Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR
di Ugo Bardi
Sono un po' in ritardo per la prossima presentazione della conferenza sul picco del petrolio (*). Per fortuna, sembra che non mi sia perso molto: il relatore deve aver cominciato solo pochi minuti prima che arrivassi e mi sono perso soltanto l'introduzione del presidente. Quindi mi rilasso nella mia sedia, mentre il relatore va avanti con la sua presentazione.
La prima cosa che noto è il modo in cui è vestito; non proprio il modo standard per queste conferenze. Gran parte dei relatori, finora, sono stati fisici, che hanno un modo di vestire tipico: sembrano fisici anche se indossano una cravatta, e di solito non lo fanno. Questo relatore, invece, non solo indossa una cravatta, ma indossa anche una giacca a doppio petto (o così mi pare – anche se non è un doppio petto, lo indossa come se lo fosse). E non è semplicemente il modo in cui veste, è tutta la sua postura e lo stile. Tutti gli altri a questa conferenza sul picco del petrolio hanno parlato da in piedi, mostrando immagini e parlando senza appunti. Invece, lui è seduto, non mostra immagini e legge da un taccuino che ha piazzato sul tavolo. Se è diverso dagli altri nel modo in cui appare, anche il suo discorso è completamente diverso dagli altri di questa conferenza. I fisici tendono a mostrare dati e numeri, grafici e tabelle, al punto di risultare noiosi. Lui no. Non mostra dati, o grafici, o tabelle. Non li menziona nemmeno i dati. Racconta una storia.
Ci porta in una specie di tour dei produttori di petrolio. Ogni paese viene è descritto come se fosse un personaggio sulla scena del teatro del mondo: gli americani, un po' duri, ma che fanno cose giuste e di successo nel raggiungimento dell'indipendenza energetica per mezzo delle loro tecnologie avanzate; i sauditi, in qualche modo ambigui, ma potenti in virtù delle loro risorse: i russi, aggressivi nel loro tentativo di ricostruire il loro vecchio impero. E gli europei, ben intenzionati ma irrimediabilmente ingenui con la loro insistenza sulle energie rinnovabili. La storia va avanti mentre ogni personaggio in scena interagisce con gli altri. Riusciranno gli europei a sbarazzarsi della loro dipendenza dal gas russo? Saranno in grado gli americani di superare i sauditi come i leader mondiali della produzione di petrolio? Cosa faranno i sauditi per conservare la loro leadership?
Di tanto in tanto, i dati riescono ad apparire nella narrazione, ma quando lo fanno, sono sbagliati. Per esempio, il relatore ci racconta che estrarre un barile di petrolio in Arabia Saudita costa 2-3 dollari al barile (sicuro...., forse 30 anni fa). E ci racconta che i sauditi devono solo aprire i rubinetti dei loro pozzi per aumentare la produzione di 2, 3 o persino di 5 milioni di barili al giorno (sì, certamente...) Ed alcuni concetti chiave non vengono mai menzionati. Nessuna traccia del picco del petrolio, nessun accenno al problema dell'esaurimento; il cambiamento climatico sembra riguardare un'altra conferenza, da tenersi su un altro pianeta.
Il discorso si chiude con il pubblico chiaramente perplesso. Poi comincia la sessione delle domande e risposte e qualcuno chiede al relatore cosa pensi del picco del petrolio. Lui risponde per prima cosa dicendo che non è un geologo, ma un economista, confermando in questo modo (se mai ce ne fosse stato bisogno) che un uomo non capirà mai un concetto se il suo stipendio dipende dal non capirlo. Poi aggiunge che “si afferma da trent'anni che il picco del petrolio sta arrivando” e, se questo non fosse banale a sufficienza, menziona anche la vecchia battuta di Zaki Yamani, “l'età della pietra non è finita perché sono finite le pietre”. Ciò è sufficiente per fermare ulteriori domande significative. La cosa finisce presto e lui si alza e lascia la sala mentre la conferenza continua con un altro relatore.
