venerdì 11 maggio 2012

La fusione nucleare e la “legge dei tre anni” della ricerca scientifica

Da Cassandra's Legacy, traduzione di Massimiliano Rupalti


Parte di una mini serie sulla fusione nucleare, ecco una breve discussione sullo stato dell'approccio alla fusione basato sul plasma caldo, la cosiddetta configurazione “tokamak”. Questa tecnologia sta progredendo ad un ritmo molto lento: i primi impianti che producono energia dovrebbero apparire non prima di diversi decenni nel futuro (se mai appariranno). Data la situazione, potremmo fare un grande errore di comunicazione se presentassimo questo approccio come la soluzione dei problemi energetici del mondo. A questo ritmo di progresso, molta gente ha già perso la pazienza e si sta rifugiando  nella pseudoscienza e nelle bufale complete. (Immagine sopra da un articolo di Jean Pierre Petit ).


C'è una legge non scritta che domina la ricerca e lo sviluppo  industriale. Dice che devi dimostrare che la tua idea può funzionare in non più di tre anni. In casi eccezionali, cinque anni possono essere il limite ma, normalmente, nessun progetto di ricerca industriale dura più di così. Se un progetto non produce risultati utili in cinque anni, ci sono buone possibilità che non ne darà mai. 

Ci sono diversi esempi della “legge dei tre anni” (o, forse, della “legge dei cinque anni”). Pensate ai fratelli Wright: il loro primo aliante è volato nel 1900 e tre anni dopo hanno volato col primo aereo a motore al mondo. Pensate alla fissione nucleare; il progetto Manhattan è stato attivo dal 1942 al 1946 e in meno di tre anni sono stati creati sia la prima bomba nucleare, sia il primo reattore nucleare. La legge sembra valere indipendentemente dall'ambizione del progetto: che sia una bicicletta o una nave spaziale, devi mostrare che può funzionare in pochi anni.

Al contrario, considerate la “Guerra al Cancro”, lanciata nel 1971 dal presidente Nixon. In più di 40 anni, molti progressi sono stati fatti nella ricerca di base sul cancro, certo, ma la guerra non è stata vinta. Pensate all'idrogeno come combustibile. L'idea di un'economia “basata sull'idrogeno” risale agli anni 60 ma, ad oggi, non esiste niente di pratico sul mercato. Questo tipo di progetti a lungo termine può generare buona ricerca di base, ma difficilmente può produrre risultati pratici.

Quindi esaminiamo l'idea della fusione nucleare controllata sotto questa luce. Stiamo ancora lavorando, prevalentemente, sul concetto “tokamak”, proposto negli anni 50 dal fisico russo Andrei Sakharov. Non c'è dubbio che un tokamak può produrre la fusione nucleare, ma in più di 50 anni di lavoro non siamo stati in grado di raggiungere il punto di “pareggio”, che è la condizione in cui la quantità di energia prodotta dalla fusione è la stessa di quella necessaria per mantenere il plasma in uno stato stazionario. Si suppone che il  progetto europeo ITER sulla fusione nucleare raggiunga e superi quel punto quando diventerà pienamente operativo, nel 2026, cioè circa 20 anni dopo l'avvio del progetto. L'intero progetto ITER dovrebbe durare fino al 2038. Sono tempi lunghi in modo anomalo per un progetto di ricerca industriale. Considerate anche che, anche se ITER raggiungesse i suoi obbiettivi, ci troviamo a ordini di grandezza lontani da un dispositivo effettivamente capace di produrre energia utile. 

Ora, naturalmente, è impossibile dire che il tokamak non produrrà mai energia utile. Ma guardate la figura all'inizio del post. Non vi rende perplessi? Sembra che stiamo semplicemente facendo la stessa macchina, solo un po' più grande, nella speranza che, alla fine, funzioni. Pensate se un 747  sembrasse semplicemente un aereo dei fratelli Wright, solo più grande. Non è impossibile arguire che abbiamo preso una strada senza uscita col tokamaks, come discusso in un recente articolo di Jean Pierre Petit. Anche altri fisici, come Luigi Sertorio, sono molto scettici su questi sforzi per la fusione nucleare.

In breve, il progetto ITER non è un progetto di ricerca industriale, è un progetto di ricerca di base. Naturalmente non c'è nulla di sbagliato nello studiare la fusione nucleare, i plasma a temperature molto alte e cose simili. E' scienza seria messa in atto da persone competenti e possiamo apprendere molte cose utili da questo lavoro. E, facendolo, potremmo anche trovare il modo di ottenere energia utile. Ma non possiamo pensare a ITER (o a sforzi simili di ricerca sulla fusione) come qualcosa che sia direttamente rivolta a risolvere i problemi energetici del mondo.

Il problema è che può darsi che non siano in tanti a conoscere la “legge dei tre anni”, ma ci sono limiti alla pazienza umana. Dall'alba dell'”era nucleare”, alla gente è stato raccontato che la scienza può risolvere i problemi energetici del mondo con la fusione nucleare. Ma questa non ha prodotto nulla di funzionante in 50 anni. Ora gli viene detto che deve aspettare per diversi decenni ancora. A questo punto, non sorprende se vediamo così tanta gente che cerca rifugio nella pseudoscienza e nelle bufale complete della recente mania della “fusione fredda”. E' un disastro, perché la gente viene facilmente convinta che ci sono soluzioni miracolose ai problemi energetici e tende a trascurare le tecnologie, come le rinnovabili, che non sono così spettacolari, ma che producono energia. Ma non esistono miracoli nella scienza e ce la dobbiamo cavare con quello che abbiamo ora.




mercoledì 9 maggio 2012

Apericena della terra svuotata

APERICENACULTURALE

PER CONOSCERE, APPROFONDIRE,STUDIARE
Per contrastare il pressapochismo e la superficialità dominante
Per fare informazione e formazione,  costruire cultura politica, senso civico e responsabilità sociale.

