Gli alieni siamo noi.
Non è in corso
nessun guerra dei mondi immaginata da H.G. Wells, nè il tentativo
della Spectre di impossessarsi del pianeta a costo di far fuori gli
esseri viventi che lo abitano.
Gli unici
responsabili di quanto stà avvenendo siamo noi, la specie umana.
In effetti, uno
degli aspetti più complicati da riconoscere e da accettare quando si
parla di cambiamento climatico e delle attività maggiormente
impattanti sul pianeta, è proprio la varietà e la drammaticità
degli effetti che le nostre azioni stanno provocando a livello
globale e che sono drasticamente destinate ad aumentare nel prossimo
futuro se non poniamo immediatamente un freno a ciò che stiamo
combinando.
Rachel
Warren, scienziata del dipartimento di studi ambientali
dell’Università dell’East Anglia e titolare di una importante
ricerca recentemente pubblicata nella sezione Climate Change della
rivista Nature,
nel descrivere l'esito degli studi effettuati sul rapporto tra
cambiamento climatico e sopravvivenza di specie animali e vegetali,
pone l'accento sul fatto che mentre di solito l’attenzione si è
focalizzata sulla scomparsa
delle specie più rare o su quelle che sono a rischio
di estinzione,
non si parla di cosa sta accadendo alle
specie più comuni e diffuse.
In
assenza di concrete politiche di riduzione dell’emissione dei gas
serra, l'articolo
evidenzia
come alla fine di questo secolo circa metà delle piante e un terzo
degli animali attualmente conosciuti potrebbero essere estinti.
La
causa di questa gigantesca perdita di biodiversità, è dovuta alla
sensibile riduzione, o addirittura alla scomparsa, dei loro habitat
naturali, ovvero dei luoghi
dove queste specie nascono, vivono e si riproducono. Un collasso che,
spiega la ricercatrice, potrebbe avere un effetto a catena con
violente ripercussioni economiche dovute al mutamento
dei modelli agricoli,
all’inquinamento
dell’acqua e al
peggioramento della qualità dell’aria
respirabile.
La
ricerca si basa sull’analisi di oltre 50 mila specie di piante e di
animali e i risultati dicono che solo il 4% delle specie animali –
e nessuna pianta – beneficerebbero dell’aumento della
temperatura.
Le
ripercussioni sulla nostra specie sarebbero pertanto gravissime in
quanto una
perdita così diffusa della biodiversità su scala globale è
destinata ad impoverire i servizi naturali che gli ecosistemi ci
rendono gratuitamente: purificazione dell’acqua
e dell’aria,
prevenzione delle
inondazioni,
nutrimento per il suolo, insomma tutti quei cicli biogeochimici che
sono essenziali per la vita sul pianeta e che noi consideriamo
scontati ma che non lo sono affatto.
Accanto
a questo studio è opportuno citare anche l'aggiornamento
dell'inventario del rischio di estinzione delle singole specie, la
cosiddetta "Lista Rossa" che viene redatta dall'I.U.C.N., e
il quadro che ne emerge è desolante.
Su
672 specie di vertebrati prese in considerazione (576 terrestri e 96
marine), quasi un terzo sono a rischio di estinzione in tempi brevi.
Oggi
la
concentrazione di CO2 presente in atmosfera ha raggiunto e superato
le 400 parti per milione che corrispondono al 142%
in più rispetto al livello preindustriale,
mentre gli altri principali gas ad effetto serra, il metano e
l'ossido di azoto, sono rispettivamente aumentati del 253% e del 121%
rispetto ai livelli anteriori a1 1750, raggiungendo un record che non
si registrava da oltre 3 milioni di anni (ben prima della comparsa
dell’Homo
sapiens
sulla Terra).
A
causa di questi gas, fondamentali, per garantire la vita sul pianeta
attraverso l'effetto serra ma deleteri oltre una certa soglia, oggi,
la capacità della Terra di trattenere la radiazione solare è
aumentata del 34% rispetto al 1990: una percentuale enorme e
inimmaginabile fino a pochi anni fa.