Non c'è nessuna esperienza così negativa dalla quale non si possa almeno imparare qualcosa. Cosa possiamo allora imparare da questa? Da un lato, il relatore in giacca a doppio petto aveva un'esperienza simmetrica ed opposta alle esperienze che io stesso ho avuto. A volte, quando ho cercato di presentare il concetto del picco del petrolio ad un pubblico che indossava doppiopetti, ho avuto la netta sensazione che mi stessero guardando come se fossi un alieno di Betelgeuse-III, appena atterrato nel parcheggio col mio disco volante. Se si dice “scontro di assoluti”, ci si potrebbe tranquillamente riferire a questo tipo di esperienze. Ma c'è qualcosa di terribilmente sbagliato, qui: leggiamo tutti i giornali, abbiamo tutti accesso agli stessi dati su Internet. Quindi come può essere che si possa arrivare a interpretazioni e conclusioni così diverse?
Ho rimuginato queste considerazioni fra me e me ed alla fine mi è venuto in mente: non è una questione di dati, è una questione di come le persone li elaborano! E la maggior parte delle persone che indossano doppiopetti pensano proprio come pensa la maggioranza delle persone: pensano in termini narrativi, non in termini quantitativi.
Pensate alle nostre origini remote: i cacciatori-raccoglitori preistorici. Di che tipo di abilità avevano bisogno i nostri antenati per sopravvivere? Be', una era la capacità di costruire attrezzi, dalle asce di pietra agli ami da pesca. Ma, molto più importante di questo erano le capacità sociali necessarie per l'arrampicata della gerarchia tribale, per diventare capi e sciamani. Ciò non è cambiato molto con l'arrivo della struttura sociale che chiamiamo “civiltà”. Negli annali della civiltà sumera, abbiamo memoria dei nomi di re che risalgono a migliaia di anni fa, ma nessun accenno al nome della persona che ha inventato la ruota durante quel periodo. Anche oggi, gli ingegneri sono governati dai politici, non il contrario.
Quindi il modo comune di interpretare il mondo è in termini narrativi, assegnando ruoli alle persone come se fossero attori che interpretano il loro ruolo in scena. E' il teatro della vita, non diverso dal teatro di scena, non diverso dalle varie forme di narrazione che ci circondano: racconti, film, telenovelas e cose simili. E' tipico della maggior parte delle persone ed è particolarmente forte nei politici, dove i vari attori vengono classificati nei termini di una visione narrativa del loro ruolo. Per esempio, Saddam Hussein è stato uno dei personaggi che dovevano interpretare il ruolo del cattivo. Una volta lanciato in quel ruolo, non c'era bisogno di prove del fatto che stesse accumulando armi di distruzione di massa per dar inizio ad una guerra. Lui era il male e questo era abbastanza. E non c'è stata indignazione quando è stato scoperto che le armi di distruzione di massa non esistevano. Ciò non ha cambiato il ruolo di cattivo di Saddam Hussein nella narrazione.
Gli scienziati, tuttavia, tendono a pensare in un modo diverso, specialmente coloro che studiano i campi conosciuti come “scienze fisiche”. Tuttavia, il loro modo di ragionare è difficile da capire per gran parte delle persone. Pensate solo all'affermazione comune usata per negare il ruolo umano nel cambiamento climatico, “gli scienziati erano preoccupati del raffreddamento globale nel 1970”. Indipendentemente dal fatto che sia vero o no (lo è solo marginalmente), ciò illustra l'abisso di differenza fra il modo comune di interpretare la realtà e quello scientifico. Gli scienziati credono di poter cambiare idea se i nuovi dati contraddicono le vecchie interpretazioni. Ma questo non è quello che fanno gli eroi nei racconti e nei film in cui, tipicamente, un personaggio comincia con una certa idea, combatte per quella per tutta la storia contro tutte le prove contrarie ed alla fine trionfa.
Quindi, nessuno presterebbe lontanamente attenzione a ciò che dicono gli scienziati, se se non per il fatto che occasionalmente inventano giocattoli che la gente sembra apprezzare molto, dagli smartphone alle testate nucleari. Ma quando si discostano dal loro ruolo di costruttori di giocattoli, le loro opinioni perdono di importanza nel dibattito. Anche se si tenta di argomentare che una vasta maggioranza di scienziati (forse il 97%) è d'accordo sul fatto che il cambiamento climatico generato dagli esseri umani è una realtà, non si ottiene niente. Anche una vasta maggioranza fra gli scienziati è una tale minuscola minoranza della popolazione generale che per la maggior parte della gente non vale la pena farci caso (compresi politici e decisori).
Alla fine, raccontare storie di solito ha più successo che argomentare usando i dati e i modelli. Infatti, dopo la conferenza, mi è stato detto che l'economista in doppiopetto è una persona molto influente e che i decisori ad alto livello del governo chiedono spesso a lui consigli in materia energetica. Evidentemente, è bravo a raccontar loro una bella storia.
Non tutte le belle storie hanno un bel finale, ma le belle storie possono sempre insegnarci qualcosa. Quindi, cosa possiamo imparare da questa? Una cosa è che abbiamo sbagliato tutto con l'idea di usare i dati per convincere le persone della realtà di cose come il picco del petrolio e il cambiamento climatico antropogenico. Sì, è possibile spostare leggermente le credenze delle persone nella giusta direzione se troviamo i modo di esporli per qualche tempo ai dati ed alla loro interpretazione. Ma il tipo di impegno che possiamo ottenere in questo modo è debole ed inefficace. Viene facilmente distrutto anche dai più brutali e primitivi metodi di propaganda: assegnare agli scienziati la parte dei cattivi della storia fa miracoli: come gli stessi specialisti in propaganda confessano, “fare i cattivi paga”. E una volta che una narrazione si è fatta strada nella mente delle persone è estremamente difficile – in pratica impossibile – snidarla da lì. Avete notato come, in gran parte delle trame, i cattivi rimangono cattivi sempre? E' come se fossero i personaggi di una vecchia farsa Atellana, che indossano la maschera appropriata al cattivo (o gli scienziati che indossano i loro nomignoli di fanatici tecnologici – geeks - o di teste d'uovo).
Un'altra cosa che possiamo imparare da questa storia è che siamo tutti umani e che nessuno di noi pensa come le macchine o come i robot. Gli scienziati possono essere formati a ragionare in termini di dati, ma anche per loro è difficile farlo sempre. Ragionare in termini narrativi ha accompagnato i nostri antenati per centinaia di migliaia di anni. Se questa cosa è ancora fra noi è perché ci ha reso un buon servizio per questo lungo periodo di tempo. Ciò che conta non è che il mondo possa essere visto come una storia che si dipana, ma quale storia si sta dipanando. Ed esite una storia diversa del mondo da raccontare, una storia infinitamente superiore all'attuale trama brutale che ci racconta che tutti i problemi che abbiamo sono legati al cattivo del giorno e che quando lo avremo bombardato e fatto a pezzi tutto andrà di nuovo bene. Questa è la trama dei racconti di serie B: ha poco a che fare con la letteratura, il tipo di letteratura che cambia le persone in meglio, che cambia il mondo in meglio. Una storia migliore del mondo dice che il mondo non è nostro nemico. Il mondo è, piuttosto, il nostro compagno (**): può fornirci beni generosi ma, come un compagno umano e com'è la materia di così tante storie, quello che facciamo al nostro compagno ci torna indietro. Se danneggiamo il mondo che ci circonda (o la “Natura” o “l'Ecosistema”, o in qualunque modo lo vogliate chiamare) ne saremo a nostra volta danneggiati. E ciò sta già accadendo. Questa è la storia che stiamo vivendo: possiamo essere i buoni o i cattivi, dipende da noi.
(*) Questo post è un resoconto fedele di una presentazione a un recente convegno sul picco del petrolio. Non faccio nomi, date, o luoghi; ma quelli che erano con me in quell'occasione riconosceranno senza problemi il relatore di cui parlo
(**) Il concetto di Natura come compagna della specie umana può essere trovato, per esempio, nel libro “Economia sacra” di Charles Eisenstein.
di Ugo Bardi
Nell'antichità classica, le rappresentazioni teatrali come la farsa“Atellana” erano basate su canovacci standardizzati e personaggi tipo, identificati dalle maschere che indossavano in scena. Non erano diverse dalle nostre attuali telenovelas e sono un buon esempio della nostra tendenza ad interpretare il mondo in termini narrativi.
Sono un po' in ritardo per la prossima presentazione della conferenza sul picco del petrolio (*). Per fortuna, sembra che non mi sia perso molto: il relatore deve aver cominciato solo pochi minuti prima che arrivassi e mi sono perso soltanto l'introduzione del presidente. Quindi mi rilasso nella mia sedia, mentre il relatore va avanti con la sua presentazione.
La prima cosa che noto è il modo in cui è vestito; non proprio il modo standard per queste conferenze. Gran parte dei relatori, finora, sono stati fisici, che hanno un modo di vestire tipico: sembrano fisici anche se indossano una cravatta, e di solito non lo fanno. Questo relatore, invece, non solo indossa una cravatta, ma indossa anche una giacca a doppio petto (o così mi pare – anche se non è un doppio petto, lo indossa come se lo fosse). E non è semplicemente il modo in cui veste, è tutta la sua postura e lo stile. Tutti gli altri a questa conferenza sul picco del petrolio hanno parlato da in piedi, mostrando immagini e parlando senza appunti. Invece, lui è seduto, non mostra immagini e legge da un taccuino che ha piazzato sul tavolo. Se è diverso dagli altri nel modo in cui appare, anche il suo discorso è completamente diverso dagli altri di questa conferenza. I fisici tendono a mostrare dati e numeri, grafici e tabelle, al punto di risultare noiosi. Lui no. Non mostra dati, o grafici, o tabelle. Non li menziona nemmeno i dati. Racconta una storia.
Ci porta in una specie di tour dei produttori di petrolio. Ogni paese viene è descritto come se fosse un personaggio sulla scena del teatro del mondo: gli americani, un po' duri, ma che fanno cose giuste e di successo nel raggiungimento dell'indipendenza energetica per mezzo delle loro tecnologie avanzate; i sauditi, in qualche modo ambigui, ma potenti in virtù delle loro risorse: i russi, aggressivi nel loro tentativo di ricostruire il loro vecchio impero. E gli europei, ben intenzionati ma irrimediabilmente ingenui con la loro insistenza sulle energie rinnovabili. La storia va avanti mentre ogni personaggio in scena interagisce con gli altri. Riusciranno gli europei a sbarazzarsi della loro dipendenza dal gas russo? Saranno in grado gli americani di superare i sauditi come i leader mondiali della produzione di petrolio? Cosa faranno i sauditi per conservare la loro leadership?
Di tanto in tanto, i dati riescono ad apparire nella narrazione, ma quando lo fanno, sono sbagliati. Per esempio, il relatore ci racconta che estrarre un barile di petrolio in Arabia Saudita costa 2-3 dollari al barile (sicuro...., forse 30 anni fa). E ci racconta che i sauditi devono solo aprire i rubinetti dei loro pozzi per aumentare la produzione di 2, 3 o persino di 5 milioni di barili al giorno (sì, certamente...) Ed alcuni concetti chiave non vengono mai menzionati. Nessuna traccia del picco del petrolio, nessun accenno al problema dell'esaurimento; il cambiamento climatico sembra riguardare un'altra conferenza, da tenersi su un altro pianeta.
Il discorso si chiude con il pubblico chiaramente perplesso. Poi comincia la sessione delle domande e risposte e qualcuno chiede al relatore cosa pensi del picco del petrolio. Lui risponde per prima cosa dicendo che non è un geologo, ma un economista, confermando in questo modo (se mai ce ne fosse stato bisogno) che un uomo non capirà mai un concetto se il suo stipendio dipende dal non capirlo. Poi aggiunge che “si afferma da trent'anni che il picco del petrolio sta arrivando” e, se questo non fosse banale a sufficienza, menziona anche la vecchia battuta di Zaki Yamani, “l'età della pietra non è finita perché sono finite le pietre”. Ciò è sufficiente per fermare ulteriori domande significative. La cosa finisce presto e lui si alza e lascia la sala mentre la conferenza continua con un altro relatore.
Non c'è nessuna esperienza così negativa dalla quale non si possa almeno imparare qualcosa. Cosa possiamo allora imparare da questa? Da un lato, il relatore in giacca a doppio petto aveva un'esperienza simmetrica ed opposta alle esperienze che io stesso ho avuto. A volte, quando ho cercato di presentare il concetto del picco del petrolio ad un pubblico che indossava doppiopetti, ho avuto la netta sensazione che mi stessero guardando come se fossi un alieno di Betelgeuse-III, appena atterrato nel parcheggio col mio disco volante. Se si dice “scontro di assoluti”, ci si potrebbe tranquillamente riferire a questo tipo di esperienze. Ma c'è qualcosa di terribilmente sbagliato, qui: leggiamo tutti i giornali, abbiamo tutti accesso agli stessi dati su Internet. Quindi come può essere che si possa arrivare a interpretazioni e conclusioni così diverse?
Ho rimuginato queste considerazioni fra me e me ed alla fine mi è venuto in mente: non è una questione di dati, è una questione di come le persone li elaborano! E la maggior parte delle persone che indossano doppiopetti pensano proprio come pensa la maggioranza delle persone: pensano in termini narrativi, non in termini quantitativi.
Pensate alle nostre origini remote: i cacciatori-raccoglitori preistorici. Di che tipo di abilità avevano bisogno i nostri antenati per sopravvivere? Be', una era la capacità di costruire attrezzi, dalle asce di pietra agli ami da pesca. Ma, molto più importante di questo erano le capacità sociali necessarie per l'arrampicata della gerarchia tribale, per diventare capi e sciamani. Ciò non è cambiato molto con l'arrivo della struttura sociale che chiamiamo “civiltà”. Negli annali della civiltà sumera, abbiamo memoria dei nomi di re che risalgono a migliaia di anni fa, ma nessun accenno al nome della persona che ha inventato la ruota durante quel periodo. Anche oggi, gli ingegneri sono governati dai politici, non il contrario.
Quindi il modo comune di interpretare il mondo è in termini narrativi, assegnando ruoli alle persone come se fossero attori che interpretano il loro ruolo in scena. E' il teatro della vita, non diverso dal teatro di scena, non diverso dalle varie forme di narrazione che ci circondano: racconti, film, telenovelas e cose simili. E' tipico della maggior parte delle persone ed è particolarmente forte nei politici, dove i vari attori vengono classificati nei termini di una visione narrativa del loro ruolo. Per esempio, Saddam Hussein è stato uno dei personaggi che dovevano interpretare il ruolo del cattivo. Una volta lanciato in quel ruolo, non c'era bisogno di prove del fatto che stesse accumulando armi di distruzione di massa per dar inizio ad una guerra. Lui era il male e questo era abbastanza. E non c'è stata indignazione quando è stato scoperto che le armi di distruzione di massa non esistevano. Ciò non ha cambiato il ruolo di cattivo di Saddam Hussein nella narrazione.
Gli scienziati, tuttavia, tendono a pensare in un modo diverso, specialmente coloro che studiano i campi conosciuti come “scienze fisiche”. Tuttavia, il loro modo di ragionare è difficile da capire per gran parte delle persone. Pensate solo all'affermazione comune usata per negare il ruolo umano nel cambiamento climatico, “gli scienziati erano preoccupati del raffreddamento globale nel 1970”. Indipendentemente dal fatto che sia vero o no (lo è solo marginalmente), ciò illustra l'abisso di differenza fra il modo comune di interpretare la realtà e quello scientifico. Gli scienziati credono di poter cambiare idea se i nuovi dati contraddicono le vecchie interpretazioni. Ma questo non è quello che fanno gli eroi nei racconti e nei film in cui, tipicamente, un personaggio comincia con una certa idea, combatte per quella per tutta la storia contro tutte le prove contrarie ed alla fine trionfa.
