giovedì 6 maggio 2010

Questi scienziati sono proprio dei nerd


In un post precedente, non sono stato per niente tenero con gli scienziati dell'IPCC che ho definito dei nerd; bravi nelle loro cose, ma incapaci di comunicarle al pubblico. In questo post, parto da un articolo di George Monbiot per commentare ulteriormente su questo punto.

Dice Monbiot a proposito della crisi della scienza che:

La sfiducia è stata moltiplicata dagli editori delle riviste scientifiche, le cui pratiche monopolistiche fanno si che i supermercati sembrino degli angioletti, e che sono dovute da tempo per un'inchiesta da parte della Commissione alla Competizione. Gli editori non pagano per la maggior parte del materiale che pubblicano eppure, a meno che voi non siate membri di un'istituzione accademica, vi fanno pagare 20 sterline o più per accedere a un singolo articolo. In certi casi, fanno pagare alle biblioteche decine di migliaia di sterline per un abbonamento annuale. Se gli scienziati vogliono che la gente provi perlomeno a capire il loro lavoro, dovrebbero far partire una rivolta su larga scala contro le riviste che pubblicano i loro lavori.


Questo che dice Monbiot è perfettamente vero ed è anche perfettamente orribile. Come è possibile che gli scienziati facciano una cosa così scema? Prendono i loro stipendi dai fondi pubblici, ovvero dalle tasse della gente, ma se la gente vuole sapere che cosa viene fatto con i loro soldi, deve pagare dei privati ai quali gli scienziati hanno regalato il loro lavoro. Come poi si possono lamentare gli scienziati se c'è chi li tratta a pesciate in faccia? E non è pesce azzurro, sono proprio dei tonni interi che ricevono in faccia sbatacchiati con tutta la forza.

Su questo punto, vi posso raccontare una storia. Nel 1996 avevo pensato di poter fare qualcosa per rimediare all'assurda situazione che descrive Monbiot. A quell'epoca lavoravo principalmente in un campo di ricerca un po' astruso che va sotto il nome di "Scienza delle superfici". Con l'internet allora ancora una novità, ma che cominciava a consolidarsi, era parso a me e ai miei collaboratori di poter eliminare il costo delle riviste scientifiche pubblicando in un sito aperto al pubblico che chiamammo "Surface Science Forum". Nello stesso periodo, lavorai anche a qualcosa di simile che si chiamava il "Surface Web".

Per qualche ragione, mi è capitato abbastanza spesso nella vita di trovarmi un po' in anticipo rispetto al resto del mondo. Il "Surface Science Forum" - in particolare - era un prototipo di informazione scientifica libera sul web, una specie di precursore degli attuali "open journals." Ma i tempi non erano ancora maturi. Il Surface Science Forum ebbe un successo piuttosto modesto e non riuscì mai veramente a decollare. Nel 2000, cominciavo a occuparmi di cose diverse dalla scienza delle superfici e decidemmo di chiudere il sito. Lo potete ritrovare ancora, per vostra curiosità, a questo link.

Quali sono state le ragioni del fallimento del forum? Nei quattro anni in cui è esistito il Surface Science Forum ho fatto il possibile per interessare i colleghi e convincerli a pubblicare i loro lavori in un sito dove sarebbero stati visibili al pubblico. La risposta è stata, di solito, deprimente. Più che altro, è stata del tipo "abbiamo sempre fatto in un certo modo, perché dovremmo cambiare"?

L'inerzia del mondo accademico è qualcosa che va vista sul campo per crederci. Sono veramente dei nerd, incapaci di comunicare con il mondo esterno. Fra le altre cose, la carriera di un accademico all'università dipende quasi esclusivamente da un astruso sistema di punteggi che sono determinati da quanti articoli hai pubblicato, in quali riviste, quante volte sono stati citati dai colleghi; il tutto è rigorosamente circoscritto al mondo ristretto dell'accademia. Da notare che il valore di una rivista scientifica non è stabilito in base al numero di lettori, ma in base all' "impact factor", ovvero al numero di volte in cui i lavori della rivista sono citati su altre riviste scientifiche. L'idea non è sbagliata: somiglia molto al metodo che ha google per dare un "ranking" ai siti web che indicizza. Ma il mondo accademico non premia minimamente attività di diffusione della scienza fuori dal mondo accademico stesso.

Va da se che, in queste condizioni, fare divulgazione scientifica o cercare di sostenere la scienza (come viene fatto in questo modesto blog) conta zero, o anche punti negativi. Non c'è da stupirsi se i miei colleghi non si sono mossi a pubblicare sul "Surface Science Forum". Era solo una fatica in più che non gli portava nessun "punto accademico" in più. Il pubblico? Beh, quello.......

