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giovedì 4 giugno 2020

L'impero del cancro del pianeta: il nuovo libro di Bruno Sebastiani

 L'impero del cancro del pianeta


Chi di voi, osservando dal finestrino di un aereo le case, le strade, i capannoni e i campi coltivati sottostanti, non ha avuto l’impressione di trovarsi in presenza di un melanoma, di un vero e proprio tumore maligno ai danni del corpo del pianeta?
In gergo “cancrista” questa si chiama la “prova dell’aeroplano” e ne hanno parlato, tra gli altri, Lewis Mumford e Konrad Lorenz.
Questa raffigurazione terrificante è la conferma visiva di come ormai l’intero globo terracqueo sia diventato un immenso, sconfinato impero dell’essere umano, ovvero del cancro del pianeta.
Ad esso è dedicato il mio nuovo libro, intitolato per l’appunto “L’impero del cancro del pianeta” (Mimesis editore) e sottotitolato “L’organizzazione della società ai tempi dell’ecocidio”.
Per la presentazione dei libri precedenti vedere Il cancro del pianeta e Il cancro del pianeta consapevole.
Ho cercato con questo saggio di scendere metaforicamente dall’aeroplano e di calarmi dentro alla realtà della malattia per vedere come le cellule neoplastiche si sono organizzate al fine di sostenere il loro esorbitante aumento numerico.
Si sa che il cancro è originato da una o più cellule che subiscono un’alterazione genetica tale da rifiutare il meccanismo omeostatico che blocca la proliferazione delle cellule quando il loro numero diventa eccessivo. Venendo meno questo freno, la popolazione delle cellule alterate straborda ovunque, come è accaduto alla nostra specie.
Ogni cellula va nutrita e se il loro numero è elevatissimo, occorre trovare elevatissime quantità di cibo. È il problema con il quale da decenni convive drammaticamente il genere umano, senza che gran parte di esso si renda conto dei problemi e dei drammi che si celano dietro agli scaffali pieni dei supermercati.
Ho cercato di affrontare questa realtà con l’aiuto di altri autori che prima di me l’hanno indagata con grande competenza. Tra questi Raj Patel, Lester R. Brown, Philip Lymbery e Stefano Liberti. Arricchito dai dati, dalle notizie e dai pareri di costoro e di altri autori, ho avuto una ulteriore conferma che quanto accaduto negli ultimi decenni si inquadra perfettamente nell’ottica della teoria cancrista.
Il compito che mi sono assunto, infatti, non è di effettuare una nuova indagine in aggiunta a quelle già esistenti, ma di mostrare all’uomo contemporaneo come i fatti e i processi sociali che si svolgono sotto ai suoi occhi altro non sono che tasselli di un comportamento tipicamente cancerogeno.
Molti autori hanno descritto i mali che affliggono il mondo per cause antropiche, ma poi non sono giunti a trarre le conclusioni più coerenti.
Un nome su tutti, quello di Aurelio Peccei. Il fondatore del Club di Roma nel suo saggio “Cento pagine per l’avvenire” (Giunti Editore, Firenze 2018) scrive:
È […] in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie […] homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione […]? (pag. 56)
Un […] comportamento aberrante della nostra specie la rende gravemente colpevole davanti al tribunale della vita. Si tratta della sua proliferazione esponenziale, che non si può definire che cancerosa.” (pag. 66)
Siamo per caso una specie di geni, destinati in fin dei conti a trionfare su tutto? O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri, magari mostri geniali, che finiranno per restar vittime del loro stesso malsano operare?” (pag. 80)
Questi dubbi e questi atti di accusa non si concretizzano però in una coerente teoria cancrista, ma si stemperano in un atto di fede che sinceramente non condivido:
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (pag. 81)
Questa affermazione fa capire come Peccei, nonostante le sue intuizioni sulla nocività del genere umano, sia sempre rimasto sostanzialmente antropocentrico.
La sua preoccupazione non è per la gravità delle condizioni della biosfera, ma per quella del genere umano.
Per un ulteriore approfondimento del pensiero del fondatore del Club di Roma vedere “Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?
È come se un medico si preoccupasse dello stato di salute del tumore anziché di quello dell’ammalato.
Credo che questa metafora renda bene l’idea della inversione di prospettiva operata dalla teoria cancrista: non è del genere umano che ci dobbiamo preoccupare ma della biosfera nel suo complesso, anche perché noi comunque della biosfera facciamo parte e se le sue condizioni di salute migliorassero pure noi ne beneficeremmo.
Ma, al punto in cui siamo, questa opzione non è realistica, al contrario tutto sembra indicare che la strada intrapresa vada esattamente in direzione opposta.
Questo è l’oggetto del mio saggio: vedere come la società si sia strutturata per far fronte alle esigenze alimentari ed energetiche di una popolazione mondiale in costante aumento e, soprattutto, come questa organizzazione non consenta inversioni di rotta, pena l’impossibilità di garantire cibo e energia ai miliardi di uomini e donne che abitano il pianeta.
L’agricoltura intensiva, gli allevamenti concentrazionari e l’acquacoltura sono altrettanti capitoli de “L’impero del cancro del pianeta” dove vengono analizzati origini, sviluppo e prospettive dei sistemi più efficaci per produrre cibo. A guardarli da vicino, questi sistemi non possono che suscitare orrore, ma in un altro capitolo del libro spiego come il pensare di sostituirli con la cosiddetta “agroecologia” sia pura utopia.
È una ulteriore riprova che la via imboccata non ha alternative e non può essere percorsa a ritroso. Anche se la crescita della massa tumorale che noi rappresentiamo per la biosfera un giorno dovesse arrestarsi per mancanza di risorse, ciò avverrebbe al limite di ciò che il Pianeta può offrire in termini di terra coltivabile e di animali macellabili, dopo aver distrutto tutte le cellule sane vegetali e animali esistenti.
Ciò significherebbe comunque il collasso della biosfera, la morte dell’ammalato di cancro.
Il discorso è ancora più drammatico se si pensa alla situazione di quello che ho chiamato il “cibo per le macchine”, ovvero l’energia necessaria a far funzionare i miliardi e miliardi di apparati, dispositivi, congegni e altre attrezzature artificiali realizzate dall’uomo nell’illusione di rendere più comoda la sua vita a tempo indeterminato.
Un apposito capitolo del libro è dedicato a tale realtà e alla disperata ricerca di quelle inesauribili fonti di energia pulita che dovrebbero risolvere ogni nostro problema, ma che appaiono ancora ben lontane dal poter sostituire i combustibili fossili.
A tal proposito il Cancrismo ritiene però che, anche se queste fonti di energia pulita e rinnovabile si rendessero disponibili e fossero in grado di soddisfare le esigenze di tutte le macchine del mondo, la salute della biosfera non ne trarrebbe beneficio.
L’uomo - cancro del pianeta ne approfitterebbe infatti per dilatare a dismisura i suoi consumi ai danni di ogni altra residua realtà sana della biosfera, e con questo suo comportamento non farebbe che affrettare i tempi del collasso.
Non si tratta di pessimismo né di visione cupa della vita. È solo oggettivo realismo che trova la sua spiegazione nella metafora che assimila l’essere umano a una cellula tumorale e l’intera umanità alla massa neoplastica che divora lentamente l’organismo dell’ammalato di cancro.
Pochi pensatori, e non tra i più famosi, hanno sin qui avuto il coraggio di esplicitare una teoria così radicale, e io, giunto al termine della mia “trilogia” su “Il cancro del pianeta”, ho avvertito il desiderio di curiosare in rete per vedere chi mi avesse preceduto nel denunciare il comportamento cancerogeno di Homo sapiens.
È nata così la corposa Appendice su “I precursori del cancrismo” posta in calce al volume. Si tratta del primo documento che riunisce personaggi provenienti da esperienze diverse ma uniti nella visione cancrista dell’essere umano.
Di ognuno ho analizzato i punti di contatto e quelli di divergenza rispetto alla teoria sviluppata nei miei tre saggi.
Ma un elemento su tutti accomuna gli autori presi in considerazione: nessuno di essi ha mai sistematizzato le proprie intuizioni in uno o più lavori storico - dottrinali di ampio respiro, tali cioè da configurare la nascita di una teoria o corrente filosofica sulla nocività dell’essere umano per la biosfera.
Con questo mio nuovo libro e con i due precedenti mi auguro di essere riuscito a colmare almeno in parte questa lacuna nella storia del pensiero, in attesa che altri riprendano questo tema per svilupparlo e diffonderlo in modo ancor più autorevole.

