è perdita di opportunità, niente viene sacrificato all'espansione dell’economia così che chi potrebbe essere contro la crescita?   Non provoca scarsità di nessun tipo, non usurpa niente a nessuno, non richiede alcuna rinuncia.   In effetti, la crescita semplicemente allenta le scarsità fra le varie parti interne al sistema economico cosicché solo l’idea che ci possano essere dei problemi con la crescita è un totale nonsenso ed è così che funziona il mondo.

Ora io penso che sia molto difficile argomentare fra questi due paradigmi.   E’ come fra Tolomeo e Copernico.   Si possono presentare delle prove, ma fondamentalmente è questione di come volete guardare la cosa.   Ciò non significa che una visione sia migliore dell’altra, significa che è difficile dirimere la questione.

Nello sforzo di essere più equo possibile, permettetemi di qualificare l’interpretazione che sto dando.   La roba marrone in questa figura… Nell'altra ricordo che faccio una netta separazione fra unità fisiche ed unità di benessere – le unità fisiche sono dentro il cerchio ed il benessere fuori.  La roba marrone è totalmente fisica.   Questo per essere chiari con gli economisti che stanno pensando a questo marrone come al PIL piuttosto che come  a tonnellate o barili eccetera.   Così, pensando ad un valore piuttosto che una dimensione fisica, gli economisti non sono corretti a dire che pensano di poter far crescere all'infinito degli oggetti fisici.   Quello che stanno pensando davvero è che è il valore che può crescere per sempre.  Ma il valore, vorrei dire, anche se non è riducibile a dimensioni fisiche, non è comunque indipendente dalle dimensioni fisiche.   Deve necessariamente avere una dimensione fisica.   Per adesso la dico come un’asserzione.   Qui nel mondo fisico, il valore deve essere in qualche modo incorporato in un corpo fisico.   Si, la conoscenza ha un valore, ma entra in funzione nell'economia quando viene incorporata in energia/materia a bassa entropia e svolge qualche funzione utile.

Bene, questa è a parer mio la differenza di paradigma.   La mia risposta agli economisti che dicono: “Tutto quel che vogliamo è far crescere all'infinito il valore, non l’energia e la materia!”  è dire: “Bello.   In questo caso restringete e rallentate il flusso di materia ed energia, occupatevi di tecnologia e lasciate che il valore supportato da questo flusso prestabilito cresca per sempre ed io vi applaudirò.  Io sarò contento ed anche voi lo sarete”.   Questa sarebbe una soluzione facile per quelli che davvero possono far crescere e crescere per sempre il PIL con un flusso materiale fisso.   Io penso che ci sia spazio per il progresso in questa direzione, ma penso anche che ci siano dei limiti. 

Riguardo alla questione della crescita anti-economica in teoria, cominciamo con una visione pre-analitica.   Facciamo un primo passo nell'analisi di questa visione.   La curva continua rappresenta il benessere o il vantaggio marginale o il beneficio della crescita.   Q sull'asse orizzontale rappresenta il PIL.  Come usciamo dall'asse orizzontale abbiamo una riduzione del margine utile.   I penso che questa sia una legge dell’economia, fondamentale e ben stabilita (legge dei “rendimenti - o ritorni -  decrescenti”, ndt).
La curva tratteggiata qui sotto è il costo della crescita del PIL – in altre parole, i sacrifici sociali ed ambientali resi necessari dal fatto che la crescita occupa spazio all’ecosistema.   Ho chiamato questa “visione jevoniana” in onore a William Stanley Jevons, un grande economista intorno al 1870, che usava questo tipo di diagrammi per altro tipo di problemi, ma la logica è assolutamente la stessa.   In questo diagramma cos’è la crescita anti-economica?   Beh, la crescita economica è fino al punto B sull’asse orizzontale.   In corrispondenza di B il segmento AB è uguale a quello BC:   Il vantaggio marginale è uguale all’aumento dei costi.   Crescere oltre il punto B è anti-economico.   Poiché la distanza fra l’asse orizzontale e la linea tratteggiata è maggiore della distanza fra l’asse e la linea continua, la crescita vi rende più poveri anziché più ricchi.   E così abbiamo la definizione di crescita anti-economica: la crescita oltre il punto “B”.

Ho distinto diversi limiti alla crescita.   Uno è il punto B, il limite economico in cui il vantaggio marginale equivale al costo marginale.   Un altro è il punto E dove l’utilità marginale arriva a zero.   Ho chiamato questo il limite della futilità perché quando siete qui avete così tanti beni da godere che non avete tempo di godervene nemmeno uno.   Conseguentemente, aggiungerne ancora non vi da niente perché già non potete usare tutta la roba che avete.   E’ comunque futile, indipendentemente da quanto poco costa.   Il terzo punto è D dove la curva tratteggiata gira in picchiata verso l’infinito.   Chiamo questo il limite della catastrofe, il limite della catastrofe ecologica.    C’è un grazioso scenario dove voi inventate un qualche meraviglioso nuovo prodotto che ha un imprevedibile effetto collaterale che distrugge la capacità delle piante di fotosintetizzare ed improvvisamente zap!   Beh, la cosa piacevole del limite economico è che è il primo che incontriamo.

Gli altri due limiti non necessariamente devono apparire nell'ordine in cui li ho mostrati.   Il limite catastrofico potrebbe arrivare prima del limite della futilità.    Comunque, i penso che il limite economico arrivi prima, anche se nello scenario peggiore potrebbe coincidere con quello catastrofico.
Mi pare che sarebbe molto carino se nella nostra contabilità nazionale avessimo due serie di dati invece di una.   Se ho un set di dati che misurano i benefici (la linea continua) ed un’altra che misura i costi (la linea tratteggiata) e potessimo sommarli in modo da accorpare costi e benefici, potremmo confrontarli nello sforzo di cercare un livello ottimale di attività piuttosto che semplicemente presumere che l’attività economica debba crescere per sempre.

OK, penso che questo sia tutto quello che vi dirò sulla teoria.   Per quanto riguarda la realtà, ci sono degli indizi che qualche paese sia forse oltre il punto B, in una zona di crescita anti-economica?   Vi offro due elementi di prova.
Uno.   Ci sono due importanti economisti americani, William Nordhaus and James Tobin.  Tobin ha vinto il premio Nobel per un altro lavoro.   Circa trenta anni fa si posero la domanda: “La crescita è obsoleta?”   Penso che con obsoleto intendessero anti-economico.   Per rispondere a questa domanda dissero: “Tutti noi sappiamo che il PIL non è mai stato una misura di benessere.   E’ una misura di attività.   Giusto, quindi cerchiamo di testarla.   Costruiamo un indice che misuri il benessere o quello che pensiamo sia una misura del benessere e quindi correliamolo con il PIL “   Chiamarono il loro indice “Benessere Economico Misurato”, MEW, e scoprirono che, certo, c’era una correlazione.  

Nell'insieme del periodo 1929-1965 per ogni incremento di 6 unità di PIL c’era in media un aumento di 4 unità di MEW.   Non uno ad uno, ma 6 a 4.   Non male.   Un sospiro di sollievo.   La conclusione che raggiunsero fu che, anche se il PIL non era mai stato inteso come misura di benessere, comunque era sufficientemente ben correlato con il benessere da poter continuare ad essere usato considerando che sia una ragionevole misura del benessere. 

Bene, circa 20 anni dopo John Cobb, Clifford Cobb ed io decidemmo di dare un’altra occhiata a questa faccenda.   Stavamo sviluppando il nostro indice di benessere economico sostenibile e pensammo che il lavoro di Tobin e Nordhaus fosse la migliore base che potessimo trovare.   Spezzammo la loro serie temporale in due segmenti e scoprimmo che nel secondo periodo, i 18 anni fra il 1947 ed il 1965, la correlazione non era 6:4, bensì l’incremento di 6 unità di PIL davano un incremento di una sola unità del loro indice di benessere economico.   Così, come minimo, sembrava che l’aumento del PIL diventasse un modo sempre meno efficiente di incrementare il benessere sulla base dei loro stessi dati, delle loro stesse definizioni eccetera.   Avremmo voluto estendere il loro lavoro e vedere cosa succedeva dopo il 1965, ma non potemmo perché la serie statistica era cambiata.

Il loro indice non ci piace comunque perché non prevede nessuna correzione per i cambiamenti nella distribuzione dei redditi, per il depauperamento del capitale naturale ecc.   Così sviluppammo un altro indice che chiamammo “Indice di Benessere Economico Sostenibile” (ISEW).   E facemmo la stessa cosa che avevano fatto Nordhaus e Tobin.   Correlammo il nostro indice con il PIL e c’era una correlazione positiva all'incirca fino alla seconda metà degli anni settanta, quindi il nostro indice stagnava mentre il PIL continuava a crescere.   Addirittura il nostro indice declinava lievemente, mentre il PIL cresceva.

Non facemmo grandi cambiamenti rispetto al MEW.   Giusto applicammo una sottrazione per il depauperamento  del capitale naturale ed introducemmo una correzione relativa alla ripartizione dei redditi perché pensammo che fosse contrario alla teoria economica valutare un dollaro in più di reddito per una persona molto ricca alla stessa stregua di un dollaro in più per un povero.   Non applicammo nessuna deduzione per la riduzione del vantaggio marginale del reddito complessivo delle nazioni che diventano più ricche.   Neppure deducemmo qualcosa per il consumo di beni pericolosi come tabacco, alcol, eccetera.   Quindi giocammo in modo molto conservatore e, ciò nondimeno, trovammo che il benessere misurato da questo numero negli USA diminuiva, mentre il PIL cresceva.

Ora, sappiamo che misurare il benessere è un affare molto difficile ed insidioso.   Non voglio dire che la nostra misura è una grande misura del benessere, ma dimostra il fatto che quando progettarono il PIL non tentarono nemmeno di misurare  il benessere.   Noi ci abbiamo provato e probabilmente abbiamo trovato una misura un poco migliore del PIL.   E la correlazione fra i due è molto scarsa.