Presso il nuovo Circolo ex Spam Viale Europa Lammari  138 – Capannori – Lucca
dalle ore 19,30
GIOVEDI 10 MAGGIO
(prezzo 8 euro per l’apericena)

Incontro con il Prof. Ugo Bardi per presentare, discutere e riflettere sulle prospettive future del Pianeta a partire dal  suo ultimo libro:
“ La Terra svuotata”
“il futuro dell’uomo dopo l’esaurimento dei minerali”

Eugenio Baronti del Forum ambiente nazionale di Sel presenta il libro e coordina l’intervista collettiva dei presenti

Le preoccupazioni sull’esaurimento del petrolio sono all’ordine del giorno, ma sono solo una parte del problema molto più grande.
Quando si esauriranno i minerali?

Partiremo da questa domanda per affrontare le grandi questioni di questa epoca: la necessità impellente di costruire un nuovo sistema energetico da fonti rinnovabili e un nuovo modello di sviluppo che sia socialmente ed ecologicamente sostenibile.

Il prof. Ugo Bardi è docente dal 1990 presso il Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze. Ha insegnato presso le università di New York, Marsiglia, Berkleley e Tokyo è membro di ASPO, l’associazione internazionale che studia le riserve di petrolio mondiale e il loro esaurimento,
è stato fondatore della sezione italiana e presidente. Attualmente si occupa di nuove tecnologie energetiche e di politica dell’energia.

Circolo Sinistra Ecologia Libertà della Piana

lunedì 7 maggio 2012

La terra svuotata: una recensione di Eugenio Baronti

 
 
Eugenio Baronti è stato assessore all'ambiente al comune di Capannori (Lu), creando quella rivoluzione nella gestione dei rifiuti basata sulla raccolta differenziata che ha portato Capannori ad essere famoso in Italia e anche nel mondo. Baronti è stato poi assessore regionale e al momento è il direttore dell'aeroporto di Tassignano dove ha creato una nuova struttura di ricerca nel campo aerospaziale e delle energie rinnovabili sotto il nome di "Zefiro innovazione". Eugenio Baronti è anche autore del libro recente "Con il piombo sulle ali" dove descrive la sua esperienza politica. Questo post è tratto dal suo blog.

 

La recensione di Eugenio Baronti 

  Non si può prevedere il futuro ma possiamo preparaci ed attrezzarci per affrontarlo.


Questo è un libro che consiglio di leggere con la dovuta attenzione e dovrebbe essere obbligatorio leggere per l’attuale classe dirigente politica ed economica dominata dal pensiero unico del Dio mercato. Affronta la storia del rapporto tra l’uomo, i minerali e la sostenibilità, a partire dall’era primordiale fino ai giorni nostri quando, a forza di scavare nelle rocce, con tecnologie e mezzi sempre più potenti ed invasivi,  siamo giunti al picco produttivo di molte minerali che sono a rischio di esaurimento anche a tempi brevi e questa prospettiva ci costringerà a rivedere molto se non tutto di questo nostro modello di sviluppo e di consumo. Ugo Bardi è un docente dell’Università di Firenze ed è anche  un ricercatore che si interessa da tanti anni del petrolio, e con i suoi libri cerca di informare l’opinione pubblica, e soprattutto la classe dirigente di questo  paese, che il petrolio esiste in quantità finite e quindi non è eterno e prima o poi dovrà finire.

Bardi ha introdotto in Italia, insieme ad altri ricercatori, il concetto del picco del petrolio che non significa esaurimento completo ma costi ambientali ed economici troppo elevati per estrarlo, ciò provocherà  inevitabilmente, una riduzione della produzione, generando quindi quel massimo produttivo che viene chiamato il “picco di Hubbert” dal nome del geologo americano Marion King Hubbert che propose questo concetto per la prima volta all’inizio degli anni cinquanta.

Il libro racconta la storia, le tappe, i particolari, di una sfrenata attività estrattiva che sta svuotando il pianeta di minerali a dei ritmi mai visti prima in centinaia di milioni di anni di storia planetaria. Minerali che fino a che stavano sottoterra erano isolati e non avevano effetti importanti sui cicli  dell’ecosfera ma una volta estratti, bruciati e trasformati in biossido di carbonio  impattano direttamente sui cicli biologici e questo sta trasformando la terra in un pianeta molto diverso. C’è anche il racconto del nostro rapporto con il petrolio, il perché non ne possiamo più fare a meno e che cosa potrà succedere il giorno in cui, quel poco che resterà, sarà così costoso estrarlo che saremo costretti a lasciarlo nelle viscere profonde della terra. Il libro estende questo punto di osservazione a tutte le risorse minerali che utilizziamo: dai combustibili fossili a tutti i metalli, i semiconduttori,  materiali da costruzione e quei preziosi fosfati senza i quali l’agricoltura non potrebbe produrre abbastanza cibo per sfamare sette miliardi di abitanti di questo pianeta sempre più piccolo e sovraffollato.

Nel 2002 Ugo Bardi invitò Colin Campbell, fondatore di ASPO, ad una conferenza all’università di Firenze e dopo la conferenza insieme ad un drappello di ricercatori fondò la sezione italiana di ASPO di cui è stato fino a pochi mesi fa Presidente. La Terra svuotata racconta la storia dell’estrazione dei minerali che parte addirittura dalle radici delle piante che per centinaia di milioni di anni sono state le prime ed uniche estrattori di minerali dalla terra, una  storia  lunga fatta di inenarrabili sofferenze, oppressione, e fatica del popolo dei minatori,  da quando sono partiti, circa  due milioni e mezzo di anni fa, a raccogliere pietre che servivano come strumenti da taglio o percussione, a quando graffiavano dalla crosta terrestre minerali con le mani o con rudimentali ossa di animale, e poi con il progresso tecnologico e con nuovi e più efficienti strumenti, dal ferro, all’acciaio e  alle moderne tecnologie che hanno aumentato a dismisura le quantità dei minerali estratti che ad oggi ammontano a circa 10 miliardi di tonnellate di materiale strappato via dalla terra, dieci volte di più di quello che fanno le piante. Oggi le trivellazioni arrivano a decine di chilometri di profondità.

Insieme ai minerali, la storia dei combustibili fossili, del petrolio, scoperto appena un secolo e mezzo fa, snobbato e quasi ignorato all’inizio, poi diventato il minerale che ha cambiato la vita di miliardi di persone e la storia del pianeta. Nessun altro minerale ha condizionato così profondamente a livello planetario la storia della civiltà umana come il petrolio.

