lunedì 5 maggio 2014

La crescita anti-economica

Da "Uneconomic growth in theory and in fact"  (traduzione d Jacopo Simonetta)

Prolusione di  Herman E. Daly. tenutasi al Trinity College, Dublino, 26/04/1999

     
   Ciò di cui voglio parlarvi oggi è un concetto che ritengo importante, anche se non se ne sente parlare molto.   Si tratta dell’idea della crescita anti-economica.   Sentiamo anche troppo parlare di crescita economica, ma la crescita anti-economica è possibile?   Io ritengo di si.

Questo pomeriggio, il testo per la mia presentazione è preso da John Ruskin: “Ciò che sembra essere ricchezza in verità potrebbe essere soltanto una dorata indicazione verso la sopravveniente rovina”.   Questo è il mio tema e voglio svilupparlo nel modo seguente:  Prima discuterò la crescita anti-economica in teoria.    Ha teoricamente senso?   Si può ricavare dalla teoria economica corrente?   Io ritengo che ciò è molto coerente con la teoria micro-economica, ma che confligge con la teoria macro-economica così come viene correntemente considerata.

In seguito discuterò quello che potrei definire “il problema del paradigma”, anche se utilizzerò un termine economico.    Josef Schumpeter, un grande economista della prima parte di questo secolo (XX° secolo ndt) parlava di una visione pre-analitica.   Ogni volta che ci impegniamo nell'analisi di qualcosa non partiamo dal nulla  – partiamo da una qualche percezione della natura dell’oggetto che andiamo ad analizzare.   Questa visione pre-analitica determina in gran parte quelle che saranno le nostre conclusioni.    Questo non è un atto di analisi, non potete arrivare ad una visione pre-analitica attraverso un’analisi.
Quindi, se vi avrò convinti della possibilità che la crescita anti-economica abbia forse un senso in teoria, esiste la crescita anti-economica nei fatti?   Magari è solo una scatola teorica vuota, senza niente di reale dentro.   Voglio quindi presentare qualche prova che negli Stati Uniti ed in alcuni altri paesi la crescita aggregata ci sta di fatto costando più di quanto rende e, di conseguenza, erode il benessere.
Parlerò degli Stati Uniti e non dell’Irlanda per la semplice ragione che non so niente dell’Irlanda, malgrado i miei antenati vengano da qui.    Così io vi ringrazio per avermi spedito dagli antenati e per condividere i vostri geni con me:   Ma poiché nessuna informazione sull’Irlanda viene trasmessa geneticamente, ho qualcosa da imparare.
In terzo luogo, dal momento che ho ipotizzato che l’ideologia della crescita infinita non deriva veramente dalla teoria economica, perché dobbiamo enfatizzare la crescita economica per nascondere la crescita anti-economica?   Io suggerisco che questo abbia a che fare con fondamentali problemi associati con i nomi di Malthus,  Marx, Keynes e, più di recente, con la Banca Mondiale.
Se ne avrò il tempo, vorrei poi dire anche qualcosa sulla globalizzazione come il maggior ostacolo al riconoscimento dell’esistenza di una crescita anti-economica e particolarmente al fermarla od evitarla.   Infine ci sarà uno spazio per la discussione.

Permettetemi di cominciare con la domanda: può la crescita del PIL (è questo che di solito chiamiamo crescita economica, la crescita del PIL). Può la crescita del PIL diventare di fatto anti-economica?  

Bene, prima di rispondere, penso che sia bene porsi una domanda simile in micro-economia.   Può la crescita di attività micro-economiche (cioè quelle di imprese e famiglie), possono queste attività diventare anti-economiche?   Certo che si.   Lo scopo stesso della micro-economia è trovare il livello ottimale di ogni attività.   Man mano che un’attività cresce, ne crescono i costi marginali che possono incrociare i guadagni marginali che decrescono.   Se si cresce oltre questo punto, diviene anti-economico.   L’essenza della micro-economia è l’ottimizzazione e questo implica fermarsi.   Così la regola dei costi marginali uguali ai benefici marginali, che vi è familiare se avete fatto il primo corso di economia, è efficacemente chiamata in alcuni testi “la regola del quando fermarsi”.    Mi piace questo ter mine: “la regola del quando fermarsi”.
Bene, avete avuto il vostro corso di micro-economia.   Ora viene il corso di macro-economia.  Niente più equiparazione dei costi e dei benefici marginali, niente più regola del quando fermarsi.   Semplicemente aggregate tutto nel PIL che si suppone poter crescere per sempre.    Questa trovo che sia una cosa curiosa.  Alla base della teoria economica, nella micro-economia,  l’idea della crescita anti-economica è fondamentale e  nient’affatto controversa, ma quando si passa alla macro-economia semplicemente si aggrega tutto.   Oops!   Di colpo non c’è più la regola del quando fermarsi e neppure una qualsiasi domanda circa un livello ottimale di attività.   Così, permettetemi di ragionare un po’ sul perché accada questo e, per farlo, consentitemi di tornare all'idea della visione pre-analitica, o paradigma che ho menzionato.

Vorrei prima presentare la visione pre-analitica dell’”Economia Ecologica”.

Questo è condiviso da molti altri economisti anche se ci sono varie discussioni.   Ho chiamato questo la macro-visione della macro-economia.   La cosa importante in questa visione è che l’economia viene considerata un sottosistema di un più grande ecosistema.   E l’ecosistema è delimitato, non cresce ed è chiuso dal punto di vista della materia.   Vi è un flusso in entrata di energia solare nel sistema maggiore ed un flusso in uscita di calore.   Degradandosi, l’energia solare fa girare i cicli bio-geo-chimici che sostengono la vita; è tutta quella roba verde che fa muove ogni cosa.   L’economia è quindi vista come un sotto-sistema aperto.   E’ aperto sia nei confronti della materia che dell’energia.   Preleva materia/energia a bassa entropia dall'ecosistema dove scarica materia/energia ad alta entropia e vive di questo gradiente.   Vive degradando materia ed energia.  

Quindi cominciamo esaurendo e terminiamo inquinando.   Non c’è modo di evitare questo salvo smettere di mangiare ed eliminare i rifiuti.   E’ una parte naturale dell’economia.   E’ il suo apparato digerente e deve stare dov'è.  

La materia può essere riciclata.   Possiamo prendere qualcosa dalla spazzatura ed usarlo di nuovo.   Qualcuno potrebbe pensare: “Bene, allora ricicliamo anche l’energia”, ma i fisici ci dicono che invece non possiamo.   Più esattamente, ci dicono che possiamo, ma che per raccogliere l’energia scartata, riportarla indietro ed usala di nuovo ci vorrà sempre più energia di quanta se ne possa recuperare.   Il costo energetico del riciclo di energia è sempre maggiore della quantità di energia riciclata.   Quindi è una proposta perdente e gli economisti devono capirlo.   Non è questione di quanto costa l’energia, non sarà mai possibile riciclare l’energia perché c’è una costrizione fisica sotto cui dobbiamo vivere: la seconda legge della termodinamica o legge dell’entropia.  Un’altra cosa.   Tutto ciò che si trova all'interno del cerchio che rappresenta l’ecosistema è misurato in unità fisiche.   Ma non possiamo analizzare l’economia in unità fisiche perché, se lo facciamo, raggiungiamo la conclusione che il prodotto fisico finale dei processi economici sono energia e materia di scarto e non ha molto senso avere un’economia il cui prodotto finale sono i rifiuti.   E’ una sorta di macchina idiota, ma questo è il prodotto fisico finale.  

Così, se volete ridare senso all'economia, dovete evitare le dimensioni fisiche e procedere verso qualcosa che imponga valore o benessere, soddisfazione psicologica dei desideri.   Ho messo questo fuori del cerchio e lo ho chiamato “Benessere”  (soddisfazione dei desideri) ed ho indicato due fonti di servizi.   La prima è la linea di sopra , servizi economici, che rappresenta il soddisfacimento di desideri tramite quello che ho chiamato “capitale antropico;” la roba marrone dell’economia, i manufatti.   La linea di sotto rappresenta invece  i servizi ecosistemici (la soddisfazione dei nostri desideri da parte degli ecosistemi, la roba verde).   In quanto economisti, quello che ci preme è massimizzare il benessere totale, cioè massimizzare la somma dei due flussi di benessere.   Non vogliamo massimizzarne uno solo, vogliamo che la somma fra i due sia più grande possibile.

