di Jacopo Simonetta
In un recente articolo pubblicato dalla testata “Proceedings of the National Academy of
Sciences” James Hataway sintetizza i
risultati si uno studio condotto da un gruppo di tre fisici dell’Università della
Georgia (USA). Lo studio rientra nel fertile filone del’applicazione delle
leggi della termodinamica allo studio della crisi sistemica in corso a livello
globale. Qui e qui due versioni dell’articolo.
In estrema sintesi, i ricercatori sostengono che, sotto il profilo meramente termodinamico, la Terra si è comportata per circa 2.5 miliardi di anni come una batteria che ha accumulato energia in forma chimica, tramite l’attività fotosintetica. Sia la biomassa attuale, sia i combustibili fossili sono infatti costituiti da energia solare immagazzinata in legami chimici ad opera di piante, batteri e cianobatteri. Questo assicura al nostro Pianeta una distanza teoricamente misurabile dallo stato di degli altri, che è molto più vicino all'equilibrio termodinamico e perciò incompatibile con la vita. Un modo corretto e complicato di dire che è la presenza di vita che assicura il fatto che sulla Terra ci siano condizioni compatibili con la vita, umana e non.
Nel corso degli ultimi 2 secoli ed in modo progressivamente
accelerato, prosegue l’articolo, questa
riserva di energia è stata consumata senza che fosse possibile ripristinarla
perché i tempi di dissipazione sono di diversi ordini di grandezza maggiori di
quelli necessari par la sua cattura ed accumulo. D'altronde, è stata esattamente questa
spettacolare dissipazione di energia che ha permesso il dominio assoluto della
nostra specie sul pianeta, la presenza di oltre 7 miliardi di noi e la
costruzione della complessa infrastruttura industriale, agricola ed urbana in
cui viviamo.
Ma riducendosi il gradiente termodinamico fra la Terra e lo spazio esterno, le condizioni per la vita vengono gradualmente meno. Considerando che circa metà della materia organica vivente e fossile è stata distrutta, è il caso di cominciare a preoccuparsi molto seriamente. Esiste la possibilità di fermare questo processo? Secondo gli scienziati si ed è incrementare la biomassa vegetale, dunque il tasso di attività foto sintetica a livello planetario. Un obbiettivo molto difficile, ma l’unica alterativa è l’estinzione della civiltà e, forse, anche della specie umana; finanche la scomparsa della Biosfera stessa.
Anni di autonomia alimentare garantita dalla fotosintesi dall'anno 0 ai giorni nostri. |
La materia non è nuova e riprende, aggiornandolo e circostanziandolo meglio, il punto fondamentale sostenuto da James Lovelock nel suo celebre libro “Ipotesi Gaia” del 1979: l’indizio sicuro di presenza di vita su di un pianeta sarebbe un’entropia anormalmente bassa.
Come ecologo, non posso che approvare l’enfasi posta sull'importanza della biomassa vegetale come fattore chiave nel mantenere la Terra in un salubre disequilibrio termodinamico. In altre parole, nell'impedire che il nostro pianeta diventi un deserto di rocce come tutti gli altri del nostro sistema solare. Nessuno di essi è, beninteso, in perfetto equilibrio con lo spazio circostante, ma il livello di disequilibrio del nostro Pianeta è molto superiore ed è esattamente questo che ci permette di esistere.
Vorrei però aggiungere qualcosa a proposito di uno degli
aspetti più importanti e negletti della crisi in corso: la rapida erosione di
biodiversità. Un ecosistema non è
infatti composto solo da materia che circola ed energia che fluisce, ma anche
da informazione. La trasformazione di
energia luminosa in legami chimici
comporta certo un accumulo di energia, ma anche di informazione sul
nostro pianeta. Quantità e qualità di
questa informazione sono, credo, altrettanto e forse ancor più importanti della
biomassa.
Per capirsi, già a livello di idrocarburi fossili, quello
che rende il brent tanto più prezioso dello Shale oil sono profonde differenze
nella forma e nelle dimensioni delle molecole che li compongono. Dunque la diversa informazione che tali
molecole contengono. Tant'è vero che buona
parte dei problemi che cominciamo avere con il petrolio non dipende tanto dalla
sua quantità, bensì dal fatto che stiamo esaurendo quello di buona qualità
(cioè contenente un certo tipo di informazione). Altri materiali possono contenere
altrettanta energia, ma non la stessa informazione e questo ha conseguenze
immense sui processi industriali.
Se passiamo alla biomassa vivente, quella cioè che si riproduce e che quindi ricarica la nostra batteria qui ed ora, troviamo che l’informazione è contenuta non solo nei legami molecolari, ma soprattutto nel genoma e nella struttura degli ecosistemi di cui gli organismi fotosintetici fanno parte. La vita si mantiene infatti solo grazie ad un continuo processo di reciproco adattamento fra tutti gli elementi che costituiscono gli ecosistemi.