Il re carbone anima e strumento della grande rivoluzione industriale surclassato dal nuovo oro nero, in nome del quale, e per il controllo del quale, si sono combattute e purtroppo si combatteranno ancora guerre.

Ce la faremo a creare un nuovo sistema energetico che sostituisca l’energia fossile con energia rinnovabile? Soprattutto, ce la faremo prima che i fossili si esauriscano e che il cambiamento climatico ci distrugga?  A questa risposta e a questa sfida è legato il destino e il futuro dell’umanità.

Oggi siamo di fronte ad una profonda crisi di sistema, insieme alla grave crisi economica finanziaria, su cui si concentra tutta l’attenzione, c’è anche l’ inesorabile declino della produzione dei combustibili fossili, diventati troppo cari per essere estratti ai ritmi attuali.

Non e’ possibile dire la data precisa, e non importa se sarà un anno o dieci anni, sarà comunque una questione di un attimo in confronto allo svolgersi della storia umana e ancora meno in confronto alla maestosa lentezza delle ere geologiche.
Ugo ci ricorda la lettera di Seneca a Lucilio che dice: ” sarebbe già un conforto per la nostra debolezza  se tutto perisse con la stessa  lentezza con cui si e’ formato” ma non è così: la crescita è lenta la rovina è rapida.

Il libro ricostruisce anche il percorso del sogno nucleare degli anni ’60 e della fusione, l’illusione dell’ energia così a basso costo da poterla avere addirittura gratis. Ma dopo la forte espansione degli anni settanta la corsa al nucleare si e’ fermata per la sua difficile gestione da allora siamo fermi ad una produzione annua di energia elettrica del 15% e di un 6% di energia primaria. Ma la maggior parte delle centrali si stanno avviando al fine ciclo di vita operativa. Il picco e’ probabile che si sia già determinato nel 2006.



Ovviamente il libro si sofferma molto sull’alternativa possibile, quella delle rinnovabili, in particolare l’ eolico e il fotovoltaico.

Il fotovoltaico per molti anni e’ stata una tecnologia utilizzata solo a livello aerospaziale che ha reso possibile la rivoluzione dei nuovi satelliti per le telecomunicazioni iniziata negli anni settanta.

Una tecnologia molto costosa e soprattutto poco efficiente. L’efficienza delle celle al silicio era inferiore al 10% e l’elettronica di supporto ancora primitiva.
Solo con il primo conto energia nel 2005 il fotovoltaico è decollato. Il sistema degli incentivi è stato il punto di svolta. Nato negli Usa durante la presidenza Carter chiamata feed-in-tariff, nel mezzo della prima grande crisi petrolifera, cancellata da Regan, fu ripresa in grande stile in Germania nel 2000 con lo Erneuerbare Energien Gesetz, il decreto sulle energie rinnovabili. Con questo decreto l’industria fotovoltaica tedesca ha fatto da traino in tutto il mondo. L’unione europea ha incluso questo tipo di incentivo nella sua direttiva 2001/77/CE . In Europa lo sviluppo del fotovoltaico e’ stato esplosivo e questo ha determinato uno sviluppo tecnologico che ha portato ad efficienze energetiche superiori e crescenti portando il fotovoltaico verso la grid party, ovvero quel costo di produzione che mette il fotovoltaico alla pari con quello ottenuto con combustibili fossili, quando il Kwh costerà quanto quello prodotto con combustibile fossile. Oggi tutto questo è messo in crisi da un Decreto irresponsabile e suicida del Ministro Passera del governo Monti, prima di lui, ci aveva già provato Berlusconi con il decreto Romani.

C’e una campagna di stampa negli ultimi anni che cerca di denigrare le rinnovabili, si sono alimentate e sviluppate una serie d leggende negative che contribuiscono a creare un’ area di sospetto e addirittura di malaffare attorno alle rinnovabili. Nel 2010 erano istallati nel mondo impianti fotovoltaici per una potenza nominale di 20 Gw. oggi l’efficienza delle celle solari ali silicio si avvicina la 20% quelle al tellurio di cadmio a circa il 12% pero’ hanno una EROEI maggiore.

La grande sfida del futuro è quella di integrare fra loro le diverse tecnologie energetiche da fonti rinnovabili in una Smart Grid o rete intelligente dove si potrebbero compensare le fluttuazioni di produzione dei vari impianti. Il fotovoltaico produce meno in inverno, potrebbe essere compensato dall’eolico e addirittura una rete intelligente potrebbe operare in modo integrato a livello europeo e mediterraneo gestendo sia il vento delle coste atlantiche del nord sia il sole dei paesi del sud del mediterraneo.

C’è bisogno di una nuova cultura e di maggior rispetto nei confronti delle future generazioni che non contano meno di noi, non possiamo preferire oggi soluzioni sporche nell’immediato perché economicamente più vantaggiose quando sono possibili soluzioni pulite e più vantaggiose in tempi leggermente più lunghi. Chi ritiene oggi le energie rinnovabili costose assume un atteggiamento di chi non riesce a vedere il futuro al di là del proprio naso.

Bardi ricorda ai nostri economisti bocconiani i diversi casi nella storia più o meno recente in cui una cattiva gestione di ma risorsa ha determinato il suo esaurimento anche se era una risorsa rinnovabile. Un esempio è stato l’ esponenziale sviluppo dell’industria baleniera nella prima metà del 1800 e la sua altrettanto rapida rovina. Una produzione prioritariamente destinata all’olio per lampade da illuminazione. Un prelievo superiore ai tempi lenti di riproduzione naturale delle balene diventate talmente rare e difficili da trovare negli oceani che aumentarono a dismisura i costi di produzione portando alla catastrofe economica l’industria baleniera. Ricorda il caso delle foreste Irlandesi abbattute per ottenere energia. la deforestazione del paese nel secolo ottocento provocò una terribile carestia nel 1845. Altri esempi lo ritroviamo nello sfruttamento selvaggio della pesca che ha portato allo svuotamento degli oceani di pesce. Uno dei motivi della povertà dei pescatori e’ che sono naturalmente soggetti alla cosiddetta tragedia dei commons (beni Comuni), la loro sorgente di sostentamento, il pesce, e’ per sua natura accessibile a tutti, non possono ottimizzare lo sfruttamento possono solo affrettarsi a pescare quanto più pesce possibile prima che lo peschi qualcun altro. Questo vale per tutti i commons, beni comuni, usi civici, come per esempio il pascolo.