Non so come sia che gli accademici si sono ridotti a questa condizione. Si può capire il tentativo di non politicizzare l'accademia; cosa sicuramente buona e lodevole. Ma non si capisce perché regalare il proprio lavoro a delle imprese commerciali (le riviste scientifiche) le quali lo fanno poi pagare al pubblico. E il pubblico questi lavori li ha già pagati con le tasse. Il danno che l'accademia sta ricevendo da questa pratica assurda e stupida mi fa venire in mente quel film giapponese intitolato "Suicide Club." Magari è un club esclusivo, ma non credo che la maggior parte di noi vorrebbero farne parte.

Tuttavia, le cose stanno cambiando. Negli ultimi tempi ho avuto la soddisfazione di vedere la mia idea svilupparsi ed essere ripresa da altre persone che hanno avuto più successo di me. Gli "Open Access" journals sono oggi una realtà. Sono riviste come le altre, per esempio sono soggette a "peer review", soltanto che gli articoli sono liberamente disponibili al pubblico. Ovviamente, il lavoro degli editori deve essere pagato, e questo lo devono fare gli autori. Ma è comunque un costo piccolo rispetto al costo della ricerca e, alla fine dei conti, probabilmente si fa pari con quello che le biblioteche pagano per gli abbonamenti alle riviste.

Le riviste "open access," non hanno sostituito le riviste tradizionali, ma sono in netta crescita. Se avete un momento, date un occhiata al sito dell'mdpi, www.mdpi.com. Se dovete pubblicare un articolo, vi consiglio questa serie di riviste, gli editori sono amichevoli e professionali e il costo è molto ragionevole. C'è anche un sito che raccoglie tutte le riviste scientifiche "open" http://www.doaj.org/

A livello personale, cerco di pubblicare soltanto su riviste "open access". Non lo posso fare sempre, perché non è detto che io sia l'unico autore di un articol, o comunque quello che decide dove si pubblica. Ma faccio il possibile. Piano piano, la rivoluzione dell'open access si sta svolgendo. Il punto è se si svolgerà abbastanza alla svelta da evitare ulteriori danni alla scienza, oltre quelli che ha già ricevuto dall'attacco contro la scienza del clima in corso negli ultimi tempi.

martedì 4 maggio 2010

Le regole del gioco



Mi arriva ogni tanto la critica: "ma tu che non sei un climatologo di professione, come sta che tieni un blog sul clima?" Per rispondere, lasciatemi raccontare una piccola storia che ha a che fare con la mia esperienza di giocatore di scacchi.


Mio zio ingegnere mi ha insegnato a giocare a scacchi quando avevo, credo, sei anni. Da adolescente, ero un grande appassionato anche se, devo dire, non sono mai stato un grande giocatore. Tendevo ad essere interessato più che altro alla teoria - mi mancava la pratica e l'intuito che fanno il vero scacchista. Così, mi è capitato anche di giocare con persone abbastanza quotate a livello nazionale, ma il risultato è sempre stato che mi hanno stracciato con facilità irrisoria.

Da questo, ho imparato che c'è una differenza abissale fra un maestro e un dilettante. Contro un grande maestro, il dilettante non ha più possibilità di vincere di quante ne avrebbe Giacomo Leopardi combattendo a calci rotanti contro Chuck Norris. Ma giocare contro un maestro è un onore anche se sei un dilettante; lo sai che perderai, ma imparerai qualcosa.

Il fatto è che, negli scacchi, sia il maestro che il dilettante obbediscono alle stesse regole. Gli scacchisti fanno delle regole del gioco quasi un feticcio. A parte le regole sul movimento dei pezzi, ce ne sono altre che hanno a che fare con il comportamento dei giocatori. Ce n'è una ferrea che va sotto il nome di "pezzo toccato, pezzo mosso". In un circolo scacchistico, chiedere di "cambiare mossa" è considerato altrettanto di cattivo gusto come sarebbe oggi raccontare una barzelletta sui pedofili a un cardinale.


Avete capito, a questo punto, dove voglio arrivare. Nella scienza del clima, come negli scacchi, c'è posto per tutti purché si seguano le regole del gioco. Nel caso del clima, le regole sono quelle del metodo scientifico. La scienza del clima è basata su queste regole e chiunque può impararla; così come chiunque può imparare a giocare a scacchi. Se hai lavorato seriamente sul clima, anche se non sei un climatologo professionista, non farai mai la figura del fesso anche se ti capita di confrontarti con l'equivalente in campo climatico di un grande maestro scacchistico. Se vi mettete a discutere, è molto probabile che alla fine lui (o lei) ti dimostrerà che hai torto ma - se si discute secondo le regole - imparerai sicuramente qualcosa. E magari può succedere che anche lui (o lei) impari qualcosa da te; perché no? Anche un grande maestro di scacchi può perdere, occasionalmente, contro un dilettante.

