Dietro i finestrini filava una bucolica campagna, verdeggiante e punteggiata di greggi. In lontananza boschi e montagne; più vicino piccoli villaggi che si vedevano appena a causa della velocità del convoglio che filava liscio e silenzioso sulla sua monorotaia a levitazione magnetica.
“Biglietti, prego.”
“Come mai a voi fottutissimi robot danno una voce femminile? Pensano di rendervi più simpatici?”
“Biglietti, prego.”
Giovanni tirò fuori di tasca la scheda e la inserì nell’apposita fenditura.
“Necessaria integrazione, prego leggere l’importo sul display e digitare il codice per conferma.”
“Ma che cazzo! E’ la terza volta e non ho più soldi ok?”
“Necessaria integrazione, prego leggere l’importo sul display e digitare il codice per conferma.”
“Favvanculo!”
“Necessaria integrazione, prego leggere l’importo sul display e digitare il codice per conferma.”
“OK, ok, come si reclama qui?” Borbottò Giovanni studiando la superficie unticcia e ammaccata della macchina. “Ah ecco!” Schiacciò il bottone ed attese parecchi secondi.
“Necessaria integrazione, prego leggere l’importo sul display e digitare il codice per conferma.”
“Crepa, io da qui non mi muovo. Vediamo che fai?”
Nessuna risposta, ma una sgradevole sensazione. Giovanni ci mise un po’ a capire quel che stava succedendo, quindi balzò il piedi dandosi pacche sulle natiche surriscaldate. La prima idea fu di prendere il marchingegno a martellate, ma non aveva martelli. E non poteva scaraventarlo fuori dal finestrino sigillato. Così si avviò verso la testa del treno, sperando che almeno uno dei membri dell’equipaggio fosse umano. E non totalmente stupido.
Intanto tre giovinastri dallo sguardo ebete si erano precipitati sul suo posto vuoto, indifferenti al calore. Oramai tant’era andare a cercare il capo-treno.
Sgomitando e borbottando, Giovanni si fece largo fra la gente accalcata nel corridoio centrale della vettura. Lentamente raggiunse l’uscita del vagone, appena in tempo per evitare un tafferuglio scoppiato all’arrivo di un altro gruppo di gente dai vagoni posteriori.
“Non potete stare qui! – strillava un signore corpulento – non vedete che ressa?”
“Qui avete l’aria condizionata. Da noi è rotta e non la riparano, si crepa!” Rimbeccò quello che sembrava più sveglio tra i nuovi venuti.
“Merda! - Borbottò, Giovanni, continuando a sgomitare. - Questo viaggio era cominciato bene, ma sta diventando uno schifo!”
Finalmente trovò uno scompartimento quasi vuoto: c’era solo un tizio in uniforme, seduto su una sdrucita poltroncina, manipolando uno schermo traslucido.
“Mi scusi è lei il capo-treno?”
L’uomo rimase concentrato sull’oggetto, ma dopo alcuni secondi rispose.
“Non ci sono capi su questo treno, credevo che lo sapesse.”
“OK, ma mi scusi, per un reclamo a chi mi devo rivolgere?”
Passarono interminabili secondi, prima che l’uomo rispondesse, sempre senza allentare l’attenzione sullo schermo. Sembrava che invece di ascoltare le parole di Giovanni, aspettasse di vederle scritte sul suo aggeggio.
“Carrozza X, più avanti”.
“Grazie.”
Per un attimo Giovanni vide sfrecciare davanti al finestrino i meandri di un fiume che avevano appena attraversato. Solo un attimo, appena il tempo di capire che c’era un fiume.
“Mi scusi, a che velocità viaggia il treno?” Chiese ancora.
“Velocità di sicurezza.”
“Capisco, ma quanti chilometri all’ora?”
“Questo lo deve chiedere ai piloti.”
Il ritardo nelle risposte rendeva la conversazione comunque noiosa e Giovanni andò a cercare la carrozza X.
La trovò, ma era vuota. O meglio, c’erano solo dei robot.
“Buongiorno signore, in cosa posso esserle utile?”
“Vorrei sporgere reclamo.”
“Certamente signore. Voglia per cortesia compilare …”
Seguendo le istruzioni delle voci sintetiche compilò una decina di moduli, inserendoli ognuno in una diversa ed apposita fenditura.
“Errore procedurale. Reset.”
“Che vuol dire?”
“Buongiorno signore, in cosa posso esserle utile?”
“Vorrei sporgere reclamo.”
