mercoledì 29 maggio 2013

Strategie di comunicazione sul cambiamento climatico secondo Peter Sandman





Di Max Iacono

Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR


Nel considerare il da farsi e poi decidere collettivamente di farlo, le strategie di comunicazione identificate nell'articolo di Peter Sandman (che potete trovare qui) possono essere molto utili da tenere in conto.

Sandman fa un lavoro davvero buono nell'analizzare “l'essenza della negazione” - una cosa che egli correttamente indica come diverso da ciò che comunemente chiamiamo “negazionismo” del cambiamento climatico. Egli analizza anche come avere a che fare con la cosiddetta dissonanza psicologica che può finire per rinforzare l'essere nella negazione piuttosto che alleviarla, se vengono usate la comunicazione sbagliata e le strategie di confronto. Sandman è anche attento nel dire ciò che segue nelle sue note conclusive:


“Infine, un promemoria cruciale: non preoccupatevi tanto del negazionismo da dimenticare l'apatia. E, infatti, non immaginate che l'apatia e la negazione siano tutto ciò che c'è. Alcune persone sono ancora inconsapevoli che il riscaldamento globale sia un problema a cui dovrebbero pensare. Alcuni hanno acquisito della disinformazione che impedisce loro di coinvolgersi, altri sono già dalla nostra parte ed hanno bisogno di sostegno anche di più di quanto non facciano ora. La negazione è un aspetto del rischio della comunicazione sul cambiamento climatico. Credo che sia importante, in crescita e trascurata. Ma non è tutto il gioco”. 

Quindi, una buona strategia locale potrebbe alla fine cercare di funzionare “su tutta la linea” rispetto ai problemi precedenti. Cioè, essere nella negazione, cercare di ridurre la dissonanza interna, apatia, ignoranza, essere sotto l'influenza del negazionismo climatico, inerzia generale, sentirsi isolati o senza sostegno o più semplicemente vivere sotto la preoccupazione dominante di ogni tipo di cose della vita quotidiana e la necessità attuale di sopravvivenza personale e famigliare.

Ciò che io ho personalmente preso dalla lettura dell'articolo di Sandman è infatti molto semplice: Confrontati rispettosamente con gli altri, dì la verità, stai calmo ed evita i viaggi inappropriati del tuo ego di diverso genere. In altre parole, tratta semplicemente gli altri nel modo in cui generalmente si vuol essere trattati. Decenni di studi in psicologia cognitiva da Leon Festinger in poi, sembrerebbero aver concluso ciò che era probabilmente conosciuto già ragionevolmente bene.

Penso anche che molto può essere appreso da diversi attivisti del clima o “credenti del cambiamento climatico” su come comunicare meglio con gli altri, guardando da vicino al singolo caso che conosciamo meglio. Cioè noi stessi.

Un'onesta introspezione ed una auto valutazione di sé stessi come singolo caso di studio può rivelare con precisione – o perlomeno con ragionevole precisione – perché e come ognuno di noi che ora “crede nel cambiamento climatico” o è un attivista di un genere o di un altro è arrivato a pensare ed agire nel modo in cui agiamo ora. Qualcuno ci ha dato la forza? Ci siamo convertiti assistendo ad un singolo incontro? Come esattamente siamo giunti a pensare o agire come pensiamo ed agiamo? Quali caratteristiche della personalità  o altri aspetti, o attitudini, o valori, o idee, o predisposizioni sono state coinvolte o hanno giocato un ruolo? Quali contesti particolari, o situazioni, o eventi specifici, o “punti di svolta” del percorso della nostra vita personale ha fatto la differenza? Cosa ci motiva ora? Cose ci demotiva? Perché? A parte i benefici in termini di come immaginare di comunicare meglio con o di influenzare gli altri, un tale e onesta auto valutazione ha ogni sorta di altri benefici personali.

E ancora, ciò ha a che fare con cose conosciute da molto tempo, vale a dire “Conosci te stesso”, come scritto da Platone su Socrate. E' conoscendo onestamente e meglio sé stessi che possiamo anche giungere a capire meglio ciò che rende gli altri seccanti. Naturalmente, ogni sorta di meccanismo psicologico di difesa (negazione e aver a che fare con la dissonanza sono solo alcuni; repressione, razionalizzazione, dissociazione, separazione, proiezione ed altri descritti da Freud e/o da altri in seguito) entra spesso in gioco e tipicamente ci impedisce dal fare questo in modo appropriato o accurato. Un eccellente riferimento sull'interazione fra vari meccanismi di difesa psicologici e di come l'esperienza personale fra gli esseri umani sia spesso “negoziata” (o negata, ecc.) si può trovare in “La politica dell'esperienza”. Parlando in generale, non NON siamo particolarmente trasparenti con noi stessi, più che altro l'opposto, verrebbe da dire. Per esempi, possiamo negare ciò che progettiamo, reprimere ciò che neghiamo, razionalizzare ciò che vogliamo credere e diverse altre interazioni particolarmente insidiose del suddetto meccanismo di difesa che possono aver luogo regolarmente nella nostra mente.

Ma non penso che dobbiamo diventare tutti esperti di psicologia clinica o psichiatri per fare un lavoro di comunicazione sul cambiamento climatico, sulla consapevolezza e sull'azione. Tutto ciò che dobbiamo fare è essere rispettosi degli altri – allo stesso tempo di noi stessi – ed attenerci ai fatti ed alla verità (quella scientifica, sociale, mediatica, politica e forse anche quella psicologica) e saremo oltre la metà dell'opera. Ricordare anche che spesso quando si dice la verità al momento giusto non c'è necessità di gridarla o di sbatterla in faccia , visto che in genere sussurrarla è più che sufficiente.

lunedì 27 maggio 2013

Dio e l'entropia

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR


Di Antonio Turiel

Cari lettori,

nell'ultimo post abbiamo parlato un tema molto interessante, specialmente per me, considerando la mia formazione come fisico statistico: la relazione fra l'evoluzione e l'entropia. Dato che il tema si presta troppo all'introduzione di gergo tecnico che tende ad allontanare il lettore medio, ma al quale mi rifiuto di non dare qualche pennellata in più, proverò a fare un post breve esponendo in modo semplice alcune riflessioni integrative a quelle già espresse.

Come si è già detto, esiste un'apparente contraddizione fra i concetti di entropia e di evoluzione. Ma cerchiamo di essere più precisi, visto che questa frase così formulata non ha molto senso.

