martedì 11 settembre 2012

La morte del ghiacciaio



(immagine dal "Corriere")

http://www3.lastampa.it/ambiente/sezioni/ambiente/articolo/lstp/467968/

Il ghiacciaio ucciso dalle lunghe estati

LUCA MERCALLI

Fino a qualche decennio fa una depressione come «Christine», che a 
inizio settembre si è formata sul Mediterraneo interrompendo la grande 
calura, ci avrebbe proiettati definitivamente nell’autunno. E invece, in 
linea con la tendenza alle estati sempre più lunghe e roventi, il caldo 
si è subito ripreso, e anche la sventagliata fresca attesa per metà 
settimana non segnerà ancora la fine dell’estate.

A subire questa situazione nuova e anomala sono prima di tutto i 
ghiacciai alpini, che anche quest’anno hanno sofferto pesanti regressi. 
All’inizio degli Anni Duemila come meta delle escursioni didattiche per 
gli studenti sceglievo il ghiacciaio di Pré de Bar, al fondo della Val 
Ferret, nel massiccio del Monte Bianco. In quaranta minuti di comoda 
passeggiata anche chi non aveva mai visto un ghiacciaio poteva stupirsi 
dinanzi a una gigantesca colata glaciale a forma di coda di castoro, che 
divallava dai 3820 metri del Mont Dolent e si allargava nell’ampia conca 
da dove nasce uno dei due rami della Dora Baltea. Anche se dai cordoni 
morenici ottocenteschi bisognava ancora camminare un chilometro e mezzo 
prima di toccare il ghiaccio a causa del ritiro intervenuto dopo la 
Piccola Età Glaciale, il supplemento di marcia era ampiamente ripagato 
da una spettacolare fronte di ghiaccio pulito e luccicante dentro il 
quale si aprivano grotte e crepacci dai riflessi azzurrini.

I ragazzi incuriositi accarezzavano il gigante gelato, ascoltavano le 
sorde note della deformazione del ghiaccio in lento movimento, 
respiravano la fresca brezza glaciale, assaggiavano cristalli di acqua 
solida vecchi forse di qualche secolo. Un manuale di glaciologia a cielo 
aperto. La lezione sul campo terminava sul magnifico terrazzo del 
Rifugio Elena, a 2060 metri, perfetta stazione fotografica per il 
confronto, anno dopo anno, tra la situazione passata e presente.

Pochi giorni fa sono tornato al Pré de Bar. Non credevo di assistere a 
una trasformazione morfologica e ambientale tanto rapida e vistosa. Nel 
giro di un quinquennio la gran coda di castoro, ampia, turgida e bombata 
è stata praticamente amputata dalla fusione. Ne resta un lembo divorato 
da caverne e crolli, ghiaccio scuro, come asfaltato, carico di sabbia e 
rocce, un residuo agonizzante in attesa di consumarsi sotto il sole. La 
gran seraccata che lo alimentava si è interrotta con l’emersione di un 
affioramento roccioso e dalla nuova fronte sospesa sgorga un impetuoso 
torrente di acque torbide e lattiginose. Il nero ghiaccio morto che 
ancora occupa il bacino morenico si consuma al tasso di 5-7 metri di 
spessore e 20-30 metri di lunghezza ogni anno, e nel giro di poche 
estati sarà sparito, lasciando spazio a una desolata pietraia.

Il nuovo punto terminale del Pré de Bar è ora quattrocento metri più in 
alto, appeso a un ripido scivolo roccioso, e presto sparirà alla vista 
ritirandosi negli alti pianori sovrastanti. Non porterò più i miei 
studenti tra queste cataste di massi.

L’aumento di temperatura potrebbe, secondo le più recenti simulazioni 
come quella del glaciologo Matthias Huss dell’Università di Friburgo, 
spazzare via entro il 2100 oltre l’80 per cento dell’odierna area 
glaciale delle Alpi. Agli studenti del ventunesimo secolo non mi resterà 
dunque che mostrare su computer il ghiaccio digitale del Pré de