Allora è tutto qui. Possiamo parlare di clima senza bisogno di essere dei climatologi professionisti. Alcuni di noi ci hanno studiato sopra più di altri e quindi ne sanno un po' di più; non importa. Facciamo del nostro meglio; se facciamo errori li possiamo correggere. Finché seguiamo le regole, possiamo sempre imparare qualcosa e andare avanti.

Invece, quelli che non rispettano le regole (ovvero i negazionisti climatici) sono come un bambino che non vuol perdere a scacchi e rovescia per terra la scacchiera dalla rabbia. Sono destinati a rimanere ignoranti e ben gli sta.

domenica 2 maggio 2010

Il supermercato della disinformazione


Il libro "Bending Science" ("Distorcere la Scienza") è dedicato più che altro a descrivere l'azione corruttrice delle lobby farmaceutiche nella ricerca medica. Però, le sue conclusioni si possono estrapolare anche ad altri campi della scienza. Dal libro, emerge come ci siano dei metodi consolidati e collaudati per demolire i risultati scomodi e distruggere la reputazione degli scienziati che li hanno ottenuti. Un vero supemercato della disinformazione dove chiunque abbia soldi e pelo sullo stomaco può fare la spesa. Funziona sia con il tabacco come con il riscaldamento globale


Nel 1981, Takeshi Hirayama, ricercatore giapponese aveva pubblicato sul "British Medical Journal" i risultati di uno studio che dimostrava gli effetti negativi sulla salute del "fumo passivo."

Come è ovvio, i risultati di Hirayama rappresentavano un grosso danno per l'industria del tabacco e la reazione fu quasi immediata. Oggi conosciamo tutti i dettagli di questa reazione per via dei risultati dell'azione legale ché il governo degli Stati Uniti aveva intentato contro l'industria del tabacco. Nel 1998, i legali dell'industria ottennero un accordo, il "Tobacco Master Settlement Agreement" (MSA) che prevedeva, fra le altre cose, la pubblicazione di tutti i documenti relativi all'azione di "lobby" dell'industria fino ad allora. Questi documenti sono oggi on line e li potete trovare qui, come pure nel libro di McGarity e Wagner, "Bending Science" ("distorcere la scienza"),

Quindi, sappiamo tutto oggi delle azioni dell'industria del tabacco e, in particolare, di come si è mobilitata per contrastare i risultati di Hirayama. Per prima cosa, l' US Tobacco Institute organizzò l'invio di una serie di lettere alle riviste scientifiche dove si criticava il lavoro di Hirayama. Erano tutte lettere scritte da consulenti e impiegati dell'industria del tabacco, che però non si identificavano mai come tali. Già questa era una tattica estremamente scorretta, ma certamente la lobby del tabacco non aveva intenzione di limitarsi a questo.

Poco dopo la pubblicazione dell'articolo di Hirayama, Marvin Kastembaum, il direttore della sezione di statistica del Tobacco Institute, cominciò ad analizzare il lavoro di Hirayama, cercando dei punti che fossero criticabili. Altri esperti di statistica da lui consultati arrivarono alla conclusione che era "possibile" che Hirayama avesse fatto un errore.

Questo risultato fu sufficiente per Kastenbaum per lanciare una campagna aggressiva di public relations contro Hirayama. Sei mesi dopo la pubblicazione dell'articolo di Hirayama sul fumo passivo, Kastembaum mandava un telegramma all'editore del British Medical Journal dove lo informava dell "errore molto grave" commesso da Hirayama, senza aver previamente informato Hirayama stesso.

Contemporaneamente, il Tobacco Institute aveva preparato una serie di comunicati stampa dove si dava per assodato che Hirayama avesse fatto un errore matematico nella sua analisi che ne inficiava completamente le conclusioni. L'istitituto inviava circa 100 videocassette e 400 audio cassette con la notizia già confezionata ad altrettante stazioni TV e radio. Gli inviati del Tobacco Institute visitarono personalmente più di duecento giornalisti per raccontare la storia.