domenica 17 maggio 2020

Il punto di vista di UniCredit -- Megatrend di prima dell'era del virus


Questo post di Bruno Sebastiani è stato scritto prima dell' "Era del Virus" ma contiene elementi che rimangono interessanti. Anche dopo il grande scombussolamento che abbiamo vissuto, i "megatrend" di cui ci racconta Sebastiani rimangono in moto.

Guest post di Bruno Sebastiani


Il rischio che si corre parlando di futuri scenari politici mondiali, di cambiamento climatico, di nuovi assetti demografici e di altri argomenti relativi ai “massimi sistemi” è di interloquire con un ristretto numero di fedeli lettori, sempre gli stessi, i quali sono già ampiamente convinti di ciò che si racconta loro.
Se dunque talvolta capita di trovare conferme ai nostri convincimenti sul triste futuro che ci aspetta presso autorevoli istituzioni “terze”, estranee cioè alla nostra abituale cerchia di interlocutori, questo è un avvenimento degno di essere raccontato, ed è ciò che mi accingo a fare.
Giorni addietro mi trovavo in banca per una delle solite noiose operazioni burocratiche che la società “complessa” ci costringe a fare. Davanti a me altre persone erano alle prese con analoghe incombenze e la cosa andava per le lunghe.
Per ingannare il tempo presi in mano il primo opuscolo colorato che si trovava esposto su una mensola. Titolo altisonante: “Avere un punto di vista chiaro sui mercati finanziari”. Gli diedi un’occhiata e mi sembrò che contenesse argomenti di un certo interesse. Lo portai a casa e qui lo sfogliai con maggior calma.
L’opuscolo, “Outlook 2019”, è ancora in distribuzione nelle Filiali UniCredit, anche se a breve sarà sostituito da un “Outlook 2020”. Ma gli argomenti di cui tratta travalicano il breve arco di tempo di 12 mesi e pertanto le considerazioni che riporta sono da ritenersi valide sul lungo periodo.
La sezione dell’opuscolo che ha maggiormente attirato la mia attenzione è stata quella titolata “Megatrend”, definiti come “Forze potenti che, gradualmente ma inesorabilmente, ridefiniscono in modo irreversibile gli scenari economici, sociali e politici entro cui la civiltà evolve.”
Ottima definizione, mi son detto proseguendo nella lettura per capire quali fossero queste “forze potenti” secondo gli analisti di UniCredit, i quali subito dopo precisano: “Istituti di ricerca e organizzazioni internazionali sono sostanzialmente concordi nell’individuare almeno 5 megatrend che sono all’opera in questa fase storica.”
Dunque queste 5 “forze potenti” che ci accingiamo ad esaminare non rispecchiano solo il punto di vista di UniCredit, ma sarebbero condivise a livello mondiale dai portavoce dei cosiddetti “poteri forti”. Motivo in più per approfondire la questione.
1° megatrend - «Un ribilanciamento del potere economico e politico a favore di paesi emergenti, specialmente asiatici, il cui ruolo sta evolvendo da quello di produttori a quello di consumatori. Si stima che entro il 2030 il 59% dei consumi globali sarà riconducibile alla classe media dell’Asia. Se le attuali traiettorie di crescita economica verranno confermate, la Cina sostituirà gli USA nel ruolo di superpotenza nell’arco di un decennio e l’India rivaleggerà con Washington nel 2050
Nulla da eccepire. Ma questo “ribilanciamento” cosa comporterà quantitativamente a livello di consumi mondiali e di conseguente sfruttamento delle risorse? Su questo punto Uni Credit tace, ma l’aver sottolineato la questione ha la sua importanza: significa aver offerto ad altri la possibilità di quantificare le conseguenze dei cambiamenti previsti.
2° megatrend – «Il progresso tecnologico … è un megatrend di cui sono immediatamente percepibili gli effetti. Lo sviluppo di Intelligenze Artificiali sempre più sofisticate, la robotizzazione di un crescente numero di mansioni, la capacità di archiviazione ed elaborazione dei dati in crescita esponenziale, così come l’onnipresenza della rete con lo sviluppo dell’Internet of Things, stanno ridisegnando profondamente dinamiche produttive e assetti sociali. Sviluppi per molti aspetti entusiasmanti e forieri di grandi opportunità che pongono però anche sfide importanti … in tema di lavoro e occupazione …»
La mia opposizione all’ottimismo di UniCredit (gli “sviluppi entusiasmanti forieri di grandi opportunità”) ha già formato oggetto di un paio di articoli (“Verso una rete sinaptica mondiale” e “Verso le macchine pensanti”) che invito il lettore a consultare, per comprendere come i rischi della connettività globale vadano ben al di là dei problemi occupazionali che pur costituiranno grave intralcio al funzionamento della macchina sociale.
3° megatrend – «Aumento e progressivo invecchiamento della popolazione costituiscono il terzo dei megatrend che sta sviluppando i suoi effetti. Oggi appena 4 paesi hanno una quota di popolazione di oltre 60 anni che supera il 30% del totale, ma nel 2050 questo valore salirà al 55%. Per quella data gli over60 nel mondo saranno 2,1 miliardi, oltre il doppio dei 962 milioni attuali. Nel 2042 i soli ultra 65enni dell’Asia supereranno la popolazione di Europa e USA messe assieme. Dinamiche che comportano sfide e opportunità per tutto ciò che riguarda l’assistenza sanitaria e le soluzioni previdenziali.»
Anche questa mega – tendenza è innegabile, come le precedenti, e attiene al delicato settore della “natalità”. Molti auspicano una riduzione della popolazione mondiale attraverso il controllo delle nascite. Ma questo tipo di politica, oltre ad essere di difficile attuazione (richiederebbe provvedimenti coercitivi ben poco liberali), implicherebbe – se attuata – difficoltà socio – organizzative di ampie dimensioni. Pochi giovani dovrebbero sostenere molti anziani, con il rischio che l’aumento dei consumi in certe aree geografiche (vedi 1° megatrend) vanifichi i risultati attesi dalla politica di contenimento della popolazione.
4° megatrend – «Popolazione più numerosa, più anziana ma anche sempre più concentrata nelle grandi città: l’urbanizzazione è il 4° megatrend. Si calcola che nel 2050 i due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle grandi città. Nuove dotazioni infrastrutturali, ripensamento della mobilità e nuove soluzioni abitative sono le questioni chiave da risolvere per gestire questi cambiamenti.»
L’estensore di UniCredit, pur indicando correttamente le criticità che ci aspettano, non può fare a meno di alimentare la speranza (è il suo lavoro). Cerca anzi di far intravvedere agli investitori la possibilità di lucrare sulle “nuove dotazioni infrastrutturali, sul ripensamento della mobilità e sulle nuove soluzioni abitative”. Non gli avrebbero certo passato un testo che avesse messo in risalto il dramma che dovranno affrontare i nostri pronipoti nell’inferno di megalopoli sempre più affollate, calde e maleodoranti. Ancora una volta la medesima realtà risulta osservabile da differenti angolature e lo sarà fino al momento in cui la Natura offesa presenterà ad Homo sapiens il conto delle sue malefatte. E, in parte, anche l’estensore di UniCredit è costretto ad accennare a tale problema nell’ultima “forza potente” che prende in esame.
5° megatrend – «Ultimo megatrend, non certo per importanza, è il cambiamento climatico globale, con i rischi di scarsità di risorse idriche e alimentari che implica. Gli anni più caldi delle serie storiche si concentrano al 90% nell’ultimo ventennio, e nel 2030 la domanda di acqua potabile supererà del 40% l’offerta. Saranno quindi indispensabili nuove e più efficienti tecnologie per il controllo delle emissioni così come produzioni idriche, agricole e alimentari meno sensibili agli effetti del clima
Anche in questo caso tutti i danni da noi inferti alla biosfera vengono proposti alla clientela della banca come altrettante occasioni per effettuare lucrosi investimenti in nuovi settori iper – tecnologici. Non viene specificato come si potrà produrre più acqua potabile o far viaggiare camion e aerei con motori non inquinanti ecc. ecc. E si può star certi che invenzioni e applicazioni scientifiche in tal senso varranno escogitate, prodotte e distribuite, così come è stato fatto sin da quando la rivoluzione industriale ha stravolto il nostro modo di vivere. Ma fino a quando?
I tempi dell’economia sono brevi, quelli della finanza brevissimi, quelli della Natura molto più lenti, ma inesorabili!
Al di là delle finalità che hanno mosso la banca a redigere l’opuscolo esaminato, i 5 “megatrend” individuati costituiscono effettivamente i punti nodali con cui l’umanità dovrà confrontarsi nell’immediato futuro. Conviene pertanto approfondirli e sviscerarli in un’ottica di sopravvivenza anziché in quella di profitto proposta da UniCredit. Così riusciremo forse a prolungare per un po’ l’agonia della biosfera e a rinviare la dipartita dell’organismo che ci ospita e che noi irresponsabilmente stiamo divorando dall’interno.