Da un lato abbiamo che il Secondo Principio della Termodinamica implica la crescita continua dell'entropia in tutti i sistemi isolati. La crescita dell'entropia significa che l'energia si va disperdendo, da forme più organizzate (su scala umana o più grande) a forme più disorganizzate (movimenti microscopici, che sulla nostra scala percepiamo solo come calore). Insomma, l'energia non si perde (l'energia cinetica delle molecole più la loro energia potenziale sarà la stessa), ma è meno utile perché è dispersa (per esempio, se tutte le molecole di una palla si muovono nella stessa direzione, quella palla si potrà usare per azionare un meccanismo e fare un lavoro utile, mentre se quelle molecole si muovono alla stessa velocità ma descrivendo cerchi microscopici senza che la palla nel suo insieme vada da nessuna parte, questo movimento non potrà essere sfruttato su scala umana). L'aumento dell'entropia ci dice che ogni volta che volessimo sfruttare un movimento ordinato generiamo una certa quantità di movimento disordinato (calore nelle zone di attrito, pezzi che si rompono, ecc) che non si può più recuperare. Semplicemente questo. La crescita inesorabile dell'entropia implica che alla fine tutto il movimento sarà caotico e non ci sarà più lavoro utile che si possa realizzare (energia).

Dall'altra parte, gli esseri viventi si trovano in una eterna lotta contro l'entropia. Il catabolismo degli organismi complessi permette loro di combattere gli errori e le imperfezioni che vanno emergendo: le cellule di un organismo vivono un certo tempo per rendere meno probabile che il loro programma di riproduzione degeneri ( e si trasformino in cancro) e in seguito vengono distrutte mentre altre nuove le sostituiscono, con un sistema immunitario specializzato che distrugge in continuazione tumori incipienti. Questa lotta degli individui contro il disordine che comprometterebbe la loro sostenibilità fisiologica, può andare avanti solo per un tempo limitato, quello che chiamiamo tempo di vita. Alla fine, gli individui stessi sono programmati per degenerare ed alla fine morire, il che evita che si trasmettano variazioni specialmente dannose (immaginate che una mutazione rendesse capace un uomo di fecondare molte femmine ma che la sua progenie fosse sterile). Dall'altra parte, le specie hanno anche i propri meccanismi per lottare contro l'entropia: essenzialmente, questo meccanismo è l'evoluzione.

Tuttavia, l'evoluzione in realtà non è un meccanismo, ma un risultato: le specie si evolvono come risultato di una continua lotta per le risorse in un ambiente ostile, in cui solo, o principalmente, sopravvivono gli individui più adatti e trasmettono i proprio tratti alla generazione successiva. In molti sensi, l'evoluzione funziona in modo simile a un dispositivo meccanico chiamato in inglese ratchet (cricco):


Un cricco è una ruota dentata che non può tornare indietro, può girare solo in una direzione (visto che il fermo che ha evita che possa retrocedere). Un cricco è un modello per spiegare quello che succede con le cosiddette nanomacchine, le quali sono in grado di sfruttare l'energia diffusa nell'ambiente per fare lavoro utile (anche se su scala microscopica, molto lontana da quella umana). Di fatto, molti dei meccanismi comuni degli esseri viventi a livello molecolare sono fondamentalmente delle nanomacchine (dal funzionamento dei ribosomi fino alla trascrizione del DNA). Su scala spaziale e temporale completamente diversa, l'evoluzione è il risultato della presenza di un meccanismo che inibisce il tornare indietro come fa un cricco. In questo caso, la sopravvivenza del più adatto. Il mio punto di vista è pertanto coincidente con quello di Gabriel in due aspetti: la similitudine su tutte le scale dei comportamenti effettivi che governano il comportamento dei sistemi viventi e il fatto che gli esseri viventi vivano in una perenne lotta contro l'entropia.

In realtà, come indicava Rubik, gli esseri viventi si possono considerare come fonti di neg-entropia, come organismi che vivono grazie alla capacità di ridurre la propria entropia incrementando quella introno a sé. Ed è che il Secondo Principio della termodinamica continua ad essere ineludibile, ma si può vivere addossando ad altri l'eccesso di entropia generata dalla nostra attività. Di fatto, vivere significa proprio questo. Se si guardano le cose in prospettiva, in realtà ciò che è importante non sono i flussi di energia (posto che l'energia in realtà è costante), ma i flussi di entropia. Inoltre: in realtà le fonti di energia sono riserve di bassa entropia pronte perché noi le usiamo. Dal questo punto di vista, la sintesi del petrolio è un processo che da luogo ad una sostanza di bassa entropia dalla quale risulta facile stabilire un flusso di entropia.

Gabriel termina la sua riflessione con una visione spirituale di ciò che significano evoluzione ed entropia. Non sono solito opinare le visione e le credenze di altri, ma in questo caso la mia opinione è sostanzialmente opposta a quella di Gabriel. Gli esseri umani, osservando la meraviglia della Natura, tendono a pensare che esiste una grande volontà sovrannaturale che ha disegnato ed eseguito tale prodigio di organizzazione. Essenzialmente, questa volontà divina equivale a presupporre che esista una capacità di interazione su scala globale: questo Dio onnipotente conosce tutto ed è capace di muovere dall'atomo più piccolo disperso nella polvere cosmica ad una gigante e, grazie a questa capacità prodigiosa, l'Universo si presenta tale e quale lo vediamo. Tuttavia, la nostra conoscenza del mondo fisico ci indica che in realtà le interazioni sono molto localizzate; le interazioni di lungo raggio, come la gravità o l'elettromagnetismo, perdono forza molto rapidamente con la distanza dal punto focale che le genera e il resto delle interazioni sono presenti solo a corto raggio. Ma ciò che ci dice a proposito la fisica statistica è che con le interazioni a corto raggio e con le regole locali si possono avere comportamenti emergenti, auto-organizzazione e l'evoluzione e le nanomacchina sarebbero esempi proprio di questo, di isole di poca entropia in un mare di entropia crescente. Il grande vantaggio dei principi locali (sopravvivenza del più forte in un ambiente dato, movimento del motore in una direzione concreta definita dall'ambiente) è che molto poco costosi energeticamente (o, per meglio dire, entropicamente), visto che non è esatto interagire con parti molto lontane, solo con quelle a portata di mano. E con questi principi può finire per emergere una realtà molto ricca e diversa. Tuttavia, data le brevità della portata di queste interazioni, i disegni risultanti peccano di scarsa lungimiranza, visto che non rispondono a fattori lontani nello spazio e nel tempo, e quindi questi organismi o strutture non sono in grado di adattarsi a variazioni che sono prevedibili da una visione globale e vivono sempre sull'orlo dell'estinzione, che disgraziatamente sopraggiunge con molta frequenza come si può vedere se si guardano le registrazioni dei fossili.

Avere una visione globale permetterebbe di fare progetti capaci, resistenti e resilienti. Se l'Uomo potesse avere questa visione a lungo raggio potrebbe prevedere quello che gli sta per succedere e prendere decisioni più intelligenti, ma il suo stesso cervello è programmato per il corto raggio, per il breve periodo. Dio potrebbe fare progetti perfetti ed efficaci ma, per nostra disgrazia, in tutta la meraviglia della Natura non si vede apparire la mano di Dio da nessuna parte: Entropia 1, Dio 0.