Gli esperti di statistica consultati dal Tobacco Insitute si sono affrettati a prendere le distanze dalla campagna di stampa che, tuttavia, è stata molto efficace. Nel 1981, la notizia dell' "errore" di Hirayama è apparsa più o meno su tutti i giornali e su molte stazioni radio e TV negli Stati Uniti. Per diversi anni, si è continuato a definire il suo lavoro come "sbagliato" (per esempio, in questo libro del 1986, intitolato "the smoking scare debunked")

In seguito, Hirayama potè dimostrare che non aveva fatto nessun errore. Oggi il suo lavoro si definisce addirittura un "classico" nella ricerca scientifica. Ma il danno fatto allo studio e alla reputazione di Hirayama è stato molto forte. . Ancora oggi, c'è chi continua a sostenere che il fumo passivo non fa male a nessuno, criticando pesantemente sia gli studi sia il personale dell' Environmental Protection Agency (EPA) (vedi per esempio qui).


Ora, non so se a questo punto a voi è venuta in mente la stessa cosa che è venuta in mente a me. Personalmente, sono rimasto impressionato dal fatto che la storia che ho appena raccontato è praticamente identica a quella di un caso recente in campo climatico: quello dell "Hockey Stick", la "mazza da hockey". Sostituite "Michael Mann" a "Takeshi Hirayama" e "Steve McIntyre" a "Marvin Kastembaum" e avete esattamente la stessa storia: uno scienziato pubblica un suo lavoro, questo da fastidio a qualcuno il quale incarica uno statistico di trovarci degli errori. Che gli errori ci siano oppure no, il solo sospetto che ci possano essere è sufficiente per lanciare una campagna mediatica per screditare i risultati e lo scienziato che li ha ottenuti.

E' quello che è successo a Hirayama con il suo studio col fumo passivo; è quello che sta succedendo a Michael Mann e alla sua ricostruzione del clima negli ultimi 2000 anni. Ancora oggi, sebbene il lavoro di Mann sia stato ampiamente confermato e validato, gira su internet la diffusa idea che sia "sbagliato" e Mann stesso è stato soggetto a una campagna di denigrazione senza precedenti nella storia recente della scienza.

I dati riportati su "Bending Science" e sul sito "tobacco documents on line" sono veramente impressionanti e vanno ben oltre il caso di Hirayama e del fumo passivo. Se ne può dedurre l'esistenza di metodi standard e consolidati per screditare la scienza e gli scienziati scomodi. E' una specie di supermercato della disinformazione che, ufficialmente, non dovrebbe esistere ma che, evidentemente, è disponibile a lavorare per chi abbia le risorse per pagare.

Non è un caso che gli stessi propagandisti che si sono formati al tempo dello scontro sul tabacco sono oggi all'opera per screditare i climatologi. Questa storia ce la racconta in dettaglio Jim Hoggan nel suo libro "Climate Cover-up" - per i dettagli potete anche consultare il recente rapporto di Greenpeace. Per esempio, Fred Singer è uno dei propagandisti di professione che è passato dal libro paga dell'industria del tabacco a quella della lobby dei combustibili fossili.

In molti ambienti, a parlare di queste cose si passa da complottisti. Questa è anche un'accusa giusta per gente che vaneggia di allunaggi inesistenti e scie chimiche. Ma qui, purtroppo, ci sono le prove che questi metodi standard sono state usate in modo esteso dall'industria del tabacco fino al 1998. E abbiamo evidenza che li si continuano a usare oggi in campo climatico. La campagna di lettere mandate ai giornali, gli errori statistici in qualsiasi lavoro scientifico, le campagne di demolizione contro specifici scienziati; sono tutte cose che vediamo avvenire in tempo reale, davanti ai nostri occhi. Là fuori, è un gioco di specchi dove non sai mai con chi stai parlando. Quante delle persone che scrivono su internet contro la scienza del riscaldamento globale sono sul libro paga di qualcuno che ha interesse a screditare la scienza?

Insomma, quello che stiamo vedendo nella campagna contro la scienza del clima è, in realtà, una serie di strategie propagandistiche ben note e ben collaudate per chi le sta mettendo in pratica. Purtroppo, sembrano funzionare molto bene.

sabato 1 maggio 2010

Caccia alle streghe

 

Dal Blog "Ocasapiens" di Sylvie Coyaud. Tutta questa faccenda comincia sempre di più a sembrare un sogno, in effetti a un incubo. Stiamo tornando al tempo della caccia alle streghe. 