venerdì 24 aprile 2020

Antivaccinismo e dintorni


Demetrio Cosola, La vaccinazione nelle campagne, 1894

Guest Post di Bruno Sebastiani

Parlare di natalismo / antinatalismo o di diete vegane / onnivore è come entrare in una cristalleria in sella a un elefante. Comunque ti muovi fai danni.
Eppure io ci ho provato, con due specifici articoli (“È meglio essere nati o sarebbe stato meglio non essere mai nati” e “Carne o non carne? Siamo animali vegetariani o onnivori?”) e, tutto sommato, credo di essermela cavata abbastanza bene, limitando al minimo i danni (solo qualche bicchiere rotto, e di scarso valore).
Incoraggiato da queste esperienze positive ho deciso di inoltrarmi in un altro campo minato, quello dei vaccini.
L’argomento è quanto mai di attualità, tenuto conto dell’emergenza sanitaria in corso e della speranza che tanta parte della popolazione ripone in un vaccino prossimo venturo, in contrasto con la chiassosa minoranza no-vax.
L’argomento è oltremodo spinoso, perché implica l’estrinsecazione di giudizi di valore non solo sui vaccini in se stessi, ma anche su tutte le grandi scoperte che in campo medico hanno consentito di aumentare la speranza di vita di miliardi di persone.
Una questione veramente scottante, ancor più delicata se si tiene conto che il tema della salute è uno dei pochi intorno al quale vi è consenso unanime da parte di tutti, forze politiche, componenti culturali, movimenti religiosi ecc.
Persino i no-vax si oppongono ai vaccini in quanto li ritengono inutili o, peggio, pericolosi per la salute, non già perché salvando vite umane contribuiscono alla sovrappopolazione del pianeta.
Eccoci dunque subito giunti al nocciolo della questione: i no-vax perseguono lo stesso fine dei “vaccinisti”, ovvero la maggior salute possibile per il maggior numero possibile di esseri umani. Solo che lo perseguono in modo diverso, mettendo in risalto i rischi, veri o presunti, connessi alla somministrazione dei vaccini.
In quegli aggettivi, veri o presunti, si cela la sostanza dell’argomento, che quindi è di natura esclusivamente e squisitamente scientifica.
Se fosse acclarato che i vaccini contribuiscono alla difesa dello stato di salute della popolazione senza eccezione alcuna e che, a contrariis, in assenza dei medesimi tale stato di salute decadrebbe fatalmente, la querelle sarebbe risolta, nessuno più si dichiarerebbe no-vax.
Ma le eccezioni esistono, non potrebbe essere diversamente.
Cionondimeno l’efficacia dei vaccini è dimostrata statisticamente in modo più che ampio. Malattie come il vaiolo, la poliomielite, la difterite, il tetano sono state debellate pressoché totalmente grazie alla vaccinoprofilassi. Altre affezioni sono tenute validamente sotto controllo con la vaccinoterapia.
Dopodiché tra i milioni, miliardi di vaccinazioni eseguite, qualche “incidente di percorso” si è verificato in passato e certamente si verificherà in futuro.
I nostri organismi non sono tutti uguali e i singoli preparati vaccinali non sono sempre perfetti al 100%. Come in tutte le cose umane vi è sempre un margine di errore e di imprevedibilità.
Così pure sappiamo che gli interessi economici dettano legge anche nel campo della salute e le industrie farmaceutiche non sono certamente degli istituti filantropici.
Ma attaccarsi a queste “microfessure” del sistema per mettere in discussione la solidità dell’intero edificio rappresenta, da parte dei no-vax, una posizione estrema, sinceramente indifendibile.
Un conto è la critica contingente di singoli aspetti, un altro la negazione della efficacia dei vaccini tout court.
Il discorso potrebbe dunque chiudersi qui.
Ma sarebbe un’occasione sprecata.
Credo infatti che il variegato e combattivo mondo antinatalista, vegano, animalista, antispecista, no vax ecc. meriti una considerazione tutta particolare per l’impegno e la passione con cui affronta le sue battaglie.
Ne parlo come di un unico schieramento perché ritengo che le idee e le azioni di tutti questi “attivisti – estremisti” siano collegate da un sottile filo rosso, anche al di là degli intendimenti dei diretti interessati.
Un loro denominatore comune è certamente la critica alla società industriale e consumista. Un altro è l’avversione per la dittatura dell’economia. Un altro ancora è la forte repulsione per l’opera di devastazione della natura compiuta da Homo sapiens.
Ce ne è abbastanza per tentare di fare un discorso onnicomprensivo.
Quali sono i punti di forza e quelli di debolezza di questo mondo, così variegato e combattivo?
Il punto di forza è sostanzialmente uno: la crisi di valori che sta attraversando il modello di vita occidentale, oramai divenuto il modello di riferimento per tutta la popolazione mondiale.
I punti di debolezza sono diversi.