Saluti
AMT

domenica 26 maggio 2013

Il picco dell'uranio


Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR



Un post non recentissimo di Antonio Turiel, ma che rimane sempre molto valido, anche in luce del recente aggiornamento sulle risorse di uranio disponibili da parte dell'Energy Watch Group. I dati più recenti confermano la possibilità di un declino produttivo dell'uranio minerale nei prossimi anni. 


di Antonio Turiel

Cari lettori,

in seguito ad un breve scambio dialettico in un forum riguardo ad una notizia pubblicata su elpais.com nel fine settimana, ho voluto rivedere qual è lo stato della produzione di uranio e di energia elettrica di origine nucleare, per chiudere alcuni fianchi di quella discussione (ampliando così un post precedente). Con questo cerco anche di fare un post tematico associato ai limiti dell'uranio, all'interno del mio piano di completare un post su ognuna delle quattro risorse energetiche non rinnovabili (petrolio, carbone, gas e uranio); il post del gas spero arriverà presto. 

La prima cosa da chiarire è che qui non parlerò dei fast breeders (reattori capaci di consumare qualsiasi combustibile nucleare e rigenerarne di nuovo a partire da elementi come il torio), né di fonti alternative di uranio, come i fosfati o l'uranio marino. In quanto ai primi, come spiega Michael Dittmar nel suo rapporto del 2009, dopo 50 anni di sperimentazioni, ancora non siamo giunti al livello di fare un reattore commerciale praticabile. In quanto alle seconde, ancora non si è trovato un modo economico ed energeticamente praticabile di sfruttarle. Preferisco parlare di false soluzioni in un post a parte, per evitare di mescolare le realtà attuali dure e crude coi presunti miracoli tecnici coi quali non abbiamo ancora idea di come fare, ma che ci dovranno salvare in un futuro dalla data indefinita. 

A qualche lettore potrebbe non piacere questa dissociazione, ma io la ritengo necessaria per due motivi: uno, per non rendere farraginosi i post con spiegazioni multiple, a volte chiaramente ortogonali; e due, perché data la situazione attuale, con una crisi economica strutturale in corso probabilmente per tutto il tempo di vita che rimane alla società industriale, è più che dubitabile che si investa ancora più denaro su queste false soluzioni. Detto questo, voglio registrare che questi due temi (fast breeders e fonti alternative di uranio) non sono gli ultimi arrivati, ma vecchie conoscenze nelle quali si sono già investite ingenti quantità di denaro e le loro prospettive non sono nemmeno lontanamente positive come vorrebbero vendere coloro che le propongono. Se i lettori lo chiedono, in futuro ne parleremo. 

Analizziamo, quindi, qual è la situazione della produzione di uranio e di energia elettrica di origine nucleare. Come si può vedere nelle tabelle storiche di Michael Dittmar, l'estrazione (mineraria) di uranio è stata abbastanza stagnante dal 2005 con circa 45.000 tonnellate di uranio naturale, per poi riprendere l'anno scorso giungendo fino a 50.000 tonnellate (riferimento qui), grazie all'aumento considerevole della produzione del Kazakistan. Al contrario, la produzione di energia elettrica di origine nucleare, che sta diminuendo dal 2000, ha continuato in questa tendenza fino al 2009, secondo i dati dell'Associazione Nucleare Mondiale (World Nuclear Association). Non c'è da aspettarsi un cambiamento di tendenza prima del 2011 dati i tempi caratteristici di costruzione e messa in opera di nuove centrali e la mancanza di progetti in atto da qualche anno a questa parte. Ultimamente, tuttavia, si osserva una tendenza crescente a cominciare nuovi progetti di centrali, soprattutto in Cina e, in misura minore, in Giappone (Turiel scrive, ovviamente, prima dei fatti di Fukushima, l'articolo è esattamente del 14 luglio 2010, ndt). 

Quando tentiamo di collegare di uranio col suo consumo nelle centrali nucleari, i problemi cominciano ad affiorare e le prospettive di futuro diventano abbastanza inquietanti. La prima questione che richiama l'attenzione è che nel mondo si sono consumate, lo scorso anno, circa 66.000 tonnellate di uranio naturale, mentre l'estrazione né ha fornite solo 50.000 (il 76%). Le altre 16.000 tonnellate provengono, come abbiamo già detto, dalle riserve secondarie, cioè dall'uranio estratto precedentemente e che si trovava stoccato agli imbocchi delle miniere in magazzini speciali o sotto forma di armi atomiche, una volta arricchito. Michael Dittmar stimava, lo scorso anno, che le riserve civili di uranio erano inferiori alle 50.000 tonnellate, per cui al ritmo di consumo attuale delle riserve secondarie, si esaurirebbero in tre anni; alcuni indizi indicano al fatto che queste riserve siano già praticamente esaurite. Così le cose, restano solo 500.000 tonnellate di riserve secondarie militari, ripartite fra la vecchia Unione Sovietica (270.000 tonnellate) e gli Stati Uniti. Il numero di 500.000 tonnellate è una stima ancora più incerta di quella delle riserve civili (pensate né le une né le altre vengono dichiarate e che il Dr. Dittmar le calcola in funzione dei ritmi storici di estrazione dell'uranio e la sua differenza con il consumo registrato nelle centrali nucleari). Queste riserve permetteranno di sopperire una differenza fra produzione e consumo di uranio come quella attuale per 30 anni; tuttavia, non è sicuro che gli Stati Uniti e i paesi della vecchia Unione Sovietica mettano realmente tutto questo stock nel libero mercato. Ragionevolmente possiamo contare come massimo sulla metà, vale a dire la fornitura che manca per i prossimi 15 anni. 

E' il caso di dire che dal 1994 la Russia sta esportando uranio proveniente dallo smantellamento dei propri missili negli Stati Uniti perché venga consumato nelle centrali nucleari americane, fino al punto che al momento il 50% dell'energia elettrica di origine nucleare statunitense proviene da questa fonte. L'attuale contratto di fornitura scade nel 2013 e i russi hanno già annunciato che non hanno intenzione di rinnovarlo. Intanto, sembra che gli americani stiano mettendo una certa quantità di uranio proveniente dallo smantellamento dei propri missili sul mercato (conviene ricordare che l'estrazione di uranio negli Stati Uniti è oggigiorno del tutto marginale, di circa 1.200 tonnellate, 18 volte in meno del proprio valore massimo di 20.000 tonnellate nel 1980). 

E' importante notare qui che lo spettacolare aumento della produzione di uranio naturale del Kazakistan è abbastanza sorprendente, visto che se le sue miniere erano tanto produttive, sarebbero già state in produzione quando la repubblica faceva parte dell'URSS. Rientra fra le possibilità il fatto che il Kazakistan, un paese che non è proprio un modello di trasparenza, stia “producendo” uranio naturale che ha un'origine militare e questo comporterebbe che una parte della sua produzione andrebbe a discapito di certe armi nucleari smantellate e le sue riserve potrebbero esaurirsi prima del previsto. 


