Visualizzazione post con etichetta cancrismo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cancrismo. Mostra tutti i post

venerdì 4 dicembre 2020

Il vegetariano seminudo: vivere nel giardino dell'Eden

 

di Bruno Sebastiani

 

Der Weltverbesserer” è un racconto lungo di Hermann Hesse pubblicato nel 1911 e tradotto in italiano da SugarCo con il titolo “Monte Verità”. In realtà l’unica attinenza con la nota comunità “naturista” che sorse nei pressi di Ascona all’alba del XX secolo consiste nel fatto che il protagonista del racconto, Berthold Reichardt, risiede in una località isolata del Tirolo ove ospita uno dopo l’altro vari personaggi anticonformisti.

Uno di questi, denominato “un vegetariano seminudo”, pronuncia frasi che offrono lo spunto per un approfondimento degno di interesse.

Quell’uomo […] non predicava né l’odio né l’inimicizia, ma nella sua orgogliosa umiltà era persuaso che, se la sua dottrina fosse attecchita, come per incanto sarebbe sbocciata una condizione umana molto simile a quella del paradiso terrestre […] Il suo primo comandamento suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva solo agli uomini e agli animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione di ogni essere vivente. Ammazzare un animale gli sembrava un atto orribile e disgustoso e credeva fermamente che, una volta conclusosi l’attuale periodo di degenerazione e di cecità, il genere umano si sarebbe nuovamente astenuto da questo delitto. Era per lui un’empietà anche il solo strappare un fiore o il tagliare una pianta. Reichardt, evidentemente, obiettò che, senza abbattere gli alberi, noi non potremmo nemmeno costruirci una casa ed ecco il frugivoro annuire con calore.

“Giusto!”, disse. “Molto giusto! Non dobbiamo avere una casa e nemmeno vestiti. Le case e i vestiti ci allontanano dalla natura e fanno nascere in noi altri bisogni che, a loro volta, sono causa di assassinii, di guerre e di vizi”.

A quelle parole Reichardt tornò a obiettare: “Ma sarebbe difficile, senza casa e senza vestiti, sopravvivere a un inverno con il nostro clima!”.

E l’ospite sorrise di nuovo e, visibilmente allegro, riprese: “Bene! Bene! Vedo che lei non mi ha frainteso. Infatti, la fonte principale di tutte la miseria del mondo ha avuto inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla e la sua patria naturale nel grembo dell’Asia. Il fine dell’umanità è, appunto, ripercorrere questo cammino a ritroso e allora noi tutti torneremo a vivere nel giardino dell’Eden”. (H. Hesse, Monte Verità, SugarCo Edizioni, Milano 1988, pp. 71 – 73)

Con questa frase si conclude l’intervento del “vegetariano seminudo” e il racconto prosegue con altre vicende.

Nelle poche parole pronunciate dal “frugivoro”, a parte l’inesatta collocazione geografica della culla dell’umanità (Asia anziché Africa), è condensata la critica più radicale che si possa pronunciare nei confronti del mito del progresso e della superiorità del genere umano sulle altre specie.

Una tale visione del mondo mi affascinò in passato – ben prima della lettura del testo di Hesse - al punto che pensai di fondare su di essa un movimento culturale dal nome “regressismo” in opposizione al “progressismo” imperante.

Il mito rousseauiano del buon selvaggio mi apparve allora il faro su cui puntare il timone del mio “veliero ideologico”.

Ma anche di fronte alle posizioni più estreme, giustificate dalla gravità della situazione in cui il progressismo ci ha precipitati, mi resi conto che non si doveva abdicare al realismo e al buon senso.

Considerai le difficoltà pratiche che un siffatto cammino a ritroso avrebbe comportato, pur in presenza di una ipotetica (e del tutto improbabile) unanimità di consensi circa la sua intrapresa.

Per inciso anche il protagonista del racconto, Berthold Reichardt, mostra “[…] una certa insofferenza per l’evidente semplicismo di un pensiero fondamentalmente idillico […]”, pur se “[…] amava a suo modo questa filosofia […]”.

Anch’io l’amavo, ma anch’io mi rendevo conto della sua concreta impraticabilità.

Nacque così il “cancrismo”, teoria in cui si riconosce che “la fonte principale di tutte la miseria del mondo ha avuto inizio il giorno in cui l’uomo ha abbandonato la sua culla”, ma in cui si considera anche che tale abbandono non dipese da un atto della volontà, bensì da casuali alterazioni geniche intervenute ai danni del nostro encefalo e che, soprattutto, queste alterazioni hanno provocato una serie concatenata di danni oramai non più riparabili dal nostro intelletto, capace di distruggere ma non di ricostituire l’equilibrio della biosfera.

Il mio ultimo libro, “L’impero del cancro del pianeta”, è dedicato a questo argomento. Affrontando il tema dell’alimentazione di tutta l’umanità e di tutte le macchine costruite dall’uomo, ho cercato di argomentare come la strada dell’aggressione a ogni risorsa del pianeta sia a senso unico: non si può che andare avanti, pena il blocco dei rifornimenti di cibo e di energia a quelle vaste masse tumorali che sono le megalopoli ovunque diffuse.

Ma se la strada sin qui seguita dall’uomo non è percorribile a ritroso, dobbiamo rassegnarci ad andare verso il precipizio senza poter mettere in atto alcuna modifica di percorso?

Sicuramente è da incoraggiare ogni invito a ridurre i consumi e ad adottare stili di vita più rispettosi dell’ambiente che - se posto in atto - potrebbe, quantomeno, rallentare la nostra folle corsa alla devastazione del pianeta.

Ma poiché queste riduzioni e modifiche non sono gradite alla maggioranza della popolazione, la diffusione di una teoria “violenta” come il Cancrismo può forse costituire la cura d’urto necessaria a smuovere le coscienze.

Un ultimo appunto sul discorso del “vegetariano seminudo”.

Il suo primo comandamento suonava: “Non uccidere!”, ma egli non lo riferiva solo agli uomini e agli animali: lo intendeva come una sconfinata venerazione di ogni essere vivente.

Questa è una nobilissima dichiarazione di intenti da un punto di vista etico. Ma l’etica è figlia della ragione umana, la stessa che sta distruggendo il pianeta. Non esiste una analoga legge in natura, laddove il primo comandamento suona “nutriti per vivere”, e il nutrimento deriva pressoché totalmente da sostanze organiche, animali o vegetali. Ho affrontato in parte questo argomento in un precedente articolo (“Carne o non carne? Siamo animali vegetariani o onnivori?”) e ad esso rimando per approfondire gli aspetti relativi alla dieta umana.