In primo luogo la negatività del punto di forza, ovvero il fatto che le varie frange dello schieramento si riconoscono nella critica al modello industriale-consumista ma non hanno alle spalle una comune ideologia né un metodo di analisi storica condiviso.
Vi è così un ecologismo marxista, un altro cristiano, un altro anarco-primitivista e così via.
Inoltre, alla frammentazione ideologica se ne aggiunge un’altra di tipo contenutistico.
Vi è chi difende i diritti degli animali, chi si oppone ai vaccini, chi è contro la sovrappopolazione, chi lotta contro l’alta velocità, chi protegge determinate specie animali in pericolo di estinzione, chi si oppone alla deforestazione, chi si batte per i diritti dei più deboli, chi è contro la vivisezione ecc. ecc.
Non che le singole posizioni siano in contrasto le une con le altre, ma di fatto l’impegno dei singoli si esplica su una pluralità di fronti e, come ben sa chi si occupa di strategia militare, per vincere le battaglie occorre concentrare l’attacco in un determinato punto dello schieramento avversario, evitando di disperdere le forze in mille direzioni.
Infine un altro punto di debolezza, forse il più rilevante, di questo mondo è la contiguità con movimenti e personaggi di dubbia credibilità, professionalmente dediti al sensazionalismo, alla ricerca delle cause occulte e della dietrologia ad ogni costo, i complottisti a oltranza, quelli delle scie chimiche, dei cerchi nel grano, dell’uomo che non è mai sceso sulla luna, dei servizi segreti che hanno abbattuto le torri gemelle ecc. ecc. (per carità di patria ometto di parlare di terrapiattismo!)
Signori: non c’è bisogno di cercare spiegazioni strambe a una realtà che sta di fronte ai nostri occhi e che è ben visibile sia da chi contesta questo sistema sia da chi lo sostiene.
Per fornire un canone interpretativo basato unicamente sul buon senso e quindi alla portata di ogni intelletto ho sviluppato il Cancrismo, la teoria secondo cui il nostro comportamento su questa terra è analogo a quello delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro.
L’immagine non deve spaventare. L’analogia ha unicamente lo scopo di far aprire gli occhi ai candidi speranzosi in un futuro migliore.
Assumendo come punto di partenza la nocività di Homo sapiens quale diretta conseguenza dello sviluppo del suo cervello che gli ha consentito di contravvenire alle leggi di natura, tutta la storia del genere umano può essere riletta in ottica regressista.
Ogni progresso dell’indagine filosofica, delle scienze, della tecnica anziché rappresentare un successo di cui vantarsi è da intendere come un avanzamento nell’edificazione di un mondo artificiale sempre più avulso dall’armonia naturale della biosfera.
Questi progressi hanno consentito proprio quella crescita numerica indifferenziata della popolazione che è all’origine della malattia del pianeta.
In tale ottica tutto trova la sua logica spiegazione.
Non è il mangiar carne il delitto, ma il mangiarla in quantità industriale, costringendo miliardi di poveri animali a una vita del tutto innaturale.
Del mangiar vegetali nessuno ha mai detto che sia un delitto, ma io soggiungo che invece lo è aver iniziato a coltivare i campi per procurarseli artificialmente e in gran quantità.
Non è l’aver tanti figli il delitto, ma l’aver alterato il rapporto nascite / morti innescando l’aumento iperbolico della popolazione.
La rivoluzione agricola è la prima responsabile di questo stato di cose, dopodiché qui si inserisce nuovamente il discorso dei vaccini, insieme a quello degli antibiotici e dei tanti farmaci salvavita di cui ci gloriamo. Sono i secondi responsabili del grande balzo della sovrappopolazione, unitamente alle nuove condizioni igienico sanitarie e organizzative della società contemporanea.
Da notare che la necessità di particolari presìdi sanitari, tra cui i vaccini, deriva dal fatto che la diffusione di molte malattie avviene per contagio, ed è quindi favorita dal concentramento di molti esseri in spazi ristretti, situazione tipica delle città.
Prova ne sia che per arginare la diffusione della recente pandemia si è fatto ricorso al distanziamento sociale e all’isolamento, situazione in cui vivevano abitualmente gli uomini primitivi e anche gran parte dell’umanità in epoca pre-urbana.
Dobbiamo dunque predicare l’abolizione dell’agricoltura, dei vaccini e di ogni altra cura medica?
Ovviamente no. Ci siamo incamminati su una via che non può essere percorsa a ritroso e non è in nostro potere di esseri intelligenti il comportarci come se non avessimo l’intelligenza, che è la causa di ogni male.
L’unica cosa che possiamo fare è di cercare di tirare un po’ i freni, di modo che la nostra folle corsa verso il collasso rallenti e consenta a qualche generazione in più di esseri viventi di godere del poco che resta di quello che un tempo era chiamato paradiso terrestre.
Per ogni approfondimento sul Cancrismo vi rinvio al sito de “Il cancro del pianeta”.