Nel grafico qui sopra è mostrato sotto forma di curva solida colorata l'evoluzione passata e prevista dell'estrazione di uranio, estratta (pagina 5) dal rapporto “Uranium resources and nuclear energy” (rapporto UR&NE in quella seguente), dell'Energy Watch Group, un gruppo di scienziati tedeschi che cercano di trovare soluzioni alla crisi energetica. Il rapporto è del 2006, ma per il momento le sue previsioni si stanno dimostrando abbastanza affidabili. Nel grafico si identifica un picco primario che ha avuto luogo nella parte storica del grafico (prima del 2006), verso il 1980, con una produzione di circa 70.000 tonnellate di uranio naturale. Andando all'evoluzione prevista dell'estrazione di uranio , il grafico mostra che, secondo l'affidabilità che uno attribuisce alle differenti categorie di riserve di uranio (con colori diversi; commenteremo più tardi queste categorie) il picco di produzione si può indicare tanto nel 2015 che nel 2025 che nel 2040. Nello stesso grafico viene anche rappresentata l'evoluzione passate e prevista del consumo di uranio, sotto forma di linea nera marcata che a partire dal 2006 si scompone in tre linee, a seconda dei tre scenari di riferimento della IEA: mantenimento di una capacità costante (linea orizzontale di tre tratti lunghi); scenario di riferimento, con una crescita della domanda moderata (linea continua con pendenza moderata) e scenario di politiche aggressive per combattere il cambiamento climatico (linea punteggiata con pendenza ripida).

La prima cosa che richiama l'attenzione di questo grafico è che fino al 1990 la domanda è molto al di sopra dell'estrazione. Questo fatto non è particolarmente sorprendente, visto che dall'introduzione del programma “Megatons to megawatts” si sta dirottando uranio militare russo per essere usato in centrali nucleari, diminuendo la possibilità di una proliferazione nucleare incontrollata a causa della caduta dell'URSS. Vediamo, ancora una volta, il forte impatto economico della decomposizione dell'URSS, visto che la sua disintegrazione ha fermato la folle corsa agli armamenti che aveva portato ad un'estrazione accelerata dell'uranio e, in ragione della necessità di controllare gli armamenti, ha affondato il prezzo dell'uranio e condannato alla chiusura molte miniere, persino quelle sostenibili economicamente, perdendo così infrastruttura estrattiva.

Negli ultimi anni si osserva una tendenza al recupero dell'estrazione di uranio, visto che la ricollocazione strategica della Russia ha diminuito il flusso del proprio uranio militare, come abbiamo già detto. Richiama l'attenzione, tuttavia, che nonostante l'aumento estrattivo previsto, il deficit di uranio estratto non potrà essere compensato fino a circa il 2020 nello scenario di stagnazione della domanda, fino al 2025 nel caso dello scenario di riferimento e mai nel caso delle politiche aggressive contro il cambiamento climatico. A seconda di quanto è aumentata la produzione di uranio e della quantità di uranio che gli Stati Uniti e l'ex URSS immettano nel mercato, si possono verificare problemi di scarsità di uranio in qualsiasi momento durante i prossimi 15 anni, prima del declino che, al più tardi, comincerà nel 2040, forzi questa scarsità. Il punto più preoccupante è che ci sono indizi fondati del fatto che alcune categorie di uranio raccolte nel grafico, che ora commenteremo, siano particolarmente o totalmente speculative.

Come dice il rapporto, l'abbondanza di uranio da un minerale sfruttabile deve avere una concentrazione minima perché ne compensi l'estrazione di fronte all'energia che costa estrarre l'uranio dalla roccia e l'energia che si consuma per gestire le scorie dopo averlo usato nelle centrali (calcolati, questi ultimi, secondo lo standard dell'industria di 60 anni, il che è uno scherzo se si tiene conto che sono pericolosi per centinaia di migliaia di anni, il che può portare a problemi aggravati già commentati qui). A seconda della durezza della roccia, la concentrazione minima energeticamente sostenibile si trova fra lo 0,01 e lo 0,02% di ossido di uranio in concentrazione (cioè, si devono triturare 10 tonnellate di roccia per recuperare da uno a due chili di ossido di uranio che in seguito dev'essere purificato ed arricchito). In realtà, la distribuzione dei giacimenti di uranio fa sì che la maggioranza delle riserve di uranio si trovino al margine delle concentrazioni più piccole (come mostra il grafico che segue, estratto dal UR&NE, pagina 10).


Le tre categorie di uranio di cui parlavamo prima e che conducevano a tre possibili picchi di estrazione di uranio rispondono a criteri probabilistici ed economici. Le prime due sono ciò che conosciamo come Risorse Ragionevolmente Sicure (Reasonably Assured Resources, RAR), che, come indica il nome, sono riserve delle quali si ha una certa sicurezza riguardo alla loro esistenza nel deposito geologico (normalmente perché l'estrazione delle stesse è già iniziata e si sa che c'è uranio e si ha una qualche idea di quanto ce ne sia). La differenza fra i due tipi di RAR è il costo o prezzo di estrazione: fino a 40$ per chilogrammo e fino a 130$ al chilogrammo (il secondo tipo comprende il primo, ovviamente). Il terzo tipo di riserva di uranio è quello che si conosce come Risorsa Dedotta (Inferred Resource, IR), la quale è di natura speculativa. Anche se la divisione in tipi è più dettagliata di questa versione semplificata, per gli effetti di questa esposizione, queste tre grandi categorie sono sufficienti. Essenzialmente, l'unica categoria che ha una certa affidabilità è il primo tipo di RAR, che corrisponde grosso modo al concetto di riserva provata nel caso del petrolio. Il secondo tipo di RAR include il primo e in più l'uranio il cui costo di estrazione supera i 40$. Anche se il criterio di separazione è economico e non energetico, è facile supporre che il maggior costo corrisponde alla minore concentrazione del minerale. Alla fine, una parte di questi minerali finiscono per essere non sfruttabili a causa dell'eccessivo costo energetico di estrazione. In quanto alle IR, diciamo semplicemente che ai problemi di scarsità di concentrazione si aggiunge la difficoltà di sapere se la risorsa ci sia realmente o no. 

La storia dimostra che i dati sulle riserve di uranio (RAR dei due tipi e IR) di solito sono molto sovrastimate, come vedremo negli esempi che discuteremo in seguito.

Il primo grafico rappresenta la produzione accumulata di uranio in Francia durante gli anni (curva piena di colore marrone). Com'è logico, questa curva cresce sempre fino a giungere al suo massimo, dove si ferma (quando non si estrae già più uranio). Le barre colorate sovrapposte rappresentano le stime che si stavano facendo su quanto uranio ci fosse (contando quello già estratto). Teoricamente, l'atezza di queste barre dovrebbe essere costante ed uguale all'altezza massima a cui può giungere la barra marrone, ma come vediamo non è così, vediamo che al principio erano altissime. Proprio nel momento in cui la produzione è giunta al proprio zenit (massima derivata dalla curva di produzione accumulata, cioè, la pendenza massima della curava marrone che vediamo), fino al 1990, viene fatta una revisione al ribasso di quanto si potrà estrarre, spinti da ciò che nella realtà producevano le miniere. Sicuramente è stata sovrastimata la quantità estraibile sottostimando i costi di estrazione. Significativamente, poco prima del 2000 viene fatta una nuova stima e la barra rossa ora coincide con ciò che alla fine si è estratto in Francia (la Francia non produce più uranio). 