Ora, quello che accade con la crescita economica è che la dimensione fisica dell’economia cresce trasformando quello che era roba verde (capitale naturale) in roba marrone (capitale antropico).   Un albero viene tagliato e trasformato in un tavolo; un albero in meno nella foresta, un tavolo in più in casa vostra e così via.   Ma via via che l’economia cresce, c’è un’occupazione nei confronti del rimanente ecosistema che si traduce in costo dipendente dalla perdita di opportunità (con un albero si possono fare sia tavole che sedie od armadi, mentre un tavolo resta tavolo finché lo si butta via. ndt).

Man mano che si espande il flusso marrone si riduce quello verde.   E magari continueremo finché l’incremento del flusso marrone sarà superiore alla riduzione di quello verde in termini di utilità per noi.   Ma ad un certo punto, molto prima di occupare tutto lo spazio verde trasformandolo in roba marrone, arriveremo ad un optimum: un punto oltre il quale ogni ulteriore crescita diventa anti-economica in quanto riduce i servizi eco sistemici più di quanto non incrementi quelli economici.

A quel punto l‘economia avrà raggiunto la sua dimensione ottimale in rapporto  all'ecosistema.
Notate qui che sto considerando esclusivamente il benessere umano.   Ho scelto di proposito un approccio estremamente antropocentrico.   Solamente gli esseri umani vengono qui presi in considerazione per il benessere.   Se volessimo valutare anche il senziente di godimento della vita da parte delle altre specie come parte del benessere, avremmo una ragione in più per mantenere parte della roba verde che è l’habitat delle altre specie.   Questo riduce ulteriormente le possibilità di espansione dell’uomo, nella misura in cui nell'equazione contiamo la riduzione del godimento della vita da parte delle altre creature senzienti.

Kenneth Boulding una volta presentò un teorema molto profondo: disse che quando qualcosa cresce diviene più grande.   Io chiamo le schema in alto lo scenario “mondo vuoto” e quello in basso “mondo pieno”.   Questo è un poco ingannevole perché il mondo non è mai vuoto.   Prima era vuoto di noi e dei nostri oggetti mentre era pieno di altre cose.   Ora è pieno di noi con la nostra roba e relativamente vuoto di quello che c’era prima; così è leggermente ingannevole, ma voi capite quel che voglio dire.

Le due figure sono fondamentalmente le stesse: entrambe mostrano l’economia come un sotto-sistema di un più grande sistema che è delimitato, progressivo e chiuso dalla materia.   In entrambi i casi l’economia dipende per il suo mantenimento dall'ecosistema che la contiene.   Possiamo essere in disaccordo su quale dei due schemi rappresenti meglio il mondo in cui viviamo.   Io tendo a dire che lo rappresenta meglio il mondo pieno.   Qualcun altro potrebbe dire: “No, il mondo vuoto, abbiamo ancora un sacco di spazio”.   Siamo entrambi nella medesima visione analitica e possiamo argomentare pro e contro, e possiamo mostrarci l’un l’altro delle prove per convincerci.

C’è un altro tipo di dibattito.   Magari non è un dibattito perché comincia con una visione pre-analitica molto diversa.   Dice: “No, questo non è il modo giusto di guardare la realtà.   State osservando il problema sbagliato.   L’economia non è un sotto-sistema di un più grande ecosistema delimitato eccetera; è tutto il contrario.    L’economia è il sistema globale di cui l’ecosistema è un settore ed a causa di questo errore che lo avete disegnato in questo modo”.

Che cos’è l’ecosistema?   Beh sono le cave e le discariche; cose di questo tipo e noi possiamo riciclare questi materiali sempre più in fretta man mano che l’economia cresce.   In questa rappresentazione l’economia cresce nel vuoto.   In questa visione, la crescita non occupa spazi a nient’altro.   Non c’è perdita di opportunità, niente viene sacrificato all'espansione dell’economia così che chi potrebbe essere contro la crescita?   Non provoca scarsità di nessun tipo, non usurpa niente a nessuno, non richiede alcuna rinuncia.   In effetti, la crescita semplicemente allenta le scarsità fra le varie parti interne al sistema economico cosicché solo l’idea che ci possano essere dei problemi con la crescita è un totale nonsenso ed è così che funziona il mondo.

Ora io penso che sia molto difficile argomentare fra questi due paradigmi.   E’ come fra Tolomeo e Copernico.   Si possono presentare delle prove, ma fondamentalmente è questione di come volete guardare la cosa.   Ciò non significa che una visione sia migliore dell’altra, significa che è difficile dirimere la questione.

Nello sforzo di essere più equo possibile, permettetemi di qualificare l’interpretazione che sto dando.   La roba marrone in questa figura… Nell'altra ricordo che faccio una netta separazione fra unità fisiche ed unità di benessere – le unità fisiche sono dentro il cerchio ed il benessere fuori.  La roba marrone è totalmente fisica.   Questo per essere chiari con gli economisti che stanno pensando a questo marrone come al PIL piuttosto che come  a tonnellate o barili eccetera.   Così, pensando ad un valore piuttosto che una dimensione fisica, gli economisti non sono corretti a dire che pensano di poter far crescere all'infinito degli oggetti fisici.   Quello che stanno pensando davvero è che è il valore che può crescere per sempre.  Ma il valore, vorrei dire, anche se non è riducibile a dimensioni fisiche, non è comunque indipendente dalle dimensioni fisiche.   Deve necessariamente avere una dimensione fisica.   Per adesso la dico come un’asserzione.   Qui nel mondo fisico, il valore deve essere in qualche modo incorporato in un corpo fisico.   Si, la conoscenza ha un valore, ma entra in funzione nell'economia quando viene incorporata in energia/materia a bassa entropia e svolge qualche funzione utile.

Bene, questa è a parer mio la differenza di paradigma.   La mia risposta agli economisti che dicono: “Tutto quel che vogliamo è far crescere all'infinito il valore, non l’energia e la materia!”  è dire: “Bello.   In questo caso restringete e rallentate il flusso di materia ed energia, occupatevi di tecnologia e lasciate che il valore supportato da questo flusso prestabilito cresca per sempre ed io vi applaudirò.  Io sarò contento ed anche voi lo sarete”.   Questa sarebbe una soluzione facile per quelli che davvero possono far crescere e crescere per sempre il PIL con un flusso materiale fisso.   Io penso che ci sia spazio per il progresso in questa direzione, ma penso anche che ci siano dei limiti. 

Riguardo alla questione della crescita anti-economica in teoria, cominciamo con una visione pre-analitica.   Facciamo un primo passo nell'analisi di questa visione.   La curva continua rappresenta il benessere o il vantaggio marginale o il beneficio della crescita.   Q sull'asse orizzontale rappresenta il PIL.  Come usciamo dall'asse orizzontale abbiamo una riduzione del margine utile.   I penso che questa sia una legge dell’economia, fondamentale e ben stabilita (legge dei “rendimenti - o ritorni -  decrescenti”, ndt).
La curva tratteggiata qui sotto è il costo della crescita del PIL – in altre parole, i sacrifici sociali ed ambientali resi necessari dal fatto che la crescita occupa spazio all’ecosistema.   Ho chiamato questa “visione jevoniana” in onore a William Stanley Jevons, un grande economista intorno al 1870, che usava questo tipo di diagrammi per altro tipo di problemi, ma la logica è assolutamente la stessa.   In questo diagramma cos’è la crescita anti-economica?   Beh, la crescita economica è fino al punto B sull’asse orizzontale.   In corrispondenza di B il segmento AB è uguale a quello BC:   Il vantaggio marginale è uguale all’aumento dei costi.   Crescere oltre il punto B è anti-economico.   Poiché la distanza fra l’asse orizzontale e la linea tratteggiata è maggiore della distanza fra l’asse e la linea continua, la crescita vi rende più poveri anziché più ricchi.   E così abbiamo la definizione di crescita anti-economica: la crescita oltre il punto “B”.

Ho distinto diversi limiti alla crescita.   Uno è il punto B, il limite economico in cui il vantaggio marginale equivale al costo marginale.   Un altro è il punto E dove l’utilità marginale arriva a zero.   Ho chiamato questo il limite della futilità perché quando siete qui avete così tanti beni da godere che non avete tempo di godervene nemmeno uno.   Conseguentemente, aggiungerne ancora non vi da niente perché già non potete usare tutta la roba che avete.   E’ comunque futile, indipendentemente da quanto poco costa.   Il terzo punto è D dove la curva tratteggiata gira in picchiata verso l’infinito.   Chiamo questo il limite della catastrofe, il limite della catastrofe ecologica.    C’è un grazioso scenario dove voi inventate un qualche meraviglioso nuovo prodotto che ha un imprevedibile effetto collaterale che distrugge la capacità delle piante di fotosintetizzare ed improvvisamente zap!   Beh, la cosa piacevole del limite economico è che è il primo che incontriamo.