Arma di Distruzione di Mann




Varie commissioni d’inchiesta hanno riconosciuto l’onestà e il rigore scientifico di Michael Mann, ultima quella dell’università della Pennsylvania dove lavora dal 2006. Senza curarsene il procuratore generale della Virginia Ken Cuccirillo ha trasmesso in data 27 maggio (sic) 2010 all’università della Virginia  un’ingiunzione in cui chiede tutti i ”documenti”, parola definita come
the original and any copies of any written, printed, typed, electronic, or graphic matter of any kind or nature, however produced or reproduced, any book, pamphlet, brochure, periodical, newspaper, letter, correspondence, memoranda, notice, facsimile, e-mail, manual, press release, telegram, report, study, handwritten note, working paper, chart, paper, graph, index, tape, data sheet, data processing card, or any other written, recorded, transcribed, punched, taped, filmed or graphic matter now in your possession, custody or control.

collegati a ricerche per le quali Mann ha ricevuto fondi tra il 1998 e il 2005, dal 1998 o prima e fino ad oggi. E la corrispondenza di e con altri ricercatori di altri enti con i quali era in rapporto, i cui nomi occupano le pagine 9, 10 e 11 del pdf. Con l’aiuto di veggenti, presumo, l’università deve precisare per ogni documento mancante:
(a) the type of document;
(b) whether it is missing, lost, has been destroyed, or has been transferred to the possession, custody, or control of other persons;
(c) the circumstances surrounding, and the authorization for, the disposition described in (b) above;
(d) the date or approximate date of the disposition described in (b) above;
(e) the identity of all persons having knowledge of the circumstances described in (c) above; and
(f) the identity of all persons having knowledge of the document’s contents.
.
Qualcuno avvisi i fedeli di Climate Monitor e di F. Battaglia. Così potranno festeggiare l’iniziativa insieme al loro riverito Fred “Il fumo fa bene, la CO2 pure” Singer, sperando nel ritrovamento della ”pistola fumante“ che li liberi finalmente di Mann e della sua mazza da hockey.

venerdì 30 aprile 2010

La leggenda dei climatologi imbroglioni


Un giorno, i cammellieri dei deserti della Padania continueranno a raccontarsi la leggenda dei climatologi imbroglioni. 


Pochi giorni fa, uno dei membri del gruppo di "Climalteranti" è stato invitato a parlare  in TV. Quando ha chiesto qualche dettaglio su cosa si sarebbe detto nella trasmissione, la giornalista ha risposto che la trasmissione sarà dedicata, fra le altre cose a rispondere alla domanda, "perchè alcuni climatologi hanno falsificato i dati, denunciando una situatione peggiore di quanto effettivamente sia?

Insomma, la giornalista non si chiede se i climatologi hanno veramente imbrogliato, ma soltanto perché lo hanno fatto. Per lei, l'imbroglio è cosa assodata, nonostante che tutte le varie commissioni di inchiesta abbiano scagionato gli scienziati da ogni accusa. Le leggende si sa, hanno una vita propria e rapidamente diventano indipendenti da dati e fatti. E' probabile che in giro ci sia ancora un bel po' di gente che crede veramente che le fogne di New York siano piene di coccodrilli ciechi.

A sgonfiare la leggenda dei climatologi imbroglioni ci provano Stefano Caserini e Carlo Barbante con il post che segue (tratto da "Climalteranti"). Ottimo post, ma gli autori sono decisamente troppo ottimisti quando dicono che "il caso del trucco dei dati è chiuso". Ahimé, questa cosa dei climatologi imbroglioni probabilmente si continuerà a raccontare anche quando ci saranno le carovane di cammelli nei deserti della Padania.

Comunque, il post vale la pena di leggerlo. Eccolo qui di seguito

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Perché si è sgonfiato il Climategate /1 – Il trucco che non c’era

In questo primo post si mostra come la notizia diffusa in seguito allo scandalo “Climategate”, secondo cui i dati del clima erano stati “truccati”, fosse infondata.



Sono passati 5 mesi da quando, il 20 novembre 2009, scoppiò in tutto il mondo il “Climategate”.

Come si ricorderà, il furto dai server di un’università inglese di migliaia di email private, scambiate in un decennio da alcuni fra i più importanti scienziati del clima, suscitò un putiferio, fece gridare allo scandalo, chiamato in seguito con molta enfasi “Climategate”.

Già in quei giorni avevamo scritto che, sulla base di quanto si poteva leggere, era estremamente improbabile che ci fosse della sostanza scientifica in quella vicenda, e che la ritenevamo “un’altra delle polemiche senza vera sostanza, utili per illuderci ancora un po’ che possiamo non preoccuparci del riscaldamento globale“.

La maggior parte dei giornali e delle televisioni italiane, nonché molti blog che si occupano di clima, scrissero articoli molto diversi, dando per buone molte delle favole raccontate dalla grancassa negazionista italiana e straniera.

Con calma, esaminando le carte, si può ora dire che avevamo visto giusto, e avevano visto sbagliato quanti avevano anteposto ai fatti e alle risultanze scientifiche la propria volontà di non credere alla crisi climatica.