Il secondo di questi grafici corrisponde alla produzione degli Stati Uniti ed il suo contenuto si interpreta allo stesso modo. Come la Francia, giungendo al proprio zenit di produzione (verso il 1980), le riserve vengono revisionate drasticamente al ribasso. Un'altra caratteristica preoccupante di queste curve è che dopo lo zenit la produzione cade rapidamente, il che si manifesta per il poco che sale la curva marrone dopo l'arrivo della pendenza massima (chi si perde in queste nozioni di calcolo differenziale può trovare le curve di produzione nel rapporto UR≠ non le metto qui per non sovraccaricare il post). 

La conclusione è, pertanto, che le riserve sono probabilmente più sopravvalutate che sottovalutate e che la curva di produzione può sensibilmente decadere più rapidamente di quanto ci si aspetti. Tutto ciò rende più verosimile lo scenario di un picco dell'uranio nel 2015 che nel 2040. Solo il tempo dirà quale sia la situazione reale. Ciò che pare chiaro è che un dispiego di energia nucleare su grande scala non è praticabile, visto che anche nello scenario migliore (picco nel 2040), la mancanza di riserve secondarie rende impraticabile una grande crescita del parco di centrali nucleari. Il massimo a cui possiamo aspirare è più o meno mantenere quello che c'è e sperare che il picco dell'uranio si nel 2040 e non nel 2015. 

Per concludere questo lungo post, voglio aggiungere un paio di commenti.

Nella discussione sul elpais.com, qualcuno ha citato le enormi risarve che ha la Spagna che si presume non vengano sfruttate per la cattiva coscienza politica. Nel rapporto UR&NE si danno le riserve attuali della Spagna (pagina 28): 7.400 tonnellate di RAR al di sopra dei 40$(Kg e 6.400 tonnellate delle peggiori IR. La Spagna ha prodotto 6.100 tonnellate nella sua storia ed ora non produce uranio. Probabilmente le sue riserve sono solo marginalmente sfruttabili. 

Un tema ricorrente, che è uscito anche nella discussione, è stata la questione del fatto che l'uranio si ripercuote molto poco sul prezzo finale dell'energia elettrica che con esso viene generata e anche se il prezzo dell'uranio salisse molto di più, sarebbe ancora redditizio. Questo argomento sembra presumere che estrarre più uranio sia una questione di denaro. Non lo è. Alla fine il grande limite è il rendimento termodinamico o EROEI. Di fatto, il rendimento economico finisce per essere sottoposto a quello energetico e non il contrario, come abbiamo già detto diverse volte. Dall'altro lato, la presunta redditività di un uranio molto più caro sembra discutibile: nel 2007 l'uranio ha raggiunto il proprio picco dei prezzi, sulla falsariga di quello che ha fatto il petrolio nel 2008. Naturalmente il picco è stato spiegato in termini di fattori congiunturali, ma non è meno significativa la sua prossimità temporale col picco dei prezzi del petrolio e il fatto che la produzione di energia elettrica di origine nucleare continui a diminuire (non bisogna dimenticare che per estrarre uranio, soprattutto in luoghi remoti, si consumano ingenti quantità di petrolio). 

E, bene, nella discussione emergono sempre i sostenitori dei fast breeders e della fusione nucleare, che risolveranno tutto. Prima che ciò avvenga, è il caso di ripetere che è da anni che si sperimenta con i fast breeders senza ottenere il prototipo commercialmente praticabile. E, rispetto alla fusione, sapete già che mancano sempre 50 anni perché giunga il primo reattore a fusione commerciale.

Saluti.
AMT

P. S. Quello con la maglietta rossa sono io. L'ho comprata da tempo, non ha nulla a che vedere con la nazionale di calcio.






venerdì 24 maggio 2013

Dall'idea all'azione

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR




Di Antonio Turiel

Cari lettori,

la settimana passata ho vissuto una curiosa sinergia di conversazioni, tutte provenienti da ambiti più o meno scollegati ma che finiscono per convergere sullo stesso punto: la necessità imperiosa di favorire un cambiamento, soprattutto nella percezione, nella nostra società, come unico modo di evitare il collasso. I miei interlocutori non si sono messi d'accordo fra loro per  porre questo problema e, nonostante questo, i loro pensieri sono coincisi in tempi e scenari, anche se non nel modo di presentare le proprie idee. E giustamente una delle prime difficoltà sorge in questo modo e nel sapere fino a che punto uno sia disposto a puntare sul cambiamento di cui abbiamo bisogno.

I primi a pormi la questione sono stati dei buoni e vecchi amici di León, una coppia che conosco da tanto tempo che quasi mi vergogno a dire quanto. Ci siamo visti la settimana scorsa durante un giorno di riposo in cui ho approfittato per andare a trovare la mia famiglia. Con una famiglia grande come quella che ho io mi risulta difficile trovare un po' di tempo per andare a trovare gli amici di tutta una vita, così siamo riusciti solo a prendere un caffè. Questi amici hanno una ditta di medie dimensioni che fino ad ora era riuscita a resistere alla crisi con dignità e senza shock. Tuttavia, le prospettive a medio termine sembrano funeste. In cinque minuti mi hanno passato in rassegna i fatti più rilevanti per il futuro e non potevo che essere d'accordo sul fatto che le cose non si presentano per niente bene per loro. Subito mi hanno chiesto la mia opinione sul futuro prossimo, cosa che ho fatto e che poi abbiamo analizzato insieme. Alla fine entrambi mi hanno posto la necessità di creare un forum di discussione per León per definire il nuovo sistema, il nuovo paradigma di cui abbiamo bisogno. Stavamo parlando di creare una nuova base per lo sviluppo economico della zona, ma ci siamo subito concentrati sulla necessità di poter contare su filosofi, pensatori, con gente che potesse enunciare i nuovi valori sui quali si deve basare la nuova società, di come si deve fare una proposta valida per la società ed spingerla a coinvolgersi in questo progetto vitale.

Qualche giorno dopo Ugo Bardi mi ha fatto partecipe, insieme a molti altri, di un documento di discussione molto interessante sul perché la presa di coscienza sul cambiamento climatico non riesce a penetrare nella società, quali sono le barriere che si identificano e come dobbiamo fare per superarle (anche il suo ultimo post parla di questo). Uno degli aspetti chiave della discussione era come evitare che la gente che è in grado di comprendere il concetto (perché quadra con la sua struttura mentale precedente) cada nella negazione passiva del problema se non vede soluzioni fattibili alla propria portata. Per questo, c'è bisogno di una narrazione che mobiliti, possibilista, che promuova l'azione, che convinca il soggetto recettore del fatto che egli possa essere attore e motore del cambiamento, che di fatto tale cambiamento sarà possibile se molti come lui si mettono in marcia. Il documento in seguito sviluppa il come configurare tale narrazione.