Altri hanno messo assai egregiamente in risalto come l’introduzione dell’agricoltura abbia alterato in modo irreparabile gli equilibri del mondo naturale. Si veda in proposito il saggio di Jared Diamond (“Il peggior errore nella storia della razza umana”) e quello di John Zerzan (“Agricoltura”).

Dunque, per concludere, un sentito ringraziamento al “vegetariano seminudo” per il suo intervento, anche se il filo della sua coerenza ideologica non è del tutto lineare. Ma ogni testimonianza di amore per la natura e di repulsione per gli imperanti miti progressisti è da apprezzare e da diffondere risolutamente, in vista dell’avvento di una nuova consapevolezza sulla reale natura della nostra specie.


mercoledì 21 ottobre 2020

"Sapere di non sapere" o "Sapere di non poter sapere"?


Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509 - 1511

 

Post di Bruno Sebastiani

 

Il titolo di questo articolo può sembrare un gioco di parole o uno scioglilingua. L’antinomia che sottintende ha invece l’ambizione di far emergere una verità fondamentale per la nostra storia passata e futura.

Vediamo dunque di esaminare partitamente le due frasi e cosa si cela dietro ad ognuna di esse.

Il “sapere di non sapere”, come noto, è l’insegnamento base del metodo socratico. Il filosofo ateniese, secondo la testimonianza che ci ha lasciato Platone, dichiarò davanti ai suoi accusatori:

“[…] di cotest’uomo [un tale che aveva fama di sapiente, NdA] ero più sapiente io: in questo senso, che l’uno e l’altro di noi due poteva pur darsi non sapesse niente né di buono né di bello; ma costui credeva sapere e non sapeva, io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui, per questa che io, quel che non so, neanche credo saperlo.” (Apologia, 21c, in Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari 1967)

Questa consapevolezza di sapere di non sapere è stata storicamente all’origine della sete di sapere, che Socrate seppe coltivare tanto abilmente mediante la “maieutica”, il metodo che conduceva i suoi interlocutori ad accorgersi della propria ignoranza e a riconoscere la verità, di contro alle proprie precedenti false presunzioni.

A buon diritto si può ritenere che questo metodo sia stato il primo pilastro del sapere scientifico. Se uno sa di non sapere cerca di accrescere le sue conoscenze cautamente, dando credito solo a prove provate. Da qui trasse origine l’abiura dei miti fantasiosi ai quali tutti i popoli primitivi si erano sempre affidati per dare un significato alle realtà che il loro intelletto non era in grado di spiegare.

Il nuovo modo “razionale” di osservare i fenomeni della natura diede concretamente avvio allo sviluppo di scienza e tecnica, il cui percorso di crescita era stato fino ad allora di tipo prevalentemente empirico.

Il “sapere di non sapere” accelerò dunque in modo decisivo il cammino dell’uomo verso quel progresso materiale di cui oggi stiamo vivendo lo stadio terminale, pre-agonico per il mondo della natura.

In questo momento, tanto tragico quanto decisivo per la prosecuzione della nostra avventura sulla Terra (e per quella di tanti altri esseri viventi da noi assurdamente compromessi), è quanto mai opportuno a mio avviso ripensare a quella locuzione e vedere come avrebbe dovuto essere formulata per limitare i danni che il nostro intelletto ha causato alla biosfera (e per ridurne i futuri).

Il “non sapere” cui si fa cenno è infatti privo di condizioni. Possiamo non sapere come si costruisce una casa, come si progetta una centrale nucleare, come si assembla una bomba atomica. Ma il non saperlo implica che possiamo anche impararlo, e quindi poi saperlo fare, come di fatto si è verificato. E se abbiamo imparato a costruire case, centrali nucleari e bombe atomiche, perché non dovremmo essere in grado di impiantare microchip nel cervello, colonizzare Marte o divenire immortali?

Sennonchè c’è anche il risvolto della medaglia, e cioè l’insieme dei problemi che la nostra dissennata opera di devastazione del pianeta pone oggi sotto gli occhi di tutti.

Sapevamo di non sapere, abbiamo immaginato che il sapere ci avrebbe resi onnipotenti, l’abbiamo in parte raggiunto e messo in pratica senza tener conto dei limiti delle nostre capacità cognitive.

Il nostro cervello ha subìto una evoluzione tanto abnorme quanto eccezionale rispetto a ogni altro essere vivente, ma le sue capacità elaborative sono rimaste infime rispetto alla complessità del mondo della natura.

Vi è anche un elemento dimensionale da prendere in considerazione: siamo minuscoli organismi abbarbicati su una briciola di materia che vaga nell’immensità dello spazio. Anche senza far ricorso a elaborati concetti filosofici, come possiamo immaginare che nella nostra scatola cranica risieda un sistema informatico in grado di padroneggiare l’intero universo?

La riprova dell’impossibilità di un siffatto padroneggiamento ci deriva proprio dai danni irreparabili che abbiamo causato all’ambiente e che ci stanno conducendo all’ecocatastrofe. Ogni avanzamento della nostra condizione materiale ha sempre generato squilibri nel mondo della natura, dapprima minimi, poi via via sempre maggiori fino ai livelli di guardia ora raggiunti. Tutto ciò a causa delle limitate capacità del nostro intelletto, non in grado di intervenire positivamente sugli ingranaggi ultra sofisticati della biosfera.

Quale avrebbe dovuto essere quindi la corretta locuzione che, in alternativa al “sapere di non sapere”, avrebbe potuto limitare i danni che stiamo procurando al pianeta?

Avremmo dovuto essere consapevoli della limitatezza delle nostre possibilità intellettive e avremmo dovuto coltivare il “sapere di non poter sapere”.

Ciò ci avrebbe indotto a minimizzare i nostri interventi nel corpo vivo della natura consigliandoci di accontentarci di quel poco (in realtà molto!) che la natura dispensa equamente a tutti i suoi figli.

Non avremmo dovuto desiderare di accaparrarci la fetta più grossa delle risorse della Terra, schiavizzando o portando all’estinzione le altre specie viventi, non fosse altro per non innescare quel processo distruttivo che alla lunga condurrà anche alla nostra autodistruzione.

Tutto questo ragionamento prescinde dall’altro elemento che ci ha sospinti su questa strada, e cioè quella “volontà di potenza” di nietzschiana memoria, che a mio avviso altro non è che la sublimazione dell’istinto di conservazione prodotta dall’abnorme evoluzione del cervello verificatasi nell’uomo.