Ok, questo è solo un assaggino di crescita anti-economica.   Io penso che la crescita degli Stati Uniti, la crescita aggregata, sia anti-economica perché i costi aumentano più rapidamente di quanto facciano i benefici.   Con questo voglio dire che non c’è modo di migliorare il benessere degli Stati Uniti?   No, certamente no.    Ci sono un sacco di cose che devono crescere ed altre che devono declinare.   Il problema è l’aggregazione del PIL.   Se volete parlare delle cose che devono crescere dovete lasciar perdere gli aggregati ed occuparvi delle parti.   Dovete allontanarvi dalla macroeconomia, occuparvi di microeconomia ed identificare quegli elementi per i quali i benefici marginali sono ancora maggiori dei costi marginali.   Questo vi allontanerà dalla grossolana politica di stimolare genericamente la crescita economica aggregata che rappresenta il problema maggiore.


Ora permettetemi di occuparmi di qualche ragione di storia politica per controllare la crescita.   Ho detto che la spinta per la crescita in effetti non deriva dalla teoria economica standard che dice che esiste qualcosa come un optimum dove vi dovete fermare.   In macroeconomia invece non lo facciamo, andiamo avanti a crescere.   Da dove viene questo mandato?   Voglio suggerire diverse origini.    Penso che scaturisca dai problemi politici pratici di cui si occupano gli economisti.   Per esempio, il problema pratico della sovrappopolazione associato con il nome di Malthus.   La cura standard per la sovrappopolazione nel modo di oggi è la transizione demografica.   Se semplicemente andiamo avanti con la crescita economica, arriveremo ad un punto oltre il quale le persone cominceranno ad essere sempre più ricche e cominceranno ad avere automobili e frigoriferi invece di bambini.   L’economia cresce, la popolazione tende a diminuire e la transizione demografica avviene automaticamente.   Quindi se siete preoccupati per la popolazione, si è legittimo esserlo, ma non vi preoccupate, semplicemente dedicate ogni vostro sforzo alla crescita economica ed il problema demografico si risolverà da solo.

Ora consideriamo un altro grosso problema, l’iniqua distribuzione dei redditi fra classi sociali, largamente associata con il nome di Karl Marx fra i molti altri.   Quale è la soluzione?   Ridistribuire?

Oh no, questo causerebbe dei problemi.   Cresceremo in modo che l’iniqua distribuzione fra classi divenga perlomeno tollerabile.   Voglio dire che anche se il ricco arricchisce più rapidamente del povero, il povero non può protestare perché anche lui si sta arricchendo.   Quindi il modo per far stare tutti meglio è la crescita aggregata.   “La marea montante alza tutte le barche” si dice, ma naturalmente non è vero dal momento che una marea che sale in una parte del mondo significa una marea calante altrove, ma forse per una parte del mondo può essere vero.

Che dire della disoccupazione involontaria, il grande problema riconosciuto da John Maynard Keynes e, naturalmente, molti altri.   La cura è stimolare la crescita aggregata..   E come stimolare la crescita aggregata?   Beh, ci sono molti modi, ma il principale è l’investimento.   Devi stimolare gli investimenti e la crescita e questo curerà la disoccupazione.

Dobbiamo crescere oltre il livello ottimale per perseguire il pieno impiego?  Pare che questa sia un’importante domanda che non viene posta.  

Continuando in quest’epoca l’onorata tradizione di Malthus, Marx, e Keynes, durante il 1992 apparve il Rapporto della Banca Mondiale sullo Sviluppo Economico che quell'anno era dedicato allo sviluppo ed all'ambiente.  “Si”, diceva, “c’è un problema di degrado ambientale, ma hey, guarda!   Basta mantenere la crescita.   Crescendo abbastanza, magari diventiamo abbastanza ricchi da pagare i costi di ripulire e migliorare l’ambiente.”   Così, nella onorata tradizione, hanno trovato qualcosa che hanno battezzato “Curva ambientale di Kuznets” da Simon Kuznets che fu un grande statistico ed economista.   L’idea è una curva a forma di U rovesciata.   Man mano che la crescita economica prosegue lungo l’asse orizzontale, nel caso di Kuznets, la disuguaglianza cresce fino ad un massimo e poi diminuisce fino ad un qualche punto.   Bene, hanno adattato questo dicendo che l’asse orizzontale mostra la crescita del PIL.   Poi hanno preso un certo numero di misure di cose diverse, accuratamente scelte e, sicuramente, hanno trovato che alcuni tipi di inquinamento crescevano con il PIL fino ad un massimo per poi declinare.   Hurrà!   La cura per un problema ambientale è semplicemente persistere nella crescita anti-economica.    Una volta superato il picco la curva ridiscende e si entra in un campo di soluzioni sempre vincenti, tutto va contemporaneamente meglio eccetera.

Allora, quale è il punto dove voglio arrivare?   Il punto è che tutti questi problemi hanno la stessa soluzione: più crescita economica presupponendo che la crescita sia effettivamente economica in ogni caso, che questa crescita ci stia davvero rendendo più ricchi anziché più poveri.   Ma se entriamo in un’era di crescita anti-economica, la crescita ci renderà più poveri.   Questo non sosterrà la transizione demografica per curare la sovrappopolazione, non aiuterà a riparare l’ingiusta distribuzione e neppure a ripulire l’ambiente.

Quindi abbiamo bisogno di soluzioni più radicali ai problemi di Malthus, Marx e Keynes .   Controllo della popolazione per contrastare la sovrappopolazione.   Ridistribuzione per contrastare le ineguaglianze eccessive.   Per la disoccupazione non sono sicuro di conoscere la risposta: forse il settore pubblico come datore di lavoro di ultima istanza, una riforma ecologica della tassazione, alzare il prezzo delle risorse, condivisione del lavoro, soluzioni diverse.

Questa per me è una conclusione su cui riflettere.   Mi pare che la ragione per cui abbiamo enfatizzato politicamente la crescita, ponendola al primo posto, è che senza essere radicale dovrebbe risolvere tutti questi devastanti problemi: sovrappopolazione, disoccupazione, iniqua distribuzione, ecc.   Offre una soluzione sempre vantaggiosa a tutti questi problemi che ci schiacciano le ossa.   Togliete la crescita e dovrete trovare delle soluzioni davvero radicali, cosicché i politici non vogliono farlo ed il pubblico non è pronto per sopportarlo.   Ma se la crescita attuale è davvero anti-economica, allora dobbiamo fronteggiare soluzioni di tipo veramente radicale ai problemi fondamentali.   Niente di più tentante di pensare: “Beh, di sicuro la crescita deve essere economica.”   E tirare avanti.
In chiusura, lasciatemi puntualizzare che ritengo che il tipo di politiche radicali cui ho fatto cenno senza definirle veramente (politiche per contrastare la sovrappopolazione, l’ingiusta distribuzione ed il degrado ambientale) devono essere portate avanti dagli stati nazionali a livello nazionale.   Questo è l’ambito comunitario nel mondo di oggi; questo è l’ambito in cui le autorità attuano la politica.   So che le cose stanno cambiando, che si stanno spostando, ma è quello che esiste adesso e se avremo globalizzazione temo che questo ridurrà la capacità delle nazioni e delle comunità di sviluppare il tipo di politiche molto radicali di cui abbiamo bisogno per fronteggiare queste difficoltà.

Concludendo, giusto per chiarezza, vorrei distinguere l’internazionalizzazione dalla globalizzazione.   Per me l’internazionalizzazione si riferisce alla crescente importanza del mercato internazionale, dei trattati, delle alleanze eccetera.   Internazionale, naturalmente , significa fra nazioni.   L’unità di base rimane la nazione, anche se le relazioni fra nazioni diventano sempre più importanti, cruciali e necessarie.   Questa è l’internazionalizzazione. 

Globalizzazione si riferisce invece all’integrazione economica di molte economie precedentemente separate.   La globalizzazione, perlopiù tramite il libero commercio e la libera mobilità dei capitali, ma anche in misura minore favorendo le migrazioni, è un’effettiva erosione delle frontiere economiche nazionali.    Quello che prima era internazionale adesso diventa inter-regionale, quello che era governato dal vantaggio relativo e dal reciproco guadagno adesso diviene governato dal vantaggio assoluto senza alcuna garanzia di reciproco guadagno.   Ciò che era molti diventa uno.   La stessa parola integrazione deriva da “integer”, sicuro, ed integer significa uno, completo ed unico.   L’integrazione è l’atto di amalgamare in un tutto unico. E Siccome c’è un solo tutto unico, una sola unità di riferimento in cui le parti sono integrate, ne consegue logicamente che l’integrazione economica globale implica la disintegrazione delle economie nazionali.    

Con disintegrazione non intendo che scompaiono le unità produttive, solo che sono estratte dal contesto nazionale e riarrangiate su base internazionale.   Come dice il proverbio: “Per fare una frittata bisogna rompere le uova”.   Per integrare la frittata globale bisogna rompere un po’ di uova nazionali.   Mentre suona simpatico parlare di “comunità mondiale”, dobbiamo confrontarci con i costi a livello nazionale dove le istituzioni e le comunità esistono veramente.   Disintegrare le comunità dove esistono, al livello nazionale, nel nome di un ideale e speranzosa nozione di comunità attenuata dove questa ancora non esiste, a me sembra molto problematico (l’autore è statunitense e ritengo che per livello nazionale si riferisca quindi ad un livello federale analogo a quello degli USA, non a quello dei suoi singoli stati della federazione ndt.).   

Globalizzando, togliamo agli stati la capacità di imporre ed attuare le politiche necessarie per internalizzare i costi esterni, controllare la popolazione, fare le cose necessarie.   Entriamo in un regime di competizione al ribasso in cui le compagnie transnazionali possono giocare un governo contro un altro allo scopo di ottenere la minore intenalizzazione possibile dei costi sociali ed ambientali delle loro produzioni.   In questo processo, secondo me, i principali sconfitti saranno le classi lavoratrici dei paesi che, per qualsiasi ragione, avevano fatto in modo di mantenere alti salari, bassa crescita demografica, alti standard di internalizzazione dei costi ambientali.   Tutti questi standard saranno schiacciati a livello della media mondiale che sarà relativamente bassa.   Perciò io vedo la globalizzazione come l’ostacolo maggiore all'attuazione del tipo di politiche radicali che sono necessarie per evitare la spirale decrescente della crescita anti-economica.