Fanno eccezione solamente le forzanti esterne, ma se si considera l’ecosistema globale, queste si riducono a pochi fattori astronomici e geologici. Fra i primi, abbiamo fenomeni come la posizione della Luna, l’attività solare, l’inclinazione dell’asse terrestre, l’eventuale caduta di grandi meteoriti e poco altro. Fra i secondi, principalmente la deriva dei continenti e l’attività vulcanica.
In altre parole, quella che si riscontra è una co-evoluzione che crea biodiversità e che si alimenta della medesima. Non sono infatti le specie e neppure le popolazioni che evolvono, bensì gli ecosistemi di cui le popolazioni sono parte.
Ma sono i genomi delle popolazioni che costituiscono le “carte” con cui si gioca la partita della vita. Una partita in cui le regole fisse sono molto poche e tutto cambia in continuazione. Ogni estinzione è quindi una “carta” perduta e ciò ha due ordini di conseguenze.
Nell'immediato, riduce l’efficienza e la resilienza del sistema. Superato un imprevedibile punto di rottura, l’ecosistema si trasforma molto rapidamente e spesso irreversibilmente in qualcosa di completamente diverso e molto più povero. Esempi classici di questo tipo di fenomeni sono l’eutrofizzazione delle acque e la desertificazione dei suoli.
In prospettiva, ogni estinzione riduce sia le possibilità di adattamento del sistema complessivo, sia la possibilità di recupero dopo la crisi. In altre parole, riduce la probabilità che in futuro via sia vita sulla Terra ed il fatto che sia già accaduto varie volte non dovrebbe indurci a sonni tranquilli. E’ vero che ad ogni estinzione massiva fin qui avvenuta è seguita una fase di recupero, ma le condizioni astrofisiche del Pianeta e del sistema solare non erano le stesse di oggi. E, comunque, nessuna delle specie dominanti della fase precedente l’estinzione è sopravvissuta.
Insomma, il fatto che stiamo vivendo le fasi iniziali di un’estinzione di massa non pone solo dei problemi di ordine etico (peraltro fondamentali), ma anche di mera sopravvivenza. Un concetto un po’ difficile da far capire ai nostri amministratori, imprenditori e concittadini, abituati a rispondere che “Non si può fermare il progresso (o l’economia e quel che gli pare al momento) per salvare un uccellino”.
D'altronde, è anche vero che è consumando le riserve di energia e di informazione contenute nel nostro Pianeta che la nostra specie ha potuto costruire l’immensa infrastruttura e la complessa cultura odierna, oltre che i circa cinquecento milioni di tonnellate di carne umana attualmente in circolazione. In altre parole, una parte consistente dell’energia e dell’informazione contenute anticamente dal Pianeta sono state trasformate nei “hardwhwre” e “softwhere” della civiltà attuale. Una parte maggiore è stata distrutta nel processo. Non possiamo sapere quanta, ma sicuramente più di quanta ne rimane, visto che ad ogni trasformazione corrisponde necessariamente un aumento dell’entropia.
Dunque l’impero universale della nostra specie si fonda necessariamente sulla distruzione delle basi termodinamiche della vita di cui noi stessi facciamo parte. Per usare una parola cara ai filosofi, si potrebbe dire che l’autodistruzione rappresenta l’Entelechia (compimento ultimo e perfetto di una tendenza) dell’evoluzione umana. Ma non è detto che ci riusciamo!
Anche gli altri animali hanno potenzialmente la stessa tendenza, ma non la possono realizzare perché la loro crescita si scontra con dei limiti invalicabili. Proprio quelli che, viceversa, noi siamo riusciti finora tanto brillantemente a superare. Motivo non piccolo di comprensibile orgoglio, ma anche prodromo di suicidio collettivo. Già, perché il fattori limitanti sono esattamente quella “cosa” che, impedendo lo sviluppo delle popolazioni oltre un certo limite, ne favorisce la sopravvivenza a lungo termine. Un concetto un po’ acido da ingurgitare, ma è così che funziona il mondo.
Possiamo quindi pensare a molti modi per fermare la distruzione della Vita, ma sarebbero efficaci solamente se ottenessero lo scopo di dirigere il flusso di entropia “verso di noi” anziché “lontano da noi”. In altre parole, è necessaria una rapida diminuzione della quantità di materia, energia ed informazione contenuta nell’antroposfera.
In parole povere, la Terra può sopportare a tempo indeterminato solo poca gente che utilizza tecnologie semplici e si accontenta di molto poco.
Naturalmente, molti non sono d’accordo con questa
conclusione ed è possibilissimo che abbiano ragione. Queste
che ho appena tratteggiato non sono infatti certezze, men che meno “verità”, ma
solo considerazioni fondate sull'esperienza personale. Negli anni a venire vedremo quale fra i
tanti “mondi” teoricamente possibili diventerà reale.