Ma di questo elemento avremo occasione di parlare in altra sede.

Avendo citato Nietzsche mi sembra invece opportuno riportare il pensiero introduttivo di “Su Verità e Menzogna in senso extramorale” che il filosofo tedesco scrisse nel 1873, a soli 29 anni:

In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire.”

Un’ultima notazione di tipo personale.

Dal 2018 all’inizio del 2020 ho tenuto su Neuroscienze.net una rubrica dal titolo “I limiti dell’intelligenza”, il cui obiettivo era di argomentare come il nostro cervello, per quanto abnormemente evoluto e superiore in potenza elaborativa a quello di ogni altro essere vivente, non potesse oltrepassare una determinata soglia cognitiva, relativamente elevata ma in assoluto infima.

Terminata la collaborazione con quel sito, ho provveduto a inserire i quattordici articoli pubblicati nel mio blog personale, in modo da renderli liberamente disponibili a chiunque.

Questo l’indirizzo dove reperirli: https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2019/10/06/i-limiti-dellintelligenza/.

Con il presente scritto ho tentato di riassumere il senso di ciò che ho inteso dire nei vari articoli di quella rubrica, tanto breve quanto a durata, ma tanto densa quanto a significato.

venerdì 24 luglio 2020

La adattabilità del genere umano


Osservo in questi giorni il nuovo look degli spot pubblicitari che passano in TV. Oltre al rinnovato green-washing di cui mi sono già occupato (articolo “Il Green business che ci aspetta”) vedo un grande sfoggio di mascherine e di slogan inneggianti alla ripartenza dell’Italia. In pieno lockdown il ritornello era “io resto a casa”, ora è tornata la speranza e, con l’invito a mantenere il distanziamento sociale, si assiste a spot che mostrano ogni genere di attività lavorativa in corso di riapertura.
Fin qui nulla di strano. In fondo la pubblicità e la televisione rispecchiano i comportamenti della società, esattamente come i comportamenti della società sono influenzati dalla pubblicità e dalla televisione, similmente al classico girotondo del cane che si morde la coda.
Ma l’osservazione di questo stato di cose può offrire lo spunto per considerazioni di più ampio respiro.
Così come stiamo superando una pandemia che ci ha costretti all’isolamento sociale per tre lunghi mesi, in passato l’umanità ha superato crisi ben più micidiali.
Ricorderò solo alcune delle emergenze più gravi che hanno afflitto i nostri antenati:
  • le glaciazioni. L’ultima, Wurm, interessò il pianeta tra 110.000 e 12.000 anni fa. Nel periodo che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo la Terra fu caratterizzata da un clima freddo denominato PEG, piccola era glaciale
  • le pandemie. Andando a ritroso nel tempo, il genere umano è stato afflitto dal virus dell’Hiv/Aids (tra i 25 e 35 milioni di morti), dall’influenza Spagnola (tra i 40 e i 50 milioni di morti), dal Vaiolo (oltre 50 milioni di morti), dalla Peste e dal Colera (oltre 200 milioni di morti), solo per citare le malattie più letali
  • le guerre. Inutile qui fare il riassunto degli eventi e del numero di morti di cui è pieno ogni manuale di storia.
Ebbene, nonostante tutti questi eventi catastrofici e i tanti altri che per brevità ho omesso di annoverare, la popolazione umana ha continuato a crescere a dismisura, raggiungendo il ritmo parossistico di riproduzione che ben conosciamo.
Che interpretazione dare a questa realtà? Una e una sola: l’abnorme evoluzione patìta dal nostro encefalo (conseguenza di alterazioni casuali intervenute ai danni di alcuni geni) ci ha messi in grado di superare gli ostacoli che la natura ha posizionato via via sul nostro cammino, consentendoci di proseguire lungo il nostro folle itinerario distruttivo anziché fermarci, come sarebbe accaduto in assenza di quella abnorme evoluzione.
Scienza, tecnica, industriosità e lavoro sono riusciti nell’intento di farci sopravvivere a ogni disastro naturale e artificiale. Non solo. Ci hanno consentito di dilagare in ogni angolo del pianeta.
L’autoriflessione, altra peculiarità del genere umano derivata da quella abnorme evoluzione, ci consente inoltre di modificare le nostre piccole abitudini quotidiane in modo da adattarci ad ogni nuova consuetudine impostaci dalle circostanze esterne.
Per la verità questa è una caratteristica che abbiamo in comune anche con gli altri animali. Basti pensare a come questi ultimi si siano adattati per secoli a vivere nelle gabbie degli zoo, a esibirsi nei circhi o a lottare nelle arene.
È dunque l’istinto a sospingere ogni essere vivente a modificare il proprio stile di vita, pur di sopravvivere in ogni nuova situazione imposta dal destino.
Ma in noi questa adattabilità è mediata dalla autoriflessione, che ci induce a comprendere e condividere le nuove realtà in cui veniamo a trovarci e, quindi, a viverle più coscientemente.
Il nuovo look degli spot televisivi cui accennavo in apertura è la riprova più evidente di questa realtà.
La “plasticità” del nostro cervello, e quindi del nostro corpo, ci consentirà di affrontare prove ben più impegnative di Covid19. Mi riferisco ai disastri ecologici e alla distruzione dell’ambiente naturale che stiamo compiendo. Il collasso non avverrà di colpo e la lunga agonia che attende i nostri pronipoti sarà assai graduale.
Ad ogni effetto negativo per l’uomo causato dagli squilibri nella biosfera, verranno poste in atto contromisure che controbilanceranno per un certo periodo l’effetto di cui trattasi. Ma poi queste contromisure comporteranno a loro volta nuovi squilibri che causeranno nuovi effetti negativi, in una catena di azioni e reazioni sempre più stringente.
E nel corso di questa lotta disperata per la sopravvivenza, a ogni tappa l’essere umano modificherà i suoi comportamenti per adattarsi alle nuove situazioni.
Altro che isolamento e distanziamento sociale! Bisognerà cambiare le abitudini alimentari (finché ci sarà cibo), modificare il modo di viaggiare (torneranno in auge i cavalli?), vestirsi diversamente e imparare a coltivare parchi e giardini.
Non amo avventurarmi nel campo della fantascienza, ma qualche volta le immagini terrificanti del futuro che ci aspetta possono essere utili per indurci a tirare i freni di un veicolo che sta correndo a folle velocità.
Le mascherine e i nuovi slogan degli spot televisivi ci facciano riflettere su come potrà essere il nostro domani.