sabato 29 febbraio 2020

Il potere della parola


Un Post di Bruno Sebastiani


Sin dalla più remota antichità è ben noto il potere della parola parlata e ancor più di quella scritta.
“Verbo”, “Logos” sono due tra le definizioni che meglio descrivono questo concetto.
Il linguaggio verbale articolato è prerogativa unica della nostra specie. Ha potuto svilupparsi a seguito della abnorme evoluzione intervenuta nella scatola cranica del genere Homo.
Man mano che aumentava il numero dei neuroni, delle sinapsi e dei relativi collegamenti all’interno della neocorteccia, le nostre capacità verbali andavano affinandosi e articolandosi in parole, frasi, ragionamenti.
Da allora l’organizzazione sociale dell’umanità si è sviluppata come ben sappiamo. Ma quello che vorrei sottolineare con questo mio intervento è che la gran parte dei ragionamenti di Homo sapiens si è basata su alcune parole chiave dal significato comunemente e universalmente accettato.
Una di queste è proprio la parola “uomo” e tutte le sue derivazioni: umanità, umano e, ovviamente, anche il suo femminile, donna, e i suoi dintorni, famiglia, figli, nipoti, genitori, e le sue estensioni, umanesimo, persona ecc. A tutti questi vocaboli è convenzionalmente attribuito valore più che positivo, sacro. La supremazia del genere Homo è un diritto acquisito e conclamato. L’essere supremo stesso, dio (altra parola chiave), ci ha investiti di tale diritto, che nessuno può e deve contestare.
Questa idea, questa visione del mondo, ruota intorno alla parola “uomo”, che rappresenta il perno, l’asse portante di tutta la costruzione ideologica che abbiamo edificato per giustificare il nostro dominio nei confronti di ogni altro essere vivente.
Una serie di altri sostantivi (e relativi aggettivi) beneficiano di un valore altrettanto positivo in quanto intimamente connessi alla condizione umana: intelletto, ragione, coscienza e così via, (intelligente, raziocinante, cosciente ecc.).
In opposizione a queste “parole chiave” dall’intrinseco valore positivo, all’interno del vocabolario ne sono rintracciabili altre dall’intrinseco valore negativo.
“Bestia”, “animale”, “belva” sono le più generiche, “asino”, “maiale”, “serpe” ecc. le più specifiche.
Inutile dire che la valenza contraria trae origine dall’assenza di quelle qualità tipicamente “umane” che attribuiscono valore positivo a tutto ciò che ruota intorno al concetto di Homo.
E se agli esseri “bruti” viene talvolta riconosciuta qualche caratteristica positiva (fedeltà, perseveranza, acutezza) è solo perché le stesse appartengono anche al genere umano.
In presenza di questo stato di cose, che possibilità di diffusione può avere una teoria che attribuisca valore negativo a quel ben dell’intelletto che accrescendosi ci ha sospinti fuori dallo stato di natura? Pressoché nulla, perché alla parola Homo e a tutti i suoi derivati è collegato un’intrinseca e imprescindibile accezione positiva.
Questo è il grande potere della parola, contro il quale è impossibile battersi.
Proviamo allora ad aggirare l’ostacolo.
Sostituiamo la parola “uomo” con la parola “cellula”.
Quest’ultima è “l'unità morfologico-funzionale degli organismi viventi” (Wikipedia).
E noi uomini, mutatis mutandis, non siamo forse -insieme a tutti gli altri esseri viventi- le unità morfologico-funzionali di un organismo più ampio denominato biosfera?
Senza scomodare l’ipotesi Gaia di lovelockiana memoria, è ben intuitivo il fatto che ogni essere vivente non è isolato, non è fine a se stesso, ma si mantiene in vita solo in quanto appartiene a un sistema composto da miriadi di altri esseri tra loro interagenti. Potremmo forse vivere se non ci fossero le piante e gli animali ad alimentarci? Lo stesso discorso vale per ogni altro vivente, e dunque non solo è plausibile ma è anche ben accettabile l’idea di considerarci cellule tra le cellule, piccole unità morfologico-funzionali del fenomeno “vita”, tipico del pianeta Terra.
Quale vantaggio è ottenibile definendoci “cellule” anziché “uomini”? Che il sostantivo “cellula” non trascina con sé quel pesante fardello di significanze sacre e inviolabili indissolubilmente legate al secondo termine.
Potremo forse così compiere in modo indolore quell’atto di estraniazione indispensabile per far emergere la negatività di quanto accaduto nel nostro cervello a seguito della sua abnorme crescita.
Anche le cellule nascono, si alimentano, si riproducono e muoiono. Ma nessuno ha mai pensato di attribuire loro quell’aurea di sacralità connessa ad ogni essere umano.
Senza questi piccoli mattoncini non ci sarebbe alcun essere vivente, così come senza piante e animali non ci sarebbe vita sulla Terra.
Osservandoci come cellule anziché come uomini riusciremo forse a comprendere la limitatezza delle nostre dimensioni, tanto materiali quanto “spirituali”. Riusciremo anzi a comprendere come questo ultimo genere di dimensioni sia solo un frutto onirico partorito dalla nostra mente a seguito del suo abnorme sviluppo (sulla limitatezza delle nostre capacità intellettive vedasi l’articolo “La nostra intelligenza tra microcosmo e macrocosmo”).
E poi, guardandoci intorno, riusciremo forse a compiere l’ulteriore passo verso la comprensione del fatto che da cellule “sane” ci siamo tristemente trasformati in cellule “malate”, anzi in cellule “maligne”.
La devastazione del pianeta, la nostra espansione territoriale ai danni di ogni altro genere di cellule “sane” sulla Terra (tanto vegetali quanto animali) potrà forse essere più agevolmente compresa nella sua drammatica realtà.
Cellule, non uomini, e per di più cellule malate, non sane.
Il potere della parola “uomo” e dei suoi derivati va disinnescato, pena la impossibilità di comprendere la realtà.

giovedì 31 ottobre 2019

Il Vero Responsabile


Guest post di Bruno Sebastiani.  