Gli altri due limiti non necessariamente devono apparire nell'ordine in cui li ho mostrati.   Il limite catastrofico potrebbe arrivare prima del limite della futilità.    Comunque, i penso che il limite economico arrivi prima, anche se nello scenario peggiore potrebbe coincidere con quello catastrofico.
Mi pare che sarebbe molto carino se nella nostra contabilità nazionale avessimo due serie di dati invece di una.   Se ho un set di dati che misurano i benefici (la linea continua) ed un’altra che misura i costi (la linea tratteggiata) e potessimo sommarli in modo da accorpare costi e benefici, potremmo confrontarli nello sforzo di cercare un livello ottimale di attività piuttosto che semplicemente presumere che l’attività economica debba crescere per sempre.

OK, penso che questo sia tutto quello che vi dirò sulla teoria.   Per quanto riguarda la realtà, ci sono degli indizi che qualche paese sia forse oltre il punto B, in una zona di crescita anti-economica?   Vi offro due elementi di prova.
Uno.   Ci sono due importanti economisti americani, William Nordhaus and James Tobin.  Tobin ha vinto il premio Nobel per un altro lavoro.   Circa trenta anni fa si posero la domanda: “La crescita è obsoleta?”   Penso che con obsoleto intendessero anti-economico.   Per rispondere a questa domanda dissero: “Tutti noi sappiamo che il PIL non è mai stato una misura di benessere.   E’ una misura di attività.   Giusto, quindi cerchiamo di testarla.   Costruiamo un indice che misuri il benessere o quello che pensiamo sia una misura del benessere e quindi correliamolo con il PIL “   Chiamarono il loro indice “Benessere Economico Misurato”, MEW, e scoprirono che, certo, c’era una correlazione.  

Nell'insieme del periodo 1929-1965 per ogni incremento di 6 unità di PIL c’era in media un aumento di 4 unità di MEW.   Non uno ad uno, ma 6 a 4.   Non male.   Un sospiro di sollievo.   La conclusione che raggiunsero fu che, anche se il PIL non era mai stato inteso come misura di benessere, comunque era sufficientemente ben correlato con il benessere da poter continuare ad essere usato considerando che sia una ragionevole misura del benessere. 

Bene, circa 20 anni dopo John Cobb, Clifford Cobb ed io decidemmo di dare un’altra occhiata a questa faccenda.   Stavamo sviluppando il nostro indice di benessere economico sostenibile e pensammo che il lavoro di Tobin e Nordhaus fosse la migliore base che potessimo trovare.   Spezzammo la loro serie temporale in due segmenti e scoprimmo che nel secondo periodo, i 18 anni fra il 1947 ed il 1965, la correlazione non era 6:4, bensì l’incremento di 6 unità di PIL davano un incremento di una sola unità del loro indice di benessere economico.   Così, come minimo, sembrava che l’aumento del PIL diventasse un modo sempre meno efficiente di incrementare il benessere sulla base dei loro stessi dati, delle loro stesse definizioni eccetera.   Avremmo voluto estendere il loro lavoro e vedere cosa succedeva dopo il 1965, ma non potemmo perché la serie statistica era cambiata.

Il loro indice non ci piace comunque perché non prevede nessuna correzione per i cambiamenti nella distribuzione dei redditi, per il depauperamento del capitale naturale ecc.   Così sviluppammo un altro indice che chiamammo “Indice di Benessere Economico Sostenibile” (ISEW).   E facemmo la stessa cosa che avevano fatto Nordhaus e Tobin.   Correlammo il nostro indice con il PIL e c’era una correlazione positiva all'incirca fino alla seconda metà degli anni settanta, quindi il nostro indice stagnava mentre il PIL continuava a crescere.   Addirittura il nostro indice declinava lievemente, mentre il PIL cresceva.

Non facemmo grandi cambiamenti rispetto al MEW.   Giusto applicammo una sottrazione per il depauperamento  del capitale naturale ed introducemmo una correzione relativa alla ripartizione dei redditi perché pensammo che fosse contrario alla teoria economica valutare un dollaro in più di reddito per una persona molto ricca alla stessa stregua di un dollaro in più per un povero.   Non applicammo nessuna deduzione per la riduzione del vantaggio marginale del reddito complessivo delle nazioni che diventano più ricche.   Neppure deducemmo qualcosa per il consumo di beni pericolosi come tabacco, alcol, eccetera.   Quindi giocammo in modo molto conservatore e, ciò nondimeno, trovammo che il benessere misurato da questo numero negli USA diminuiva, mentre il PIL cresceva.

Ora, sappiamo che misurare il benessere è un affare molto difficile ed insidioso.   Non voglio dire che la nostra misura è una grande misura del benessere, ma dimostra il fatto che quando progettarono il PIL non tentarono nemmeno di misurare  il benessere.   Noi ci abbiamo provato e probabilmente abbiamo trovato una misura un poco migliore del PIL.   E la correlazione fra i due è molto scarsa.

Ok, questo è solo un assaggino di crescita anti-economica.   Io penso che la crescita degli Stati Uniti, la crescita aggregata, sia anti-economica perché i costi aumentano più rapidamente di quanto facciano i benefici.   Con questo voglio dire che non c’è modo di migliorare il benessere degli Stati Uniti?   No, certamente no.    Ci sono un sacco di cose che devono crescere ed altre che devono declinare.   Il problema è l’aggregazione del PIL.   Se volete parlare delle cose che devono crescere dovete lasciar perdere gli aggregati ed occuparvi delle parti.   Dovete allontanarvi dalla macroeconomia, occuparvi di microeconomia ed identificare quegli elementi per i quali i benefici marginali sono ancora maggiori dei costi marginali.   Questo vi allontanerà dalla grossolana politica di stimolare genericamente la crescita economica aggregata che rappresenta il problema maggiore.


Ora permettetemi di occuparmi di qualche ragione di storia politica per controllare la crescita.   Ho detto che la spinta per la crescita in effetti non deriva dalla teoria economica standard che dice che esiste qualcosa come un optimum dove vi dovete fermare.   In macroeconomia invece non lo facciamo, andiamo avanti a crescere.   Da dove viene questo mandato?   Voglio suggerire diverse origini.    Penso che scaturisca dai problemi politici pratici di cui si occupano gli economisti.   Per esempio, il problema pratico della sovrappopolazione associato con il nome di Malthus.   La cura standard per la sovrappopolazione nel modo di oggi è la transizione demografica.   Se semplicemente andiamo avanti con la crescita economica, arriveremo ad un punto oltre il quale le persone cominceranno ad essere sempre più ricche e cominceranno ad avere automobili e frigoriferi invece di bambini.   L’economia cresce, la popolazione tende a diminuire e la transizione demografica avviene automaticamente.   Quindi se siete preoccupati per la popolazione, si è legittimo esserlo, ma non vi preoccupate, semplicemente dedicate ogni vostro sforzo alla crescita economica ed il problema demografico si risolverà da solo.

Ora consideriamo un altro grosso problema, l’iniqua distribuzione dei redditi fra classi sociali, largamente associata con il nome di Karl Marx fra i molti altri.   Quale è la soluzione?   Ridistribuire?

Oh no, questo causerebbe dei problemi.   Cresceremo in modo che l’iniqua distribuzione fra classi divenga perlomeno tollerabile.   Voglio dire che anche se il ricco arricchisce più rapidamente del povero, il povero non può protestare perché anche lui si sta arricchendo.   Quindi il modo per far stare tutti meglio è la crescita aggregata.   “La marea montante alza tutte le barche” si dice, ma naturalmente non è vero dal momento che una marea che sale in una parte del mondo significa una marea calante altrove, ma forse per una parte del mondo può essere vero.

Che dire della disoccupazione involontaria, il grande problema riconosciuto da John Maynard Keynes e, naturalmente, molti altri.   La cura è stimolare la crescita aggregata..   E come stimolare la crescita aggregata?   Beh, ci sono molti modi, ma il principale è l’investimento.   Devi stimolare gli investimenti e la crescita e questo curerà la disoccupazione.

Dobbiamo crescere oltre il livello ottimale per perseguire il pieno impiego?  Pare che questa sia un’importante domanda che non viene posta.  