domenica 12 luglio 2020

Gli Amish, il "popolo semplice" che rifiuta il progresso


Tutti abbiamo sentito parlare degli Amish, per lo più come di una comunità folcloristica che vive in America rispettando usi e tradizioni di alcuni secoli fa.
Sappiamo che rifiutano il progresso, che si spostano usando calessi trainati da cavalli e che si vestono in modo eccentrico.
In genere le nostre conoscenze di questo popolo non vanno molto più in là.
Credo invece che la loro stessa esistenza e resistenza in pieno XXI secolo meritino un doveroso approfondimento, non fosse altro come testimonianza del fatto che è possibile vivere consumando poco e rispettando la natura nel bel mezzo degli Stati Uniti d’America, e non in una remota landa della foresta pluviale brasiliana.
A chi volesse effettuare questo approfondimento consiglierei di leggere il libro di Jacques Légeret “Amish, una comunità fuori dal tempo” (Claudiana Editrice) e quello di Andrea Borella “Amish” (Xenia Edizioni). Nel web sono disponibili anche numerosi siti sull’argomento e qualche film (tra cui il famoso “Witness” del 1985).
Il quadro risultante è di estremo interesse.
Innanzitutto, i numeri. Stiamo parlando di una popolazione di oltre 300 mila individui, distribuita in decine di Stati USA. La gran parte in Indiana, Ohio e Pennsylvania (qui si trova uno dei nuclei più consistenti, nella contea di Lancaster, a soli 250 km. da New York).
Non sono numeri eclatanti, ma sufficienti a far ritenere gli Amish qualcosa di ben diverso da un semplice fenomeno di costume. Il loro tasso di crescita demografica, oltretutto, è assai elevato, uno dei maggiori in assoluto: ogni coppia Amish mette al mondo una media di 7 – 8 figli.
Ma che non si tratti di un semplice fenomeno di costume lo testimonia anche tutta la storia degli Amish che affonda le sue origini nell’Europa di fine XVII secolo e, ancor prima, nel movimento anabattista del XVI secolo.
Non è il caso qui di scendere nei dettagli di queste origini, basti dire che l’anabattismo nacque dal rifiuto di elargire il battesimo ai neonati, riservando la celebrazione di questo sacramento ai soli adulti consenzienti.
Al giorno d’oggi, nella nostra società secolarizzata, questa controversia può apparire banale, ma all’epoca fu sufficiente a scatenare una vera e propria persecuzione contro i sostenitori di questa tesi (e di altre, tra cui l’egualitarismo e il disconoscimento delle autorità ecclesiastiche) e contro i vari movimenti che nacquero dalle scissioni prodottesi in seno all’anabattismo.
Una di queste, promossa da un vescovo svizzero di nome Jacob Ammann, diede vita al movimento Amish.
I seguaci Ammann, come quelli di Menno Simons (i Mennoniti), per sfuggire alle persecuzioni emigrarono a partire dal 1720 nel Nuovo Mondo, quell’America che era ancora una colonia inglese, ma nella quale vi erano enormi spazi in cui insediarsi.
Negli anni successivi l’ondata migratoria proseguì, al punto che in Europa non rimase nessun Amish.
Nelle nuove terre, il movimento si mantenne coeso, conservando tutta una serie di tradizioni religiose e sociali, a partire da una particolare lingua, il Pennsyilvania Dutch, sviluppatasi nell’America del XVIII secolo a seguito dell’immigrazione di decine di migliaia di persone di lingua tedesca.
La fonte principale di sostentamento di questo popolo è sempre stata l’agricoltura, attività nella quale gli Amish eccellono; nel praticarla utilizzano attrezzi e tecniche di secoli addietro e questa particolarità mi consente di introdurre l’argomento che vorrei maggiormente approfondire nel limitato spazio di un articolo, e cioè il rifiuto della modernità e del consumismo da parte degli Amish.
Per dissodare i campi usano un aratro trainato da un cavallo. “Per gli Amish soltanto il lavoro con il cavallo permette all’uomo di “rispettare” la terra, perché il trattore “schiaccia” troppo il suolo e non rispetta l’equilibrio divino.” (Jacques Légeret, cit., p. 129) Anche l’uso di fertilizzanti e pesticidi è ridotto al minimo. Ovunque possibile sono privilegiati i rimedi naturali.
Analogo discorso vale per tutte le altre attività produttive, relativamente alle quali gli attrezzi e le procedure manuali sono preferiti a quelli automatici.
Ma il rifiuto della modernità e della mondanità è ben più radicale, giunge a rigettare l’uso dell’elettricità pubblica. Per illuminare le case usano candele o lampade a olio o altri combustibili, per riscaldarsi accendono camini e stufe.