“Certamente signore. Voglia per cortesia compilare …”
La voce si perse dietro di lui. Giovanni aveva già raggiunto il vagone seguente, contrassegnato da una scritta in nero su fondo rosso: “CONTROLLO TECNICO”.
La porta forzava, ma riuscì ad aprirla. Sulle prime rimase abbagliato dalla luce troppo intensa, poi mise a fuoco la vasta sala tubolare, le pareti interamente foderate di apparecchiature elettroniche che lampeggiavano e ronzavano senza sosta. Seduti alle console degli umani in camice bianco digitavano tastiere e scrutavano schermi. Ogni tanto qualcuno si alzava per verificare qualcosa ad un apparecchio, poi riprendeva il suo posto. Nessuno si era neanche accorto che era entrato un passeggero.
“Scusate, sto cercando il capo-treno.” Come folgorati, tutti i presenti si voltarono verso di lui. Occhiaie profonde e visi terrei lo scrutarono per alcuni secondi.
“No,no, lei non può entrare qui, solo personale autorizzato.” Lo investì un pelato che gli andò incontro roteando le braccia come avesse visto chissà che.
“Si ma io sto cercando il capo-treno, forse lei mi può dire dove lo posso trovare?”
“Non ci sono capi su questo treno.”
“E voi cosa siete?”
“Controllo Tecnico, non sa leggere?”
“Siete voi che guidate?”
“No, noi verifichiamo i parametri di tutte le funzioni a le accordiamo alle condizioni esterne che si incontrano ed alla velocità. Adesso per favore se ne vada, abbiamo da fare qui. Molto.”
“Guardi principale! Che dobbiamo fare qui?”
Il tizio agitato corse a smanettare uno dei tanti aggeggi, mentre a Giovanni si avvicinava una signora sulla sessantina, rotondetta e rugosa. Lo osservava con attenzione attraverso gli occhiali fuori moda, ma almeno sorrideva.
La sala controllo non aveva finestre, ma Giovanni aveva ugualmente la sensazione che il treno stesse ancora accelerando.
“Mi scusi l’ardire, ma non si potrebbe rallentare?”
“E perché mai? Faremmo ritardo. E poi non si può.”
“Come non si può rallentare? - Sibilò Giovanni, controllando un improvviso panico. – E perché?”
“Non si può perché questo treno ha una trazione a retroazione.”
“Cioè?”
“Cioè più energia disspa avanzando, più è efficiente nell’estrarre bassa entropia dall’ambiente, il che gli consente una maggiore dissipazione. – Osservò il vuoto nello sguardo del giovane. – Vuol dire che più accelera e più riceve carburante. Se rallentasse anche di poco finirebbe col rermarsi e nessuno potrebbe più farlo ripartire. E’ chiaro adesso?.
Giovanni annuì.
“E lei ci tiene ad arrivare presto a Futurland, no? Come tutti del resto, no?”
“Si, si che ci tengo, ma non è pericoloso?”
La donna esitò. “No, no. Questo è il miglior treno che sia mai esistito. Stia tranquillo, è tutto sotto controllo.“
“Cioè?”
“Guardi! questi apparecchi permettono il monitoraggio in tempo reale di ogni componente del treno, dell’equipaggio e dei passeggeri.”
“Fantastico, così se andiamo in pezzi lo possiamo sapere subito!”
La signora ridacchiò. “Lei ha molta fantasia giovanotto, ma mi è simpatico. Guardi, noi non siamo autorizzati a divulgare informazioni tecniche. Se vuole può rivolgersi all’amministrazione.” Soggiunse indicando un angusto corridoio che passava dietro gli scaffali carichi di computer. “Ora la prego di lasciarci lavorare.”
Non aveva terminato la frase che una violenta vibrazione scosse la vettura.
“Capo! Capo! E’ saltato il vagone di coda!”
Mentre tutti si precipitavano ai loro apparecchi più concitati che mai, Giovanni si intrufolò nel corridoio.
La paura stava prendendo il sopravvento perfino sull’incazzatura. Scavalcò diversi cumuli di rottami che facevano un singolare contrasto con la sala iper-tecnologica di prima. E finalmente raggiunse il vagone dell’amministrazione, ma la porta era sbarrata.
Bussò a più riprese senza altro risultato che sbucciarsi le nocche. Prese la porta a calci ed a spallate, ma si fece solo male. Era ben chiusa e di un materiale strano che assorbiva il colpo, per poi restituirlo più forte. Ma
Giovanni non era tipo da demordere. Osservò con attenzione la parete ai due lati della porta e vide che era costituita da leggere lamine metalliche malamente avvitate su dei supporti. Ringraziò di aver mantenuto l’abitudine di avere sempre un temperino multi-lama in tasca.