Le risorse biologiche caccia, pesca e agricoltura sono rinnovabili perché si riproducono ma con propri ritmi naturali e il sovra sfruttamento ne determina comunque la scomparsa.

Lo stesso vale per le risorse minerarie che a maggior ragione non sono rinnovabili perlomeno su scale di tempo inferiore ai milioni di anni e anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un andamento a campana come per le balene, la pesca, il pascolo e le foreste irlandesi o sarde.

In molti non riescono ancora a capire il concetto del sovrasfruttamento. L’economia umana si comporta perlomeno in certi casi come un sistema predatore – preda in cui la preda non si riproduce.

Nel sistema economico la preda è la risorsa e tutto quello che possiamo sfruttare economicamente; il predatore è il capitale, quell’aggregato economico che lo sfruttamento della risorsa crea e che permette di sfruttare di più la risorsa. Il pensiero unico attuale si fonda su di un pensiero binario semplice buono/cattivo. Se il PIL cresce buono, se il PIL cala cattivo, questo da la tendenza al sistema la direzione che può essere invertita anzi è necessario invertire la rotta prima di produrre guasti irreparabili.

Per concludere è necessario avviare una transizione verso una stabilizzazione del sistema economico che dovrà necessariamente sfruttare le risorse disponibili in modo più sobrio e razionale, sostituendo materiali di origine minerali rari con minerali largamente diffusi e maggiormente disponibili. I minerali rari dovranno essere usati in modo estremamente parco ed essere poi recuperati e riciclati. Gestire l’economia in modo da evitare il crollo da esaurimento delle risorse. Gestire la transizione nel modo meno doloroso possibile.

Noi oggi non abbiamo strutture politiche in grado di gestire la transizione e il cambiamento ma non abbiamo nemmeno le strutture mentali adatte, almeno quelle della nostra classe dirigente economica a politica che sono tutti convinti, accomunati in un pensiero unico, che si possa uscire dalla crisi con le solite ricette tradizionali e i soliti mezzi ordinari, rilanciando consumi, crescita e PIL.

Prima o poi comunque saremmo costretti a prendere atto che non e’ più possibile una crescita infinita in uno spazio finito e dovremo trovare il modo di gestire il pianeta in modo sostenibile.

La chiave della soluzione è quella della collaborazione internazionale, se si scende sul terreno della competizione militare per accaparrassi il controllo delle risorse sarà il trionfo della barbarie.

Bello e significativo il racconto, nelle pagina finali del libro, dove Ugo racconta un’ antica storia Giapponese al tempo delle guerre civili tra potenti signori della guerra. Nell’ultima fase di queste guerre i tre Daimyo più potenti si incontrarono per sentire cantare un cuculo, ma quel giorno il cuculo restò silenzioso, uno disse: se non canta lo uccido, l’altro disse: lo convincerò a cantare, il terzo, il più saggio, disse: aspetterò finche non canterà.

Questo racconto ci dice che la strategia vincente in tante cose della vita non e’ la violenza, e nemmeno la furbizia è la pazienza. Fu il saggio Ieyasu che sconfisse i suoi rivali e prese il controllo di tutto il Giappone creò una società a stato stazionario a crescita zero, abolì l’esercito e fu l’inizio di una dinastia che governò pacificamente il Giappone per oltre due secoli e mezzo fino alla metà del diciannovesimo secolo, il periodo che oggi chiamiamo Edo.

Per finire, non si può costringere il cuculo a cantare così come non si può costringere il pianeta a darci più risorse di quelle che ha nelle sue viscere. Quindi bisogna tarare i nostri bisogni in base a quanto il pianeta può offrirci.




venerdì 4 maggio 2012

La degenerazione industriale

Articolo da The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti

Immagine da http://sightsandlights.blogspot.com.es


Di Antonio Turiel


Cari lettori,

oggi mi sono bruciato un dito. Ho aperto il gas per far cuocere le lenticchie ed ho tardato un secondo o due in più del necessario. Troppo. La fiamma del fiammifero era già arrivata alla punta del mio indice e praticamente mentre lo avvicinavo al bruciatore ho dovuto iniziare ad agitarlo per spegnerlo. Un aneddoto banale, come vedete, un piccolo incidente quotidiano senza alcuna importanza. Tuttavia, a volte le situazioni banali nascondono cambiamenti più profondi e di maggior importanza di quanto possa sembrare. Di sicuro, l'ultima scatola di fiammiferi che ho comprato contiene dei fiammiferi più corti. Abbastanza più corti, tipo un terzo in meno di lunghezza, più o meno. Non solo questo, sembrano anche più sottili. No so se è a causa di un cambiamento di marca o di un cambiamento di modello di fabbricazione della stessa marca: i fiammiferi li prendo al supermercato, sempre nello stesso posto e non ho mai fatto caso di che marca siano. La verità è che in questo posto c'è un solo tipo di fiammiferi, quindi non potrei scegliere neanche volendo. E, alla fine, chi se ne frega dei fiammiferi? Semplicemente devo fare più attenzione quando accendo il fuoco. Non è un gran cambiamento.

Ultimamente sto rimanendo senza jeans. Voglio dire, che siano in uno stato decente. Prima un paio di jeans mi duravano in buone condizioni un paio di anni. Bene, quando dico prima intendo dire una decina di anni fa più o meno. Molto prima di così, quando ero un bambino, il tessuto dei jeans era talmente spesso che quando gli altri bambini giocavano a darti frustate sul culo con le corde della trottola, non dovevi preoccuparti se quel giorno portavi i jeans, perché quelli erano impenetrabili e duravano oltre il tempo in cui ti andavano bene come taglia. Alla fine, il problema è che adesso i jeans non mi durano niente.