Il
cambiamento climatico è dunque ormai una minaccia per la
biodiversità globale e secondo i calcoli effettuati dal
T.E.E.B. (The Economics of Biodiversity and Ecosystem Services), il
programma mondiale dell'O.N.U. che prova a misurare il valore
economico della natura, l'impatto che le attività umane producono
sulle risorse e sui sistemi naturali,
ha
ormai un costo di oltre 7.300 miliardi di dollari all'anno.
Per
Robert
Wilson,
ricercatore dell'Università di Exeter nel Regno Unito e co-autore di
un recente studio internazionale pubblicato dal prestigioso
Proceedings of National Academy of Sciences in cui ha analizzato dati
provenienti da tutto il mondo, emerge come gli effetti del
riscaldamento globale sono ormai riscontrabili in ogni parte del
pianeta, in ogni gruppo di animali e di piante: dagli uccelli, ai
vermi, ai mammiferi marini, dalle alte catene montuose, alle giungle
ed agli oceani.
Fra
i casi citati nello studio, spicca l’esempio della riduzione, nel
Mare di Bering, di alcuni molluschi bivalvi fonte principale di cibo
per le specie al culmine della catena alimentare di quelle zone.
Queste piccole conchiglie, nell’arco di soli due anni, a causa
dell’assottigliamento della copertura di ghiaccio sui loro mari, si
sono ridotte di ¾ passando da 12 a 3 per metro quadrato, un fatto
che verosimilmente provocherà non pochi guasti agli equilibri
ecologici di quell'area.
I
tassi di estinzione attuali confrontati con quelli misurati
attraverso lo studio dei fossili, indicano che oggi perdiamo un
numero di specie da 10 a 100 volte superiore a quello registrato nei
periodi storici e che in pratica, stiamo
vivendo un’estinzione generalizzata di massa.
L'uso
dei combustibili fossili ed il nostro “non negoziabile stile di
vita” fatto di incessate urbanizzazione e distruzioone di luoghi
natutali, ne sono la causa.
Negli
ultimi decenni, l'impatto delle attività antropiche sull'equilibrio
biologico dell'ambiente marino e sulla ricchezza della sua fauna è
stato devastante.
I
fenomeni di inquinamento diffuso, la cementificazione delle coste, la
distruzione delle paludi costiere, il traffico navale, la pesca
intensiva e i mutamenti climatici in corso, hanno decimato gli stock
ittici e continuano ad impoverire la biodiversità marina ad un ritmo
impressionante.
E'
stato calcolato che su scala globale, la cattura di pesce selvatico
si è fermata ai livelli dei primi anni novanta del XX secolo, ovvero
a circa 90 milioni di tonnellate l'anno, mentre la F.A.O. ha
dichiarato che 70 delle 200 più importanti specie marine sono a
rischio di estinzione.
Nei
cinque continenti, il numero dei pescatori di professione è
aumentato vertiginosamente e in modo differente, così, mentre in
alcune zone del pianeta questo si è ridotto, in altre si è
decuplicato, passando complessivamente da circa 13 milioni a oltre 30
milioni di persone dedite a questa attività.
Tuttavia
non sempre è possibile effettuare delle previsioni puntuali sulla
base dei dati attualmente a disposizione. Le risorse ittiche sono
incostanti dato che in mare la produttività e la predazione
oscillano in modo molto diverso che sulla terra ferma, in quanto la
biomassa varia moltissimo in relazione alle modificazioni che
avvengono nelle correnti, nella quantità di nutrienti e nella
temperatura.
Rispetto
ad alcuni segnali che quindi risultano non facili da interpretare,
alcuni studi mirati indicano comunque come negli oceani lo
zooplancton sia diminuito in modo significativo e che senza efficaci
controlli praticati su scala internazionale, gran parte delle risorse
ittiche potrà arrivare al collasso entro la metà di questo secolo.
Uno
dei principali problemi è legato al meccanismo dei segnali deboli
che arrivano dalle profondità del mare prima che il tracollo si
manifesti.
E'
noto infatti che le curve di rendimento delle risorse ittiche sono
piuttosto piatte e ciò può determinare un aumento della pesca per
diversi anni prima che i livelli di cattura diminuiscano in modo
vertiginoso e in tempi molto stretti.