Continuando in quest’epoca l’onorata tradizione di Malthus, Marx, e Keynes, durante il 1992 apparve il Rapporto della Banca Mondiale sullo Sviluppo Economico che quell'anno era dedicato allo sviluppo ed all'ambiente.  “Si”, diceva, “c’è un problema di degrado ambientale, ma hey, guarda!   Basta mantenere la crescita.   Crescendo abbastanza, magari diventiamo abbastanza ricchi da pagare i costi di ripulire e migliorare l’ambiente.”   Così, nella onorata tradizione, hanno trovato qualcosa che hanno battezzato “Curva ambientale di Kuznets” da Simon Kuznets che fu un grande statistico ed economista.   L’idea è una curva a forma di U rovesciata.   Man mano che la crescita economica prosegue lungo l’asse orizzontale, nel caso di Kuznets, la disuguaglianza cresce fino ad un massimo e poi diminuisce fino ad un qualche punto.   Bene, hanno adattato questo dicendo che l’asse orizzontale mostra la crescita del PIL.   Poi hanno preso un certo numero di misure di cose diverse, accuratamente scelte e, sicuramente, hanno trovato che alcuni tipi di inquinamento crescevano con il PIL fino ad un massimo per poi declinare.   Hurrà!   La cura per un problema ambientale è semplicemente persistere nella crescita anti-economica.    Una volta superato il picco la curva ridiscende e si entra in un campo di soluzioni sempre vincenti, tutto va contemporaneamente meglio eccetera.

Allora, quale è il punto dove voglio arrivare?   Il punto è che tutti questi problemi hanno la stessa soluzione: più crescita economica presupponendo che la crescita sia effettivamente economica in ogni caso, che questa crescita ci stia davvero rendendo più ricchi anziché più poveri.   Ma se entriamo in un’era di crescita anti-economica, la crescita ci renderà più poveri.   Questo non sosterrà la transizione demografica per curare la sovrappopolazione, non aiuterà a riparare l’ingiusta distribuzione e neppure a ripulire l’ambiente.

Quindi abbiamo bisogno di soluzioni più radicali ai problemi di Malthus, Marx e Keynes .   Controllo della popolazione per contrastare la sovrappopolazione.   Ridistribuzione per contrastare le ineguaglianze eccessive.   Per la disoccupazione non sono sicuro di conoscere la risposta: forse il settore pubblico come datore di lavoro di ultima istanza, una riforma ecologica della tassazione, alzare il prezzo delle risorse, condivisione del lavoro, soluzioni diverse.

Questa per me è una conclusione su cui riflettere.   Mi pare che la ragione per cui abbiamo enfatizzato politicamente la crescita, ponendola al primo posto, è che senza essere radicale dovrebbe risolvere tutti questi devastanti problemi: sovrappopolazione, disoccupazione, iniqua distribuzione, ecc.   Offre una soluzione sempre vantaggiosa a tutti questi problemi che ci schiacciano le ossa.   Togliete la crescita e dovrete trovare delle soluzioni davvero radicali, cosicché i politici non vogliono farlo ed il pubblico non è pronto per sopportarlo.   Ma se la crescita attuale è davvero anti-economica, allora dobbiamo fronteggiare soluzioni di tipo veramente radicale ai problemi fondamentali.   Niente di più tentante di pensare: “Beh, di sicuro la crescita deve essere economica.”   E tirare avanti.
In chiusura, lasciatemi puntualizzare che ritengo che il tipo di politiche radicali cui ho fatto cenno senza definirle veramente (politiche per contrastare la sovrappopolazione, l’ingiusta distribuzione ed il degrado ambientale) devono essere portate avanti dagli stati nazionali a livello nazionale.   Questo è l’ambito comunitario nel mondo di oggi; questo è l’ambito in cui le autorità attuano la politica.   So che le cose stanno cambiando, che si stanno spostando, ma è quello che esiste adesso e se avremo globalizzazione temo che questo ridurrà la capacità delle nazioni e delle comunità di sviluppare il tipo di politiche molto radicali di cui abbiamo bisogno per fronteggiare queste difficoltà.

Concludendo, giusto per chiarezza, vorrei distinguere l’internazionalizzazione dalla globalizzazione.   Per me l’internazionalizzazione si riferisce alla crescente importanza del mercato internazionale, dei trattati, delle alleanze eccetera.   Internazionale, naturalmente , significa fra nazioni.   L’unità di base rimane la nazione, anche se le relazioni fra nazioni diventano sempre più importanti, cruciali e necessarie.   Questa è l’internazionalizzazione. 

Globalizzazione si riferisce invece all’integrazione economica di molte economie precedentemente separate.   La globalizzazione, perlopiù tramite il libero commercio e la libera mobilità dei capitali, ma anche in misura minore favorendo le migrazioni, è un’effettiva erosione delle frontiere economiche nazionali.    Quello che prima era internazionale adesso diventa inter-regionale, quello che era governato dal vantaggio relativo e dal reciproco guadagno adesso diviene governato dal vantaggio assoluto senza alcuna garanzia di reciproco guadagno.   Ciò che era molti diventa uno.   La stessa parola integrazione deriva da “integer”, sicuro, ed integer significa uno, completo ed unico.   L’integrazione è l’atto di amalgamare in un tutto unico. E Siccome c’è un solo tutto unico, una sola unità di riferimento in cui le parti sono integrate, ne consegue logicamente che l’integrazione economica globale implica la disintegrazione delle economie nazionali.    

Con disintegrazione non intendo che scompaiono le unità produttive, solo che sono estratte dal contesto nazionale e riarrangiate su base internazionale.   Come dice il proverbio: “Per fare una frittata bisogna rompere le uova”.   Per integrare la frittata globale bisogna rompere un po’ di uova nazionali.   Mentre suona simpatico parlare di “comunità mondiale”, dobbiamo confrontarci con i costi a livello nazionale dove le istituzioni e le comunità esistono veramente.   Disintegrare le comunità dove esistono, al livello nazionale, nel nome di un ideale e speranzosa nozione di comunità attenuata dove questa ancora non esiste, a me sembra molto problematico (l’autore è statunitense e ritengo che per livello nazionale si riferisca quindi ad un livello federale analogo a quello degli USA, non a quello dei suoi singoli stati della federazione ndt.).   

Globalizzando, togliamo agli stati la capacità di imporre ed attuare le politiche necessarie per internalizzare i costi esterni, controllare la popolazione, fare le cose necessarie.   Entriamo in un regime di competizione al ribasso in cui le compagnie transnazionali possono giocare un governo contro un altro allo scopo di ottenere la minore intenalizzazione possibile dei costi sociali ed ambientali delle loro produzioni.   In questo processo, secondo me, i principali sconfitti saranno le classi lavoratrici dei paesi che, per qualsiasi ragione, avevano fatto in modo di mantenere alti salari, bassa crescita demografica, alti standard di internalizzazione dei costi ambientali.   Tutti questi standard saranno schiacciati a livello della media mondiale che sarà relativamente bassa.   Perciò io vedo la globalizzazione come l’ostacolo maggiore all'attuazione del tipo di politiche radicali che sono necessarie per evitare la spirale decrescente della crescita anti-economica.

In effetti, a me sembra che la globalizzazione sia solo un modo per ridimensionare la capacità delle nazioni di contrastare i propri problemi di sovrappopolazione, iniqua distribuzione, disoccupazione e costi esterni.   Tende a convertire molti problemi difficili, ma relativamente trattabili, in un grande ed intrattabile problema globale.   Per questa ragione penso che dovremmo essere molto accorti a celebrare e promuovere la globalizzazione ed invece tornare al modello dell’internazionalizzazione.  

Questo non significa rinunciare ad una comunità economica globale, una comunità mondiale: è un differente modello di comunità.   Significa che il mondo può essere una comunità di comunità, di nazioni federate in una comunità, piuttosto che membri diretti di una comunità in cui non c’è intermediazione da parte delle nazione che fondamentalmente spariscono.   
Bene, dopo questa provocazione io penso che forse sia meglio fermarmi.





42 commenti:

  1. insomma l'internalizzazione, attraverso i trattati, diventa globalizzazione, che è il nuovo sistema di conquista senza guerre e senza che i popoli conquistati se ne accorgano. Era molto più onesto dare la possibilità di difendersi, ma l'epoca della cavalleria è ormai passata da un pezzo. Pensare che in uno scontro tra Longobardi, che combattevano a piedi e Goti, che combattevano a cavallo, questi scesero dalle loro cavalcature, perchè era disonorevole combattere col vantaggio del cavallo un nemico a piedi. E' triste vivere in un mondo dove l'onestà non è più un pregio.