Se devono utilizzare per motivi particolari e inderogabili una fonte di energia elettrica, fanno ricorso a piccoli generatori autonomi che installano a una certa distanza dalla casa.
La mancanza del collegamento alla rete elettrica comporta il non utilizzo di televisione, radio e computer.
Ma la rinuncia a questi strumenti non è una questione puramente tecnica. In una delle periodiche riunioni per valutare l’impatto delle nuove tecnologie sulla vita della comunità, i maggiorenti Amish con potere decisionale tanti anni fa stabilirono che portare nelle case dei fedeli i messaggi della radio (e poi quelli della televisione, e poi ancora quelli di internet) avrebbe costituito un grave pericolo per la saldezza dei principi religiosi e morali del popolo Amish.
Essi temono i contatti con il mondo esterno, vedono come la vita degli “inglesi” (così chiamano gli americani e tutti gli altri stranieri) sia stressante, piena di preoccupazioni, banale, e cercano il più possibile di restarne lontani.
Non usano tutti quegli elettrodomestici e strumenti che funzionano con la corrente elettrica, dalla lavatrice alla lavapiatti, dall’aspirapolvere al frullatore, né quelli che funzionano con motore a scoppio, a iniziare dall’automobile fino alla gran parte degli strumenti agricoli.
La rinuncia all’automobile ha tanti significati: il non volersi allontanare dalla propria comunità, il dispregio per il mito della velocità, il non voler competere con chicchessia relativamente al modello di veicolo posseduto e così via.
Laddove vi sia una grave necessità di raggiungere luoghi lontani, gli Amish possono prendere il treno, l’autobus o un’auto a noleggio con conducente.
Conoscono le tecnologie più moderne e non escludono, in casi eccezionali, di farvi ricorso, ma non intendono utilizzarle nella quotidianità, ritenendosi soddisfatti di ciò che hanno e della vita che conducono.
Potrei elencare tante altre particolarità interessanti del popolo Amish, ma lo scopo di questo articolo è un altro, rispondere alla seguente domanda: è possibile esportare il modello sociale e comportamentale degli Amish in altri contesti, in modo da rallentare la folle corsa verso il disastro che contraddistingue la nostra era?
Gli Amish sono l’esempio di come sia possibile vivere bene consumando poco (e avendo quindi un’impronta ecologica assai leggera) nel bel mezzo del Paese più consumista del mondo.
Da noi e in tanti altri Paesi esistono movimenti che predicano la cosiddetta decrescita, ma hanno scarso seguito nonostante propongano uno stile di vita ben meno rigoroso di quello degli Amish.
Perché questa illogicità? A mio avviso i motivi sono due.
1) Il fattore religioso. Tutta la vita degli Amish ruota intorno alla fede in Dio, al rispetto delle tradizioni religiose ereditate dagli antenati e alla lettura e interpretazione della Bibbia condivise dalla comunità;
2) Il fattore sociologico. La rinuncia alle comodità offerte dal progresso tecnologico affrontata all’interno di un gruppo omogeneo di persone che parlano la stessa lingua, vestono i medesimi abiti e condividono le stesse abitudini, è più facilmente sostenibile di altre rinunce, magari più blande, ma da affrontare individualmente all’interno di una società che non le condivide.
Come fare dunque per convincere l’uomo contemporaneo a consumare meno e ad assumere uno stile di vita analogo a quello del popolo Amish?
Riportare in auge il vecchio Dio è impresa impossibile. Una volta che la ragione ha scalzato la fede, a quest’ultima rimane ben poca voce in capitolo e viene ascoltata da un numero sempre più ristretto di persone. Per mantenersi in vita, la fede deve scendere a compromessi continui, accettando le novità tecnologiche imposta dalla società dei consumi (con la solita scusa che non è lo strumento in sé a essere cattivo, ma l’uso che se ne fa …).
Dunque la ragione ha prevalso e l’“isola” Amish può sopravvivere proprio in quanto “isola”.
Ma l’assunzione di stili di vita meno consumistici non è un “optional”. Se vogliamo che la nostra specie (insieme alle altre) viva un po' più a lungo su questo pianeta, volenti o nolenti dovremo rinunciare a tanti gingilli tecnologici che oggi ci appassionano.
E se la riflessione individuale non è sufficiente a portarci in questa direzione, allora forse una teoria come il Cancrismo può aiutarci nell’intento.
Avere la consapevolezza di rappresentare per la biosfera una sorta di malattia, di disfunzione, può essere la molla in grado di far scattare in noi il desiderio di devastare meno l’ambiente e di preservare un po' di più la natura.
Ma questo è un altro discorso, da sviluppare in altra sede.