In effetti, a me sembra che la globalizzazione sia solo un modo per ridimensionare la capacità delle nazioni di contrastare i propri problemi di sovrappopolazione, iniqua distribuzione, disoccupazione e costi esterni.   Tende a convertire molti problemi difficili, ma relativamente trattabili, in un grande ed intrattabile problema globale.   Per questa ragione penso che dovremmo essere molto accorti a celebrare e promuovere la globalizzazione ed invece tornare al modello dell’internazionalizzazione.  

Questo non significa rinunciare ad una comunità economica globale, una comunità mondiale: è un differente modello di comunità.   Significa che il mondo può essere una comunità di comunità, di nazioni federate in una comunità, piuttosto che membri diretti di una comunità in cui non c’è intermediazione da parte delle nazione che fondamentalmente spariscono.   
Bene, dopo questa provocazione io penso che forse sia meglio fermarmi.





domenica 4 maggio 2014

Qual è la tua impronta di carbonio e da dove viene?

Da “Skeptikal Science”. Traduzione di MR

Di Marcin Popkiewicz

Quando ho appreso per la prima volta che un europeo medio è responsabile di emissioni di quasi 10 tonnellate di biossido di carbonio all'anno (e un americano del doppio di quella quantità) sono rimasto molto scioccato.

Volevo sapere quanta di questa impronta di carbonio è collegata ad attività particolari: riscaldamento, guidare la macchina, viaggiare in aereo, produzione di cibo e beni, consumo casalingo di elettricità, ecc. Volevo sapere come è collegata la mia impronta di carbonio alla media del mio paese, degli stati Uniti, della Cina o dell'India. Il mio livello di emissioni era sicuro per la Terra o sembravano piuttosto le tracce di Godzilla? E più di tutto, volevo sapere quali cambiamenti nella mia vita avranno un reale impatto, non solo un miglioramento del mio stato d'animo. Ho lottato per ridurre la mia impronta di carbonio, quindi queste informazioni erano cruciali per prendere decisioni informate.

Se avete pensieri simili, il modo migliore per risponder loro è quello di usare un Calcolatore personale di impronta di carbonio, attrezzo ufficiale del Ministro dell'Ambiente polacco per la conferenza dell'ONU COP14 sul clima (c'è anche una versione locale del calcolatore, potete scaricarla qui, installando prima Adobe AIR). Il calcolatore tradurrà il vostro stile di vita in impronta di carbonio totale, divisa in diverse categorie e mostrata in una forma grafica chiara.


Illustrazione 1. Stile di vita americano: reddito medio statunitense doppio, casa in periferia, SUV, dieta carnivora e viaggi aerei frequenti danno 37 tonnellate di emissioni di CO2 all'anno. 

Il calcolatore mostra anche come cambierebbe la vostra impronta di carbonio dopo alcuni cambiamenti nel vostro stile di vita. 


Illustrazione 2. Stile di vita americano riconsiderato:metà dello stipendio medio statunitensem appartamento in città, bicicletta e trasporto pubblico, dieta vegetariana locale e nessun volo riducono l'impronta a 9 tonnellate di CO2 all'anno. Escludendo le emissioni che non si possono controllare (barra gialla in basso, che rappresenta le emissioni legate alla costruzione e alla manutenzione di strade, gallerie e ponti, illuminazione delle città, amministrazione, esercito e polizia, servizi di soccorso, cliniche ed ospedali, chiese, musei, approvvigionamento d'acqua e sistemi fognari, scuole, ecc.) le emissioni personali si riducono a poco più di 5 tonnellate di CO2/anno. 

Controllate le vostre emissioni e vedete cosa potete fare per ridurre la vostra impronta di carbonio. Fate un esperimento: guardate quali cambiamenti del vostro stile di vita sarebbero necessari per ridurre la vostra impronta fino alla media mondiale (5 tonnellate di CO2/anno). Per me è stata un'esperienza davvero illuminante.

Mi sono reso conto di quante fonti di emissione ci sono e che vivendo in un paese sviluppato è molto difficile ridurre le emissioni – non c'è nessuna bacchetta magica. Mi sono anche reso conto che nel mio tentativo di ridurre la mia impronta di carbonio, spesso mi stavo prendendo in giro, facendo le cose facili, non quelle efficaci.

Uso spesso il calcolatore durante le mie lezioni e laboratori. Di solito simulo una persona che vive uno “stile di vita americano” (diciamo, il signor Jones) e chiedo quindi ai partecipanti al laboratorio di consigliare al signor Jones cosa dovrebbe fare per ridurre la sua impronta in modo significativo. Il primo consiglio di solito è una casa energeticamente efficiente. Ma poi le cose diventano difficili, perché le persone sentono che al signor Jones non necessariamente piacciano i loro consigli: smettere di volare, non usare la macchina (o vendere il SUV e comprare qualcosa di più piccolo molto più efficiente energeticamente – e guidare di meno!), frenare i consumi, smettere di mangiare carne, fare docce anziché bagni e non usare l'aria condizionata.

Il signor Jones, disposto a conservare sia il suo stile di vita ad alto consumo ed un'immagine di buon cittadino responsabile, potrebbe essere tentato l'intero problema passando ad un altro argomento, negare il problema stesso o dire che le sue emissioni sono solo una piccola parte insignificante del problema (o usare numerose altre scuse ben conosciute per non cambiare niente).

Mi sono interrogato molto su questo ed ho deciso che fare del mio meglio per limitare “l'altezza della barra dell'impronta di carbonio” sia la cosa giusta da fare (ora è intorno alle 5,8 tonnellate/anni). Ci sono alcune ragioni per questo:

  • Ci sono punti di non ritorno nel sistema climatico. Potrebbe esserci una tonnellata che sarà “una tonnellata di troppo”. 
  • Una minore impronta di carbonio significa spendere meno, portando così al risparmio anziché al debito, a meno pressione alla rincorsa ai soldi e più tempo per le cose realmente importanti della vita. Sono molto felice di questo atteggiamento. 
  • Perseguire un consumo felicemente egoistico ora, a costo dell'estinzione di innumerevoli specie e di un futuro catastrofico per i nostri figli è un atteggiamento basato su un'etica che non condivido (be', è la mia opinione, alcuni potrebbero pensarla diversamente). 
  • Credibilità: se dici agli altri che dobbiamo ridurre le emissioni mentre guidi un SUV, voli in lungo e in largo e compri un sacco di cose, sarai percepito come un ipocrita. Questo farà più danni che guadagni. Dobbiamo passare dalle parole ai fatti (l'espressione inglese è molto più bella: “we have to walk the talk”, ndt). 
  • Abbiamo una tendenza naturale a dimenticare le cose sconvenienti. Ponendo costantemente in alto nella lista della nostra agenda il “problema dell'impronta di carbonio” lo incorporiamo e lo solidifichiamo, ci educhiamo e cambiamo il modo di vedere il mondo e le nostre priorità. Ciò influenza anche le nostre decisioni non solo nelle nostre vite personali, ma anche nei luoghi di lavoro.  
  • Cambiare l'atteggiamento personale aiuta a cambiare l'atteggiamento generale. Se ci sforziamo noi stessi per un mondo a basse emissioni di carbonio, influenziamo le nostre famiglie, gli amici ed altre persone che incontriamo. In questo modo non spingiamo il clima verso il punto di non ritorno ma la risposta della società alla crisi. 
  • Spendendo i nostri soldi influenziamo ciò che si espanderà e ciò che si contrarrà: sosteniamo il trasporto pubblico, la produzione di apparecchiature energeticamente efficienti e soluzioni a bassa intensità di carbonio, non le aziende che sfornano prodotti business-as-usual.
  • Il cambiamento degli atteggiamenti significa un passaggio culturale che porta al cambiamento delle politiche pubbliche. Come esempio, chi guida un SUV avrà la tendenza a richiedere combustibile a buon mercato e la costruzione di altre strade. Una persona che va in bici ed usa i trasporti pubblici si aspetterà cambiamenti in un'altra direzione. Più persone che richiedono di rivolgersi ad un'economia a minore intensità di carbonio ci daranno una migliore possibilità che alla fine questa verrà adottata. 

Quindi, dal mio punto di vista, dovremmo ridurre la nostra impronta principalmente non perché questa riduca il consumo di combustibili fossili, ma perché questo ci aiuta ad abbracciare il problema, incoraggia l'auto-educazione, cambia la nostra visione del mondo, stimola i cambiamenti culturali intorno a noi ed influenza la prospettiva e le politiche pubbliche.

Vivere una vita a bassa intensità di carbonio in un paese industrializzato non è facile. Inoltre, ridurre le emissioni al di sotto di 1 tonnellata/anno (raccomandato fino al 2050 con l'infrastruttura attuale è quasi impossibile. Dobbiamo ri-svilupparla. Il calcolatore ci permette di verificare il nostro impatto sul pianeta date le altre fonti di energia, i cambiamenti nell'industria e i trasporti.

Ma non aspettate che accada da sé. Riducendo la nostra impronta stimoleremo la transizione. Rimanendo attaccati alle vecchie modalità manteniamo lo status quo.

sabato 3 maggio 2014

L'era glaciale che non fu

Da “Real Climate”. Traduzione di MR (h/t Dario Faccini/ASPO-Italia)

 
William Ruddiman è ben noto per la sua interpretazione del clima dell'Olocene. Secondo questa interpretazione, l'effetto serra causato dalle emissioni di metano da parte dell'agricoltura umana abbiano evitato una nuova era glaciale, una nuova manifestazione dei cicli glaciali/interglaciali particolarmente intensi dell'ultimo milione di anni l circa. L'idea di Ruddiman è stata variamente contestata e sembra oggi che non saremmo comunque ripiombati in un'era glaciale a breve scadenza (intesa come nell'arco di un migliaio di anni circa). Tuttavia, l'interpretazione di Ruddiman rimane interessante: è possibile che l'influenza umana sul clima sia stata intensa fin da epoche molto precedenti a quella dei combustibili fossili. L'articolo che segue è del 2011, ma è sempre valido per capire i concetti fondamentali delle idee di Ruddiman


Di William  Ruddiman

Più di 20 anni fa, le analisi delle concentrazioni di gas serra nelle carote di ghiaccio hanno mostrato che la tendenza al ribasso di CO2 e CH4 che è cominciata circa 10.000 anni fa ha successivamente invertito la direzione ed è aumentata stabilmente durante le ultime migliaia di anni. Le diverse spiegazioni di questi aumenti hanno invocato o i cambiamenti naturali o le emissioni antropogeniche. Sono state avanzate prove ragionevolmente convincenti pro e contro entrambe le cause e il dibattito è continuato per quasi un decennio. La Figura 1 riassume questi diversi punti di vista.



Un'edizione speciale di agosto della rivista The Holocene aiuterà a far fare un passo avanti a questa discussione. Tutti gli scienziati che hanno partecipato a questo dibattito durante l'ultimi decennio sono stati invitati a contribuire al volume. L'elenco degli invitati era ben equilibrato fra i due punti di vista, entrambi i quali sono ben rappresentati nell'edizione. I saggi hanno recentemente iniziato ad essere disponibili online, sfortunatamente a pagamento. Probabilmente, la nuova visione più significativa che emerge da questa pubblicazione proviene da diversi saggi che convergono su una visione dell'uso preindustriale del suolo che è molto diversa da quella che ha prevalso fino a poco tempo fa. Gran parte delle simulazioni dei modelli precedenti si affidavano sull'assunto semplificante che la deforestazione e la coltivazione fossero rimasti minimi e quasi costanti durante il tardo Olocene, ma i dati storici ed archeologici ora rivelano un uso del suolo precedente pro capite molto maggiore di quello usato in questi modelli. L'emergenza di questo punto di vista è stato riportato in diverse presentazioni alla Conferenza di Chapman nel marzo 2011 e ed ha attratto l'attenzione si di Nature sia di Science News. L'articolo che segue riassume questa nuova prova.

I dati storici sull'uso del suolo che risalgono circa fino a 2000 anni fa esistono per due regioni – Europa e Cina. In un saggio del 2009, Jed Kaplan e i suoi colleghi hanno riportato prove che mostrano una deforestazione quasi completa in Europa ad una gamma media di densità di popolazione, ma una deforestazione aggiuntiva molto limitata a densità di popolazione maggiori. Incorporato in questo rapporto storico c'era una tendenza da una deforestazione pro capite molto maggiore 2000 anni fa a valori molto minori nei secoli recenti. Analogamente, un'edizione speciale di Holocene di Ruddiman e colleghi ha indicato uno studio pionieristico dell'agricoltura delle origini in Cina pubblicato nel 1937 J. L. Buck. Accoppiato a stime di popolazione ragionevolmente ben limitate che risalgono alla dinastia Han di 200 anni fa, questi dati mostrano una diminuzione di quattro volte dell'area di suolo coltivata pro capite in Cina da quel tempo al 1800.

Queste due rivalutazioni dell'uso pro capite di suolo hanno implicazioni importanti per le emissioni globali di carbonio preindustriali. Un saggio in edizione speciale di Kaplan e colleghi ha usato i rapporti storici dall'Europa per stimare la deforestazione mondiale, con necessità pro capite di suolo inferiori nelle regioni tropicali a causa della più lunga stagione agricola che permette raccolti multipli su base annuale. Il loro modello ha simulato grandi abbattimenti di foresta migliaia di anni fa non solo in Europa e Cina, ma anche in India, Mezzaluna Fertile, Africa saheliana, Messico e Perù. Lo schema di deforestazione è mostrato bene in una sequenza temporale disponibile nell'articolo di Science News citato sopra. Kaplan e colleghi hanno stimato emissioni cumulative di carbonio di ~340 GtC (1 Gt = miliardi di tonnellate) prima che l'aumento del CO2 dell'era industriale iniziasse nel 1850. Questa stima è da 5 a 7 volte maggiore di quelle basate sull'assunto che i primi agricoltori abbattevano foreste e coltivavano il suolo in piccole quantità pro capite tipiche dei secoli recenti.

Su scale temporali di millenni, circa l'85% delle emissioni di CO2 in atmosfera sono finite nella profondità degli oceani. Di conseguenza, le 340 Gt stimate da Kaplan delle antiche emissioni di carbonio antropogenico in atmosfera sarebbero risultate in un aumento totale di CO2 preindustriale di ~24 ppm (340 Gt diviso per 14.2 Gt per ppm). Riamane tuttavia un disallineamento nella tempistica fra il primo aumento della tendenza delle carote di ghiaccio e l'aumento successivo della stima delle emissioni di carbonio di Kaplan. Una possibilità che viene attualmente investigata da Kaplan e colleghi è una maggiore pratica pro capite dell'incendio di foreste da parte di primi agricoltori (e di quelle culture che erano ancora cacciatori-raccoglitori).


Una storia analoga di diminuzione dell'uso pro capite di suolo vale anche per la pratiche agricole che generano metano. Il saggio di Ruddiman e colleghi cita uno studio del 1977 di Ellis e Wang su Agricultura, Ecosistemi e Ambiente (61: 177-193) che riporta una diminuzione quadrupla dal 1000 al 1800 DC nella dimensione delle risaie pro capite nella bassa valle del fiume Yangtze. A causa della crescita della popolazione in corso e della mancanza di suolo coltivabile addizionale, gli agricoltori sono stati costretti a produrre riso in proprietà terriere sempre più piccole, che ha portato alla tipica agricoltura cinese “a giardino”. Per scale temporali più lunghe, un articolo in via di pubblicazione di Fuller e colleghi sul “Contributo della coltura del riso e dell'allevamento ai livelli di metano preistorici: una valutazione archeologica” ha assemblato prove archeologiche da centinaia di siti ben datati che mostra la diffusione dell'irrigazione del riso nell'Asia meridionale fra 5000 e 1000 anni fa . Sulla base di relazioni regionali moderne, hanno ipotizzato che la coltura del riso in ogni regione si è successivamente riempita col logaritmo della densità di popolazione. Combinando il primo arrivo del riso e il successivo riempimento, Fuller e colleghi hanno proiettato l'aumento progressivo dell'area totale dell'Asia meridionale dedicata al riso.

La loro stima ha mostrato una tendenza esponenziale all'aumento dell'area totale che ha raggiunto più del 35% dei valori moderni di 1000 anni fa, anche se la popolazione nelle aree che coltivavano riso a quel tempo era solo il 5-6% dei livelli moderni. Questo disallineamento indica ancora una volta un uso di suolo pro capite molto più grande all'inizio dell'era storica che nell'ultimo periodo preindustriale. Secondo questa analisi, l'aumento di emissioni di CH4 dall'irrigazione del riso può contare per gran parte dell'aumento di CH4 misurato nelle carote di ghiaccio fra 5000 e 1000 anni fa. Fuller e colleghi hanno anche mappato il primo arrivo di bestiame addomesticato in Asia e in Africa e hanno scoperto che è iniziata una grande espansione della pastorizia nelle aree umide con grandi capacità di carico 5000 anni fa. Hanno osservato che questa diffusione di bestiame avrebbe anche dato un grande contributo alle emissioni ed alle concentrazioni atmosferiche di metano antropogenico, ma non hanno provato a valutarne la quantità.

Le prove in tutti questi saggi recenti convergono verso la stessa conclusione: l'ipotesi semplicistica di un uso costante di suolo pro capite da parte di gran parte dei modelli di studio precedenti ha ignorato sia i dati storici sia la vasta gamma di prove contrarie assemblate dagli scienziati in archeologia e in discipline collegate che fanno il lavoro sporco sul campo necessario per svelare la vera storia degli effetti umani sul suolo. Questo punto di vista basato sul campo è stato sintetizzato molto tempo fa dal lavoro seminale di Ester Boserup dagli anni 60 agli anni 80. La Boserup ha concluso che la grande diminuzione dell'uso di suolo pro capite dal medio al tardo Olocene è avvenuto perché la crescita della popolazione e le usurpazioni dei vicini hanno costretto gli agricoltori a trovare nuovi metodi per produrre cibo per le proprie famiglie con sempre meno terra. Questi saggi nel numero speciale rendono chiaro che i tentativi futuri di modellare l'uso di suolo del passato dovrebbero evitare l'assunto di coltivazione e deforestazione pro capite costante e ridotto.

Questo punto di vista emergente porta una discussione attuale rispetto a se designare o no in intervallo di “Antropocene” (un tempo di grande influenza umana sul sistema terrestre) e, se sì, dove porre il suo inizio. Anche se l'opinione prevalente sembra a favore dell'uso dell'era industriale (gli ultimi due secoli o meno) come inizio, queste nuove prove offrono una prospettiva diversa. L'abbattimento di foreste per la coltivazione e il pascolo sono la più grande trasformazione della superficie della Terra che sia mai avvenuta finora. Se ben oltre metà di questa trasformazione chiave è avvenuta prima dell'era industriale, allora si può discutere per piazzare l'inizio dell'antropocene in un tempo precedente. Una possibile soluzione sarebbe designare due fasi: un “primo antropocene” (un tempo si trasformazioni lente ma crescenti che è cominciato 7000 anni fa per il CO2 e 5000 anni fa per il CH4) ed un “tardo antropocene” per segnare i molti cambiamenti accelerati dell'era industriale.

Altri saggi dell'edizione speciale puntano a loro volta ad una interpretazione rivista di un tipo di prova collegato che si dirige verso una antica deforestazione – le analisi meticolose della composizione degli isotopi di carbonio del CO2 nelle bolle d'aria delle carote di ghiaccio del gruppo di Berna. Elsig et al. in un articolo del 2009 su Nature hanno concluso che la piccola (~0.05o/oo) ampiezza della diminuzione di δ13CO2  durante gli ultimi 7000 anni limita le emissioni nette di carbonio terrestre a ~50 GtC (una Gt è un miliardo di tonnellate), se pienamente bilanciate con l'oceano profondo. Come parte dell'equilibrio da loro proposto di varie sorgenti e pozzi di carbonio, hanno stimato un contributo antropogenico di ~50 GtC alla tendenza del δ13CO2, equivalente ad un aumento di CO2 di 3,5 ppm.

Ma il calcolo dell'equilibrio della massa in Elsig et al. implicava l'ipotesi discutibile che solo 40 Gt di carbonio siano state sepolte nelle torbiere boreali durante gli ultimi 7000 anni, mentre questo valore si trova ben al di sotto di una stima molto rispettata di 300 GtC di  Eville Gorham (vedi, Applicazioni Ecologiche 1: 182-195, 1991; Gajewski et al., Cicli Biogeochimici Globali 15: 297-310; 2001). Una nuova analisi di Zicheng Yu nel numero speciale prende in considerazione sia il seppellimento iniziale della torba sia, per la prima volta in uno studio, la successiva decomposizione e il rilascio della torba dopo il seppellimento. Yu giunge ad una stima di un seppellimento di ~300 Gt di carbonio in torba durante gli ultimi 7000 anni. Questo valore molto più alto (~300 GtC contro 40 GtC) richiede emissioni di compensazione molto più grandi di carbonio terrestre per soddisfare il limite complessivo di δ13CO2, ma il carbonio aggiuntivo è improbabile che sia venuto da fonti naturali. Gli studi dei modelli hanno, in media, posto l'equilibrio netto del carbonio causato da cambiamenti naturali nella vegetazione monsonica e nella fertilizzazione del carbonio vicino alla dimensione di 30 Gt stimate da Elsig e colleghi. Questi cambiamenti non valgono per le emissioni necessarie per compensare la quantità molto più grande di carbonio sepolta sotto forma di torba.

La sola fonte rimasta è l'emissione antropogenica. La stima risultante di >300 GtC di emissioni antropogeniche preindustriali è della stessa quantità della stima di simulazione di uso di suolo di Kaplan e colleghi. Se le prime (Gorham) e le più recenti (Yu) stime del grande seppellimento di carbonio nella torba boreale sono corrette, la piccola tendenza negativa del  δ13CO2 durante gli ultimi 7000 anni non è un argomento contro la prima impotesi antropogenica, ma piuttosto un argomento in suo favore. Le due stime di un aumento del CO2 antropogenico preindustriale di 24 ppm sono molto più grandi delle stime precedenti di 3-5 ppm, ma ancora inferiori ai 40 ppm proposti nella prima ipotesi antropogenica. Tuttavia, un altro fattore che avrebbe contribuito al totale antropogenico preindustriale è stata la retroazione di CO2 da parte di un oceano mantenuto caldo dalle emissioni agricole di CO2 e CH4 nell'atmosfera. Un saggio di Kutzbach e colleghi nell'edizione speciale stima un contributo di 9 ppm da parte della ridotta solubilità del CO2 in un oceano riscaldato dalle prime emissioni antropogeniche di CO2 e Ch4 nell'atmosfera. Questa ed altre possibili retroazioni da parte dell'oceano, pongono l'effetto totale del CO2 preindustriale a >30 ppm, più prossimo ai 40 ppm dell'ipotesi originaria.

Diversi saggi dell'edizione speciale continuano a favorire una spiegazione naturale per le tendenze di CO2 e CH4 del terdo Olocene, quindi il dibattito non è concluso. Tuttavia, le nuove prove indicano la strada verso tre vie di esplorazione che promettono di darci una risoluzione di questo problema: (1) investigazione più accurata delle registrazioni storiche dell'uso del suolo preindustriale; (2) lavoro archeologico supplementare per riempire i vuoti nella copertura spazio/temporale della diffusione dell'agricoltura e (3) ulteriore lavoro di modellazione per trasformare i dati storici ed archeologici in stime quantitative degli effetti della prima agricoltura sulle concentrazioni atmosferiche di CO2 e CH4.

- Altro su: http://www.realclimate.org/index.php/archives/2011/04/an-emerging-view-on-early-land-use#sthash.ZPt1mSwl.dpuf 


venerdì 2 maggio 2014

Il Culto dello Sportello - III: Miracolo alla ASL



Terzo post della serie "il culto dello sportello" (qui il primo e qui il secondo). Vi racconto di un'avventura fra lo studio del dottore e la sede della ASL. (immagine da "haisentito.com")




La mattinata comincia subito male quando mi  presento nella sala d'aspetto del dottore all'ora di apertura e trovo che ci sono già 11 vecchietti ad aspettare, chissà da quanto tempo. Provo flebilmente a descrivere il mio caso "sapete, il dottore mi ha detto che è una cosa abbastanza urgente per mio padre che ha 92 anni, devo fare una richiesta alla ASL e qui mi bastano dieci secondi per farmi dare un foglio che mi ha preparato....."

I vecchietti sono abbastanza gentili, ma mi fanno anche notare che hanno i loro problemi e molti di loro dicono che faranno alla svelta anche loro. E comunque, il dottore non c'è. Mi metto a sedere ad aspettare: sono le 10 del mattino e devo far lezione alle 12. Mah?

Il dottore arriva alle 10:45. I vecchietti non fanno cenno alla mia richiesta di priorità e si mettono subito in fila davanti alla porta. Sembra che non ci sia  proprio modo che ce la faccia per la lezione di mezzogiorno. Fortunatamente, il dottore mi ha notato quando è arrivato e esce lui stesso dal suo ambulatorio passandomi il foglietto che devo portare alla ASL. Primo miracolo della mattina. Sono le 11:10.

Mi fiondo alla ASL col motorino (anche questo un piccolo miracolo di trazione elettrica). Arrivo all'ufficio informazioni col foglino in mano e la signora allo sportello mi dice: Oggi non si può fare - il CUP ha chiuso alle 10. Si può fare per domani? No, domani non prendiamo questo tipo di richieste. Dopodomani? No, è il primo Maggio. Venerdì? No, non prendiamo questo tipo di richieste. Ritorni la prossima settimana.

Provo a insistere gentilmente, sa, dico, il dottore si è raccomandato per questo letto ortopedico. Mio padre ha 92 anni ed è bloccato nel suo letto, che non è adatto. Così, per avere un letto ortopedico ci vuole tempo.......... Mi guarda con aria annoiata e mi dice, "non si può fare questa settimana." Sono le 11:30 e la mia lezione comincia alle 12

Provo a telefonare al dottore per sentire se c'è qualche altro modo. Mi dice che, mah..., forse...., boh....  Mentre mi aggiro con aria spettrale per i corridoi vuoti della ASL col telefonino all'orecchio , mi capita di incrociare una signora che riconosco essere l'impiegata che ho visto altre volte dietro lo sportello del CUP. Provo a raccontarle il mio problema.

E qui avviene il secondo miracolo della mattinata. La signora annuisce e mi dice, "Capisco benissimo. Venga con me che le apro il terminale" Giuro che per un attimo ho sentito i cori angelici e ho visto una specie di luminosità dorata intorno alla testa di questa signora - qualcosa tipo i santi dei mosaici di Ravenna.

In cinque minuti e qualche firma la richiesta è fatta. Ringrazio profusamente la signora che mi dice, "Sa, io faccio il possibile per essere d'aiuto quando posso. Però certe volte è veramente difficile. Tempo fa ho cercato di spiegare a un signore che la cosa che mi chiedeva non la potevo proprio fare. Lo sa cosa mi ha detto? Non solo che era colpa mia perchè sono un'incompetente ma mi ha anche augurato che mi venga un tumore al seno!"

Ringrazio ulteriormente per la resistenza all'altrui maleducazione. Sono circa le 11:45 e ce la faccio (ancora un piccolo miracolo del motorino elettrico) ad arrivare in aula per la mia lezione entro il quarto d'ora accademico.


Allora, Questa storia e quelle precedenti mi hanno insegnato un paio di cose, ovvero:

1. L'immagine dell'impiegato statale fannullone e incompetente è spesso falsa e esagerata. Nelle mie vicissitudini ai vari sportelli mi sono spesso trovato di fronte a persone gentilissime che fanno tutto il possibile per aiutarti. Anche loro, però, si trovano di fronte a una burocrazia fatta apposta per renderti le cose difficili, come pure a utenti maleducati e antipatici che se la rifanno con loro a furia di insulti e accidenti. Non c'è da stupirsi se alcuni di loro poi diventano altrettanto maleducati e antipatici. Insomma, l'antipatia è come il morbillo: è contagiosa.

2. Il danno economico che fa il culto dello sportello al "sistema italia" è qualcosa che non so quantificare ma che mi sembra comunque spaventevole. Pensate che in questa vicenda il sistema sanitario mi ha chiesto di fare da fattorino per trasportare un foglio da un ufficio a un'altro. Oltre alla mattinata quasi intera che ho perso io (e mi è andata di lusso, senza i miracoli ce ne avrei perse due o tre), c'è da mettere in conto il che hanno perso altre persone (dottore, impiegata, ecc.). A questo punto, ragionate che la stessa cosa la poteva fare il dottore spedendo direttamente la richiesta all'ufficio competente. Era questione di un microsecondo e costo zero.

Arriveremo mai a una burocrazia efficiente? Chissà, forse piano piano riusciremo a eliminare questo assurdo culto dello sportello, ma sono sicuro che si inventeranno qualche altra cosa per far perdere tempo agli utenti - magari anche peggio.







mercoledì 30 aprile 2014

Gaël Giraud del CNRS: “Il vero ruolo dell'energia obbligherà gli economisti a cambiare dogma”.

Da “Oil Man”. Traduzione di MR (h/t Luca Mercalli)

Contrariamente a quanto c'è scritto in tutti i manuali di economia, l'energia (e non il capitale, che senza l'energia è inerte) si rivela essere IL fattore essenziale della crescita, secondo Gaël Giraud, 44 anni, direttore di ricerca al CNRS e gesuita. Economisti, dopo due secoli perpetrate ancora l' stesso errore fatale?


Gaël Giraud, direttore di ricerca al Centro di economia della Sorbona, specializzato in matematica e membro dal 2004 della Compagnia di Gesù. [Agenzia Sipa]. 

Quali sono secondo lei gli indici di un legame intimo fra consumo di energia e crescita dell'economia?