    RispondiElimina
  2. C'è differenza fra internazionalizzazione e globalizzazione. Innanzitutto nel caso di accordi internazionali, i vari contraenti mantengono il controllo della loro situazione interna e possono recedere. La globalizzazione prevede invece il graduale passaggio del potere decisionale in materia economica dagli stati al WTO e sanzioni se questi contravvengono alle decisioni. Ma non è una federazione che comporta un'unificazione anche politica e quindi una condivisione delle responsabilità. Al contrario, un organismo internazionale acquisisce il diritto di dettare le regole economiche e finanziarie in casa tua, mentre tutto il resto resta sul gobbo ai singoli. Ci sono anche altre differenze sostanziali, ma sono complicate; Daly e Farley ci dedicano tre capitoli interi del loro manuale di economia ecologica.
    Jacopo

    RispondiElimina
    Risposte
    1. non mi sembra che i politici nostrani, diciamo democraticamente eletti, siano molto liberi nelle loro decisioni. Mi sembrano più dei burattini messi lì per incantare il popolino reso scimunito, una sorta di pifferaio magico.

      Elimina
  3. Scusate, ma nel frattempo abbiamo superato, per la prima volta nella storia umana, le 400 ppm di CO2.
    http://www.esrl.noaa.gov/gmd/ccgg/trends/index.html

    RispondiElimina
  4. Mah il discorso di questo economista (di chiaro stampo macroeconomico) è molto articolato, ma spesso più che teorico diventa astratto ed utopistico o peggio, senza rendersene conto, moralistico (confesso che dovrei anche rileggerlo con più attenzione).
    La distinzione tra una "internazionalizzazione" buona ed una "globalizzazione" cattiva lo dimostra.
    In realtà il concetto di globalizzazione è poco rigoroso ed ha una forte componente emotiva tanto che viene visto in maniera totalmente discordante:
    per alcuni (anche se non molto numerosi nei ricchi Paesi occidentali) è l' occasione concreta che ha permesso a centinaia di milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo dii "crescere" economicamente, liberarsi dalla fame ed aumentare il proprio benessere, per altri (visione che fa molto comodo soprattutto ai politicanti ma viene ripresa per altra via dal signor Daly in chiave tipicamente statunitense) è una specie di mostro che scorrazza nel mondo scatenato da chissà quali burattinai per impoverire i lavoratori (un po' la riedizione marxista del mostro capitalista che affama la classe operaia).
    Riguardo al presente è difficile vedere con chiarezza visto l' enorme polverone sollevato. Certo la frase verso la fine del post che recita "a me sembra che la globalizzazione sia solo un modo per ridimensionare la capacità delle nazioni di contrastare i propri problemi di sovrappopolazione, iniqua distribuzione, disoccupazione e costi esterni" convincerà molti e sembrerà corretta.
    Ma secondo me è in gran parte errata.

    Infatti (prendo apposta due Nazioni molto diverse che stanno cavalcando la globalizzazione in maniera vincente ma assai differenziata) in Cina ed in Germania in questi 2 decenni di globalizzazione è avvenuto più che altro l' opposto:
    buon contrasto alla sovrappopolazione, miglioramento della distribuzione sociale, diminuzioen della disoccupazione con il problema (che non nego) dei "costi esterni" scaricati sugli ecosistemi.
    A questo riguardo (le famose "esternalità" degli economisti) però faccio notare due cose:
    1) una parte di questi costi sono "Interni " alle Nazioni, nel senso che l' inquinamento delle acque del suolo e di parte dell' aria dell' industrializzazione cinese lo subiscono in gran parte i Cinesi (come quello della prima rivoluzione industriale è stato subito dai britannici e quello delle nostre piccole e grandi Ilva dai cittadini italiani)
    2) la parte di costi "esterni" alle singole Nazioni, ossia il Global Warming colpirà in maniera caotica in tutto il mondo, anche i popoli che non ne sono responsabili se non marginalmente, ma non è risolvibile in un' ottica "internazionalizzata".
    In quest' ottica è nato il trattato di Kyoto ed i suoi successori il cui esito, per quanto positivo a livello di impegni internazionali (la riduzione di CO2 del complesso dei Paesi aderenti rispetto al 1990 è addirittura diminuita al di là dei target) NON ha avuto effetti globali.
    Anzi la realtà è che le ppm di CO2 in atmosfera crescono come pure crescono i miliardi di tonnellate emessi ogni anno dall' umanità divisa tribalmente nei suoi 200 circa Stati e staterelli odierni.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. A me la crescita economica sembra utopica.

      Elimina
    2. L'umanità attualmente è divisa in "stati", formati da milioni di persone.
      Se fosse divisa "tribalmente", lo sarebbe in "tribù", che sono associazioni di esseri umani, completamente AUTOSUFFICIENTI (le tribù non necessitano di commercio, sono autosufficienti nel territorio) e inserite simbioticamente nella natura.
      Io amo i "popoli tribali".
      Loro ci possono insegnare il PARADIGMA (MODELLO) che ha permesso al genere umano di vivere per 2 milioni di anni sul pianeta Terra senza distruggere la natura che li ha nutriti..
      Invece adesso che non siamo più suddivisi in "tribù", stiamo distruggendo il mondo.

      Gianni Tiziano

      Elimina
    3. Ho dimenticato di dire che le tribù sono composte da non più di 50 persone.

      Tiziano

      Elimina
    4. Beh, la crescita di consumi energetici/materiali esiste ed è gigantesca. E' la crescita senza limiti che più che utopica risulta impossibile.

      Riguardo al termine "tribù" da me usato lo consideravo al posto di "supertribù" (tra cui appunto gli Stati-Nazione) nel senso datogli da Desmond Morris.
      Poi si può pure rimpiangere il neolitico (dove i commerci, sotto forma di baratti, erano piuttosto sviluppati, come dimostrato dai reperti di ossidiana trovati a migliaia di km di distanza nell' antico oriente e provenienti da un' unica fonte) ed immaginarsi un utopico mondo futuro di piccole patrie autarchiche (simile, ma in peggio, a quellodominato dall' economia curtense nell' alto medioevo europeo) ma la storia umana, piaccia o no, ha percorso una strada differente nelle ultime migliaia di anni.

      Elimina
    5. La "tribù" composta di massimo 50 esseri umani, completamente autosufficiente ed in simbiosi all'interno della natura, è molto diversa dalla "supertribù" organizzata in Stati-Nazione, di milioni di esseri umani.
      Non rimpiango il neolitico (8.000 a.C.-2.000 a.C.), che considero l'inizio del disequilibrio dell' uomo all'interno della natura e poi della dominazione dell'uomo sulla natura, tramite l'agricoltura e l'allevamento, e della dominazione dell'uomo sull'uomo tramite la instaurazione delle gerarchie.
      Neppure rimpiango il medioevo.
      Rimpiango il paleolitico, quando l'uomo era in equilibrio col resto della natura, faceva parte della natura senza dominarla, e senza causare i guai che dal neolitico in poi hanno portato alla situazione attuale di degrado del pianeta.

      Gianni Tiziano

      Elimina
    6. Scusa, il neolitico va dal 8.000 avanti Cristo al 5.000 avanti Cristo.
      Il paleolitico invece va da 2.500.000 anni avanti Cristo a 10.000 anni avanti Cristo.

      Gianni Tiziano

      Elimina
    7. MT puoi rimpiangere qualunque periodo storico o preistorico a tua scelta, ma è inutile, è come lamentarsi del latte versato.
      Riguardo all' idea che l' uomo fosse in equilibrio con la natura è molto diffusa ma ha basi affettive e non razionali. Da quando è sorta la vita sulla terra questa ha modificato continuamente il pianeta in maniera dinamica ed evolutiva, senza mai raggiungere nel corso delle ere alcun equilibrio. L' errore nasce dal fatto che i tempi di questa modifiche spesso sono molto lenti su di una scala umana, avolte impercettibili. Ma gli esseeri viventi sono strutture dissipative dal puntodi vista termodinamico che degradano l' energia utilizzata per mantenere (finchè sono vivi) i propri parametri vitali entro certe fluttuazioni accettabili. Tutti gli esseri viventi, nessuno escluso.

      Elimina
    8. Ancora sopravvivono esseri umani organizzati in tribù di massimo 50 esseri umani.
      Questo significa che nel “neolitico” SOLO UNA PARTE della umanità si aggregò in organizzazioni sociali numericamente più grosse.
      Queste organizzazioni erano i villaggi e le città, successivamente aggregate in città stato e stati.
      Fu un passaggio graduale alla “civiltà”.
      I popoli “civili” misero a ferro e fuoco i pacifici “incivili” organizzati in tribù, li schiavizzarono e li “civilizzarono” contro la loro volontà, e si appropriarono delle loro terre, e tuttora lo stanno facendo.
      Io cerco di dire una parola per difendere la vita dei popoli tribali, che ancora vivono rispettosi della natura.
      La “storia” dell'uomo è solo 7.000 anni di civiltà di fronte alla preistoria dell'uomo di 2.000.000 di anni di vita in simbiosi nella natura.
      Tiziano

      Elimina
    9. Ovviamente sono d' accordo sul fatto che oggi esistano popolazioni organizzate in piccole tribù. E sono anche d' accordo che queste meritino rispetto ed abbiano la stessa fondamentale dignità degli altri esseri umani cosiddetti "civilizzati".
      E' pure vero che la cosiddetta "storia" è iniziata al massimo 10mila anni fa (sui 2 milioni lascerei perdere, perchè noi come specie siamo comparsi 150-200mila anni fa).
      Ma questi fatti possono forse far svanire come per magia che:
      - i popoli tribali sono oggi una piccolissima percentuale dell' umanità
      - la storia (non solo quella umana, anche quella biologica ed evolutiva di tutte le specie) è irreversibile?