È ormai chiaro, come mostreremo in questo e in altro post, come le email avessero spiegazioni del tutto innocue, che non prevedevano l’alterazione dei dati della scienza del clima e ancor di più non mettevano in discussione l’onestà e la buona fede degli scienziati.

Cominciamo in questo post da uno dei casi più citati, la presunta falsificazione dei dati sul clima.
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“I’ve just completed Mike’s Nature trick of adding in the real temps to each series for the last 20 years (ie from 1981 onwards) and from 1961 for Keith’s to hide the decline”

Ho appena utilizzato il trucchetto usato da Mike [Mann, ndr] nell’articolo pubblicato su Nature di aggiungere le temperature reali a ciascuna serie degli ultimi 20 anni (cioè a partire dal 1981) e dal 1961 per quelli di Keith [Briffa, ndr]. per nascondere il declino”.

Questa è la frase incriminata, proveniente da un’email scritta da Phil Jones, che ha fatto il giro del mondo ed è stata ripetuta e commentata con sdegno migliaia di volte.

Le parole “trick” (trucchetto) e “hide the decline” (nascondere il declino) sono inequivocabili”, ha scritto sul Foglio Pietro Vietti, autore di numerosi articoli in cui la falsificazione dei dati viene data come fatto acquisito.

Secondo Roberto Vacca nelle email Mann e Jones “discutevano i trucchi per negare che ci fu un periodo caldo medioevale e nascondere misure recenti di temperature in diminuzione” (Nova-IlSole 24 ore del 4/2/2010).

Federica Paci ha scritto su La Stampa che Phil Jones si era dimesso a dicembre “per lo scandalo delle email che mostravano come i ricercatori avessero falsificato alcuni dati“.

Se le mail fossero vere” (e lo erano, ndr), il problema è che “queste lisciatine ai dati abbiano spinto nella direzione di evidenziare un riscaldamento che in realtà potrebbe non esserci stato“, diceva a milioni di persone sul TG2 Teo Georgiadis.

Le bugie e i trucchi sul clima“, ha titolato a tutta pagina il Corriere della Sera, che in successivi articoli ha dato come fatto acquisito che dalla vicenda sia emerso che i dati sul clima erano stati truccati.

Non so descrivere il mio disgusto quando ho letto alcune lettere confidenziali in cui risulta inequivocabile un enorme misfatto perpetrato contro i più elementari canoni della scienza“, è scritto in un articolo di Mario Tomasino sul Giornale dell’Ingegnere.

Figure non proprio adamantine” dediti all’attività di “utilizzare metodi scientificamente poco corretti per produrre e/o enfatizzare dei dati scientifici“, è la sentenza che si può leggere nel recente libro “Riscaldamento globale: la fine” di Angelo Rubino e Davide Zanchettin.

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Il “trucco” di cui si parlava nella email fra Jones e Mann era semplicemente un modo di dire, slang scientifico per indicare un modo per risolvere le discrepanze fra due serie di dati: i dati delle temperature misurate, che mostravano un chiaro aumento negli ultimi tre decenni, e i dati ricavati da alcune proxy dendrometriche, che mostravano invece una diminuzione dopo il 1961, dovuta all’incapacità di queste variabili proxy di misurare il riscaldamento del pianeta dovuto in larga parte all’attività antropica. In pratica, non si voleva certo non considerare le temperature dei termometri, ma anzi Jones comunica nella mail di voler di usare quest’ultime, al posto delle temperature ricostruite dalle serie dendrometriche che erano state giudicate non adeguate, in un diagramma sulla ricostruzione delle temperature degli ultimi 1000 anni.

Il problema della divergenza era ben noto nella letteratura (si veda la figura a fianco, pubblicata qui); il metodo del non considerare i dati divergenti era stato pubblicato nella letteratura scientifica, spiegato alla luce del sole, e accettato fra gli esperti del settore come un modo adeguato di elaborare i dati.

Per chi volesse approfondire, la vicenda è ben spiegata qui.

Per chi non volesse approfondire autonomamente, può essere utile tener conto che per far luce sulla vicenda, quattro diverse organizzazioni hanno istituito gruppi e commissioni di indagine, composti da persone di diverse competenze e provenienze.

1) Il Parlamento inglese ha istituito una commissione che dopo varie audizioni ha scritto un rapporto finale;

2) L’University of East Anglia ha attivato un’inchiesta, affidandola a scienziati esterni ed indipendenti, il cui resoconto completo è chiamato anche “Rapporto  Oxburgh“;

3) L’Università della Pennsylvania ha indagato l’operato di uno dei suoi docenti, Micheal Mann, con un responso inequivocabile;

4) Cinque giornalisti dell’Associated Press hanno letto e riletto tutte le email e hanno concluso che le email mostrano che gli scienziati erano interessati solo a mostrare i dati nel modo più convincente possibile.