mercoledì 1 luglio 2020

Basta scienza!


Il 23 giugno 2020 Ugo Bardi ha pubblicato su Facebook (nel Gruppo The Seneca Effect) un post con la foto di una manifestazione in cui veniva innalzato un cartello con la scritta BASTA SCIENZA.
La manifestazione, organizzata dal movimento 3V (Vogliamo Verità Vaccini), si è svolta il 20 giugno in piazza Santa Croce a Firenze e vi hanno partecipato migliaia di persone contrarie all’uso dei vaccini, ma anche alla rete 5G, alla TAV e via dicendo.
Non entro nel merito di questi argomenti, a cui ho già dedicato un paio di articoli (vedi “Antivaccinismo e dintorni” e “La rete che ci sta per avvolgere”); vorrei invece soffermarmi sullo specifico discorso della scienza, che mi pare di assoluto rilievo.
A caldo ho così commentato il post: “Quel cartello andava issato migliaia di anni fa e doveva recitare: "No alla scienza". Ora è troppo tardi. Solo la scienza può tentare di rimediare ai guai che gli scienziati hanno combinato […]”
Cosa intendevo dire? Provo a rispondere infilando i ragionamenti uno dietro l’altro, in modo consequenziale ma anche estremamente sintetico, in modo da non annoiare chi legge e andare diritti al cuore del problema.
1) La scienza è figlia del pensiero astratto (di quel tipo di pensiero cioè che mette in relazione gli oggetti e ne ricava dei collegamenti immateriali)
2) il pensiero astratto nasce nell’uomo in modo graduale, man mano che il suo cervello cresce e con esso il numero dei neuroni
3) esiste una soglia di sviluppo neuronale, che nessuno è in grado di quantificare, al di sopra della quale inizia a formarsi il pensiero astratto e al di sotto della quale il pensiero rimane “oggettivo”, “concreto”, legato alle sensazioni e nulla più
4) una volta superata la soglia, l’uomo inizia a modificare la natura. Il pensiero astratto gli consente di immaginare forme nuove per gli oggetti esistenti e poi di modificarli come immaginato. Nasce così l’industria litica, poi la caccia di gruppo, la pastorizia, l’agricoltura ecc.
5) nasce la matematica, la geometria, la scienza
6) lentamente, passo dopo passo, si concretizza il mondo artificiale. La scienza mette a disposizione dell’uomo ritrovati sempre più sofisticati che gli consentono di impossessarsi degli spazi che la natura aveva riservato ad altre specie (animali e vegetali)
7) lo strumento mediante il quale l’uomo raggiunge gli obiettivi indicati dalla scienza è il lavoro (a questa attività, bollata un tempo come maledizione e oggi incensata come benedizione, ho recentemente dedicato l’articolo “La retorica del lavoro”)
8) la scienza consente all’uomo di moltiplicarsi a dismisura (tramite igiene diffusa, contrasto alle malattie ecc.), nonché di alimentare questa immensa moltitudine e di fornire energia alla ancor più grande moltitudine di macchine che scienza, tecnica e lavoro hanno prodotto (di questi argomenti tratta il mio nuovo libro “L’impero del cancro del pianeta”)
9) la scienza ha quindi contribuito in modo determinante all’edificazione di questa rete mondiale che sta soffocando la biosfera come le masse tumorali distruggono i tessuti sani degli ammalati di cancro
10) ma solo la scienza ha anche le chiavi per il sostentamento di questa enorme massa umana, per continuare a far marciare la macchina finché ci sarà carburante disponibile. Rinunciare oggi alla scienza significherebbe innescare anzitempo la catastrofe. Il mondo artificiale ha i secoli contati (o decenni?). Solo la scienza, la colpevole di tutto, può ancora elargirci cure palliative in grado di allungare un poco l’esistenza della biosfera che noi conosciamo. Dobbiamo rinunciarvi? Chi non tenterebbe di alleviare le sofferenze di un ammalato di cancro in fase terminale?
Ecco riassunti in 10 punti i termini del dramma che stiamo vivendo.
In Siberia si sono toccati 38 gradi di calore. La pandemia partita dalla Cina ha raggiunto tutto il mondo, in conseguenza del global warming, della deforestazione, della desertificazione, dell’inquinamento, della sovrappopolazione, e così via.
Tutto a causa della scienza, figlia del pensiero astratto, che ci ha consentito di dar vita al mondo artificiale.
E, prima ancora, a causa della crescita eccessiva del nostro encefalo.
Causa, non colpa. Qui nessuno è colpevole. È accaduto e basta.
Ma ora, al punto in cui siamo, credo che sia giunto il momento di svelare il vero senso del cammino che abbiamo sin qui percorso.
A questa “impresa” è consacrato il mio prossimo libro, che avrà per titolo “Rivelazione”, e per sottotitolo: “Discorso alle cellule malate”. Con questa opera, che vedrà la luce non prima del 2021, mi propongo di approfondire analiticamente il ruolo svolto dal nostro cervello, dal pensiero astratto e dalla scienza nell’infausta attività di distruzione della natura che stiamo portando avanti con ritmi sempre più frenetici.
Cionondimeno credo che il decalogo sopra riportato possa avere una sua utilità nell’incuriosire il lettore in buona fede sui problemi innescati dalla scienza e sul fatto che solo la scienza è in grado di decifrarli e di tentare di arginarli.
Un’ultima annotazione relativamente al movimento organizzatore della manifestazione di Firenze.
Un suo fan ha scritto: “BASTA SCIENZA!”, ma il secondo punto programmatico di questo neonato movimento afferma: “La Repubblica è fondata sul lavoro ed essa riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”.
Alla luce del ragionamento fin qui svolto (vedi punto 7) dovrebbe apparire evidente la contraddizione di chi intendesse fermare la “scienza” e al tempo stesso riconoscere al “lavoro” un ruolo centrale nella vita della Repubblica.
Ma tant’è! Protestare contro tutto e contro tutti è molto più facile che costruire un sistema ideologico coerente.