Praticamente nello stesso momento ho cominciato a ricevere messaggi di un gruppo di discussione al quali mi sono iscritto quasi per caso da poco, che comprende personalità rilevanti come Ted Trainer e Saral Sarkar. La discussione particolareggiata è appassionante: un'analisi dettagliata dei diversi gruppi che hanno provato o provano a promuovere cambiamenti sostanziali nella nostra società e perché hanno fallito. La difficoltà maggiore identificata in questo documento è quella che pochi individui conoscono e integrano nel proprio discorso tutti gli aspetti coinvolti in questa crisi sistemica (dai limiti fisici alla crescita fino all'impossibilità di promuovere un cambiamento del sistema da dentro), per cui la trasmissione di questo messaggio si fa ardua, perché in più va a sbattere contro le barriere percettive della maggioranza della popolazione (cosa che, dalla mia modesta trincea, conosco abbastanza bene).

L'ultima di queste conversazioni sinergiche ha avuto luogo ieri su Facebook, fra i partecipanti abituali del programma Radioactividad. Juan Carlos Barba ci riportava una domanda di un ascoltatore: perché gli sforzi di divulgazione della realtà della crisi energetica arrivano solo a pochi, perché in realtà parliamo sempre agli stessi mentre la maggioranza in realtà non ci ascolta? Da qui è nato un piccolo dibattito dalle tinte maggiormente pessimiste, più centrato sul perché del nostro impegno divulgativo (volontà di servizio, interesse al bene comune) piuttosto che sul perché della nostra magra situazione. Nuovamente, il problema delle barriere percettive emerge con forza.

Il nesso comune delle quattro conversazioni erano sempre le barriere percettive della maggior parte della popolazione. La difficoltà (a volte enunciata direttamente come l'impossibilità dai miei interlocutori) di far capire un discorso che è in aperto conflitto con il discorso dominante e con le aspettative create nella maggior parte delle persone rispetto al loro futuro.

Di cosa abbiamo bisogno allora?

Ci serve un nuovo discorso. Ci serve una narrazione chiara, eroica, che converta la maggioranza della popolazione, che vede sé stessa come massa indifesa e sottomessa, in protagonista entusiasta del proprio futuro. Prima di discutere questioni tecniche sullo sfruttamento dell'energia e dei materiali, dell'uso dell'acqua, della disponibilità degli alimenti, del livello di popolazione adeguato in un pianeta che in definitiva è finito... prima di tutto questo abbiamo bisogno di dire una serie di cose ben chiare e abbiamo bisogno di dirle in modo tale che alla gente risulti evidente che debbano puntare su un progetto di vita e di futuro ed abbandonarne uno di morte e passato

Facile a dirsi, estremamente difficile a farsi. Cominciamo con l'enunciare una serie di verità semplici che sono state discusse in lungo e in largo su questo blog.




  • L'intenzione di prolungare artificialmente la vita di questo sistema agonizzante può causare solo sofferenza e morte. Non c'è vita nel sistema attuale, si sta uccidendo e con le sue code distruggerà tutte le cose che ci circondano e che crediamo garantite a vita. Le misure di austerità che si attuano oggigiorno sempre in più paesi occidentali non cercano di riattivare l'economia, ma di garantire il pagamento del debito ai grandi creditori internazionali e si sta spostando abusivamente questo debito, che è per la maggior parte debito privato, verso il debito pubblico che viene caricato sulle spalle di tutti. Questo processo di imputazione illegittima del debito non finirà spontaneamente, posto che il livello del debito è semplicemente insostenibile e si continuerà a caricarlo sugli Stati fino al loro fallimento e ancora, fino alla loro distruzione totale, in una logica economica che non ha senso in un mondo di risorse che non sono già scarse, ma sono in diminuzione. Mantenere il paradigma attuale obbligherà la popolazione a diminuire nello stesso modo, causando un'enorme mortalità, che sia indirettamente mediante fame e rivolte, o direttamente mediante guerre. E una tale cosa non succederà, come era abituale, soltanto nei paesi poveri del Terzo Mondo, ma anche nel tuo paese, caro lettore, che sia questo la Spagna, la Francia, la Germania o gli Stati Uniti (o l'Italia).  

  • Non si tratta soltanto di ottenere un cambiamento politico: certamente, c'è un livello di corruzione nella vita pubblica dei nostri paesi che grida al cielo, ma questa corruzione è prevalentemente un effetto e non la causa: non dobbiamo guardare il dito, ma la Luna. Se cambiamo i nostri sistemi politici e manteniamo quello economico, siccome le nostre risorse saranno in diminuzione, il potere economico tornerà ugualmente a corrompere il potere politico e le cose torneranno al punto di partenza. Finché non capiamo che quello che ci manca è la riforma del sistema economico (ed anche quello politico, sicuramente) non andremo avanti di mezzo millimetro. 

  • Non è sicuro che non ci siano alternative al sistema attuale. Si che ci sono e non sono – come tante volte si presume nelle discussioni – i sistemi comunisti falliti dei paesi dell'Est del ventesimo secolo. Sono sistemi economici basati sulla non crescita, sulla stabilità e sulla sostenibilità. Sono i paradigmi sviluppati dall'Economia Ecologica, o la scuola dell'Economia dello Stato Stazionario, o tante altre. C'è ancora molto da imparare, ma i fondamenti teorici sono chiari: l'economia è parte dell'ecologia, del mondo fisico nel quale ci muoviamo e tanti input come esternalità devono essere opportunamente tenuti in conto. 

  • Non è sicuro che non possiamo cambiare le cose: in ultima istanza, le molle ultime di tutto, dalla produzione dei beni economici alle istituzioni pubbliche e private, sono le persone. Persone che, come tu e io, vogliono una vita degna per sé e per i propri discendenti. Se comprendiamo che non c'è vita possibile nel sistema attuale, tutti agiremo per cercare un'alternativa ragionevole, dal banchiere di Wall Street al macellaio del tuo quartiere. 

  • Ci serve un cambiamento:  non possiamo permettere che il nostro vicino ed i suoi figli finiscano a cercare da mangiare nella spazzatura o si dedichino al furto. Domani potrebbero essere i nostri amici, i nostri fratelli o noi stessi. Non ha senso attaccarci a qualcosa che ci trascina verso il fondo di una palude sporca e fredda. Ci serve un cambiamento. Abbiamo bisogno di vivere senza questo stress di non sapere se l'anno prossimo avremo lavoro o potremo pagare l'ipoteca. Abbiamo bisogno di vivere, essere felici, sorridere. Abbiamo bisogno di essere umani. 