Con un po’ di pazienza riuscì a svitare un pannello e ad infilarsi carponi nel pertugio. Dall’altra parte c’era una vasta sala occupata da centinaia di sedie disposte ad emiciclo davanti ad un altro scranno.
L’unica luce proveniva da un tavolino posto al centro dell’emiciclo. Intorno ad esso un folto gruppo di persone si agitavano e discutevano animatamente. Il resto della sala era deserta e polverosa, come se fosse abbandonata da molto tempo.
“Non è possibile, questo è un treno.” Pensò, e per sincerarsi di non avere le traveggole Giovanni salì una scalinata e toccò i banchi di legno, coperti di mosche morte. Deve essere un trucco di realtà virtuale, si disse, ma perché?
Silenziosamente si avvicinò alla luce. Quelli intorno al tavolo un po’ ridevano ed un po’ piangevano, spesso litigavano e si insultavano, ma non si distraevano. Doveva essere importante.
“Ahem! Scusate, che posto è questo? Siamo sempre sul treno?” Ma nessuno gli rispose, come se non lo avessero neanche sentito. Si avvicinò di più e ripeté la sua domanda a voce più alta, ma con identico risultato.
Allora si fece coraggio e si avvicinò al tavolino, voleva ben vedere cosa stessero facendo di tanto importante. Rimase allibito. Tutti quei distinti signori e quelle signore ben vestite stavano giocando a monopoli.
Giovanni provò ad attrarre la loro attenzione, ma invano. Pensò allora di buttare all’aria il gioco, o perfino di pugnalare qualcuno col temperino, ma si disse che sarebbe stato inutile. Se voleva sapere cosa governava il treno doveva trovare il pilota.
Un’altra vibrazione scosse il convoglio e per un attimo la grande sala divenne una nebbia di pixel impazziti, poi tutto tornò come prima. I giocatori neanche si erano accorti di niente.
Giovanni cominciava a sentire l’amaro in bocca. Che cazzo stava succedendo? Si affrettò ad uscire dalla sala attraverso un massiccio portone di quercia scolpita, oltre il quale c’era un vasto corridoio. Sul pavimento una guida rossa semi-distrutta e coperta da un dito di polvere. Calcinacci caduti dalle pareti abbellite da grandi specchi rococò, ma offuscati dalle ragnatele. Scaglionati fra gli specchi c’èrano dei candelabri a parete, ma solo poche e consunte candele davano ancora abbastanza luce da permettere di avanzare, sia pure con cautela.
In fondo al corridoio un altro portone, roso dai tarli e dalla ruggine. Giovanni lo schiuse facendo attenzione a non farselo cadere addosso e salì le scale di marmo che aveva davanti. Emerse in una piccola stanza dalle pareti tappezzate di libri. Conosceva ed amava l’odore dei libri antichi, ma qui era ammorbato da quello della polvere e della muffa.
Si guardò intorno smarrito. In fondo alla sala c’era una finestra panoramica da cui si potevano vedere il muso del treno ed il binario dinnanzi, inghiottito a velocità folle dalla corsa del treno.
Una morsa di terrore gli gelò le ossa. Il binario non attraversava una placida campagna, ma una sterminata città in rovina. Ruderi e macerie, a tratti rischiarate dagli incendi. Un sole morente si intravedeva appena dietro la coltre di fumo e di polvere che offuscava il cielo. E lontano, ma un lontano che diventava di attimo in attimo più vicino, un’immensa montagna, nuda, compatta ed indifferente come il Fato. Proprio sulla rotta del treno.
“Calma! Ci sarà un tunnel.” Ma qualcosa gli disse che no. Che non c’era nessun tunnel per attraversare quella montagna.
Lo prese il panico: doveva fermare quella corsa infernale. Dove diavolo era il pilota? Si precipitò avanti. Davanti alla finastra c’era un complicato quadro comandi, costellato di spie rosse, tutte lampeggianti. E riverso sulla consolle uno scheletro roso dai topi ed annerito dal tempo. Sulle ossa pendevano ancora i brandelli di un elegante abito in stile Ancièn Régime. La mano dello scheletro stringeva il pomo d’argento di un bastone da passeggio che emergeva al centro della consolle, come una cloche.
Giovanni l’afferrò e la tirò a se, ma il legno troppo vecchio e tarlato si sbriciolò sotto la sua presa ed il treno accelerò ancora.
“To my friend Adam Smith, with all my regard.” La dedica si leggeva benissimo sull’argento brunito.