La gran parte degli ambientalisti accusa la rivoluzione industriale e il capitalismo di essere i responsabili del dissesto che sta conducendo verso il baratro la biosfera di questo pianeta.
Questi due sistemi, uno tecnologico e l’altro economico, sarebbero i “super colpevoli” impersonali che, di generazione in generazione, si tramandano la responsabilità della crescente distruzione planetaria.
Calandoci poi nei singoli periodi storici degli ultimi duecento anni, nel corso dei quali è maggiormente esplosa l’aggressività dell’uomo contro la natura, constatiamo che industrialismo e capitalismo si sono impersonificati in singoli personaggi del mondo produttivo, politico e finanziario, via via accusati di essere i responsabili “fisici” della catastrofe.
Da Napoleone Bonaparte a Edison, dai Rothschild ai Krupp, da Benz a Ford, dagli Agnelli a Berlusconi, solo per citare una serie di nomi estratti a casaccio da un elenco di centinaia, migliaia di personaggi che, per un verso o per un altro, avrebbero contribuito allo stravolgimento dell’equilibrio che regolava la vita di tutti gli esseri viventi.
Ora è la volta di Trump e di Bolsonaro.
Il primo è accusato di essere il numero uno di tutti gli imperialisti che negano i danni del cambiamento climatico e dello sfruttamento eccessivo delle risorse.
Il secondo viene ritenuto colpevole di un danno circoscritto ma di estrema gravità: la dissoluzione dell’ultimo polmone verde del pianeta, la foresta amazzonica.
Ma davvero sono costoro i veri responsabili dei guai che stiamo passando noi e tutte le altre specie di piante ed animali?
Relativamente al sistema produttivo – economico che sta divorando le cellule sane del pianeta sarà appena il caso di accennare a alcuni differenti contesti storico-politici che ci inducono quantomeno a dubitare sulla unilateralità delle colpe.
Il comunismo, ad esempio, cercò in tutti i modi di accelerare l’industrializzazione dell’URSS con i famosi piani quinquennali di staliniana memoria e, relativamente ai Paesi aderenti all’ex Patto di Varsavia, sono ben note le tragiche condizioni ecologiche in cui furono lasciati dopo il dissolvimento dell’Impero sovietico (il disastro di Chernobyl ne fu la testimonianza più eclatante);
Inoltre i maggiori inquinatori attuali del pianeta sono i Paesi asiatici, con la Cina in prima fila. Dei dieci fiumi che riversano negli oceani il maggior quantitativo in assoluto di materie plastiche ben otto sono asiatici (e due africani). Anche riguardo al dramma della deforestazione dell’Amazzonia la Cina ha gravi responsabilità: gran parte della soia colà prodotta è infatti destinata ad ingrassare i maiali che si trasformano in cibo sulle tavole dei cinesi.
Quest’ultima annotazione ci introduce all’approfondimento di ciò che sta accadendo nel cuore del Brasile.
Da semplici ricerche in rete apprendiamo che l’opera di deforestazione dell’Amazzonia è iniziata a partire dagli anni Quaranta del Novecento, con il fine dichiarato di avere più terra a disposizione per l’agricoltura, di guadagnare con la vendita del legname e di sfruttare i giacimenti minerari esistenti.
Anche la costruzione di numerose vie di comunicazione per collegare le grandi città ha contribuito all’opera di disboscamento ed ha incoraggiato la costruzione di nuovi villaggi, peggiorando la situazione.
All'inizio del XXI secolo l’opera di deforestazione ha subìto una consistente riduzione, salvo ripartire negli ultimi mesi mediante l’incendio di vaste aree.
Complessivamente in poco meno di un secolo più di un quinto della foresta è stato distrutto.
Tutto ciò, ovviamente, non assolve Bolsonaro per le sue azioni nefaste, ma sta a significare che il problema era preesistente e continuerà ad esistere dopo la dipartita del signor Bolsonaro, ammesso che la biosfera del pianeta sopravviva a tale data.
Sul tema della deforestazione sarà utile fare anche un’altra riflessione.
L’Europa, il continente in cui viviamo, era completamente ricoperto da foreste fin quando “homo sapiens” introdusse l’agricoltura 10-12 mila anni fa, costruì villaggi, città e vie di comunicazione, nonché fece spazio ad ampi pascoli per gli animali destinati a nutrirlo.
Ho già trattato questo tema nell’articolo “La distruzione della natura nell’antichità”, pubblicato su Effetto Cassandra il 13 luglio 2019.
Il “delitto” di Jair Bolsonaro, dunque, è stato già commesso dai nostri padri migliaia di anni fa e, nel nostro piccolo, anche noi continuiamo a commetterlo ogni volta che abbattiamo un albero perché le sue radici sollevano l’asfalto di una strada o perché intralcia il passaggio delle onde della rete 5G.
Chiedere ai brasiliani di non deforestare o ai cinesi di non mangiar carne è come dire: noi abbiamo sfruttato tutte le nostre risorse, ci siamo abbuffati fino ad ora e continuiamo a farlo, ma voi, per cortesia, non fatelo, sennò il clima cambia e la biosfera, noi compresi, muore.
Noi abbiamo sfruttato le vostre risorse anche a casa vostra, con il colonialismo e l’imperialismo ed oggi vorremmo continuare a farlo con il “land grabbing”, ma voi per cortesia rispettate l’ambiente e mangiate poco, altrimenti andiamo incontro al collasso.
Non avvertite l’ipocrisia di un tale ragionamento?
Ma quindi la colpa di tutti i disastri che ci circondano è di Trump, di Bolsonaro e dei loro simili o non siamo piuttosto noi, tutti noi, specie “homo sapiens”, ad essere i veri responsabili di ciò che accade?
E più in particolare. Lo siamo sempre stati o vi fu un momento nella nostra preistoria in cui deviammo dalla strada maestra per imboccare il vicolo cieco e senza ritorno in cui ci troviamo?
Il secondo capitolo del mio libro Il Cancro del Pianeta è titolato: “Il cervello: l’origine di tutti i mali”. In esso ho cercato di argomentare come il nostro encefalo a un certo punto della preistoria abbia iniziato gradualmente ad accrescersi, fino a consentirci di contravvenire alle leggi di natura (alias, a deviare dalla strada maestra).
È lui il vero responsabile, e con esso tutti noi che lo ospitiamo.
Prendersela con Trump e Bolsonaro o contro il capitalismo e l’industrialismo significa individuare falsi bersagli per cercare di sfuggire alle nostre responsabilità di specie.
Io combatto questi cattivi capi di stato, quindi sto dalla parte dei buoni. Purtroppo non è così!
Solo una teoria che dimostri all’essere umano la sua vera natura di cellula maligna di Gaia può renderci consapevoli della nocività di “homo sapiens” in quanto “homo sapiens”.
A tale teoria ho dato il nome di cancrismo. Spero che possa contribuire a risvegliare le coscienze e quantomeno a rallentare la nostra folle corsa verso il baratro.

sabato 13 luglio 2019

LA DISTRUZIONE DELLA NATURA NELL’ANTICHITA’ - Un post di Bruno Sebastiani



di Bruno Sebastiani

Una leggenda assai diffusa anche nel mondo ambientalista è che la devastazione della natura da parte dell’uomo sia di origine piuttosto recente.
Lo sfruttamento intensivo e sconsiderato delle risorse naturali del pianeta sarebbe iniziato un paio di secoli or sono o poco più, allorquando il progresso tecnologico e il sistema produttivo capitalista sfociarono nella rivoluzione industriale.
La rischiosità di una simile impostazione ideologica consiste nel fatto che la colpa di quanto accaduto sembrerebbe imputabile a particolari contingenze storico – filosofico – scientifiche e non ad Homo sapiens in quanto tale.
Per sfatare questa leggenda e ristabilire l’esatta catena delle responsabilità mi sembra pertanto utile riferire, seppur succintamente, dei misfatti compiuti dai nostri lontani antenati già all’alba dei tempi.
Sono solo alcuni esempi che ho rintracciato tra le mie letture. Ognuno di voi potrà effettuare ricerche più approfondite e sono certo che, ahimè, troverà ulteriori prove a sostegno della tesi che il genere umano iniziò a distruggere irrimediabilmente il mondo della natura sin da quando il nostro cervello si evolse in modo abnorme.

IL RACCONTO DI CLIVE PONTING

Un grande storico del comportamento distruttivo del genere umano è stato l’inglese Clive Ponting. Nel suo libro “Storia verde del mondo” (Torino, S.E.I., 1992) ha raccontato dettagliatamente le stragi e devastazioni compiute dall’umanità ai danni della natura.
Uno dei suoi meriti maggiori, a mio avviso, è stato proprio quello di riferire non solo dei disastri recenti, ma anche di quelli più antichi, a riprova che l’atteggiamento di Homo sapiens nei confronti dell’ambiente è stato di cinico e prepotente sfruttamento sin da quando lo sviluppo del suo cervello gli ha consentito di passare da habilis ad erectus e poi per l’appunto a sapiens.
Questo atteggiamento, di cui finalmente iniziamo a renderci conto, consiglierebbe di cambiare l’aggettivo che ci contraddistingue da “sapiens” a “vastator” (devastatore): chi vorrà farsi promotore di tale modifica?
Ma lasciamo direttamente la parole a Clive Ponting:
«La riduzione degli habitat naturali e l’estinzione delle specie su scala locale si può notare dal tempo dei primi insediamenti umani. Nella valle del Nilo l’estensione della zona coltivata, la bonifica delle paludi e la caccia sistematica degli animali portò all’eliminazione di molte specie originariamente native della zona. Al tempo del Regno Antico (2950 – 2350 a.C.) animali come gli elefanti, i rinoceronti e le giraffe erano scomparsi dalla valle. Il diffondersi della colonizzazione nel Mediterraneo produsse gli stessi risultati … Nel 200 a.C. il leone e il leopardo erano estinti in Grecia e nelle zone costiere dell’Asia Minore … La consuetudine romana di uccidere deliberatamente animali selvatici nel corso di giochi e altri spettacoli aumentò il massacro. Si può dedurre l’entità della continua distruzione perpetrata per divertire le folle di tutto l’impero romano, anno dopo anno, per secoli, dal fatto che a Roma furono uccisi 9000 animali nel corso delle celebrazioni durate 100 giorni per l’inaugurazione del Colosseo, e 11.000 per festeggiare la conquista della nuova provincia della Dacia da parte di Traiano.»
«I grandi spettacoli dell’impero romano cessarono in Europa Occidentale dopo il V secolo, ma la distruzione del patrimonio naturale continuò in altri modi.»
«L’ultimo avvistamento di un lupo di cui si ha notizia avvenne nel 1486 in Inghilterra, nel 1576 in Galles, nel 1743 in Scozia e in Irlanda nel primo Ottocento. Anche l’orso bruno era comune in tutta l’Europa Occidentale medievale (pur essendosi estinto in Gran Bretagna entro il X secolo). Tuttavia il numero di esemplari diminuì costantemente in seguito alla caccia e alla distruzione dell’habitat e ora l’animale sopravvive solo in alcune remote zone montuose. La stessa sorte toccò al castoro, anch’esso comune nell’Europa medievale e catturato con le trappole per la sua pelliccia, che si estinse in Gran Bretagna già nel XIII secolo e in seguito in quasi tutto il resto d’Europa.» (pp. 180 – 182)
Queste brevi frasi estrapolate da un discorso più articolato riguardano i danni inferti alla fauna. Ma l’accanimento contro selve e foreste non fu da meno. Nel capitolo “Distruzione e sopravvivenza” del libro citato vi è un dettagliato resoconto dei danni ambientali provocati circa 10.000 anni fa con l’introduzione dell’agricoltura. I cacciatori – raccoglitori si nutrivano di ciò che trovavano o di ciò che riuscivano a catturare. La loro “impronta ecologica” era pertanto minima, insignificante. Ma per far spazio ai campi occorreva disboscare e poi irrigare, operazioni che furono tra le prime a modificare in modo sensibile il panorama e l’habitat dei territori popolati dall’uomo. Ovviamente queste perturbazioni crebbero di intensità e di ampiezza con il trascorrere del tempo, man mano che la comunità umana diveniva più numerosa. Ma la linea di tendenza era tracciata e di lì in avanti non fece che crescere. Per i dettagli rinvio il lettore al capitolo del libro di Ponting.