Dopo due secoli, dopo il lavoro di Smith e Ricardo, per esempio, la maggior parte degli economisti spiegano che l'accumulo di capitale è il segreto della crescita economica inedita conosciuta dalle società occidentali e di una parte del resto del mondo. Marx è stato, lui stesso, convinto di questa prova apparente. Tuttavia, storicamente, l'accumulo di capitale (in senso moderno) non è iniziato nel 18° secolo con l'arrivo della rivoluzione industriale, ma almeno duecento anni dopo. Al contrario, la prima “rivoluzione di mercato” del 12° e 13° secolo, che ha permesso all'Europa di uscire dalla feudalità rurale, ha coinciso con la diffusione di mulini ad acqua e a vento. Una nuova fonte energetica, oltre alla fotosintesi (agricoltura) e della forza animale, era diventata disponibile. Allo stesso modo, chi può negare che la scoperta delle applicazioni industriali del carbone, poi del gas e del petrolio (e più di recente dell'atomo) abbia giocato un ruolo decisivo nella rivoluzione industriale e, quindi, come motore della crescita? Dal 1945 al 1975, i “trenta gloriosi” sono stati un periodo di crescita accelerata ed anche di consumo inedito di idrocarburi. Da allora, il pianeta non ha mai più ritrovato la velocità di consumo di energie fossili che era loro proprio nel dopoguerra. E' una buona notizia per il clima. Ma questo non è estraneo al fatto che non abbiamo mai ritrovato il tasso di crescita del PIL dei trenta gloriosi.

Nel corso degli ultimi 10 anni in Francia, il consumo di energia, e di petrolio in particolare, è diminuito, mentre il PIL è aumentato. Questo non prova il fatto che non c'è legame fra consumo di energia e crescita economica?

Il consumo di energia primaria francese è passato da 2,55 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (gigaTep) nel 2000 a 2,65 gigaTep nel 2004. In seguito ha declinato leggermente fino al 2008, prima di mostrare un crollo nel 2008-2009, seguito da un secondo crollo nel 2011. Ha raggiunto un plateau (provvisorio?) nel 2012 a 2,45 gigaTep. Il PIL francese ha conosciuto delle variazioni analoghe, queste variazioni sono semplicemente state più ammortizzate. Questo è del tutto normale nella misura in cui, fortunatamente, l'energia non è il solo fattore di produzione che “tira” il PIL. Il lavoro realizzato con Zeynep Kahraman, membro di Shift Project, mostra che l'efficienza energetica gioca ugualmente un ruolo grande, anche quello maggiore di quello del capitale. Eppure, sul lungo termine, esiste una relazione estremamente stabile fra il consumo di energia e la crescita del PIL. Si ritrova la stessa grande stabilità quando si allarga la prospettiva non più nel tempo, ma nello spazio. Per dei paesi importatori come la Francia, l'esternalizzazione del consumo di energia attraverso le importazioni porta a sottostimare l'influenza dell'energia nell'evoluzione della crescita economica. La stima della relazione fra energia e crescita è molto più affidabile su scala mondiale che su scala nazionale.



Crescita mondiale dell'economia, del consumo di energia e di petrolio. 

Il suo lavoro porta a una conclusione che diverge totalmente dalle analisi classiche: “l'elasticità”, altrimenti detta sensibilità del PIL per abitante in rapporto al consumo d'energia è secondo voi dell'ordine del 60% e non di meno del 10% (o il costo della bolletta energetica nella produzione) come dice la letteratura economica abituale. Come giustifica questo enorme scarto? 

La ragione profonda di questo scarto è evidentemente il livello molto basso del prezzo degli idrocarburi, anche oggi. Molti economisti postulano che il mercato internazionale dell'energia sia in equilibrio e che i prezzi che ne emergono riflettono le tensioni reali che si esprimono su quel mercato. Intanto qualche nota su questa idea di un equilibrio naturale. Il prezzo della maggior parte delle energie fossili è influenzato da quello del petrolio e, di recente, da quello del gas. Tuttavia, il prezzo del petrolio, come quello del gas di scisto nordamericano, non risulta affatto da un puro incontro concorrenziale di offerta e domanda. Entrambe sono sottomesse a diverse manipolazioni. Sembra che il modo per fissare il prezzo del petrolio spot, disponibile a breve termine, somiglia al modo in cui si fissa il tasso monetario del LIBOR che alle finzioni ideali dei manuali di economia. Oggi sappiamo che questi tassi interbancari del LIBOR sono stati scientemente manipolati da diverse banche della City di Londra, questo negli anni e forse con la complicità passiva del loro controllore, la banca centrale d'Inghilterra. Allo stesso modo, il prezzo del petrolio è un tema politicamente molto sensibile, non sorprende che sia sottoposto a diverse pressioni. Per esempio, la caduta del prezzo del petrolio durante la seconda metà degli anni 80 non è estranea alla strategia di Washington che era tesa a strangolare l'economia dell'URSS (chiedendo all'alleato saudita di aprire del tutto i propri rubinetti del greggio, nota della redazione), cosa che ha portato ad accelerare la caduta dell'impero sovietico. Non intendo dire che questo shock petrolifero degli anni 80 sia unicamente il risultato di questa iniziativa dell'amministrazione Reagan, ma che misura, attraverso un esempio di questo tipo, la natura in parte geopolitica del prezzo dell'oro nero. Al piano superiore dei mercati internazionali, quello dei mercati finanziari, il prezzo dei future, i contratti di consegna a termine sul petrolio, è lui stesso sottoposto a dei movimenti di capitale che non hanno granché a che fare con la realtà economica dell'energia, ma che hanno a che vedere con delle strategie speculative messe in atto da un pugno di grandi banche d'affari americane. Infine, a proposito del gas di scisto nordamericano, è certamente soggetto di uno scarico verso il basso, favorito da sovvenzioni più o meno nascoste dell'amministrazione americana. Da tutto questo risulta una sconnessione abbastanza forte fra le realtà strettamente economiche degli idrocarburi e i loro prezzi.

Torniamo al punto chiave: il grado di elasticità del PIL in rapporto all'energia secondo lei è largamente sottostimato...

Se malgrado i commenti di apertura che ho appena fatto credete, come la maggior parte degli economisti universitari, che il prezzo dell'energia rifletta fedelmente l'offerta e la domanda reali e se, soprattutto, postulate che l'industria degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun vincolo dal lato dell'estrazione, allora concludete tranquillamente che l'elasticità del PIL in rapporto all'energia è vicino alla quota dei costi energetici del PIL, quello che viene chiamato il suo “cost share” in inglese. Meno del 10%, in effetti. E' questo ragionamento che permette ad alcuni dei miei colleghi economisti, penso a torto, di pretendere che l'energia si un tema marginale e, ad essere sinceri, un non-tema. Ammettiamo per un istante, ai fini della discussione, che il prezzo del petrolio sia veramente un prezzo di mercato concorrenziale. Anche in un caso simile, è evidentemente falso pretendere che l'estrazione fisica degli idrocarburi non sia sottoposta ad alcun limite geologico, politico, eccetera. Oppure, appena abbiamo reintrodotto questo tipo di vincolo, si può facilmente dimostrare che (anche su un mercato puramente concorrenziale) ci sarà uno scollegamento completo fra l'elasticità e la parte dell'energia all'interno del cost share: i calcoli fanno apparire dei “prezzi fantasma”, i quali riflettono la potenza dei vincoli esterni e deformano il cost share verso il basso in rapporto all'elasticità. Questa osservazione è già stata fatta molto tempo fa da un fisico tedesco, Reiner Kümmel, ed anche dall'americano Robert Ayres. Pertanto, la maggior parte degli economisti continuano a postulare che l'elasticità dell'energia è uguale al suo cost share, cioè molto bassa, senza essere andati a vedere più da vicino. Penso che questo sia dovuto, nel profondo, al fatto che molti economisti preferiscono guardare i prezzi e le quantità monetarie piuttosto che quelle fisiche. Questo è paradossale, dal momento che molti dei loro modelli funzionano in realtà come modelli senza moneta! (Lo so, ciò vi sorprende, ma servirebbe un'altra intervista per spiegare questo punto...). I miei lavori empirici, condotti su quasi una cinquantina di paesi e su una arco di tempo di più di 40 anni, mostrano che in realtà l'elasticità del PIL in rapporto all'energia primaria è compreso fra il 40%, per le zone meno dipendenti dal petrolio, come la Francia, e il 70% per gli Stati Uniti, con una media mondiale che si aggira intorno al 60%.

L'elasticità (la sensibilità) del PIL in rapporto al capitale le sembra di conseguenza molto più bassa di quanto comunemente accettato. Quali conseguenze ne trae sul livello dei prezzi dell'energia da una parte e sulla remunerazione del capitale dall'altra?

Una delle conseguenze della rivalutazione verso l'alto dell'elasticità del PIL in rapporto all'energia è, in effetti, una rivalutazione verso il basso in rapporto al capitale. Secondo i manuali, quest'ultimo dovrà essere ancora uguale al cost share del capitale, valutato tradizionalmente fra il 30% e il 40% del PIL. Per conto mio trovo delle elasticità la metà più basse e questo, anche adottando delle definizioni empiriche ampie del capitale, come quelle di Thomas Piketty. Si potrebbe essere tentati di dedurne che il capitale è pagato eccessivamente e che l'energia è pagata poco. Questo non è necessariamente sbagliato ma, dal mio punto di vista, questo tipo di conclusione continua a ragionare come se l'uguaglianza dell'elasticità e del cost share debba essere verificata in un mondo ideale. Tuttavia, ed è un punto fondamentale, non conosco delle dimostrazioni del tutto convincenti di questa uguaglianza. Anche se il prezzo dell'energia (o del capitale) è stato fissato in un mercato mondiale perfettamente concorrenziale, e non è affatto il caso in pratica, anche se si crede che le compagnie petrolifere non siano sottoposte a nessun vincolo esterno ai loro affari (di modo che nessun “premio fantasma” venga a deformare la relazione elasticità/cost share, che è una finzione), anche in un tale mondo ideale, questa uguaglianza resta ancora sospetta. E' legata al fatto che la micro-economia tradizionale soffre di numerosi errori interni, approssimazioni e altri cortocircuiti intellettuali che rendono le sue conclusioni estremamente fragili. Un libro eccellente, redatto da un economista australiano, Steve Keen, fa il punto su questi problemi apparentemente tecnici ma che sono, alla fine, decisivi per il dibattito politico contemporaneo. Sono incaricato, insieme a Aurélien Goutsmedt, della traduzione che apparirà il prossimo autunno qui (L'impostura economica,  Steve Keen, Ed. de l'Atelier).