Certamente non vado in negozi fighi dove ti possono vendere quelli più fashion e probabilmente di miglior qualità. Alla fine però continuo ad andare negli stessi posti in cui andavo ed ora praticamente mi ritrovo che dopo il primo lavaggio la trama del pantalone comincia a sfilacciarsi. Si da il caso che abbia in paio di jeans che non hanno nemmeno un anno e che potrebbero essere utilizzati come vestiti perfetti per “La notte dei morti viventi”. Bene, è anche vero che un paio di jeans non sono così cari (anche se ultimamente costano di più) e non succede nulla se li ricompri più di frequente. In più posso usare altri tipi di pantaloni... ma il fatto è che da poco ho comprato un paio di pantaloni di tela in un negozio di una marca famosa, molto gradevoli al tatto, molto ben rifiniti, quasi vaporosi. Tanto vaporosi che il primo giorno che ha tirato la tramontana (vento forte e freddo tipico di queste regioni), mentre me ne stavo col bambino al parco, i pantaloni si sono induriti e rotti. Bene, non succede niente, nemmeno questi erano cari...

Sono due esempi quotidiani presi a caso fra molti altri: biglietti della metro o del treno sempre più sottili e fragili, offerte sempre più restrittive al supermercato, attrezzi col manico di plastica che si rompono durante la prima ora d'uso, ombrelli che si piegano quando li richiudi, scarpe che si scollano prima che finisca la loro prima stagione, bottiglie e cartoni dalle pareti sempre più sottili... Tutti questi esempi illustrano un fenomeno sottostante che sempre di più sta acquistando la legittimità di naturale e che va molto oltre l'obsolescenza programmata alla quale siamo già abituati. Sono lampi, sintomi di un fenomeno nuovo, di un cambiamento più profondo: la degenerazione industriale.

Fino ad ora i prodotti erano progettati per durare un certo tempo ed obbligarci a sostituirli ogni tot di tempo e mantenere così la produzione e la crescita esponenziale dell'economia. Come abbiamo già discusso, questo è il motivo di così tanto spreco. In modo consapevole o inconsapevole, tutti sappiamo che queste sono già le regole del gioco, ma siccome una tale e frenetica attività di comprare, usare e gettare manteneva in moto l'economia e in fondo ci garantiva il mantenimento di un livello di reddito che ci permetteva di seguire questo gioco, non ci importava molto. Così, gli abitanti dei paesi che si autodefiniscono “civilizzati” sono arrivati a ritenere “normale” che si debbano cambiare i vestiti ogni anno, il computer ogni tre, l'automobile ogni cinque e la casa ogni dieci anni. Ed hanno ragione a ritenere questa pratica “normale” perché è quella che di fatto è arrivata ad essere la norma o l'abitudine, in realtà imposta.

Tuttavia, il processo che affrontiamo ora è di una natura molto diversa. Qui non si tratta di massimizzare il ciclo produttivo ed il suo rendimento, ma di qualcosa di più perverso e dannoso. Succede che con lo sprofondamento della classe operaia in queste prime fasi della Grande Esclusione il consumo sta crollando e l'idolatrato equilibrio fra domanda e offerta che permette di fissare il prezzo si sta spostando a sinistra nella misura in cui la domanda scende e i prezzi sono costretti a fare lo stesso. Tuttavia i grandi industriali, che hanno in funzione un sistema di produzione su grande scala, con grandi fabbriche ed enormi reti di distribuzione, hanno un'inerzia strutturale troppo alta per poter rispondere agevolmente ai cambiamenti. Nel caso di alcuni prodotti più cari (di maggior valore aggiunto) la domanda è stata distrutta per non tornare mai più. E' il caso, per esempio, delle auto: la maggior parte della gente che non può più permettersi l'automobile non se la potrà permettere più. In questo caso l'unica soluzione per l'industriale è ridurre la produzione, il che significa chiudere fabbriche e lasciare la gente sulla strada (retroalimentando la distruzione della domanda in generale, poiché un lavoratore in meno è un consumatore – o forse di più – in meno).

Tuttavia ci sono molti altri prodotti la cui domanda latente continua ad essere alta, ma non si esprime in domanda reale semplicemente perché la gente non si può permettere qualsiasi prezzo. E' il caso principalmente dei prodotti di prima necessità, come gli alimenti ed il vestiario. In questo caso, l'industriale tenta logicamente di ridurre il prezzo di vendita dei sui prodotti, che sia per mezzo della riduzione dei margini di guadagno (il che va contro i suoi interessi) o attraverso la riduzione dei costi. Per ridurre i costi può abbassare i salari dei suoi operai, ma questa strategia ha un percorso limitato e inoltre tanto meno guadagneranno i suoi lavoratori e tanto meno consumeranno (di nuovo il terribile dilemma del capitalismo). Cosicché a lungo termine la migliore ed unica strategia passa attraverso la riduzione dei costi essenzialmente produttivi. L'ideale sarebbe se questa riduzione arrivasse da un miglioramento senza limiti dell'efficienza, ma la termodinamica in questo è molto cocciuta (in un prossimo post affronteremo il tema dell'entropia come sovrana tirannica e suprema del nostro mondo) ed il margine di miglioramento finisce per essere scarso o nullo. Pertanto, ciò che alla fine rimane è la semplice diminuzione dell'apporto di materiali, del consumo di materie prime nella produzione, soprattutto ora con gli inizi del Peak Everything (il picco di tutto, o Grande Scarsità) sono sempre più cari.  L'industriale va così progressivamente degradando la qualità dei suoi prodotti, tentando di portarli al limite dell'immaterialità, ma per il sentiero sbagliato (niente a che vedere con tanto decantata e mai vista dematerializzazione dell'economia).

La cosa perversa di questo meccanismo di progressivo degrado della qualità dei nostri oggetti quotidiani è che vari decenni di convivenza con l'obsolescenza programmata ci hanno resi molto sottomessi a questo tipo di processo di degrado. Lo accettiamo quindi come “normale”, perché segue la vecchia norma dell'obsolescenza programmata per la quale tutto sia di qualità scadente e che debba essere sostituito periodicamente. Certo che possiamo percepire che il ciclo dell'obsolescenza ora è più breve, ma siccome in generale i cicli dell'obsolescenza sono andati riducendosi col tempo è normale interpretarli come parte del BAU, del normale modo di procedere. Tuttavia, in questa occasione si sta forzando il ciclo di obsolescenza fino a degli estremi ridicoli, come nel caso dei fiammiferi col quale ho aperto il post e come con tanti altri esempi che sicuramente il lettore potrà trovare, il che evidenzia che il motore di questi cambiamenti non è tanto l'accelerazione del ciclo produttivo ma la disperazione di ridurre i costi. La maggior parte della gente confida sommessamente nei benefici del “sistema”, del BAU, nel suo compito e assume implicitamente che con questa accelerazione dell'obsolescenza il capitale fluirà più rapidamente e ci saranno rendite sufficienti per rimanere in questo gioco. Niente di più lontano dalla realtà. Il progressivo degrado dei beni di consumo comuni è in realtà un ulteriore passo verso la Grande Esclusione.