      Piacerebbe anche a me che l' umanità non fosse arrivata a 7 miliardi di persone ognuna con un consumo medio di risorse non rinnovabili (e quindi in via di esaurimento) superiore a quello di un' interà tribù, ma la realtà è questa.
      E sono anche convinto che una transizione a modi di produzione globali basati in gran parte su risorse rinnovabili sia inevitabile.
      Ma non credo proprio che questa si realizzerà per opera di rimpianti relativi ad un passato remoto.

      Elimina
    10. 2 milioni di anni fa comparve il genere Homo.
      La specie Homo Sapiens comparve 195 mila anni fa (fonte Wikipedia).
      Gli altri homo (homo erectus, homo di neanderthal ed altri), pure erano uomini !
      Gli uomini erano TUTTI organizzati in piccole tribù fino a diecimila anni fa.
      I popoli tribali organizzati in piccole tribù “attualmente” sono una piccolissima percentuale della umanità perchè gli umani che si sono assogettati alla “civiltà” hanno cominciato 10 mila anni fa a combatterli con armi impari e distruggerli, alla stesso modo di come stanno (stiamo) distruggendo gli animali : balene, albatros, orsi, lupi, rinoceronti, tigri, leoni, elefanti, rondini, coccinelle, api.
      L'uomo civilizzato porta la distruzione, e stà trasformando la massa biologica terrestre in biomassa “civilizzata”, addomesticata.
      La “biodiversità” è un modo escogitato dalla natura per preservare la vita.
      Noi uomini civili la distruggiamo e così facendo stiamo scrivendo la nostra condanna.
      La storia è irreversibile, nel senso che ciò che è successo è successo.
      Propongo di fare un gioco interessantissimo : voliamo all'esterno del pianeta, fuori dell'atmosfera, nello spazio, ed osserviamo la Terra dal di fuori : vediamo una specie di cancro che stà tutto distruggendo : è l'uomo “civilizzato”.
      Questo cancro ha iniziato ad espandersi 10 mila anni fa.
      Io desidero contribuire a ridimensionarlo.
      Le piccole tribù non civilizzate sono composte da homo sapiens come noi civilizzati.
      La civiltà essenzialmente è “dominio”.
      Rinunciare alla civiltà significa ritornare alla simbiosi con tutti gli altri esseri viventi, all'interno della natura.
      Tutti i grandi problemi che stiamo vedendo si dissolveranno come neve al sole.
      Ecco il link per in piccolo filmato di due minuti e mezzo sulla “civilizzazione” :
      http://www.survival.it/arrivano-i-nostri

      Gianni Tiziano

      Elimina
    11. Ok, Gianni ho capito, anche grazie alle citazioni da wiki ed alle profezie sulla neve, di che pasta sei fatto.
      Sei un uomo civilizzato.
      Buona rinuncia!

      Elimina
    12. Anch'io adoro le tribu amazzoniche di 50 individui e darei la mia vita per uno di loro ma i cimiteri dei loro villaggi sono pieni a meta' di giovani col cranio fracassato e l'altra meta' di vecchi sui 40 anni. Yuval Harari - Sapiens: A Brief History of Humankind.
      In pratica sono per sostituire il PIL con un indice di Qualita' della Vita come parametro di merito per valutare la maggior parte dei cambiamenti che ci aspettano.

      Elimina
  5. Bel lavoro, complimenti. Integriamolo con questo video di Steve Cutts intitolato "Orgoglioso di essere umano?".

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Daniela, il link mi manda in una pagina inesistente. Puoi controllarlo?
      Grazie

      Elimina
    2. Ecco il link funzionante in you tube :
      https://www.youtube.com/watch?v=WfGMYdalClU
      da vedere !

      Gianni Tiziano

      Elimina
    3. Lo avevo visto tempo fa, ma lo ho riguardato perché nella sua ferocia è giusto. L'unica cosa che secondo me sciupa tutto sono gli alieni. Che c'entrano? Una volta che uno è solo su di un cumulo di spazzatura muore di fame e di disperazione, senza bisogni di marziani che lo pestano. Sarebbe stato ancora più significativo.
      Jacopo

      Elimina
    4. Perfettamente d'accordo con te.

      Tiziano

      Elimina
    5. Grazie a madre Terra...che ha messo il link giusto!
      Chiedo scusa per il disguido...

      Elimina
  6. Ricordando che sono il traduttore e non l'autore dell'articolo, vorrei rispondere a due osservazioni:
    1 A Madre Terra: sono d'accordo con te in quanto se avessimo mantenuto la struttura per tribù di 50 persone oggi saremmo ancora lo stesso numero che eravamo alla fine del paleolitico e niente di quello che è successo sarebbe mai avvenuto. Non è escluso che in un secolo o due non ci si ritorni e magari chi ci sarà starà benone, ma la strada per arrivarci è letteralmente pavimentata di cadaveri. Un viaggio che se ci tocca faremo, ma che non sono ansioso di intraprendere.
    2 - Ad Anonimo a proposito dei costi "interni" ed "esterni". Nel contesto in cui li usa Daly, questi due termini non si riferiscono agli stati, ma ai prezzi. Un costo è "interno" quando è compreso all'interno del prezzo di vendita (ad es. gasolio, concime e semente per fare il grano). Questi li paga chi compra. Invece è "esterno" un costo che non contribuisce a formare il prezzo finale del bene o servizio (ad es. le emissioni di CO2 del trattore e del camion, l'inquinamento del fiume a valle, ecc.). Questi li pagano tutti, indifferentemente dal fatto che usufruiscano o meno del bene/servizio che ha generato quei costi.

    Un mio personale commento all'articolo è che come europeo ho maturato una fortissima avversione al concetto stesso di "stato nazionale", così come si è formato nel XIX secolo e come è, sostanzialmente ancora inteso. Se facciamo un po di conti, la quantità di vite, di sofferenze inutili e di distruzioni assurde che abbiamo tributato a questo concetto è seconda solo a quella che tributeremmo al concetto di "crescita economica".
    Jacopo

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Jacopo al punto 2: a me era chiaro l' utilizzo dei termnini del Daly, ed infatti stavo commentando le esternalità degli economisti dal mio punto di vista. E lo ribadisco, alcune di queste esternalità (tipo l' inquinamento delle acque) sono pagate non da tutti, ma dai "poveracci" che localmente sono a contatto con le acque inquinate, altre (come il GW) sono pagate in un certo senso da tutti (ossia da tutta la popolazione mondiale) anche se non in maniera omogenea. Anzi per quanto minoritarie regionalmenteci saranno situazioni in cui il GW ha effetti positivi, tipo la Groenlandia che in questi annio ha visto un incremento della produzione di cibo e una diminuzione delle importazioni dall' ester(n)o.

      Riguardo al concetto di "stato nazionale" mi permetto di osservare che le tragedie storiche ad esso collegate (senza dimenticare che gli imperi transnazionali hanno comportato dsitruzioni di vite paragonabili) non mi paiono attribuibili al concetto stesso ma alla sua degenerazione in "nazionalismo" violento e aggressivo.