Dopo gli anni 60, il rapporto fra consumo di energia e PIL mondiale e quasi costante (ogni punto corrisponde ad un preciso anno). Questo grafico, di Jean-Marc Jancovici, fondatore dello Shift Project, mostra che a livello mondiale l'efficienza energetica non è stata praticamente migliorata da 50 anni. 

Lei stima che esista una specie di “forza riequilibratrice” fra il consumo di energia e il ritmo di crescita del PIL. I due appaiono “co-integrati”, cioè che sarebbero condannati per sempre a tornare sempre uno verso l'altro, dopo un certo tempo. Esiste un legame di causa-effetto fra l'energia disponibile ed il livello dell'attività economica, o al contrario del livello dell'attività economica sul consumo di energia, o meglio ancora si tratta di un legame reciproco?

Questo tema è già stato studiato abbondantemente dagli economisti specializzati in energia. Non c'è più dubbio, oggi, sul carattere co-integrato dell'energia e del PIL. I miei lavori mostrano che la forza riequilibratrice fra queste due grandezze è tale che dopo uno shock esogeno (un crack finanziario, per esempio), queste variabili impiegano una media di un anno e mezzo per ritrovare la loro relazione di lungo termine. Se guardate la sequenza 2007-2009, questo è più o meno ciò che si osserva. Lei si pone giustamente la domanda della relazione di causalità: è il consumo di energia che causa il PIL o l'inverso? A quel punto, anche gli economisti energetici sono molto più divisi. I miei lavori con Zeynep Kahraman propendono chiaramente in favore di una relazione causale univoca del consumo di energia primaria verso il PIL e non l'inverso. Jean-Marc Jancovici aveva già anticipato questo risultato da tempo, osservando per esempio che a seguito del crack del 2007, la diminuzione del consumo di energia ha preceduto la diminuzione dl PIL in un numero importante di paesi. Come indica il buon senso della fisica, una relazione di causalità non si può tradurre come un precedente temporale della causa sull'effetto. E' esattamente questo che conferma il mio lavoro. Ci sono molti malintesi su questa storia della causalità. La causalità è una nozione metafisica: neanche la meccanica newtoniana pretende di dimostrare che la gravità universale faccia cadere le mele dall'albero! Tutto ciò che può dire è che dispone di un modello nel quale una grandezza chiamata forza gravitazionale che si suppone si manifesti attraverso il movimento di masse e che quel modello non è mai stato messo in crisi – per delle velocità minori in rapporto alla velocità della luce, evidentemente! Qui è lo stesso: tutto ciò che possiamo dire è che osserviamo una relazione empirica fra l'energia e il PIL, che si può interpretare statisticamente come una relazione causale.

Ai suoi occhi, in che misura la crisi del 2008 potrebbe essere una specie di shock petrolifero?

L'argomento è di facile concezione: nel 1999 il barile è a 9 dollari. Nel 2007, gira intorno ai 70 dollari (prima di involarsi a 140 dollari a causa della tempesta finanziaria). Le nostre economie hanno quindi conosciuto un terzo shock petrolifero nel corso dei primi anni del 2000, della stessa grandezza di quello degli anni 70, anche se più spalmato nel tempo. Tuttavia questo “shock petrolifero” non ha avuto un effetto recessivo maggiore di quelli del 1973 e 1979. Perché? Alcuni economisti avanzano l'idea che ciò sarebbe dovuto alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro negli Stati Uniti, negli anni 2000, in confronto a quella che prevaleva negli anni 70, così come alla politica monetaria molto accomodante condotta dalla Federal Reserve americana (così come dalla banca Centrale europea). La prima spiegazione non mi convince affatto: poggia molto ampiamente sul postulato dell'uguaglianza elasticità/cost share, di cui ho già detto quanto sia sospetta. Mira in modo troppo evidente a legittimare dei programmi di flessibilizzazione a tutto tondo del mercato del lavoro, che hanno però dimostrato la loro inefficacia. D'altronde, la seconda spiegazione si avvicina a quella che suggerisce lei. La politica monetaria dei tassi di interesse molto bassi ha reso possibile un'espansione significativa del credito, essa stessa facilitata dalla deregulation finanziaria. Detto altrimenti, le nostre economie si sono indebitate per compensare l'aumento del prezzo del petrolio! Siccome il credito è stato molto a buon mercato, questo ha permesso di rendere lo shock petrolifero relativamente indolore. Allo stesso tempo, la politica monetaria, la deregolamentazione e la miopia del settore bancario hanno anche provocato il rigonfiamento della bolla dei subprime, il cui scoppio nel 2007 ha dato avvio alla crisi. Il rimedio che ha reso possibile ammortizzare lo shock petrolifero ha quindi anche provocato la peggiore crisi finanziaria della storia, essa stessa ampiamente responsabile della crisi attuale dei debito pubblici, della fragilità dell'euro, eccetera. Tutto avviene quindi come se stessimo per pagare, ora, il vero costo di questo terzo shock petrolifero.

L'evoluzione del consumo di energia è, dice lei, un non-tema per la maggior parte degli economisti. Altri lavori analoghi al suo (quello di Robert Ayres, particolarmente) concludono ugualmente che il ruolo dell'energia nell'economia è del tutto sottostimato. Dove viene preso in considerazione il vostro tipo di approccio nella ricerca economica e nel pensiero economico in generale? Ottenete un eco presso i vostri colleghi, o predicate nel deserto?

La comunità degli economisti universitari non è per nulla omogenea. Alcuni continuano a recitare il catechismo dei manuali, eppure abbiamo molte ragioni per credere che ci siano molte verità importanti contro, che non sono estranee all'incapacità di una parte della categoria di anticipare una crisi monumentale come quella dei subprime, o ancora di immaginare altre soluzioni alla crisi europea se non l'approfondimento dei programmi di rigore di bilancio che, tuttavia, ci portano alla deflazione. Ma altri economisti fanno un lavoro notevole: lei ha citato giustamente Robert Ayres, ci sono anche delle persone come  Michael Kumhof al FMI (la sua intervista su 'Oil Man'), James Hamilton (presentazione su 'Oil Man'), David Stern, Tim Jackson, Steve Keen, Alain Grandjean, Jean-Charles Hourcade, Christian de Perthuis...  Sono convinto che, quando la società prenderà coscienza del ruolo vitale dell'energia – questo processo di presa di coscienza è già iniziato – la prima categoria di economisti sarà costretta a cambiare i propri dogmi. Il resto appartiene alla sociologia del campo accademico.

I vincoli del picco del petrolio e del cambiamento climatico promettono di disegnare un avvenire nel quale la macchina economica avrà sempre meno energia a sua disposizione per funzionare. Questi due vincoli secondo lei implicano la fine prossima dell'economia della crescita?

Sì, molto verosimilmente. Senza transizione energetica (cioè, senza un ri-orientamento volontario delle nostre forze produttive e delle nostre modalità di consumo verso un'economia meno dipendente dalle energie fossili), non potremo semplicemente più trovare alcuna crescita sostenibile. Anche se alcuni pretendono di andarla a cercare coi denti. I miei lavori suggeriscono che le economie come le nostre non possono conoscere, alla fine, che tre regimi di medio termine: una crescita significativa accompagnata da un forte inflazione (i trenta gloriosi), la deflazione (il Giappone dopo vent'anni, l'Europa e gli Stati Uniti fra le due guerre) o meglio una crescita lenta accompagnata da bolle speculative a ripetizione sui mercati finanziari. L'Europa occidentale è evidentemente nel terzo regime, verso il quale abbiamo svoltato nel corso degli anni 80 , a favore della deregulation finanziaria. La domanda che ci si pone oggi è quella di sapere se vogliamo continuare questa esperienza, al prezzo dell'aumento delle ineguaglianze incredibili che conosciamo e della distruzione a termine del settore industriale europeo da parte della sfera finanziaria. Oppure possiamo lasciarci scivolare pigramente nella deflazione (la più pericolosa) come è già il caso di una buona parte dell'Europa meridionale. O ancora, possiamo tentare di ricollegarci alla prosperità. Quest'ultima possibilità non coincide con la crescita del PIL. Come lei sa, il PIL è un indicatore molto povero. E' tempo di cambiarlo. Il rapporto Sen-Stiglitz-Fitoussi o, meglio ancora, il lavoro di Jean Gadrey e di Florence Jany-Catrice indicano delle strade molto promettenti per andare in questa direzione. Detto altrimenti, far crescere il PIL non ha importanza. Da questo l'inutilità dei dibattiti sulla crescita verde, che si interrogano sul fatto di sapere se la transizione sia compatibile con la crescita del PIL. La domanda buona è: come operare la transizione in modo da assicurare il maggior numero di posti di lavoro ed uno stile di vita allo stesso tempo democratico e prospero?

L'antropologo americano Joseph Tainter afferma che esiste una "spirale energia-complessità": "Non si può avere complessità senza energia, e si ha l'energia ci sarà la complessità”, dice. Cosa le ispira questa affermazione?