E' questo il quadro. Ora, a partire da esso, dobbiamo costruire la storia. La nostra storia, La tua storia, caro lettore. Perché se vogliamo costruire il futuro, se crediamo che il cambiamento e il futuro siano possibili, dobbiamo uscire tutti, anche tu, là fuori e dirlo a voce alta. Spegni il computer, alzati dalla sedia, esci là fuori e costruisci, costruiamo, la nostra Storia.


Saluti.
AMT

mercoledì 22 maggio 2013

La mente del negazionista






Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Nella controversia sul cambiamento climatico, a volte il dibattito diventa davvero brutto. Ciononostante, anche gli scambi più infuocati ci danno modo di imparare qualcosa. Immagine sopra dall'Università di Tel Aviv


In Italia abbiamo un detto sul cibo: “quello che non ammazza, ingrassa”. Trasferendo questa piccola gemma di saggezza alle discussioni online, potremmo dire che “quello che non ti imbroglia, ti rende più saggio”. Cioè, puoi imparare qualcosa di utile anche dagli attacchi più sgradevoli alla scienza nel dibattito sul cambiamento climatico. Ecco un esempio: un commento realmente pubblicato in un blog (h/t Alexander Ac).

.... [il cambiamento climatico]  è una costruzione sociale, non una teoria scientifica ed è tesa a trasformare la società e a portare vantaggi a coloro che spingono questa idiozia. 

Come teoria scientifica si tratta di totale nonsense. Non esiste un barlume di prova scientifica che il clima possa realisticamente evolvere in modo dannoso su scala globale in un futuro se non su scala di millenni, dove il ciclo delle ere glaciali diventa gradualmente importante. 

E' immorale per gente come te mentire a tutti gli altri. E' immorale per gente come te percepire un salario per queste bugie e per una ricerca che vorrebbe essere scientifica e che non è né scientifica né ricerca. E' immorale che tu minacci la civiltà industriale che è stata costruita per 500 anni. E' immorale che tu faccia pressioni politiche che potrebbero impedire che la gente povera e i paesi poveri usino i combustibili fossili, la risorsa più ragionevole e più economica che decide se le loro vite sono umane o miserabili strade verso una morte prematura. 

E' immorale che tu inquini Internet in generale ed il mio blog in particolare con il tuo balbettamento disonesto e pseudoscientifico ed abusi del fatto che i truffatori accaniti e i fraudolenti non vengano ancora giustiziati velocemente. E' ipocrita da parte tua usare i risultati della moderna tecnologia, compresa Internet e i motori a combustione mentre stai superficialmente combattendo tutte queste cose. Non è etico che tu diffonda tutte queste spaventose bugie di fronte a bambini che non possono vedere subito che tu sei un deprecabile bastardo inaffidabile, mentitore e avido e che perde il sono a causa di tutta la spaventosa merda che sputi ovunque. 

Questi erano solo esempi delle ragioni per cui le persone come te sono dei bastardi immorali.

Testo interessante, non è vero? Ma lasciamo perdere il cattivo gusto; questo testo ci fa intravedere come funziona la mente dei negazionisti; almeno di quel tipo di negazionisti che sono partecipanti attivi nel dibattito.

Notate, prima di tutto, come questo testo difficilmente possa essere il lavoro di un disinformatore pagato, com'è implicito nel termine spesso usato di “falso scettico”. Molto probabilmente, come ho già detto precedentemente, l'autore è veramente convinto di quello che dice. Considerate che ha postato questo commento nel proprio blog personale dove mostra il suo nome completo e mostra persino la sua faccia nella pagina principale. Ora, quanto vorreste essere pagati per mettere a repentaglio la vostra reputazione in questo modo? E chi vi pagherebbe così tanto?

Allora, notate come la scienza del clima viene descritta come qualcosa di progettato per “portare vantaggi a coloro che la spingono”. Questa è la tipica impostazione mentale cospirazionista, come descritto in alcuni studi da Lewandowsky ed altri. Ciò non vuol dire che chi ragiona in questo modo è stupido o malvagio; è il modo in cui tende a elaborare le informazioni. Molto probabilmente ha ereditato dai propri antenati un livello di paranoia più alto della media che, in un remoto passato, era utile in alcuni condizioni. Tutti noi potremmo soffrire di paranoia (e ne soffriamo quando pensiamo che i negazionisti siano disinformatori pagati), è una questione di intensità.

Alla fine, questo testo è una conferma di quello che ho detto nel mio post precedente. Cioè, più discuti con persone che soffrono di atteggiamento cospirazionista, più cadi in quello che ho chiamato la “Trappola di Desdemona”. Cioè, rinforzi semplicemente il loro atteggiamento e li convinci che tu sia parte di una grande cospirazione. Si sentono minacciati e reagiscono in modo aggressivo. In questo caso, anche con minacce di morte non tanto velate ([gente come te]...non viene ancora giustiziata ancora rapidamente).

Quindi, come reagire? Prima di tutto, sulle minacce di morte. Per essere efficace, una minaccia dev'essere accompagnata da una potenza di fuoco credibile (retorica o reale), come ogni boss mafioso rispettabile può dirvi. Altrimenti ti torna indietro. Nel dibattito climatico, l'intimidazione è stata usata con notevole successo per attaccare gli scienziati climatici, come nel caso del “Climategate”. Tuttavia, potrebbe essere che la posizione negazionista stia gradualmente perdendo trazione e, di conseguenza, sproloqui come questo si stanno ritorcendo contro i negazionisti (e questa è una cosa buona!).

Il punto principale, alla fine, è che abbiamo a che fare con un atteggiamento caratteristico di una piccola minoranza di persone. Il nostro lavoro non è quello di discutere con loro, è quello di passare il messaggio alla gente (la maggioranza) che non soffre dello stesso livello di paranoia. Gran parte delle persone non sono negazionisti attivi. Sono semplicemente in una posizione di “negazione passiva” riguardo al cambiamento climatico – sanno che esiste ed è pericoloso, solo che non si rendono conto di quanto pericoloso ed imminente sia. Con loro, il messaggio può essere trasmesso. Ci vuole tempo, ma si può fare.




lunedì 20 maggio 2013

Cortese ed educato dibattito petrolifero.

Qui di seguito, vi passo un esempio del livello del cosiddetto "dibattito" cosi come certa gente lo intende. Vi copio e incollo un commento a un mio post sul "Fatto Quotidiano" nel quale sostenevo che la fama di grande statista di Margaret Thatcher non è stata tanto dovuta alle sue ricette economiche liberistiche, ma alla fortuna di essere andata al potere nel periodo di massima resa dei pozzi petroliferi del Mare del Nord.

Questa mia proposta non è piaciuta tanto a un tale che si firma Drapon, che sembra aver ritenuto il mio post offesa sufficiente da indurlo a mollare il ramo dal quale si stava dondolando mentre mangiava una banana per raggiungere la tastiera del suo computer.