      Elimina
    2. OK, per le esternalità, ti ho frainteso.
      Per gli stati nazionali, non sono certo stati loro ad inventarsi la guerra, ma trovo che ne hanno inventate tante di più e di più feroci, Perlomeno sono state guerre nazionali che hanno distrutto l' Europa. Anche se la distruttività della guerra dipende in ultima analisi dall'energia che puoi sparare sugli altri. Questa potrebbe essere una buona notizia. Probabilmente avremo una fase critica nel prossimo decennio, poi penso che il rischio di guerra crescerà, ma l'intensità tanderà a diminuire.
      Jacopo

      Elimina
  7. tempo fa avevo tradotto questo altro articolo di Daly:
    http://transitionitalia.wordpress.com/2011/11/04/la-crescita-antieconomica/

    RispondiElimina
    Risposte
    1. l'ho letto, molto interessante, e condivisibile, qui Daly è più felice nell'esposizione del tema trattato e non si addentra in digerssioni un po' oscure e barocche.
      Vale la pena leggere anche l'articolo del link,
      Grazie Massimo Rupalti

      Elimina
  8. Interessante vedere come Daly, nell'aprile irlandese del 1999, ancora prima delle bolle immobiliari e di internet degli anni 2000, abbia visto cosa accade quando si GLOBALIZZA.
    L'euro ha o no imposto una GLOBALIZZAZIONE ai Paesi europei?
    C'è stata una effettiva erosione delle frontiere economiche nazionali (Cipro, Grecia, Portogallo e Spagna...e noi ci stiamo pericolosamente avvicinando)?
    Adesso siamo una IPER REGIONE Europea, non possiamo ragionare in termini di vantaggi relativi internazionali e di reciproci vantaggi nazionali, adesso c'è o non c'è un VANTAGGIO ASSOLUTO senza alcuna garanzia di reciproco guadagno?
    Vero o no che le unità produttive sono state riarrangiate su base internazionale? Basti vedere le ultime leggi della Grecia.
    Vero o no che i principali sconfitti saranno le classi lavoratrici dei Paesi che avevano fatto in modo di mantenere alti salari, bassa crescita demografica, alti standard di internalizzazione dei costi ambientali?
    Ecco qui:
    "Bernadette Ségol, segretario generale della Confederazione europea dei sindacati ha voluto lanciare un monito preciso, presentando una serie di dati inquietanti su come l'austerità ha ridotto il tessuto socio-economico del continente: 26 milioni di disoccupati, 10 volte di più del 2008, e 7.5 milioni di giovani disoccupati che non hanno alcuna formazione o educazione. Secondo il presidente della confederazione dei sindacati greci, Yannis Panagopoulos, "l'intervento della troika ha portato il paese sul baratro di una crisi umanitaria", dato che il "25% del benessere nazionale si è perso" dall'inizio del programma di aggiustamento imposto. "Questo tipo di recessione è senza precedenti", ha dichiarato a Euractive, rimarcando come il tasso di disoccupazione nel paese sia ormai del 31% e che il 72% di questi sono di lunga durata. Il quadro diviene ancora più drammatico se si considera che un numero crescente di lavoratori vive ormai al di sotto della linea di povertà, colpiti dall'"unica ossessione della troika: la tassazione sui redditi". "Abbiamo un nuovo fenomento in Europa: il 20% dei lavoratori vive al di sotto della linea di povertà"."
    fonte:
    http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=11&pg=7286


    RispondiElimina
    Risposte
    1. Veramente Daly ragiona in termini macroeconomici di scala superiore (proprio globali, nel senso di riferiti all' intero globo terrestre) della piccola e vecchia Europa (con i suoi 0,5 miliardi di abitanti con per fortuna una vita media altissima su un totale di 7 con vita media moltgo più bassa).
      Ad esempio quando afferma
      "L’economia è quindi vista come un sotto-sistema aperto. E’ aperto sia nei confronti della materia che dell’energia. Preleva materia/energia a bassa entropia dall'ecosistema dove scarica materia/energia ad alta entropia e vive di questo gradiente. Vive degradando materia ed energia"
      ha del tutto ragione e sarebbe meglio ragionarci sopra invece di lamentarsi a vanvera dell' euro.

      Se passiamo poi a considerare per quanto in maniera semplificata eventi più contingenti vediamo che la nostra recente recessione, non c' entra un fico con la UE, visto che quella europea del 2009 è stata causata dagli USA (come nel '29) con il lro credit cruch e poi scaricata sul resto del mondo.
      Ma altre Nazioni europee hanno tenuto botta e sono uscite in fretta dalla crisi (ad esempio, ma non solo, la Germania coni suoi alti salari, bassa crescita demografica, superiore equità sociale).
      Certo i Paesi che per loro motivi interni erano deboli (la Grecia con la sua cleptocrazia ed i conti truccati, l 'Italia per molti versi simile ma con un capacità di import-export enormemente superiore alla Grecia) hanno subito i contraccolpi peggiori della crisi.
      Bisogn aricordare però che i Greci sono stati aiutati a suon di miliardi di euro (molti usciti dalle tasche di noi Italiani) e si lamentano perchè sono stati imbrogliati dai propri politici, ma la responsabilità è soprattutto loro, ossia della propria classe dirigente parassitaria e della bovinità del popolo che si beve la storia dei tedeschi (o europei) cattivi che avrebbero (sempre secondo i politicanti greci) impoverito la Grecia.

      Elimina
    2. Qui spesso si fa un errore: si vede molto bene il quadro universale, come fa lei nel primo paragrafo del suo commento (la crisi non viene dalla germania cattiva ma, per semplificare, dall'esaurimento delle risorse), però poi ci si lascia abbagliare da queste cause prime e non si vedono più le cause seconde. Se è vero come è vero che siamo entrati in un mondo di scarsità, verosimilmente, si osserveranno fenomeni di competizione significativamente maggiori rispetto al passato. Ebbene, declinando localmente e semplificando "la crisi", noi siamo in competizione con la germania per risorse scarse. Noi siamo deboli (per vari motivi, anche quelli da lei giustamente indicati nel suo commento successivo) e loro sono forti. Noi soccombiamo e loro vincono. Non è che la scarsità si manifesta in modo omogeneo. Chi vince la competizione si accaparra in tutto o in parte la quota di risorse del perdente e questo si trova in una condizione molto peggiore di quelle in cui si troverebbe se la riduzione di risorse colpisse tutti in modo uguale. Quindi le nazioni europee che hanno tenuto botta, l'hanno tenuta scaricando la quota di impoverimento che gli sarebbe toccata su chi botta non l'ha tenuta. Non ho interesse a sapere se il tutto sia etico o no. Soltanto basterebbe difendersi con la stessa energia con cui loro attaccano.

      Elimina
    3. Grazie, anonimo 7 maggio 2014 ore 12.03. Sa non avevo capito che Daly parlasse di macroeconomia...ma Lei, così ben capace di leggere tra le righe me l'ha spiegato...senza spiegare alcunchè.
      Notavo solo che al "semplice livello europeo" (piccola parte del globo, ma alquanto ricca e piuttosto invadente in termini di esternalizzazioni), l'aggregazione (e l'Euro lo è stata, una aggregazione bancaria e finanziaria) ha già dato i suoi pessimi frutti.
      Usando e ripetendo le parole di Daly, vedevo "vantaggi assoluti tutti in una direzione" (banche e non di tutti i Paesi), vedevo "l'erosione delle frontiere economiche nazionali", il "riarrangiamento delle unità produttive su base internazionale", e, mi scusi se oso parlare con lei, così esperto/a e così educato/a, la "sconfitta delle classi lavoratrici" che proprio nella ricca Europa erano riuscite a ottenere "salari alti e diritti", a vedere come l'istruzione femminile abbia di fatto "abbassato la crescita demografica" (e l'istruzione non è determinata dalla crescita economica in modo così netto e chiaro) e molta della normativa europea era piuttosto improntata sulla sostenibilità e quindi sul pagamento dei costi di esternalizzazione ambientale.
      L'Euro così come è stato fatto è una aggregazione solo bancaria e finanziaria, non certo fisica e economica, ma gli effetti sul "fisico" li ha eccome.
      I dati sulla povertà delle classi lavoratrici europee sono dati veri. E L'anonimo delle ore 13.37 le ha chiarito come in un sistema fisico vince il più forte. L'Europa è un piccolo ambito, come vuole lei, del sistema fisico globale ma può esserne una rappresentazione, visto che oltretutto si parla di un luogo assai ricco che si sta impoverendo. Dove insomma gli effetti deleteri della aggregazione e globalizzazione potevano non vedersi. Invece si vedono.

      Elimina
    4. Mah, alcune persone vedono ciò che vogliono vedere
      e si inventano dei capri espiatori (non so se per per consolarsi o per rabbia).

      Vede Daniela lei dovrebbe confrontare la povertà delle classi lavoratrici europee (indubbiamentge in crescita relativa, soprattutto nel sud Europa) con quella di quelle sudamericane, africane ed asiatiche (in diminuzione) oppure con quella delle stesse classi europee 50 anni fa).
      Se lei girasse un poco il mondo si accorgerebbe di quanto siano benestanti in media (ossia non tutti, ma un buon 70-80%) le nostre classi lavoratrici, me e lei compresi.
      E consideri il fatto fondamentale che nel suo complesso l' Europa a livello fisico consuma risorse (materie prime ed energia) in misura molto maggiore di quante ne produca (a livello economico lo fa soprattutto perchè esporta beni e servizi).
      Ovviamente è finito il tempo del colonialismo (in cui come dice lei il più forte, a livello militare, sfruttava i più deboli, ossia le potenze europee sfruttavano Africa, India etc etc)
      è finito e ben difficilmente potrà tornare.