Soprattutto
per le specie facilmente identificabili con le moderne tecnologie di
ricerca, il segnale debole suggerisce erroneamente una generale
abbondanza, spesso legata a concentrazioni locali, mentre in realtà
il sovrasfruttamento ha già raggiunto il suo apice.
Come
scrive Jorgen Randers nel suo “2052: Rapporto al Club di Roma”
(8), "Il
pescatore che ha catturato l'ultimo grande banco di merluzzo
nell'area del George's Bank al largo della costa settentrionale degli
Stati Uniti, torna a casa soddisfatto, la sua barca è piena fino
all'orlo e dice alla moglie che è andato tutto bene, senza
sospettare che in realtà quella era la sua ultima battuta di pesca".
Su
scala locale le analisi e le previsioni sono decisamente più
puntuali.
Nel
caso del Mediterraneo, sulla base dei dati raccolti dal Comitato
tecnico, scientifico ed economico della pesca europea (STECF), la
coalizione OCEAN 2012 ha chiaramente evidenziato come il 95% degli
stock ittici risultano sovrasfruttati.
Secondo
le ricerche effettuate per ripristinare il livello di sostenibilità
degli stock, in particolare nel Tirreno centrale e meridionale,
nell'Adriatico meridionale e nello Ionio, è infatti necessario
ridurre il prelievo attuale di circa il 50%, con punte del 90% per la
pesca al nasello in alcune aree.
Nel
grafico che segue le curve mostrano i diversi possibili livelli di
declino delle catture a livello mondiale misurandone il peso
pro-capite (kg a persona), a partire dal progressivo impoverimento
degli stock che si è manifestato nell'ultima decade del XX secolo.
L'ecologia
ci insegna che i sistemi biologici non sono affatto lineari e ciò
comporta che la risposta di un ecosistema ad un cambiamento causato
da un fattore esterno, può non essere semplice da prevedere. I tempi
e le modalità di risposta sono infatti variabili e proprio per
questo possono manifestarsi cambiamenti improvvisi e drammatici che
riguardano singoli processi o singole specie (per questo motivo
definite specie chiave) che hanno riflessi sull'intero sistema.
In
“2052” (8), lo studioso norvegese Dag O. Hessen, in un suo
articolo sugli scenari che potranno interessare il mare del Nord nei
prossimi anni, evidenzia in modo esemplare come una piccola e
apparentemente insignificante specie di crostaceo imparentato con
granchi e aragoste ma dalle dimensioni di pochi millimetri, giochi un
ruolo determinante all'interno di quell'ecosistema.
Il
Calanus
planctonico
è infatti una specie chiave perché a dispetto delle sue dimensioni
è presente in grandi quantità e influenza in modo determinante le
catene trofiche di quell'area.
Poiché
la temperatura del mare del Nord si sta velocemente riscaldando a
causa del mutamento climatico in corso, con effetti che si
estenderanno fino all'oceano artico, la popolazione di Calanus ne
verrà fortemente condizionata.
Le
temperature più alte, specialmente nelle acque di superficie (fino
a 2 gradi in più a metà di questo secolo), limiteranno il
rimescolamento di queste ultime con quelle di profondità più fredde
e ricche del fitoplancton di cui questa specie si nutre, tanto da
determinarne un suo calo numerico. Sfortunatamente la scarsità di
Calanus significherà scarsità di cibo per molte specie di pesci,
una insufficienza che a sua volta si rifletterà sugli uccelli
marini, sulle foche, e sugli orsi polari, causando il famoso effetto
a cascata che verosimilmente comprometterà questa notevole rete
alimentare.
Come
è evidente, la centralità di una specie chiave all'interno di un
ecosistema ne indica la vulnerabilità.
Riferendo
i contenuti della relazione biennale dell'I.P.S.O. (International
Programm on the State of the Ocean), Alex Rogers, professore di
biologia all'Università di Oxford, ha chiarito che l'acidificazione
in corso nei mari è senza precedenti nella storia conosciuta della
Terra e che la salute del mare si sta degradando vertiginosamente e
con effetti imminenti rispetto a quanto previsto precedentemente .
Gli
attuali tassi di rilascio di carbonio negli oceani sono infatti 10
volte più rapidi di quelli che hanno preceduto l'ultima grande
estinzione di specie, che è stata quella del Paleocene-Olocene,
avvenuta circa 55 milioni di anni fa.