Da queste quattro indagini emerge in modo lampante che nessuno ha truccato dati, ne Philip Jones, ne Michael Mann, ne altri.

Le conclusioni del rapporto Rapporto Oxburgh, hanno messo in evidenza che i ricercatori hanno lavorato in modo rigoroso e secondo i canoni della ricerca scientifica, evidenziando chiaramente le metodologie utilizzate e le incertezze associate alle ricostruzioni delle temperature nel corso degli ultimi secoli. Non ci sono evidenze che i ricercatori abbiano manipolato i dati, cosa che sarebbe stata facile da scoprire dalla commissione di esperti. Anche gli strumenti statistici utilizzati, seppur migliorabili, hanno prodotto un record di temperature robusto.

La CRU ha inoltre dimostrato come le ricostruzioni delle temperature a scala globale ed emisferica siano insensibili sia al metodo di trattamento dei dati che al numero di serie temporali utilizzate.

Il rapporto Oxburgh contiene anche una critica velata all’IPCC, responsabile, secondo gli estensori, di non aver tenuto in debita considerazione nel quarto Assessment Report (AR4) la discrepanza tra i record di temperatura ricostruiti attraverso gli anelli di accrescimento degli alberi e le ricostruzioni strumentali della temperatura, come già spiegato qui sopra. Leggendo il Capitolo 6 dell’AR4-WG1 ci si rende conto invece di come questo argomento sia trattato con enfasi, tanto da essere anche ripreso nel rapporto tecnico. Non è stato ripreso nel sommario per i decisori politici, come tante altre cose importanti contenute nel primo rapporto di valutazione.
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A distanza di 5 mesi, a “bocce ferme” si quindi può ritenere senza ombra di dubbio che l’uso della parola “trucco” era del tutto innocuo, e non prevedeva affatto un’alterazione dei dati.

È questa una cosa assodata, che è persino stata riconosciuta nell’audizione alla Commissione Parlamentare inglese da uno dei più attivi e storici negazionisti inglesi, Nigel Lawson, che è stato un vero e proprio pupillo di uno dei principali centri italiani di disinformazione sulla tematica climatica: “trick” è un modo di dire accettabile e non sta a significare che i dati siano stati manipolati” (…).
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Insomma, il caso del “trucco” dei dati è chiuso.

Testo di Stefano Caserini e Carlo Barbante

giovedì 29 aprile 2010

Tetterremoto (boobquake)



Vi segnalo un'iniziativa di Jen McCreight, del blog "blag hag," che si definisce "liberale, geek, nerd, scientifica, ateista e femminista perversa."

L'idea è partita da un'esternazione di un ayatollah iraniano (*), Kazem Sedighi che aveva sostenuto che i terremoti sono causati dall'immodestia delle donne. Di conseguenza, Jen McCreight ha proposto un esperimento chiamato "boobquake" (terremoto delle tette) che mi sono permesso di tradurre come "tetterremoto." L'idea era che il 26 aprile le donne avrebbero dovuto vestirsi con scollature più profonde possibile, compatibilmente con la pubblica decenza, e vedere se questo causava dei terremoti.

Con il titolo "in nome della scienza, offro le mie tette", il post di Jen McCreight ha avuto un successo strepitoso. Ecco la nostra Jen vestita per l'esperimento


Ora, questa cosa del tetterremoto è, ovviamente, molto divertente, ma vorrei anche dire che è un perfetto esempio di un esperimento scientifico fatto secondo le regole. C'è una ipotesi ("le scollature delle donne causano i terremoti") e una metodologia per provarla o scartarla: aumentare l'intensità della perturbazione e vedere se ha un effetto. Scientificamente è impeccabile.

I risultati: eccoli qui in forma di numero di terremoti al giorno.


L'effetto del tetterremoto sembra rientrare bene nei limiti della variazione statistica, come analizzato dalla stessa Jen McCreigh, nonostante il lieve aumento degli ultimi tre punti della curva. Conclusione: le scollature delle donne non provocano terremoti.

Ora, questo post lo giudicherete OT in un blog sul clima, ma secondo me non lo è affatto. Non vorrei entrare troppo in polemica, ma c'è un sacco di gente qui da noi che sulla questione climatica ragiona con lo stesso rigore scientifico dell'ayatollah iraniano citato in questa storia. Per esempio, lanciandosi in interpretazion del cambiamento climatico non supportate da prove ("E' tutto un complotto!") E c'è anche gente che da i tre ultimi punti di una curva trae delle conclusioni su tutta la storia di un fenomeno, come nel caso del lieve aumento dei ghiacci polari degli ultimi tre anni da cui concludono che la calotta polare sta tornando alla normalità.

Questi qui, dalla curva di cui sopra probabilmente darebbero ragione all'Ayatollah Sedighi e concluderebbero che, si, le scollature provocano i terremoti.


* Questo post non va inteso come un offesa nei riguardi dell'ayatollah Kamen Sedighi  che sono sicuro fosse bene intenzionato con il suo sermone, anche se la sua ipotesi si è rivelata scientificamente scorretta. Neppure, il post va inteso come offensivo verso gli ayatollah iraniani o l'Iran in generale; paese per il quale ho grande ammirazione e rispetto.

mercoledì 28 aprile 2010

Come vincere la guerra del clima



E' stato il presidente Jimmy Carter a dire che la crisi energetica degli anni '70 era "l'equivalente morale di una guerra". La crisi climatica ci richiede sforzi e sacrifici equivalenti a quelli per una guerra e forse maggiori. Possiamo vincerla in una società assestata sull'unico scopo di massimizzare i consumi? (foto: i marines a Iwo-Jima).



Con l'inizio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si impegnarono in uno sforzo economico senza precedenti. Possiamo quantificare questo impegno dalla seguente tabella tratta dal blog di Stuart Staniford "Early Warning"


Da "early warning" Variazione della spesa federale negli Stati Uniti durante gli anni della seconda guerra mondiale. GDP, (Gross Domestic Product) = PIL (Prodotto Interno Lordo)

Come si vede, in pochi anni le spese per lo sforzo bellico degli Stati Uniti sono aumentate da poco più dell'1% a oltre il 37% del PIL. In un solo anno, nel 1941, sono aumentate del 270%.Evidentemente, gli Americani hanno fatto dei grossi sacrifici. Altrettanto vero che questi sacrifici sono stati fatti senza imposizioni dittatoriali e rimanendo in un sistema democratico.

Quindi, è possibile concertare uno sforzo comune per il bene generale. Il punto che fa Staniford nel suo post è che il surplus che ha la nostra società oggi è enormemente superiore a qualsiasi cosa che fosse disponibile per i nostri antenati che vivevano in società agricole. Se riuscissimo ad avere a disposizione il 37% del PIL dei paesi industrializzati avremmo delle immense risorse per risolvere il problema climatico, quello della sostenibilità e della crisi energetica. In pochi anni potremmo invertire la tendenza verso il disastro e, in qualche decennio, risollevare il sistema industriale con nuove risorse, riassorbire parte della CO2 emessa nel passato e sterzare in modo decisivo la società umana verso la sostenibilità.

Il problema è che non stiamo facendo niente del genere. Al contrario, le risorse di quelli che dovrebbero occuparsi di problemi reali sono sprecate in futili dibattiti; disperatamente cercando di frenare la marea montante di incompetenza e di propaganda anti-scienza.
 
Il vero disastro che abbiamo davanti sta in questo blocco decisionale che ci condanna all'inazione. Abbiamo ancora qualche anno di tempo - una breve "finestra di opportunità" che ci potrebbe ancora consentire di concentrare le risorse rimanenti per fermare le crisi in corso. Bisogna però raggiungere un livello di consenso, di condivisione sugli scopi da ottenere e soprattutto, sul fatto che questi scopi meritano un sacrificio da parte di tutti. Al tempo della guerra, si diceva che bisogna rinunciare al burro per avere i cannoni.

Per il momento, questo consenso non l'abbiamo ottenuto. Negli esempi storici del passato, siamo riusciti a ottenerlo soltanto focalizzando l'attenzione contro un "nemico" umano. Non ci sono esempi chiari di un consenso ottenuto su costruire qualcosa piuttosto che distruggerla. Qui è la grande sfida che abbiamo davanti: costruire un consenso sulla necessità di gestire il pianeta senza distruggerlo e in modo tale che ci siano risorse disponibili per tutti.

Ci riusciremo? Per il momento, sembra di no. Ma se è vero che - come nota Staniford - oggi abbiamo risorse che nessuna società del passato aveva, è anche vero che abbiamo mezzi di comunicazione, di studio, e di modellazione anche quelli immensamente superiori a qualsiasi cosa che le società del passato avevano. Se gli imperi di una volta erano ciechi davanti al crollo che li aspettava, noi possiamo sapere cosa ci aspetta e fare qualcosa per evitare il crollo. Forse, allora, questa guerra la possiamo anche vincere.