sabato 20 giugno 2020

Cancrismo e libero arbitrio


Annibale Carracci - Ercole al bivio (indeciso tra virtù e vizio)

Post di Bruno Sebastiani

Il pensiero umano, sin da quando ha iniziato a elaborare concetti astratti, si è diviso tra chi ritiene che Homo sapiens possa agire liberamente e chi lo nega.
Agli animali sarebbe preclusa questa possibilità poiché il loro cervello non elabora concetti astratti e il loro comportamento è guidato unicamente dall’istinto.
Già da questa introduzione appare chiaro come la diatriba sul “libero arbitrio” poggi sul fatto che il nostro cervello ha patìto una evoluzione abnorme, sconosciuta a ogni altra specie vivente.
E poiché, sin dal suo apparire, questa evoluzione abnorme è stata glorificata come l’evento più importante nella storia della biosfera, ne consegue che anche il libero arbitrio da allora è stato considerato condizione preminente rispetto alla “schiavitù” dell’istinto, tipica del mondo animale.
Le principali religioni, e in particolare le più diffuse, Cristianesimo e Islam, considerano il libero arbitrio una caratteristica imprescindibile della natura umana.
Questa attribuzione ha una sua ben precisa ragion d’essere: è l’espediente escogitato da profeti e teologi per giustificare la presenza del male nel mondo.
Come sarebbe stato possibile credere in un Dio perfettissimo che avesse creato degli esseri malvagi? L’ostacolo è stato aggirato dicendo che Dio aveva creato l’uomo (il “re del mondo”) tanto perfetto da essere libero, in grado cioè di decidere autonomamente del suo destino.
Salvo arrabbiarsi, lui, Dio, quando la scelta dell’uomo cade sul male anziché sul bene. E allora perché non “inclinarlo” verso il bene sin dall’inizio, impedendogli di fare il male?
Se è veramente onnipotente avrebbe potuto farlo!
In realtà il mondo della natura, come già detto, non gode di questa libertà. E, per di più, non conosce il concetto di bene e di male. O meglio. Il bene in ottica evoluzionista è ciò che tende a preservare la vita dell’individuo e a perpetrare quella della specie. Il male è ciò che vi si contrappone. Ciò all’interno di un complicatissimo sistema di pesi e contrappesi che mantiene la vita nel suo insieme in una perenne condizione di equilibrio instabile.
Ogni specie tende a espandersi ed è frenata in questa sua attività dalla capacità espansiva delle specie circonvicine, in un intreccio di territorialità e di convivenza che coinvolge tanto il mondo vegetale quanto quello animale.
La foresta con i suoi grovigli di piante, grida di animali, volo di uccelli, ombre, luci, vento e quant’altro è la rappresentazione vivente (o meglio: lo era) di questo mondo tanto complesso e tanto autoregolantesi.
Poi, come sappiamo, a un primate crebbe il volume del cervello e con esso la capacità di elaborazione delle idee.
Questo evento spostò gradualmente l’ago della bilancia a favore del primate in questione, divenuto nel frattempo “homo habilis”, poi “erectus” e infine “sapiens”.
Le specie circonvicine non furono più in grado di contrastare l’avanzata di questa specie, e iniziarono fatalmente a ritirarsi.
Ma la specie “homo” avrebbe potuto decidere di non espandersi ai danni delle specie circonvicine? Questa è la domanda fondamentale in merito alla questione del libero arbitrio.
Siamo tutti consapevoli di poter scegliere liberamente se andare al cinema o se restare a casa a guardare, la televisione.
Ma avremmo potuto scegliere di rinunciare all’utilizzo della parte superiore del nostro cervello, la neocorteccia, la quale, essendo intimamente connessa agli strati inferiori ove risiedono gli istinti primordiali, non poteva che sbilanciare a nostro vantaggio i delicati equilibri della natura?
Ebbene la risposta è no.
No in via teorica, per il semplice motivo che il cervello, sebbene tripartito, è tutt’uno (per un approfondimento su questo argomento si veda il primo capitolo del mio libro “Il cancro del pianeta consapevole” dal titolo “L’evoluzione abnorme del cervello”).
No in via empirica, in quanto tutta la storia del genere umano sta a dimostrare come dalle prime pietre levigate agli ultimi ritrovati della tecnica, ogni scoperta, invenzione, applicazione elaborata dal nostro cervello sia sempre stata usata per accrescere il nostro potere nei confronti del mondo della natura.
Tutto ciò premesso, vi è da dire che l’evoluzione umana, dopo aver conseguito a livello biologico l’abnorme evoluzione del cervello (la carcinogenesi), ha proseguito il suo cammino a livello culturale.
La ragione, frutto dell’evoluzione di primo tipo, si è dimostrata di gran lunga l’arma più potente nella lotta per la vita di darwiniana memoria, tanto potente da riuscire a modificare anche le proprie capacità elaborative.
Sinora lo ha fatto a proprio esclusivo vantaggio. Non solo. Lo ha fatto esaltando questa sua caratteristica, glorificando queste sue capacità: è il mito del continuo progresso che ha sospinto la ruota della storia sino al punto in cui ci troviamo.
Potrà la ragione modificare questo iter? Potrà assurgere al “libero arbitrio” e utilizzare se stessa contro se stessa?
Finora i segnali in questa direzione sono scarsi, diffusi solo a livello personale, del tutto insignificanti a livello socio - politico.
Il “servo arbitrio” impera a ogni latitudine. Tutti i popoli vogliono “progredire”, accrescere la produzione di ogni genere di beni, aumentare i consumi, arricchirsi, espandersi.
Questa è l’evoluzione culturale condizionata dagli istinti primordiali di sopravvivenza.
Contro questo modello c’è chi invoca la decrescita, la chiusura degli allevamenti intensivi, la rinuncia alla deforestazione e alle grandi monocolture, ma si tratta di una esigua minoranza, la cui predicazione, oltretutto, si scontra con il livello di complessità raggiunto dall’organizzazione sociale dell’impero del cancro del pianeta.
Una minoranza che esercita il libero arbitrio. È l’unico esempio che abbiamo.
Ed è per dare una voce più vigorosa a questa minoranza che nasce il Cancrismo.
Le idee possono muovere il mondo? Preferisco non pronunciarmi su ciò che accadrà in futuro, ma se esiste una tale possibilità, richiede senz’altro di poggiare su basi solide, su idee coerenti e ben strutturate intorno a una metafora fondante di sicuro impatto emotivo.
La metafora, l’immagine che io propongo è quella della cellula sana che si trasforma in cellula tumorale e si espande indefinitamente nel corpo dell’ammalato.
Lo choc provocato da questa immagine è del tutto voluto: intende smuovere le coscienze di quanti più umani è possibile dalla passiva accettazione degli impulsi originati a livello di cervello limbico e rettiliano per accedere finalmente ad uno spiraglio di libero arbitrio.
Se ciò non accadrà (e difficilmente accadrà), sarà la natura prima o poi a intervenire, presentandoci il conto del sontuoso banchetto sin qui consumato ai danni di tutte le altre specie vegetali e animali. C’è solo da augurarsi di non essere presenti nel momento in cui sul pianeta si scatenerà questo “redde rationem”.
Ma, visto che sto scrivendo queste pagine in tempo di pandemia, riflettiamo sul fatto che anche questo evento ha potuto verificarsi a causa della distruzione di tanti habitat naturali da noi causata, dalla nostra eccessiva concentrazione in spazi ristretti (le megalopoli) e dai numerosi mezzi di comunicazione che hanno trasformato il pianeta in un villaggio globale.
Le poche settimane di forzata inattività umana sono bastate alla natura per riprendersi qualche spazio che le era stato tolto.
Non so cosa accadrebbe se questo confinamento della nostra specie dovesse prolungarsi per mesi o anni.
A fianco di una espansione di tante specie vegetali e animali ai nostri danni, assisteremmo all’inceppamento della macchina sociale, con tutte le conseguenti gravi problematiche.
Ma cosa accadrà una volta superata l’emergenza sanitaria? Se tutti riprenderanno le loro abituali attività, proseguiremo la nostra folle corsa verso il baratro.
Vale dunque la pena di fare un estremo tentativo per conquistare realmente il libero arbitrio e volgere l’uso della ragione contro se stessa.
Il Cancrismo non vuol essere un “divertissement” letterario, ma una vera e propria rivoluzione culturale in questa direzione.