Credo che sia istruttivo vedere come certa gente non riesce a discutere se non infilando un insulto ogni tre righe. Cosa c'è nell'inernet di così profondamente sbagliato che spinge questi qui a comportarsi in questo modo? Boh? Ho trovato, tuttavia, che prendendoli gentilmente si riesce anche a rabbonirli un po'.



Drapon

Come lei mi insegna, la correlazione (soprattutto una sola) non significa dipendenza. Per esempio io nel 79 ho iniziato a perdere i capelli, e lei probabilmente si è bruciato l'ultimo neurone rimasto, ma nessuno dei due eventi è conseguenza dello sfruttamento del petrolio del nord.

Uno scienziato con un minimo di onestà intellettuale questo lo sa, e non rigurgiterebbe la prima correlazione venuta in mente sulla tazza, leggendo il manifesto o la Pravda Quotidiana.

Del resto, diamo un occhiata ai dati, vuole?

Sa quella cosa antipatica, numerica e fastidiosa che è la base di ogni scienza? Bene, guardiamoli.

Se come lei sostiene, la crescita Britannica è dovuta al petrolio, sovrapponendo la curva di produzione e quella del GDP noteremmo una bella co rrelazione.

E infatti...
http://www.tradingeconomics. com/charts/united-kingdom-gdp.png?s=wgdpuk&d1=19730101&d2=19960430

E infatti una bella s3ga.

La sua curva sale ininterrottamente tra il '75 e l'85, anni in cui il GDP britannico è stazionario (un picco nell'81, poi addirittura decresce). Il GDB britannico inizia ad esplodere nell'86, quando la curva di produzione ed esport... decresce.

Insomma, non solo incompetente, ma anche parecchio sfortunato.

Compatimento.

Poi, diamo un'occhiata ad altri numeri vuole? Quanto è influente la produzione di petrolio sul GDP?

Facciamo un conto semplice. Diciamo che la produzione è di 3 milioni di barili di petrolio/giorno. Noti che è decisamente inferiore, ma voglio stare largo.

Ricaviamo il prezzo del barile da questo grafico:
http://www.wtrg. com/oil_graphs/oilprice1947.gif

Ancora una volta teniamoci larghi: 50$ al barile.
Se facciamo 3x50x365=54750 milioni di dollari per anno, conto tondo: 55 miliardi di dollari all'anno.

Un sacco di soldi, non c'è che dire.

Però però però, se li confrontiamo con il grafico precedente notiamo come persino questo conto estremamente generoso (non conta i costi di estrazione, per esempio) sia meno del 20% del GDP Britannic o, addirittura meno del 10% nell'81, meno del 5% nell' 89. Insomma: irrilevante.

Insomma, sembra proprio che lei usi i dati come un ubriaco usa un lampione.

Per farsi sorreggere, non per farsi illuminare.

Lei dovrebbe chiedere scusa.

Ma non a me. All'università italiana ai poveri gonzi che le hanno creduto.

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Ugo Bardi

Gentile sig. Drapon,

vedo che ha trovato il mio post poco soddisfacente. Mi permetta allora di illustrarle meglio la mia posizione anche in luce delle sue cortesi osservazioni, che mi permetto di riassumere come basate sul fatto che i ricavi petroliferi erano poca cosa rispetto al PIL del Regno Unito.

Mi permetta rispettosamente di dissentire su questa sua interpretazione. Le faccio l'esempio dell'Italia. Come lei sa, ultimamente siamo costretti a varie "manovre" economiche per toglierci dai guai. Mi sembra che l'ultima manovra fosse di 34 miliardi. Ma cosa sono 34 miliardi in confronto al PIL italiano di circa 1500 miliardi? Poco più del 2%. Eppure, la manovra ci pesa, eccome!

Consideri allora che importiamo oggi 66 miliardi all'anno di combustibili fossili. Se non avessimo questa spesa, non avremmo bisogno della manovra. Anzi, avremmo a bilancio oltre 30 miliardi extra. Pensi quante cose ci potremmo fare: sanità, istruzione, infrastrutture, eccetera.... Se, poi, per qualche miracolo, 66 miliardi all'anno li potessimo incassare esportando combustibili fossili, allora sì che ne potremmo fare di cose!!

L'Inghilterra si è trovata ad avere proprio questo "miracolo" per due decenni. Non cerchi precise correlazioni fra la crescita del PIL e la produzione petrolifera. Sono queste svariate decine di miliardi di dollari che gli sono arrivati che hanno permesso all'Inghilterra di fare parecchie cose; inclusa una bella guerra all'Argentina. In parte, però li ha anche sprecati distruggendo le proprie infrastrutture: si chiama la “malattia olandese.” La ricchezza petrolifera viene quasi sempre spesa male.


venerdì 17 maggio 2013

400 ppm: un punto di non ritorno della comunicazione


Di Ugo Bardi



Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR
Immagine da Celsias

La cifra tonda di 400 ppm di concentrazione di CO2 nell'atmosfera non ha nessun significato fisico particolare. Il temuto “punto di non ritorno” atmosferico che ci porterà alla catastrofe climatica potrebbe essere già passato o forse potrebbe trovarsi da qualche parte a concentrazioni più alte che raggiungeremo in futuro.  

Ma 400 ppm potrebbero annunciare un diverso punto di non ritorno – uno che ha a che fare con la percezione dell'urgenza del problema climatico. Un punto di non ritorno della comunicazione. 

Forse, il punto più basso nella consapevolezza climatica è stato raggiunto lo scorso anno, quando le elezioni presidenziali degli Stati Uniti sono passate senza che il cambiamento climatico sia stato nemmeno menzionato nel dibattito. Pensateci: che un di cadere più in basso di così? Ma le cose stanno cambiando. La scritta sul muro è impossibile da ignorare: la rete sta ribollendo di siti, blog, furum, video. C'è una comprensione generale del fatto che se abbiamo ancora una possibilità di evitare il disastro, dobbiamo coglierla adesso. Anche il blog che state leggendo, “The frog that jumped out” è il risultato di questa nuova percezione. E questo avrà degli effetti.

La “sfera della comunicazione” è un sistema complesso che è soggetto a punto di non ritorno proprio come molti sistemi fisici. Finora, è rimasto in un equilibrio precario in una situazione in cui la negazione organizzata è stata capace di bloccare la consapevolezza del pericolo che abbiamo di fronte invadendo lo spazio comunicativo. Ma, se raggiungiamo il punto di non ritorno, il sistema di comunicazione subirà una transizione che cambierà ogni cosa. Riporterà il problema climatico nel posto che gli compete, nella lista delle priorità che abbiamo: la più preoccupante, pericolosa, terribile minaccia che l'umanità abbia mai affrontato in tempi storici. La cifra “400” potrebbe essere il segno di questo punto di non ritorno della comunicazione. 

Riconoscere che il problema esiste è il primo passo per risolverlo. Una piccola spinta nella giusta direzione potrebbe essere proprio ciò di cui abbiamo bisogno per passare al prossimo livello. Quindi spingiamo tutti insieme!