La degenerazione industriale porta con sé molti altri effetti negativi, in particolare la perdita della capacità industriale e dell'economia di scala. La produzione di molti beni oggigiorno è possibile solo perché vengono prodotti su grande scala grazie all'uso intensivo di energia a buon mercato. Mentre si degradano le rendite disponibili ai consumatori, tutte queste imprese collasseranno e perderemo progressivamente le conoscenze e la capacità di produrre industrialmente molti prodotti finiti, ma non solo questo, anche la capacità di produrre diverse materie intermedie necessaria in diversi processi industriali e di cui di fatto avremmo bisogno per poter installare il nostro sistema energetico alternativo basato sull'energia rinnovabile che sogniamo e che sicuramente non saremo in grado di permetterci. Insomma, perderemo la base industriale, il muscolo produttivo necessario per intraprendere qualsiasi attività industriale.

Arriverà il momento in cui alcuni industriali ingegnosi cominceranno ad offrire prodotti che, semplicemente, saranno ben costruiti, probabilmente in modo artigianale. Ma questo ad un suo prezzo. Sarà in quel momento che conosceremo qual è il prezzo reale delle cose. E questi nuovi prodotti fatti in modo antico non saranno a buon mercato ed anche se emergeranno per rispondere ad una massiccia domanda di avere oggetti di qualità sufficiente, finiranno per essere prodotti praticamente di lusso. Come lo sono stati, di fatto, nel modo antico: la gente prima non rinnovava il mobilio di casa, ma a dir molto comprava qualche mobile durante la propria vita e gli armadi, i letti, i comodini e gran parte del mobilio, passava di generazione in generazione. E in questo momento la grande maggioranza della popolazione si renderà conto fino a che punto è sceso il proprio livello di vita, fino a che punto ci siamo resi poveri senza rendercene conto. Ancora una volta come nella metafora della rana nell'acqua che bolle.


Saluti.
Antonio Turiel


martedì 1 maggio 2012

Le pale eoliche causano il cambiamento climatico?


Argomenti contro le varie fonti energetiche: per le pale eoliche “sono vicine a casa mia!”


E’ uscito in questi giorni un articolo intitolato: Impacts of wind farms on land surface temperature (impatti dei parchi eolici sulla temperatura del terreno) di Zhou et al.. L’articolo è interessante ed è pubblicato su una rivista seria: Nature Climate Change. Quello che dice è, sostanzialmente:  “I nostri risultati mostrano un riscaldamento significativo, fino a 0.72 °C all’anno, specialmente di notte, sopra i parchi eolici in confronto alle zone limitrofe. Secondo il riassunto della BBC, “Di notte, l’aria a una certa altezza tende ad essere più calda che sul terreno. Dr. Zhou e i suoi colleghi ritengono che le pale delle turbine rimescolano semplicemente l’aria, mescolando aria fredda e calda e portando un po’ dell’aria calda che sta in alto fino al livello del suolo.


Insomma, niente di drammatico: è un effetto locale di rimescolamento dell’aria che NON ha effetti su larga scala sul clima. Ovviamente, tuttavia, i negazionisti climatici ci sono andati a nozze appena hanno visto una possibilità di dir male delle odiate energie rinnovabili. Qualcuno, come Tim Worstall, non ha avuto remore a intitolare il suo post sull’argomento come “Le turbine eoliche causano il cambiamento climatico.” Un’altro che ha commentato è stato Alan Watts di “What’s up with that” che, per la verità, c’è andato abbastanza cauto nel suo articolo. Ma se leggete i commenti, vedrete che un sacco di gente ha capito la storia a modo suo, sostenendo che le pale eoliche producono riscaldamento a causa della loro inefficienza di conversione del vento in energia elettrica.

Ma queste sono pure fesserie: le pale eoliche non sono motori termici, l’energia del vento si deve conservare – si può solo trasferire da una zona a un’altra dell’atmosfera. Purtroppo, però, queste cose vengono sempre capite al contrario da chi parte prevenuto nei riguardi delle rinnovabili. Aspettiamo allora con fiducia che la leggenda delle pale eoliche che cambiano il clima terrestre appaia anche nei siti dei nostri negazionisti climatici.

Alla fine dei conti, tutto quello che facciamo ha un impatto sugli ecosistemi planetari. E’ noto da molto tempo che, su scale molto ampie, anche i parchi eolici potrebbero avere un modesto impatto sul clima (come potete leggere in questo articolo di Wang e Prinn). I risultati del lavoro di Zhou e colleghi non aggiungono molto a quello che sappiamo già, facendoci soltanto notare che l’effetto di rimescolamento dell’aria può causare cambiamenti del microclima locale all’interno dei parchi.

Tutto questo non cambia niente al fatto che un kWh prodotto da una turbina eolica è enormemente meno impattante di un kWh prodotto da una centrale a carbone o a gas. Ricordiamocelo!

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Nota aggiunta dopo la pubblicazione. C’è un interessante articolo sul “Washington Post” su questo argomento dove, in aggiunta a ribadire che le pale eoliche NON cambiano il clima si fa notare come gli agricoltori americani usino in certi casi dei ventilatori giganti per evitare che il freddo notturno danneggi le coltivazioni. Quindi, il cambiamento di microclima causato dai parchi eolici potrebbe essere positivo per l’agricoltura!

domenica 29 aprile 2012

Quando la domanda supera l'offerta: ragioni strutturali degli alti prezzi del petrolio

Da “The Oil Crash” del 14 settembre 2011. Traduzione di Massimiliano Rupalti





Guest post di Antonio Turiel


Cari lettori,

Mentre preparavo la conferenza che devo tenere questo sabato all'Espai La Caixa di Girona ho avuto modo di provare ad elaborare alcuni argomenti circa la carenza di petrolio, soprattutto a causa del divario osservato per oltre un anno fra l'offerta e la domanda di petrolio; alla fine le mie analisi sono risultate essere troppo complesse per presentarle nel contesto di una chiacchierata su aspetti più generali, ma il materiale risultante credo sia utile e illustrativo per fare un post. Eccolo.

I puristi mi diranno che offerta e domanda coincidono sempre per definizione, poiché si realizzano solo quando coincidono. Questo è certo, ma nel caso del petrolio c'è una piccola sottigliezza dovuta al fatto che i paesi e le industrie accumulano riserve di petrolio comprato in anticipo e questa dispensa genera certi piccoli scompensi fra il petrolio che si consuma e quello che si produce in modi diversi (ricordiamo che quello chiamiamo petrolio oggigiorno comprende petrolio greggio, che è quello che realmente si estrae dal sottosuolo, e poi tutta una pletora di petroli sintetici derivati dai liquidi del gas naturale, la trasformazione dello stesso gas naturale in qualcosa di equivalente al petrolio, i petroli sintetizzati dalle sabbie bituminose del Canada e i biocombustibili). Queste riserve, quelle strategiche delle nazioni e quelle industriali o operative che l'industria gestisce, hanno funzioni diverse. Le riserve strategiche sono pensate per far fronte ad interruzioni della fornitura di petrolio dovute a problemi principalmente geopolitici e coprono, su mandato della IEA (International Energy Agency), 60 giorni di fornitura per tutti i paesi OCSE, intendendo questa quantità come la domanda o le importazioni rispetto al periodo immediatamente precedente, quella che risulti essere maggiore fra le due quantità. In quanto alle riserve dell'industria, sono pensate per far fronte a fluttuazioni nell'arrivo delle petroliere e dei maggiori mezzi di fornitura e servono anche per ammortizzare l'aumento o il ribasso dei prezzi; in pratica l'industria è prossima ad avere anch'essa attorno ai 60 giorni di fornitura in magazzino.

Ho compilato i dati di tutte informative disponibili al pubblico su offerta e domanda di petrolio a livello globale, accessibili dalla pagine dell'Oil Market Report della IEA. Queste informative ci permettono di risalire indietro di soli 20 anni, ma per quello che intendiamo dimostrare è sufficiente. Dalle informative ho preso i valori trimestrali della fornitura e di domanda globale di petrolio (ricordate, queste due cifre non corrispondono a causa dello stoccaggio), prendendo la precauzione di prendere la cifra più aggiornata degli stessi (le stime iniziali per i quattro trimestri di un anno dato si revisionano e aggiornano nelle edizioni di due anni più tardi). Questi valori di produzione e domanda di petrolio si esprimono in milioni di barili giornalieri (Mb/g) che rappresentano il flusso medio durante il trimestre in corso. La curva della domanda riflette un chiaro andamento stagionale con picchi di consumo in estate e inverno, qualcosa di più addolcito rispetto a quella della produzione; per rendere l'insieme un po' più gradevole alla vista ho lavorato con valori “non-stagionali”, prendendo per ogni trimestre il valore medio di questo più i tre precedenti. Il risultato è mostrato nel seguente grafico:


Curve non-stagionali (nel senso che si riferiscono ad una media annuale, ndT.) di produzione (in rosso) e domanda (in verde) di petrolio su scala globale; dati dell'OMR e dell'IEA

Come si vede, entrambe le curve si intrecciano frequentemente, anche se come norma generale è la curva di produzione che di solito supera quella della domanda, a eccezione di questo ultimo anno. Ricordiamo che dal maggio 2010 la domanda si sta rivelando consistentemente superiore alla produzione di petrolio, con un deficit medio, per questo periodo di 16 mesi già trascorsi, di circa 1 Mb/g. Data la scala verticale del grafico qui sopra, è difficile apprezzare come siano significative le differenze fra la produzione e la domanda, così che la cosa migliore è prendere la differenza (calcolata come la produzione meno la domanda) e rappresentarla: 

Serie non-stagionale di produzione meno la domanda di petrolio su scala globale.


Si vede che normalmente la curva è a volte positiva (si produce più di quanto si consumi e pertanto l'eccedenza viene stoccata) e a volte negativa (si consuma di più di quanto si produca e la differenza proviene da quanto stoccato precedentemente). I periodi di deficit possono durare anche due anni (per esempio 2002-2004) anche se il deficit non è mai stato grande quanto adesso (intorno a 1 Mb/g). Accade così che le eccedenze (per esempio 1997-1999) erano di maggior entità dei deficit, ma quello che mostra il grafico è che le prime siano sempre più ridotte e, in modo preoccupante, per la prima volta l'ultima eccedenza sta per essere superata in grandezza dall'attuale deficit. Eppure, vedendo il grafico non possiamo sapere rapidamente qual è lo stato delle riserve globali in questo momento, o meglio, quanto siano cambiate dall'anno in cui comincia la serie. Per farsi un'idea completa di qual è lo stato delle riserve stoccate di petrolio, ciò che si deve fare è integrare questa serie, cioè, accumulare i valori di deficit e delle eccedenze col tempo (prendendo la precauzione di moltiplicare la produzione media giornaliera del trimestre per i 91,25 giorni che lo stesso ha in media) e così otteniamo una curva sul modo in cui sono cambiate le riserve stoccate di petrolio durante gli ultimi 20 anni.


Bilancio aggregato della differenza produzione-domanda di petrolio su scala globale.

La curva sopra ci dice che, nonostante i suoi alti e bassi, la quantità di petrolio stoccata in modo permanente è cresciuta tendenzialmente col tempo. Qui è giusto fare un chiarimento: oltre alle riserve operative e strategiche, ci sono altri tipi di stoccaggio, il più importante dei quali è lo stoccaggio fluttuante: i petrolieri che possono arrivare a stoccare più di 600 milioni di barili (Mb). Tuttavia è uno stoccaggio in genere abbastanza dinamico (a parte nel 2009, quando alcuni petrolieri persero mesi prima di scaricare) e, siccome la serie è non-stagionale ed ora integrata su un grande periodo di tempo, il suo impatto è trascurabile.

Vedendo la figura precedente arriviamo alla conclusione che, nonostante la tendenza al ribasso dell'ultimo anno, non c'è nulla di allarmante nell'evoluzione del differenziale di produzione-domanda, e in quel senso la differenza dal 2010 al 2011 non pare nemmeno un fatto eccezionale. Tuttavia, questa interpretazione è erronea tenendo conto di come funzionano le riserve strategiche ed operative. Ed è che, come ho detto, devono coprire insieme circa 120 giorni di consumo, di domanda; ma durante i 20 anni della serie mostrata lì sopra, il consumo ha continuato ad aumentare. Pertanto, si dovrebbe comparare la serie accumulata della differenza di produzione-domanda con la serie degli aumenti delle riserve stoccate delle nazioni. Sappiamo che le nazioni dell'OCSE risparmiano intorno a 120 giorni di consumo e ad una prima approssimazione considereremo che il resto delle nazioni faccia lo stesso. Ciò significa che l'incremento necessario delle riserve per le nazioni è come 120 per la differenza della domanda fra il punto attuale ed il punto iniziale della serie. Sottraendo quella serie di incrementi di riserve dalla serie accumulata dalla differenza produzione-domanda, otteniamo la serie seguente di scostamento tendenziale:


Scostamento tendenziale delle riserve per nazione su scala globale.

Quest'ultima serie, nel grafico subito sopra a queste righe, mostra fino a che punto le differenze osservate fra la produzione e la domanda si esplicano con la necessità di continuare ad ampliare le riserve stoccate per ogni nazione (strategiche + operative) nella misura in cui la domanda aumenta. Sarebbe normale se questa fosse piatta, costantemente uguale a zero, anche se logicamente, data l'inerzia dei meccanismi di risposta, ci si aspettano certe oscillazioni rispetto a questo valore. Tuttavia, ciò che si osserva è qualcosa di diverso. Verso il 1993 siamo incorsi in un deficit importante delle riserve stoccate per ogni nazione (probabilmente derivate dal sostenere i costi per l'uscita dalla crisi del 1991, la riunificazione tedesca e la drastica caduta della produzione nella ex URSS) e non torna alla stabilità fino al 1999. Stabilità che dura fino al 2003. A partire dal 2003, tuttavia, si produce un persistente e grande scostamento tendenziale, un grande svuotamento delle riserve stoccate per ogni nazione, che pertanto vengono fissate ad un livello di 800 Mb inferiore a quello cui si trovava solitamente. Verso il 2005 inizia un processo di riacquisto del petrolio per recuperare le riserve, il che probabilmente spiega perché nel 2005 i prezzi del petrolio iniziano e salire senza fermarsi finché, poco prima del 2008, si decide di abbandonare questa strategia e continuare a liberare riserve. Arriva la crisi del 2008, cade la domanda, cadono i prezzi e le riserve possono tornare a riempirsi, con petrolio a prezzi economici, ma il processo si arresta verso l'inizio del 2010 e da allora lo svuotamento delle riserve ha accelerato, giungendo a dimensioni mai viste prima di più di 1.000 milioni di barili. Ed il processo non si è ancora fermato. 

A questa analisi si potrebbe obiettare l'approssimazione grezza che ho adottato per valutare la relazione fra la domanda e la dimensione delle riserve. Così come nell'OCSE la differenza fra il valore reale delle riserve stoccate e quei 120 giorni di domanda non è troppo grande, è difficile sapere cosa facciano esattamente gli altri paesi, specie quelli tanto riservati come la Cina. Tuttavia credo che quest'analisi ci può dare una prima idea ed approssimazione dei processi che possono essere in corso.

Come conclusione del mio studio, i dati mostrano che dal 2003 si sta vivendo un processo storico di sussidio del prezzo del petrolio a costo dello spendere il petrolio che si aveva precedentemente o di non aggiornare le riserve seguendo quella che era la pratica normale. Questo trasferimento di rendimento petrolifero si è fermato nel 2005 e a partire da lì ha seguito una traiettoria complicata condizionata dalle alterne vicende economiche.

Nel momento attuale stiamo vivendo un'acutizzazione di questo processo, e ci siamo incamminati decisamente verso una maggiore riduzione delle riserve; pertanto mettendoci in una posizione peggiore rispetto al futuro. In questo momento, la caduta della domanda già osservabile dovrebbe abbassare il prezzo del petrolio, ma data la mancanza di 1,5 Mb/a della Libia, la discrepanza fra produzione e domanda non si è chiusa e questo porta a continuare lo svuotamento a discapito delle riserve di petrolio. Non alla velocità desiderabile per far abbassare il prezzo e questo in parte ha motivato la liberazione di 60 Mb delle riserve strategiche annunciate dalla IEA il giugno scorso , una sciocchezza in confronto all'ampiezza, di varie volte più grande, nel movimento osservato. Quindi il prezzo non si abbassa e se a un certo punto l'industria della distribuzione del petrolio decidesse che non può continuare a contrarre oltre le sue riserve perché complicherebbe l'esercizio dei suoi affari, dovremo tornare a comprare petrolio, il prezzo tornerà a salire con forza e ciò aggraverà la recessione che sta iniziando. L'unico modo per evitarlo sarebbe che la domanda cadesse da sé con ancora più forza, il che implicherebbe che la recessione è più grave di quanto ci aspettassimo. In conclusione: la nuova recessione che sta iniziando sarà molto più grande del previsto e molto più di quanto figuri nelle mappe degli economisti mainstream.

Saluti.
AMT


Appendice (del 16 settembre 2011): seguendo il suggerimento del commento di Roger O. e per dare un'idea della sensibilità di queste analisi, particolarmente la valutazione dello scostamento tendenziale alla cifra che si è usata per stimare le riserve globali (120 giorni di domanda), ho rifatto questo grafico valutando le riserve in 90 e 150 giorni di domanda.

Scostamento tendenziale a partire da riserve stimate in 90 giorni (linea verde), 120 giorni (linea rossa) e 150 giorni (linea azzurra) di domanda. 

Come si vede, le conclusioni qualitative del post continuano inalterate in questa classifica, cambiando solo la classifica quantitativa della detrazione delle riserve. Il grafico diventa positivo solo nella parte finale (ma con la tendenza negativa e raggiungendo lo zero alla fine del 2011) quando si prendono un po' meno di 60 giorni di domanda mondiale come stima del volume desiderato delle riserve su scala globale. 








giovedì 26 aprile 2012