lunedì 15 giugno 2020

La retorica del lavoro: più lavoriamo, più distruggiamo il pianeta


Per via di tutta la faccenda del coronavirus, questo interessante post di Bruno Sebastiani è rimasto in coda nella lista dei post e ora arriva un po' in ritardo rispetto alla data del 1 Maggio che ne era l'origine. Comunque, meglio tardi che mai e vale comunque la pena di leggerlo.

Un post di Bruno Sebastiani


Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Io, in qualità di amministratore del Gruppo nonché di ideologo del Cancrismo, ho così commentato: “Per il Cancrismo il lavoro è lo strumento attraverso il quale abbiamo devastato il pianeta! Non vedo cosa ci sia da festeggiare!
L’estensore del post ha replicato che “il senso di questo post era un altro e c’è scritto chiaramente”.
A questo punto concedo al mio interlocutore il beneficio della buona fede, ma credo che l’occasione sia propizia per fare un po’ di chiarezza su tutto l’argomento.
Coloro che festeggiano il 1° maggio apprezzano lo spirito di questa festa, e cioè l’aspirazione alla giustizia sociale da conseguire con l’accesso a forme di lavoro equamente retribuite, prive di rischi, non degradanti né eccessivamente faticose.
In realtà anche i datori di lavoro, imprenditori, industriali, amministratori ecc. hanno buon diritto a celebrare questa festa, perché è proprio attraverso il lavoro (oltre che il capitale) che essi conseguono i loro obiettivi produttivi e quindi economici.
Il lavoro in definitiva costituisce uno dei miti fondanti della nostra società, tanto da essere stato inscritto nell’articolo 1 della Costituzione italiana (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e da essere citato tra i principali obiettivi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Art. 3: “L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato […] su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale […]”).
È un mito che è sempre andato di pari passo con quello del progresso tecnico e scientifico, ma che rischia, in un futuro ormai prossimo, di separarsi inesorabilmente da quest’ultimo: l’automazione dei processi produttivi rende infatti sempre più superfluo l’intervento dell’uomo, che, oltretutto, rappresenta uno degli elementi di costo maggiore di tali processi.
Sulla graduale espulsione dell’uomo dal mondo del lavoro e sulla sua progressiva sostituzione con dispositivi automatici e robot esiste un’ampia letteratura e ad essa rimando chi volesse approfondire l’argomento. In questi giorni sto leggendo “Homo Deus – Breve storia del futuro” di Yuval Noah Harari e anche in questo saggio ho trovato un’ampia descrizione di quella che sarà la società di domani, dominata dagli “algoritmi informatici” anziché da quelli “biologici” (alias “uomini”; vedasi il capitolo 9 dove il paragrafo titolato “La classe inutile” si apre con questa frase: “La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere come impiegare tutti gli individui superflui.”)
Ma tralasciamo in questa sede il problema della disoccupazione prossima ventura e concentriamoci invece sul significato della retorica del lavoro tuttora imperante.
Iniziamo col dire che la glorificazione di questa attività tipica dell’essere umano è abbastanza recente. Nasce e si diffonde tra la metà e la fine del settecento con la prima Rivoluzione industriale e poi con la Rivoluzione francese.
Fino ad allora il lavoro manuale non aveva goduto di buona fama.
Per chi crede nei miti, la sua origine deriverebbe nientemeno che dalla maledizione divina conseguente al peccato originale, quando Dio scacciò Adamo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo, a sua volta maledetto e destinato a produrre spine e cardi. Questa attività sarebbe stata dolorosa e Adamo avrebbe potuto mangiare il pane solo con il sudore del suo volto. La donna avrebbe partorito tra grandi sofferenze. Così il capitolo 3 della Genesi.
Fin qui il mito. Ma anche quando dalla preistoria si passò alla storia, la considerazione per il lavoro non crebbe gran che.
I Faraoni utilizzarono migliaia e migliaia di schiavi per edificare le piramidi e stessa sorte toccò a miriadi di cinesi (o loro schiavi) quando fu costruita la Grande Muraglia.
Le antiche società per caste collocavano la categoria dei lavoratori al punto più basso della organizzazione sociale.
Tra gli indù i “bramhani” o sacerdoti erano al vertice gerarchico delle caste, seguiti dagli “kshatriya” o guerrieri. Solo dopo di loro venivano i “vaishya”, agricoltori e mercanti e i “shudra”, servi addetti ai lavori manuali più umili.
In Occidente le caste erano forse meno rigide che in Oriente, ma fino al tardo Medio Evo, e anche dopo, il clero e l’aristocrazia si spartirono i primi posti della gerarchia sociale, lasciando alla nascente borghesia (gli abitanti delle città) e ai servi della gleba (i lavoratori della terra) le posizioni meno degne.
Con la Rivoluzione industriale le cose iniziarono a cambiare, ma con estrema gradualità. La classe lavoratrice “urbana” e “operaia” andò acquistando consistenza numerica, ma non ancora dignità e considerazione; i contadini rimasero per tutto l’Ottocento tristemente subordinati ai proprietari terrieri (si veda il bell’affresco della società contadina realizzato da Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”)
Ma i lavoratori acquisirono un poco alla volta coscienza della loro importanza per il sistema industriale e capitalistico. Si unirono in organizzazioni sindacali e dettero vita a vasti movimenti rivoluzionari. Uno di questi conquistò il potere in Russia e lo tenne per quasi tutto il Novecento, espandendo la sua influenza su buona parte del globo terracqueo.
A est e a ovest il mito del lavoro crebbe sempre più in diffusione e importanza.
Lo stesso simbolo prescelto dai partiti delle classi lavoratrici (la falce e il martello) rendeva assai bene l’idea del culto nutrito per questa attività umana.
D’altra parte analogo culto venne tributato al mito del lavoro da parte delle classi egemoni (politici, industriali, finanzieri), fino al punto, come abbiamo visto, di inserirlo in testa alle Costituzioni nazionali e sovranazionali.
Ma in ottica cancrista quale è il reale significato del lavoro? Quale il valore da attribuirgli?
Iniziamo a dire che il lavoro è l’attività mediante la quale l’essere umano trasforma la materia a proprio vantaggio.
Si manifesta originariamente nella cosiddetta “industria litica”, oltre 2 milioni di anni fa, come conseguenza delle accresciute capacità encefaliche dei nostri progenitori che da ominidi si trasformarono in “Homo habilis”.
Proprio l’abilità è una delle principali caratteristiche del lavoro, la capacità di trasformare la materia prima (pietre, minerali, legno, esseri viventi) in “altro da sé”, in qualcosa di diverso da ciò che sarebbe stata in natura in assenza dell’intervento umano.
La pietra divenne la punta di una lancia, il ramo si trasformò in un arco, la pelliccia degli animali fu usata per ripararsi dal freddo.
La pietra non fu più pietra, il ramo non fu più ramo e gli animali furono uccisi per il nostro comfort.
Da allora è trascorso un tempo immemorabile e il significato del lavoro dal punto di vista concettuale non è cambiato.
Si è però modificato enormemente da un punto di vista quantitativo e qualitativo.
I piccoli, insignificanti sfregi perpetrati ai danni di un’ecosfera ricca di foreste lussureggianti sono divenuti immani scempi su un corpo planetario esausto, sfruttato all’estremo limite.
Tutto ciò grazie al lavoro.
La responsabilità, naturalmente, è della mente che ha guidato la mano, non della mano in sé. Ma l’atto che ne è conseguito, l’atto lavorativo, è lo strumento attraverso il quale abbiamo distrutto l’equilibrio che regnava nel mondo della natura e attraverso il quale non siamo in grado di ricomporlo.
Come e perché festeggiamo dunque questo strumento di distruzione?
La spiegazione che io do è la seguente:
  • con il lavoro abbiamo edificato una società ultra-complessa e sovrappopolata, quella che nel mio nuovo libro ho definito “l’impero del cancro del pianeta”
  • pur se ci rendiamo conto dei guai combinati, la via del ritorno ci è preclusa
  • non resta pertanto che andare avanti sperando che il progresso tecnico / scientifico trovi rimedi all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento, al riscaldamento globale ecc.
  • l’andare avanti implica nuovo lavoro, e ciò perpetua il mito di questa attività mediante la quale abbiamo devastato la biosfera.
La retorica del lavoro come valore fondante della società è destinato dunque ad accompagnarci ancora per un certo numero di anni, unitamente agli altri miti corresponsabili della distruzione dei tessuti sani di Gaia, il mito del progresso, della crescita economica, dell’aumento della produzione e dei consumi.
Poi, come abbiamo già accennato, qualcosa cambierà. Ma non intendo parlare di situazioni future che non si sa con esattezza come evolveranno.
Preferisco rivolgermi ai miei contemporanei e dire loro: non festeggiate il lavoro, rimpiangete piuttosto il mondo che il lavoro ha distrutto e continua a distruggere! L’attività che voi celebrate il 1° maggio è in tutto analoga a quella delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro!