Articolo già apparso su Apocalottimismo in data 29 settembre 2018.
"Le coordinate ideologiche e la logica culturale della nostra epoca si possono riassumere nella seguente constatazione: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”
Mark Fisher
Il capitalismo è già stato dato per morto varie volte, eppure oggi più che mai domina l’umanità. Finora ha dimostrato un grado di resilienza e di adattabilità molto elevati, tanto che da ogni situazione che poteva essergli fatale, il capitalismo è uscito trasformato, ma anche più forte che mai, come l’Idra di Lerna. E’ però indubbio che, attualmente, fronteggia una crisi molto profonda su cui fiumi di inchiostro sono stati versati dagli analisti più brillanti, così come dai complottari più fantasiosi.
Qui vorrei proporre un punto di vista un po’ diverso dal solito su alcuni dei punti più discussi. Il dati macroeconomici sono interamente ricavati dalla monumentale opera di Thomas Piketty “Il Capitale nel XXI secolo”, discussi però alla luce della fisica delle strutture dissipative che lo storico francese non prende in considerazione.
Data la complessità dell’argomento, gli dedicherò 10 successivi articoli che spero di poter pubblicare con scadenza quasi regolare. Salvo ripensamenti, gli argomenti saranno questi:
1 – Le tre regole auree del capitalismo.
2 – Quanto capitale c’è nel capitalismo?
3 - Disparità della ricchezza fra realtà e fantasia.
4 – Quanto rende il capitale?
5 – Paesi emergenti e paesi sommergenti.
6 – Distruggere il debito.
7 – Lo studio del capitalismo fra scienza e politica
8 – Capitalismo e cannibalismo.
9 – Capitale e politica.
10 – Che fine farà il capitalismo?
Premessa
Gli unici due paesi per cui esistono statistiche economiche complete dalla nascita del capitalismo fino ad oggi sono il Regno Unito e la Francia che ne furono la culla. Per il XX secolo abbiamo dati consistenti anche per gli Stati Uniti, mentre per il resto del mondo i dati disponibili sono frammentari e/o inaffidabili. Tuttavia, considerando le strette affinità fra i sistemi politici e economici nel “mondo occidentale”, possiamo farci un’idea abbastanza precisa di cosa sia accaduto nel mondo in cui il capitalismo è nato e cresciuto, ma che ora rappresentano una periferia “fané” di un mondo che ha il suo centro propulsore in Cina e, secondariamente, in altri grandi paesi asiatici come India e Malesia. Questo pone dei limiti molto consistenti alla possibilità di estrapolare delle valutazioni generali, ma già conoscere meglio il capitalismo nostrano può essere interessante.Prima di addentrarci nel discorso, è bene premettere subito una cosa: gli economisti ancora oggi tendono perlopiù a considerare che i fattori di produzione sono due: capitale e lavoro. Ciò aveva senso ai tempi di Ricardo ed ancora a quelli di Marx poiché allora non c’erano limiti alla possibilità di scaricare l’entropia derivante dai processi industriali e l’unico limite all'estrazione di risorse era il capitale disponibile per finanziare l’impresa. Il limite tecnologico era secondario in quanto la disponibilità di risorse di alta qualità, con le tecnologie di allora, era più che sufficiente ad alimentare la crescita.
Oggi, dobbiamo considerare che gli equilibri interni del sistema Terra (biosfera, atmosfera, idrosfera e litosfera) sono più importanti del capitale e del lavoro in quanto è dall'alterazione dei cicli bio-geo-chimici e dalla perdita di biodiversità che provengono i principali fattori limitanti allo sviluppo dell’economia. Subito dopo in scala di importanza, oggi viene la produttività dell’energia in quanto qualunque lavoro viene eseguito usando una notevole “leva energetica”. Anzi, contrariamente a quanto sostenuto da molti economisti, il vertiginoso aumento di produttività che ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo dipende in primis dallo sfruttamento dell’energia fossile e solo secondariamente dall'incremento dell’istruzione pubblica (anche se fra questi due fattori vi sono delle retroazioni positive). Negli ultimi post di questa serie ci torneremo.
Per ora ci atterremo a valutazioni di tipo più tradizionale, ma chi legge è pregato di tener sempre presente tre cose:
1 – Il denaro non è più un valore in sé (come in parte era ai tempi di Marx), bensì un’informazione sul valore degli “asset” e su chi a diritto a servirsene.
2 – L’estrazione di valore si fa sempre meno dal lavoro umano e sempre di più dalle risorse (in primis dall’energia). La produttività dell’energia è quindi diventato un fattore cruciale, solitamente ignorato dagli economisti.
3 – Qualunque sia il tipo di economia e di organizzazione sociale che adottiamo, un aumento della produzione comporta un aumento di entropia che va a danno di qualcuno o qualcosa (altri popoli e nazioni, altre generazioni, altre classi sociali, eccetera); in ultima istanza a danno della biosfera.
Infine un’annotazione tecnica: quando nei post seguenti si parlerà di capitale si intenderà la somma del valore monetario di tutti gli “asset”, al netto dei debiti, normalizzato all’anno 2010. Ecco perché, di fatto, possiamo considerare il capitale pubblico odierno pari a zero o quasi: gli stati detengono tuttora consistenti patrimoni, il cui valore è però all'incirca pari a quello del debito pubblico. Viceversa, vedremo che il capitale privato è in buona salute, anche al netto del consistente debito di cittadini ed imprese.
Le tre regole auree del capitalismo.
“Capitalismo” è una parola che conta più definizioni che lettere. Praticamente ogni autore la ha usata con un’accezione almeno un poco diversa, spesso senza neppure giovarsi di definirla. A scanso di malintesi, qui il termine indica un sistema economico in cui:- La maggior parte dei fattori di produzione appartiene a privati cittadini o ad organizzazioni di diritto privato (la più evidente, ma anche la meno importante delle caratteristiche, tanto è vero che il capitalismo cinese è in gran parte di stato);
- il diritto di proprietà concede piena disponibilità del bene (al netto di vincoli particolari, solitamente contestati);
- il sistema è strutturato su di una retroazione positiva fra accumulo del capitale ed aumento della produzione (principale fra le caratteristiche).
Non esiste quindi un solo tipo di capitalismo. Già il capitalismo americano e quello europeo sono diversi; quello russo ne è assai distante; quello cinese ancor di più, mentre il capitalismo europeo “belle époque” era completamente diverso da quello attuale. Tuttavia tutte le forme di capitalismo sono accomunate da una struttura che richiede un tasso di crescita minimo al di sotto del quale in sistema va in crisi. In pratica, il capitalismo è caratterizzato dal fatto che o cresce, o collassa, non si può stabilizzare. O, perlomeno, finora non lo ha mai fatto. Ci sono ragioni fisiche molto profonde per questo, ma non ne parleremo qui.
Le tre leggi fondamentali.
Rimanendo nell'ambito del capitalismo occidentale, che è l’unica variante relativamente ben studiata sotto il profilo scientifico, Piketty ne definisce le tre leggi fondamentali come segue.
Prima legge: a = r x B
Dove “a” rappresenta la parte del reddito nazionale che proviene dall'investimento del capitale; “r” è il rendimento medio del capitale; “B” è il rapporto capitale /reddito.
Significa che l’importanza del capitale in un’economia aumenta con il crescere della quantità di capitale e del suo rendimento, ma diminuisce con il crescere del reddito nazionale. In pratica, in un’economia in cui i redditi da lavoro sono molto elevati l’importanza del capitale è ridotta, mentre quando i redditi da lavoro sono modesti, l’importanza del capitale cresce. Per esempio, se B è uguale 6 (cioè il valore del capitale è pari a 6 volte il reddito nazionale) ed r è pari 0,05 (cioè un rendimento del 5%), la parte dal reddito nazionale derivante dal capitale è il 30%.
Un esempio che non è scelto a caso, in quanto questi sono all'incirca i valori medi che si riscontrano oggi nei paesi “avanzati”. In particolare, nel 2010 si stimava che nei principali paesi “ricchi” il reddito nazionale pro-capite medio fosse di circa 30.000 €/anno lordi ed il patrimonio privato fosse di circa 180.000 € a cranio.
Valori medi che, ovviamente, non hanno nulla a che fare con le cifre davvero a disposizione della maggioranza delle persone.
Seconda legge: B = s/g
Dove “B” è il rapporto capitale /reddito; “s” il tasso di risparmio; “g” il tasso di crescita del PIL.
Significa che il rapporto fra capitale e reddito aumenta in modo direttamente proporzionale al tasso di risparmio ed inversamente proporzionale alla crescita del PIL. Vale a dire che B cresce quando si risparmia molto in un contesto di debole crescita economica. Viceversa, una vivace crescita economica tende a ridurre l’importanza relativa dell’accumulo di capitale. Attenzione: nulla dimostra che funzioni la ricetta inversa, cioè che si possa far crescere il PIL erodendo il capitale ed il risparmio, anche se qualcuno ci spera.
Terza legge: r > g
Dove “r” è il rendimento medio del capitale; “g” il tasso di crescita del PIL
Significa che il rendimento medio del capitale è almeno di un poco superiore al tasso di crescita del PIL. Vedremo poi (v. post 4) che dietro il valore medio si celano differenze enormi nel rendimento del capitale a seconda della sua natura e della sua consistenza. Tuttavia, l’analisi statistica di praticamente tutti le fonti esistenti su oltre due secoli di storia del capitalismo ha convinto Piketty che questa sia la principale forza che tende a divaricare le distanze fra una minoranza sempre più esigua di persone sempre più ricche ed una maggioranza sempre più vasta di persone sempre più povere.