IL RESOCONTO DI RICHARD LEAKEY

Il famoso paleoantropologo keniano di origine britannica Richard Leakey nel suo libro “La Sesta Estinzione” dedica un apposito capitolo, il decimo, a “L’impatto dell’uomo nel passato”.
Qui esamina i casi di estinzione
  1. della megafauna in America alla fine del Pleistocene (13 / 12.000 anni fa),
  2. dei moa giganteschi della Nuova Zelanda (circa 1.000 anni fa),
  3. dell’avifauna delle isole Hawaii.
1. Il primo caso è ben noto anche e soprattutto per gli studi condotti da un altro famoso paleontologo, Paul Martin, autore di “Preistoric Overkill”. Più recentemente Stefano Mancuso parla di questa strage nel suo libro “L’incredibile viaggio delle piante” citando uno studio del 2009 di tre studiosi americani “Quantifying the Extent of North American Mammal Extinction Relative to the Pre-Anthropogenic Baseline” (reperibile in rete).
In estrema sintesi: i primi rappresentanti di «Homo sapiens, abilissimo cacciatore, le cui capacità predatorie si erano affinate per decine di migliaia di anni in Africa e in Eurasia» giunsero in America dall’Asia (passando dal ponte di terra dello stretto di Bering) in coincidenza con la fine dell’ultima era glaciale. Si trattò di una «espansione esplosiva … facilitata da una illimitata disponibilità di risorse – terre e prede». Risultato di questa «inesorabile avanzata» fu lo sterminio di tutti i mastodonti che popolavano in gran numero il continente americano e, conseguentemente, dei loro predatori («leoni, orsi giganteschi, tigri dai denti a sciabola …») a cui venne meno la principale risorsa alimentare.
Una vera estinzione di massa provocata dall’uomo.
2. Le isole che oggi fanno parte della Nuova Zelanda ebbero il privilegio di non essere intaccate dalla presenza umana sino a circa 1.000 anni fa, quando furono raggiunte e colonizzate da un popolo di origine polinesiana, i ben noti “maori”.
La fauna locale era formata esclusivamente da uccelli «ma dei tipi più straordinari, molti dei quali inetti al volo. Protagonisti di questo palcoscenico furono i moa giganteschi, creature simili a struzzi alte più di tre metri e pesanti oltre 250 chilogrammi».
Inutile dire che anche in questo caso i moa e gli altri uccelli fecero una brutta fine: «I resti dei moa dimostrano che i maori sfruttavano gli uccelli come fonte di cibo – li cuocevano in forni a terra – e per ricavarne materiali come le pelli, con le quali si vestivano, e le ossa, che lavoravano per fabbricare armi e gioielli. Gusci d’uovo svuotati servivano come contenitori per l’acqua. Finora nei siti archeologici sono stati rinvenuti gli scheletri di mezzo milione di moa … i maori devono aver macellato i moa per molte generazioni prima che gli uccelli si estinguessero.»
3. Il caso delle Hawaii è emblematico. Trattandosi di uno degli arcipelaghi più isolati del mondo, ospitava specie animali e vegetali uniche, non presenti altrove. Tutta questa varietà scomparve per colpa dell’uomo, come sempre. Ma «fino a poco tempo fa gli studiosi davano … per scontato che la devastazione ecologica … fosse una conseguenza della colonizzazione europea, avvenuta alla fine del Settecento.» E invece a partire dal 1970 furono compiuti studi approfonditi da parte di più di un naturalista ed emerse che il patrimonio di biodiversità tipico delle Hawaii «si era estinto a distanza di qualche secolo dall’arrivo dei primi coloni polinesiani».

IL MISTERO DELLE NAVI VICHINGHE

Per concludere questa nostra breve carrellata sui delitti ecologici commessi da Homo sapiens ben prima dell’era contemporanea, può essere di un qualche interesse svelare il segreto dei “drakkar”, le famose navi con le quali i Vichinghi navigarono dalla Scandinavia sino al nord America superando le tempeste dell’Atlantico.
Ce lo racconta il professor Andreas Hennius, direttore della sezione Archeologia dell’Università di Uppsala in un suo studio dal titolo “Produzione di catrame in età vichinga e sfruttamento del territorio” citato da un articolo di Repubblica del 19 novembre 2018 dove si dice che:
Il segreto dei vichinghi era il catrame: i drakkar erano resi totalmente impermeabili da molti strati di catrame che proteggevano lo scafo. I vichinghi usavano per ogni nave una quantità di catrame fino a dieci volte superiore a quella impiegata normalmente all'epoca, e a tal fine deforestarono e costruirono presso le loro città e villaggi pozzi per la produzione di catrame con il legname, per poi trasportarlo nelle città costiere e nei loro porti.”
“… senza i passi avanti per l'epoca rivoluzionari compiuti dai vichinghi nella tecnica e tecnologia di produzione del catrame, le loro spedizioni transoceaniche non sarebbero state possibili …”
Prima di allora, la produzione di catrame era svolta, in Nord Europa e altrove, su base artigianale. ... A partire dall'VIII secolo d.C. … aumentò drasticamente in Scandinavia.”
I vichinghi riuscirono a raggiungere una produzione di catrame pari a quella industriale costruendo molti pozzi per bruciare le sostanze vegetali e produrre catrame presso i villaggi vicini alle foreste di pini, ampiamente disboscate.”
Per inciso è appurato che anche i Fenici, i Greci e tutti gli altri grandi popoli navigatori dell’antichità disboscarono a man bassa per realizzare le loro navi e le loro case. I cedri del Libano furono le prime vittime illustri di questo sterminio.
Altro che visione idilliaca dell’antichità contrapposta alla nostra voracità odierna: da quando abbiamo iniziato a ragionare ci siamo rapportati al mondo della natura in modo brutale e sopraffatorio.
E per giustificare questo nostro atteggiamento ci siamo persino attribuiti presunte investiture divine che ci avrebbero autorizzato a disporre del creato a nostro piacimento e volontà.
Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma l’origine della devastazione viene da molto lontano ed è tragicamente coeva dell’abnorme evoluzione patìta dal nostro cervello.