Il parallelo proposto da Tainter fra la dipendenza dell'Impero Romano riguardo all'energia saccheggiata alle società conquistate e la nostra dipendenza energetica mi pare molto pertinente. Il colonialismo ha costituito – senza offesa per alcuni storici come Jacques Marseille – una grande operazione di captazione di un certo numero di grandi risorse energetiche da parte di un continente (l'Europa) che è gravemente carente di risorse energetiche fossili sul proprio territorio. Che il nostro continente sia più o meno condannato al declino se non realizza la transizione energetica, anche questo mi sembra evidente. D'altra parte, sono meno d'accordo con Tainter sulla tesi concernente il legame intangibile fra la complessità di una società ed il suo uso di energia. Questa nozione di complessità non giustifica la rinuncia della politica, se si suppone che questa implichi, decisamente, che le cose sono troppo complesse perché chi governa possa pretendere di decidere alcunché? E' vero, al contrario, che la deregolamentazione finanziaria ha provocato una cortina di informazioni contraddittorie (i premi dei mercati finanziari) che seminano un'enorme confusione sulle tendenze economiche forti e paralizzano sia gli investimenti di lungo termine sia le decisioni politiche. In quel senso, l'esperienza della deregolamentazione ci ha immersi in un mondo “complesso”, nel senso di confuso. Ma non è irreversibile ed è un motivo in più per non far dipendere la nostra prosperità dai mercati finanziari. Se si segue Tainter, nella misura in cui la nostra società avrà raggiunto il suo “picco della complessità”, al di là del quale i guadagni di produttività della complessità diventerebbero trascurabili, saremmo condannati? Posso sbagliarmi, ma sono convinto, per parte mia, che solo due regioni al mondo possono lanciare la transizione energetica come più ampio progetto economico e politico: l'Europa e il Giappone. In effetti, per farla servono ottimi ingegneri ed una popolazione molto istruita. Se l'Europa diventa leader nella transizione energetica e, più globalmente, ecologica, allora potrà, col proprio ritorno di esperienza, esportare al resto del mondo il proprio saper fare. Altrimenti, sarà condannata a dover fare la guerra, come l'Impero Romano, per prendere l'energia d'altri, cosa che non ha più i mezzi di fare. La transizione è di fronte a noi: è il segreto della prosperità futura dell'Europa, perlomeno se il nostro continente si da i mezzi per metterla in atto.


http://www.slideshare.net/PaulineTSP/lien-entre-le-pib-et-lnergie-par-gal-giraud-ads-20140306?ref=http://petrole.blog.lemonde.fr/2014/04/19/gael-giraud-du-cnrs-le-vrai-role-de-lenergie-va-obliger-les-economistes-a-changer-de-dogme/

lunedì 28 aprile 2014

L’UNICITÀ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? Correzioni ed integrazioni.

           Alle date 18/04/2014, 19/04/2014, 20/04/2014 e 21/04/2014 sono uscite su questo blog le quattro puntate di un lungo post che ho scritto a proposito delle peculiarità della nostra specie e di come queste abbiano contribuito a determinarne il Fato.   Mi rallegro del fatto che hanno stimolato una discussione animata e corretta su di un argomento tanto vasto e complesso; occasione per me per imparare alcune cose che non sapevo.    Con qualche giorno di ritardo dovuto ad altri impegni, vorrei qui tornare su due punti che alcuni commenti circostanziati hanno criticato come basati su dati inesatti.   Poiché la verifica mi ha dato l’occasione per approfondire alcuni elementi della discussione, propongo qui sia le correzioni del caso, sia qualche considerazione ulteriore.

Il primo punto riguarda la seguente affermazione: “Stime ragionevoli valutano in una media globale di 40 joule di energia fossile consumata per mangiare un joule di cibo”.
Non sono stato in grado di ritrovare la citazione originale di cui avevo preso una nota incompleta mesi fa.   Ho quindi fatto una breve ricerca per verificare se l’ordine di grandezza è plausibile.    L’argomento è molto poco chiaro perché i metodi di calcolo cambiano a seconda degli autori, così come i dati di base su cui sono formate le stime.   Non sono quindi in condizione di fornire una stima veramente affidabile, ma posso citare alcuni dati che mi sono parsi particolarmente interessanti:
Limitatamente alla filiera alimentare statunitense, notoriamente la più energivora del mondo, Michael Bomford  (sul sito del PostCarbon Institut )   stima in 10 quadrilioni di btu all'anno il consumo di energia fossile necessario per nutrire 300 milioni di persone; salvo errore di conversione, significa circa 22.500 Kcal/persona/giorno, ossia circa 10 volte il consumo metabolico.   Un valore dovuto in gran parte all'elevata percentuale di cibi congelati ed inscatolati, oltre che all'uso massiccio di bibite nella dieta americana.
Le medie mondiali sono sicuramente inferiori, sebbene occorra ricordare che la "rivoluzione verde",  l’inurbamento ed il commercio globale del cibo (in particolare dei cereali) abbiano elevato considerevolmente i consumi energetici relativi al cibo anche nei “developing countries”.
Per fare un confronto usando dati attinenti alla mia esperienza professionale diretta, posso dire che la coltivazione di un ettaro di grano nella campagna toscana richiede circa 70 kg di gasolio, pari a circa 742.335 Kcal, per dare (se va tutto bene) 45 q di granella, approssimativamente equivalenti a 1.575.000 Kcal.   Dunque il raccolto è circa il doppio del consumo, ma non ho considerato i concimi (circa 65 kg di nitrati, 80 kg di fosfati e 80 Kg di potassio) per il cui calcolo energetico mi rimetto ai chimici.    Se i rapporti tra le diverse fasi della filiera (produzione, trasporto, lavorazione ed impacchettamento, vendita, conservazione e cottura) in Italia fossero simili a quelli che Bomford riporta per gli USA, si troverebbe che il grano “made in Italy” giunge in tavola con circa 5 unità di energia fossile per ogni unità di energia fotosintetica.    Ovviamente, altri cibi hanno rapporti molto più svantaggiosi, in particolare le verdure coltivate in serra (magari riscaldata) ed ancor più la carne da allevamenti intensivi; per non parlare dei congelati, inscatolati, ecc.    Su questa base penso che, in Italia, si possa ritenere realistico un rapporto tra energia fossile e fotosintetica mediamente compreso fra 8:1 e 10:1.
 In conclusione, il rapporto di 40:1 dato nel post probabilmente si riferiva a casi limite e non a medie globali, un errore di cui mi scuso con i lettori.
Un dato strutturalmente diverso, ma ancor più preoccupante è il Sustainability Index (
M.T. Brown and S. Ulgiati 1997) ricavato dal rapporto fra la quantità di energia dissipata nel processo produttivo e quella contenuta nel cibo: un rapporto che, nei paesi sviluppati, è passato da 1 nel 1910, a 10 nel 1970, ad oltre 100 oggi (dati ENEA).    Al solito, nel resto del mondo c’è da aspettarsi un rapporto migliore, ma in progressivo peggioramento: dove per l'aumento del reddito medio e dove, viceversa, per il peggioramento delle condizioni di vita con il conseguente incremento degli aiuti alimentari internazionali.
    Rimane comunque valido il fatto che il petrolio è l’alimento principale dell’umanità contemporanea, il che ci riporta al primo post della serie ed al fatto che dovremo cambiare molto rapidamente la nostra dieta, sempre che ciò risulti possibile.

Il secondo dato contestato è il numero di persone denutrite oggi nel mondo.   Nel post affermo: ”Parallelamente,la quantità di persone denutrite è andata diminuendo dal 1960 fino al 1995,per poi circatriplicare nei 20 anni successivi.(fig. 4)”.   Si è trattato di un lapsus: l’aumento in cifra assoluta è stato infatti del 30% circa e non del triplo.

Per approfondire la questione, riporto qui per intero la figura (fonte European Environment Agency su dati FAO)  che nel post ho riprodotto in parte. Premesso che questo genere di dati è intrinsecamente approssimativo e che come tale deve quindi essere considerato, in numero assoluto si passa da circa 870 milioni nel periodo 1969-1971, a circa 820 nel periodo 1995-1997, per poi risalire a circa 1020 nel 2009.   Essendo che nel frattempo la popolazione è cresciuta considerevolmente, la curva del dato percentuale è diversa, con un minimo nel 2004-2006 (attorno al 15%), che risale al  20% circa nel 2009; molto meno del quasi 35% che avevamo nel 1969-1971.

Ho verificato il dato con quello pubblicato dal Worldwatch Institute nel rapporto 2013 dello State of the World, trovandolo in linea con quello da me utilizzato (probabilmente i dati di base sono gli stessi): 878 milioni nel 1969, minimo nel 1995 con 825 milioni, 1020 milioni nel 2009 e 1030 nel 2011.   Il dato reale è sicuramente peggiore in quanto queste stime si riferiscono ai soli “developing countries” e non considerano dunque i crescenti livelli di denutrizione in Europa, USA, ecc., ma comunque il numero delle persone denutrite, per fortuna, non è triplicato.

Mi scuso di tale grossolana svista che, a mio avviso, non inficia tuttavia l’analisi delle prospettive.   Per l’argomento in discussione non mi sembra infatti che sia tanto importante la cifra in se, quanto il fatto che abbiamo avuto un lungo periodo di miglioramento, seguito da un’inversione di tendenza oramai consolidata.  



Certamente sul problema della denutrizione pesano moltissimo anche altri fattori come gli iniqui meccanismi di mercato, gli sprechi e le speculazioni, ma non è mio scopo analizzare qui il peso relativo dei vari fattori in gioco, quanto porre in evidenza il fatto che le possibilità produttive dell’agricoltura stanno raggiungendo il loro limite estremo e non riescono più a tenere il passo con la crescita demografica che ha rallentato in termini percentuali, ma che è invece al suo massimo storico in termini assoluti.   E proprio per riportare l’attenzione su questo particolare aspetto del problema, aggiungo qui tre grafici (dati FAO) che evidenziano molto bene l’impatto della legge dei “ritorni decrescenti” sull'agricoltura contemporanea.

AI “ritorni decrescenti” si devono poi aggiungere le perdite dovute al mutamento climatico, un argomento su cui non mi dilungo essendo già stato trattato recentemente da diversi articoli su questo stesso blog, ad esempio questo, questo, e quest’altro.

Il pericolo di un’ondata di carestie è quindi uno degli elementi che contribuiscono a formare la “tempesta perfetta” che si addensa sulle nostre teste e viene preso molto sul serio dagli organismi competenti; specialmente in considerazione della progressiva riduzione delle disponibilità di petrolio e dell’inevitabile peggioramento del clima.   Da diverse parti vengono avanzate proposte interessanti per superare o posticipare tale crisi, ma la loro analisi esula dai limiti della presente integrazione. 

In conclusione, anche se non è piacevole essere colti in fallo, vorrei congratularmi per l’accortezza dei lettori di questo blog, cosa che costituisce un importante patrimonio ed un’ottima garanzia per la sua qualità.

Jacopo Simonetta