Di Jacopo Simonetta
Che lo sviluppo industriale porti benessere è uno degli assunti basilari del nostro modo di pensare e di operare. Come potrebbe essere altrimenti? Non è forse vero che lo sviluppo industriale ha tirato fuori dalla miseria le masse europee? Ed allora perché non dovrebbe fare altrettanto negli altri paesi?
Una risposta istintiva potrebbe essere: perché lo abbiamo
già fatto noi, ma sarebbe una risposta molto parziale ed in parte
sbagliata. Prendiamo quindi le cose
dall’inizio.
Un fatto che nessun economista nega, ma che la grande maggioranza di loro ignora bellamente, è che i processi industriali sono processi fisici e qualunque processo fisico di dimensione compresa fra l’atomo e la galassia è soggetto alla leggi della termodinamica. Molto sopra e molto sotto queste misure forse no, ma qui non ci interessa.
In sostanza, per realizzare qualunque oggetto si parte da risorse (viventi o meno) e vi si applica dell’energia di alta qualità (generalmente carburanti) per estrarla e concentrarla, poi vi si applica nuovamente dell’energia (spesso elettricità) per trasformare i materiali dandogli una forma precisa ed ordinata. Poi si applica nuovamente energia per assemblare i pezzi in prodotti finali che dopo un periodo più o meno lungo di uso diventano rifiuti.
Nelle filiere reali i passaggi possono essere numerosissimi, ma in ogni caso, al ogni passaggio si applica un’energia (E) per dividere una parte del materiale che diventa qualcosa di più concentrato e formato (X). Contemporaneamente, un’altra parte di materiale (spesso maggiore) diventa invece qualcosa di più disperso e disordinato (Y). Parte dell’energia applicata viene incorporata nel prodotto X e nel rifiuto Y; parte viene invece dispersa sotto forma di calore, rumore, ecc. (Z). Quindi abbiamo due cose in entrata (energia e materie prime) e tre cose in uscita: un prodotto X con un’entropia inferiore al materiale di partenza; un rifiuto Y ed un’energia Z che, viceversa, hanno entrambi un’entropia superiore sia al materiale di partenza che all’energia applicata.
LA COSA FONDAMENTALE DA RICORDARE SEMPRE E’ QUESTA:
L’entropia di Y+Z è
sempre maggiore dell’entropia di E+X
Dunque qualunque processo produttivo in realtà non produce
proprio niente. Al contrario, dissipa
energia e genera rifiuti per trasformare una piccola parte della materia in
oggetti d’uso da cui spesso dipende la nostra vita.
Una parte dei rifiuti possono essere riciclati, ma in ogni
caso il loro riutilizzo è parziale e richiede la dissipazione di ulteriore energia,
sia pure in misura minore all’estrazione di risorse primarie. Il riuso ed il riciclaggio, dunque
rallentano l’accumulo di alta entropia, ma non possono fermarlo; men che meno
invertirlo.
In sintesi, la produzione industriale raccoglie bassa
entropia dove è disponibile al minor prezzo e la concentra in determinate parti
del sistema (impianti industriali, depositi, prodotti, infrastrutture,
prodotti, ecc), mentre scarica l’alta entropia che produce (rifiuti e calore)
su tutto il resto e questo è qualcosa di altrettanto inevitabile della legge di
gravità.
Una faccenda apparentemente banale, ma da cui dipendono i destini dei popoli e dell’intero pianeta.
In ultima analisi, l’industria è infatti un gioco a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde; e perde più di quanto gli altri vincano, cosicché il pianeta nel suo complesso perde sempre e comunque.
Ma se non possiamo evitare di danneggiare qualcuno, entro
certi limiti possiamo almeno scegliere chi.
Ad esempio, la ripartizione dei vantaggi e degli svantaggi può essere
fatta nello spazio (regioni che si arricchiscono a scapito di altre), nel
tessuto sociale (classi che migliorano il loro status ed altre che lo
peggiorano) oppure nel tempo (generazioni vincenti a scapito dei loro
discendenti). Oppure si possono ideare
strategie miste fra queste; l’unica cosa
che non possiamo fare è evitare che qualcuno paghi per chi guadagna.