Quindi, nessuno presterebbe lontanamente attenzione a ciò che dicono gli scienziati, se se non per il fatto che occasionalmente inventano giocattoli che la gente sembra apprezzare molto, dagli smartphone alle testate nucleari. Ma quando si discostano dal loro ruolo di costruttori di giocattoli, le loro opinioni perdono di importanza nel dibattito. Anche se si tenta di argomentare che una vasta maggioranza di scienziati (forse il 97%) è d'accordo sul fatto che il cambiamento climatico generato dagli esseri umani è una realtà, non si ottiene niente. Anche una vasta maggioranza fra gli scienziati è una tale minuscola minoranza della popolazione generale che per la maggior parte della gente non vale la pena farci caso (compresi politici e decisori).
Alla fine, raccontare storie di solito ha più successo che argomentare usando i dati e i modelli. Infatti, dopo la conferenza, mi è stato detto che l'economista in doppiopetto è una persona molto influente e che i decisori ad alto livello del governo chiedono spesso a lui consigli in materia energetica. Evidentemente, è bravo a raccontar loro una bella storia.
Non tutte le belle storie hanno un bel finale, ma le belle storie possono sempre insegnarci qualcosa. Quindi, cosa possiamo imparare da questa? Una cosa è che abbiamo sbagliato tutto con l'idea di usare i dati per convincere le persone della realtà di cose come il picco del petrolio e il cambiamento climatico antropogenico. Sì, è possibile spostare leggermente le credenze delle persone nella giusta direzione se troviamo i modo di esporli per qualche tempo ai dati ed alla loro interpretazione. Ma il tipo di impegno che possiamo ottenere in questo modo è debole ed inefficace. Viene facilmente distrutto anche dai più brutali e primitivi metodi di propaganda: assegnare agli scienziati la parte dei cattivi della storia fa miracoli: come gli stessi specialisti in propaganda confessano, “fare i cattivi paga”. E una volta che una narrazione si è fatta strada nella mente delle persone è estremamente difficile – in pratica impossibile – snidarla da lì. Avete notato come, in gran parte delle trame, i cattivi rimangono cattivi sempre? E' come se fossero i personaggi di una vecchia farsa Atellana, che indossano la maschera appropriata al cattivo (o gli scienziati che indossano i loro nomignoli di fanatici tecnologici – geeks - o di teste d'uovo).
Un'altra cosa che possiamo imparare da questa storia è che siamo tutti umani e che nessuno di noi pensa come le macchine o come i robot. Gli scienziati possono essere formati a ragionare in termini di dati, ma anche per loro è difficile farlo sempre. Ragionare in termini narrativi ha accompagnato i nostri antenati per centinaia di migliaia di anni. Se questa cosa è ancora fra noi è perché ci ha reso un buon servizio per questo lungo periodo di tempo. Ciò che conta non è che il mondo possa essere visto come una storia che si dipana, ma quale storia si sta dipanando. Ed esite una storia diversa del mondo da raccontare, una storia infinitamente superiore all'attuale trama brutale che ci racconta che tutti i problemi che abbiamo sono legati al cattivo del giorno e che quando lo avremo bombardato e fatto a pezzi tutto andrà di nuovo bene. Questa è la trama dei racconti di serie B: ha poco a che fare con la letteratura, il tipo di letteratura che cambia le persone in meglio, che cambia il mondo in meglio. Una storia migliore del mondo dice che il mondo non è nostro nemico. Il mondo è, piuttosto, il nostro compagno (**): può fornirci beni generosi ma, come un compagno umano e com'è la materia di così tante storie, quello che facciamo al nostro compagno ci torna indietro. Se danneggiamo il mondo che ci circonda (o la “Natura” o “l'Ecosistema”, o in qualunque modo lo vogliate chiamare) ne saremo a nostra volta danneggiati. E ciò sta già accadendo. Questa è la storia che stiamo vivendo: possiamo essere i buoni o i cattivi, dipende da noi.
(*) Questo post è un resoconto fedele di una presentazione a un recente convegno sul picco del petrolio. Non faccio nomi, date, o luoghi; ma quelli che erano con me in quell'occasione riconosceranno senza problemi il relatore di cui parlo
(**) Il concetto di Natura come compagna della specie umana può essere trovato, per esempio, nel libro “Economia sacra” di Charles Eisenstein.