Dai
rilievi dell' I.P.S.O. emerge quindi come l'attuale processo di
acidificazione sia il più importante negli ultimi 300 milioni di
anni, secondo le registrazioni geologiche.
Ma
quanti conoscono il ruolo fondamentale che il mare gioca
nell'equilibrio della vita sul pianeta ?
Considerato
che il fitoplancton marino produce quasi la metà dell'ossigeno
presente in atmosfera e che il 90% di tutte le forme viventi si trova
negli oceani, è facile intuire cosa può accadere alterando i
processi biochimici del più grande insieme di ecosistemi del
pianeta.
I
rilievi, stanno evidenziando come gli organismi marini siano
sottoposti ad uno stress difficilmente tollerabile.
Gli
animali marini usano segnali chimici per percepire il proprio
ambiente e per localizzare prede e predatori e ci sono evidenze che
il processo di acidificazione stia interferendo con questa capacità
fino a comprometterla: quante di queste specie saranno effettivamente
in grado di adattarsi alle nuove condizioni ?
Pur
nella consapevolezza che grandi porzioni oceaniche restano da
verificare e che, come abbiamo visto, i "feedback" che
arrivano dagli oceani sono spesso lenti e apparentemente non chiari,
Rogers ha sottolineato il fatto che ci troviamo in presenza di un
cambiamento molto rapido e su larga scala che dovrebbe rappresentare
una preoccupazione estremamente seria, considerati i limiti del mare
nel sostenere la vita sul pianeta. E’
per questo motivo che la comunità scientifica chiede di mettere in
campo un’iniziativa che permetta di sviluppare le conoscenze
sull’acidificazione degli oceani, ed è per questo che l'UNESCO
chiede la realizzazione di un meccanismo internazionale in grado di
trattare specificamente questo problema affinché la questione non
resti ai margini dei negoziati sui cambiamenti climatici.
Assorbendo
enormi quantità di carbonio e calore dall'atmosfera, gli oceani del
mondo hanno finora contribuito a proteggere gli ecosistemi terrestri
e gli esseri umani dagli effetti peggiori del riscaldamento globale,
ma ciò sta comportando mutamenti profondi sulla vita marina. Del
resto, come abbiamo visto, la capacità del mare di assorbire CO2 è
comunque limitata e il suo riscaldamento compartecipa allo
scioglimento dei ghiacci polari in una catena di eventi che hanno
effetti globali.
Considerato
che c'è un ritardo temporale di diversi decenni fra il rilascio del
carbonio in atmosfera e gli effetti sui mari, ciò significa che una
ulteriore acidificazione ed un ulteriore riscaldamento degli oceani
sono al momento inevitabili, anche se la nostra specie riuscisse a
ridurre drasticamente e molto rapidamente le emissioni di gas
climalteranti.
A
conferma di quanto documentato, durante l'ultima giornata mondiale
della Biodiversità, i biologi e i naturalisti che lavorano al
programma ambientale dell'O.N.U., hanno potuto affermare che l'essere
umano, attualmente, rappresenta per la quasi totalità delle specie
animali
e vegetali
una autentica minaccia
di estinzione di massa.
La
sesta, in ordine di tempo, tra quelle conosciute dalla comparsa della
vita pluricellulare.
Calcoli
prudenziali, effettuati alcuni anni fa dal biologo Edward Owen
Wilson, docente ad Harvard, stimano infatti che ogni anno, per cause
connesse alle attività antropiche, si estinguono circa trentamila
specie.
Una
cifra che ora viene rivista al rialzo, in considerazione delle
condizioni sempre peggiori in cui versano gli ecosistemi.
In
conclusione, se non cambiamo in fretta il nostro atteggiamento e le
nostre abitudini (e il riferimento non è certo alle
comunità umane che vivono in modo tradizionale e a basso impatto
ambientale), è bene sapere, come scrisse Bateson, che non
solo porteremo a compimento la più grande strage della storia del
pianeta ma noi stessi faremo la fine di una palla di neve
all'inferno.
Insomma,
gli alieni siamo noi.
*
Max Strata è consulente ambientale.