      Ripeto piangere sulla globalizzazione cattiva è come piangere sul latte versato.

      Se invece si ipotizza che la crisi attuale sia dovuta davvero ad un esaurimento delle risorse e non alla cattiva globalizzazione (che commercia risorse esistenti)
      il passaggio logico è che l' Europa dovrà nei prossimi anni ridurre drasticamente il proprio tenore di vita medio (molto ma molto di più di quanto successo al popolo greco per responsabilità delle loro classi dirigenti che lo hanno imbrogliato ed inguaiato).

      Elimina
    5. Vedo che lei ha una idea fissa da portare avanti, la "bellezza dell'Euro". Con questa idea preconcetta non riesce a capire ciò che altri stanno dicendo, oltre a aggiungere inutile saccenteria alle sue affermazioni (tipo il consiglio di viaggiare). Ho scritto due volte che ritengo che l'idea dell'aggregazione, come dice Daly, porti a errori e ho fatto un esempio, l'Europa forzosa dell'Euro. Dopodiché sulla scarsità di risorse siamo ovviamente concordi.

      Elimina
    6. No Daniela, non ho mai pensato alla bellezza dell' euro nè ad altre idee fisse.
      E' solo che quando qualcuno (come lei e tanti altri) addossa alla moneta europea delle responsabilità (la "malvagità dell' euro") dei fenomeni economici che non sono nemmeno lontanamente collegati ad essa, dovrebbe avere delle prove solide, basate sui dati e non sulle sensazioni.
      Se lei avesse la pazienza di studiare un poco la macroeconomia capirebbe che l' euro di fattop, da quanto è stato introdotto, ovviamente con molta fatica, lo strapotere del dollaro ed ha limitato i danni (limitato sia chiaro, perchè il malgoverno dei singoli Stati o gli effetti negativi della globalizzazione che esistono sicuramente, assieme a quelli positivi non sono gestibili con l' euro o con il marco, la peseta, la dracma, la lira etc) della crisi mondiale del 2009, la più importante dopo quella del 1929 (anche allora iniziata dagli USA e scaricata sull' Europa, allora senza euro, ma con effetti tragicamente peggiori di quella recente).

      Elimina
  9. Aggiungo che la Segol invece di lanciare moniti da politicante (per quanto sia un' importante ed immagino ben pagata sindacalista) farebbe bene ad informarsi bene sui dati senza propalare falsità come "dati inquietanti su come l'austerità ha ridotto il tessuto socio-economico del continente: 26 milioni di disoccupati, 10 volte di più del 2008".
    Nel 2008 i disoccupati NON erano il 0,1x26=2,6 milioni ma 16milioni. Ed è poi più che demagogico direi truffaldino considerare come riferimento il 2008, il punto più basso della disoccupazione europea, quando nel 2001 (introduzione dell' euro) i disoccupati erano 20 milioni.

    Qua ci sono i dati completi
    http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/File:Unemployed_persons,_in_millions,_seasonally_adjusted,_EU-28_and_EA-17,_January_2000_-_March_2014.png

    e se non ci si accontenta di false spiegazioni di comodo si vedrà che l' euro ha avuto effetti secondari sia nella diminuzione dei disoccupati tra il 2001 ed il 2008 che nell' aumento dal 2008 al 2014.
    E' il ciclo economico e le azioni (positive o negative) degli Stati e degli attori (privati e pubblici) che svolgono la propria attività che produce effetti nel corso degli anni sulla disoccupazione.
    Non per niente il grande aumento negli ultimi anni di disoccupati si è avuto soprattutto in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia governate alla c...o negli anni precedenti: ovviamente non è un caso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Quindi negli USA stanno governado bene, secondo te?
      Prima che tu mi risponda con gli ultimi dati diffusi del tasso di disoccupazione USA al 6.3%, ti invito a leggerti questo
      http://icebergfinanza.finanza.com/2014/05/05/high-speed-rail-jobs/

      In momenti di difficolta, e' forte la spinta a taroccare i dati e a non mostrare quello che non va. Dopotutto la Grecia, con la complicita' o meno dei controllori, aveva taroccato i suoi conti fino all'impossibile. Cosa vieta alla maggiore potenza mondiale (per ora) di non farlo, dato che pio direttamente minacciare/controllare/corrompere i controllori ?

      Il problema , alla fine, e' che l'economia globale ha evidentemente toccato dei limiti che non riesce a evitare. Sta rimbalzando contro un soffitto che e' destinato ad abbassarsi nei prossimi anni. La crescita tradizionale e' finita, amen.

      Elimina
  10. Phitio: un fatto non cessa di essere tale perchè per qualcuno è un male.
    Sì è vero, per qualche anno (ed Eurostat lo sapeva) il governo greco ha taroccato i dati, ma non ha potuto farlo per molto, poi quelli reali sono venuti fuori.

    Vedi molti dimenticano che i dati (quelli da fonti serie sia chiaro, non quelli riportati un tanto al chilo su questo o quel blog) non sono sempre così immediati da comprendere
    Bisogna almeno conoscere qualche dettaglio sulla loro generazione e non lasciarsi influenzare dall' emotività.
    E' come l' inflazione misurata dall' Istat: hai voglia a dire che questa tarocca i dati, non è vero, semplicemente molti non sanno come la media statistica su un gran numero di beni (quelli del paniere Istat) possa non coincidere affatto con l' aumento dei prezzi al consumo che il singolo cittadino percepisce nella sua piccola realtà quotidiana.
    Stesso discorso per il tasso di disoccupazione che indica in pratica quanti "cercano lavoro ufficialmente e non lo trovano" non di certo quanti non lavorano pur volendolo. Altrimenti non sarebbero spiegabili apparenti paradossi come il tasso della Spagna al 25% circa e quello dell' Italia al 12% abbondante quando se vai a vedere la percentuale di popolazione attiva (=quanti lavorano sul totale) vedrai che (ben più bassa di USA e Germania) è vicina al 60% sia da noi che in Spagna.

    Riguarda alla crescita dei consumi energetici (e quindi del PIL ad esso collegato) mondiali i dati (vedi quelli della Tveberg che sono validi) sono chiari:
    nel 2000 eravamo a circa 10 Gtep/year, nel 2013 abbiamo superato le 13Gtep. Purtroppo siamo ancora su una spaventosa salita (c'è stata solo un apiccola flessione nel 2009 subito ripresa) livello mondiale (certo non in Italia, ma con lo 0,9% scarso della popolazione mondiale non è che contiamo più di tanto).
    Ovviamente questa crescita di (= aumento dei consumi di risorse non rinnovabili) secondo me è un male
    ma non posso far finta che non esista solo perchè non mi piace.
    Per me è una questione di guardare in faccia la realtà per quello che è
    e non per quello che vorrei che fosse.

    RispondiElimina
  11. Qua, su un database affidabile come quello dell' ocse, è possibile controllare per bene i trend su popolazione e lavoro nell'' ultima dozzina d' anni per tutte le Nazioni sviluppate.
    http://stats.oecd.org/Index.aspx?DatasetCode=STLABOUR
    Naturalmente occorre un po' di pazienza e buona volontà.

    Ad esempio bisogna cercarsi qualche definizione (tipo capire "tecnicamente" cosa siano le forze lavoro, la popolazione attiva,i disoccupati etc) perchè quasi sempre nelle percentuali dichiarate dai mezzi di informazione si dimentica di informare l' opinione pubblica che il denominatore ingenere NON è lo stesso.

    RispondiElimina
  12. che un'economia in crescita esponenziale ha bisogno di bolle finanziarie e non, che prima o poi scoppiano si è sempre saputo, che le risorse si rarefano fino a non poter più alimentare bolle si sa dal 1972. La soluzione fu indicata in LTG, ma ormai è tardi per attuarla. In Ucraina, ho letto su CDC, nel 1932-33 morì metà della popolazione per fame e la gente si mangiava i bambini. Noi non ci arriveremo di sicuro, ma a Napoli dicono: Ha da passa a nuttata.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. La morte di un numero imprecisato di contadini ucraini nell'inverno 1932.33 non dipese da contingenze o da esuarimento delle risorse, ma da un preciso piano di Stalin che, probabilmente, suggerì a Hitler altre, analoghe trovate.
      Jacopo

      Elimina
  13. Mi sembra un buon articolo. :-)
    Tiziano

    RispondiElimina