Visto in quest’ottica , il suicidio commesso da EU ed USA con la delocalizzazione delle manifatture e l’esportazione delle tecnologie è particolarmente strabiliante, ma c’è un aspetto ancora più importante.
Ciò che distingue la Terra da tutti gli altri pianeti
conosciuti è che ha un livello di entropia inferiore e questo è dovuto esclusivamente
alla presenza della Biosfera. E’ infatti
la presenza di strutture viventi estremamente organizzate e complesse che
assicura che la Terra mantenga caratteristiche compatibili con la vita. La Biosfera è il’unica cosa esistente che è
in grado di “pompare” l’entropia al contrario (naturalmente a costo di
scaricarla nello spazio circostante, ma non risulta che la galassia ne
risenta).
In estrema sintesi, le piante concentrano l’energia e gli animali la disperdono, ma per miliardi di anni c’è stato un lieve saldo attivo che si è tradotto nell’accumulo di entropia in forma di biomassa e, soprattutto, di carbone, petrolio e gas. Questi giacimenti che chiamiamo “combustibili” erano in effetti quella cosa che la Biosfera aveva sepolto realizzando le condizioni ambientali in cui la nostra specie e quasi tutte quelle oggi viventi si sono evolute. Un autentico “vaso di Pandora” che abbiamo scoperchiato e vuotato quasi per metà.
Già lo sterminio della mega-fauna (a partire dal tardo paleolitico) e la conversione degli ecosistemi naturali in ecosistemi agricoli (a partire dal neolitico) e hanno cambiato considerevolmente il mondo, ma senza giungere a modificare sensibilmente l’equilibrio entropico planetario. Neppure lo sviluppo industriale ha avuto impatti globali avvertibili finché è rimasto un fenomeno localizzato all’Europa occidentale, ma via via che si è diffuso e potenziato ha finito con l’alterare radicalmente gli equilibri termodinamici dell’intero pianeta.
Si può molto discutere se e quanto l’industria danneggi questo o quel popolo, classe o generazione umana, ma nessuno può negare che in fondo alla catena c’è sempre e comunque un perdente: la Biosfera (di cui siamo comunque parte integrante).
Il risultato è che da circa 2 secoli l’entropia planetaria ha cominciato a crescere e lo ha fatto in modo sempre più rapido. L’effetto finale del “global warming” è proprio questo: ostacolando lo scarico di alta entropia nello spazio, la fa aumentare sulla Terra ed è questa una notizia che dovrebbe gettare nel panico ogni singolo abitante di questo pianeta perché significa che la nostra unica casa sta bruciando e che continuerà a farlo ancora molto a lungo. Possiamo sperare che il processo sia reversibile nel giro di qualche milione di anni, ma non ci possiamo assolutamente contare.
E dunque? Ridurre la produzione industriale parrebbe l’unica cosa lungimirante da fare, ma non possiamo nasconderci che ciò avrebbe effetti devastanti sulle economie, generando numeri incalcolabili di disoccupati e di affamati, con conseguenze sociali facili da prevedere. Per non parlare del fatto che chi si deindustrializza si pone alla mercé dei paesi industriali circostanti; una lezione che stiamo forse imparando.
Mantenere la produzione industriale riducendo i flussi di materia ed energia parrebbe una strategia molto promettente, ma in pratica non ha mai funzionato: il miglioramento tecnologico fa aumentare i consumi e, generalmente, anche la popolazione.
Dunque, a scala nazionale e regionale avremmo interesse a sviluppare una nuova fase industriale (il più possibile basata sul riciclaggio e sulle energie rinnovabili), mentre a livello globale è di vitale importanza ridurre drasticamente e molto rapidamente la produzione industriale. Un bel dilemma!
“Ci troviamo ad un bivio: da una parte c’è l’estinzione, dall'altra la disperazione; speriamo di fare la scelta giusta” Woody Allen
Non per caso la divinità di "ultima istanza" rimasta nel vaso di Pandora è proprio la Speranza.