mercoledì 21 marzo 2018

Il Picco in Italia: 15 anni e non sentirli

Da "Risorse, Economia, e Ambiente"

Il Picco in Italia: 15 anni e non sentirli

Assistetti al seminario di Campbell e fu per me un risveglio. Il lavoro scientifico di ricerca che avevo intrapreso fino ad allora perse, quasi improvvisamente interesse, c’era altro da fare per chi aveva una cultura scientifica…
Di Luca Pardi
Nel 2003 uscì quello che è, per quanto ne so, il primo libro in italiano che parla del Picco del Petrolio. Si tratta di “La fine del petrolio” di Ugo Bardi. Pochi mesi dopo l’uscita del libro Ugo invitò a Firenze Colin Campbell che l’allarme sull’imminenza del picco e della conseguente fine del petrolio a buon mercato, l’aveva lanciato, insieme a Jean Laherrere, cinque anni prima nel 1998. Assistetti al seminario di Campbell e fu per me un risveglio. Il lavoro scientifico di ricerca che avevo intrapreso fino ad allora perse, quasi improvvisamente interesse, c’era altro da fare per chi aveva una cultura scientifica e la tendenza a porre, ed eventualmente affrontare, i problemi in modo quantitativo.
Successivamente Ugo mi raccontò che il suo “risveglio” era avvenuto negli Stati Uniti all’indomani dell’attentato delle Torri Gemelle, quando, intrappolato a Washington dal blocco dei voli successivo all’attentato, girando in una libreria si imbatté nel libro di Kenneth Deffeyes “Hubbert’s peak” che è appunto del 2001.
Dopo il seminario di Campbell al Dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze, in un settembre ancora caldo dopo un’estate torrida che sarebbe restata per gli anni a venire uno dei primi record del cambiamento climatico nel nostro paese, seguii Ugo nel suo studio e li, insieme ad un manipolo di persone, decidemmo di dar vita ad un’associazione di studiosi del picco del petrolio in Italia. Dopo qualche indecisione nei mesi successivi optammo per la denominazione attuale: ASPO Italia. Per questa associazione scrissi il primo statuto e ricoprii la carica di tesoriere e vicepresidente fino al 2010, quando sono diventato presidente. Serviva un sito web e nel marzo 2005 Ugo Bardi firmò il primo articolo “Una introduzione alla teoria di Hubbert“. Per quanto fossimo scettici ed anti-complottisti funzionali, la connessione dei tre fatti che avevamo di fronte ci era chiarissima fin dall’inizio: il picco del petrolio, cioè il raggiungimento del massimo di produzione della risorsa energetica (e non solo energetica) più importante del mondo, il cambiamento climatico che proprio dall’intensivo sfruttamento delle fonti energetiche fossili è causato e infine il serpeggiare del nervosismo geopolitico che dalle Torri Gemelle portò all’invasione dell’Iraq, in cui la comunità internazionale fu forzata da menzogne inventate di sana pianta (le famose armi di distruzione di massa), ed al seguito di operazioni politico- militari sulla via del petrolio in gran parte sostenute dalla retorica del terrorismo. La riflessione su questi temi globali ha formato il nostro modo di affrontare i problemi anche locali in questi anni. Lasciando perdere per il momento le questioni geopolitiche che, più delle altre, sono opinabili, i due fenomeni principali: picco del petrolio e cambiamento climatico, rappresentano in modo paradgmatico l’intreccio fra esaurimento delle sorgenti planetarie, dinamica e intensità del processo economico e saturazione delle discariche planetarie.
Sul cambiamento climatico esiste un dibattito pubblico, non particolarmente sano, ma ben visibile, sulla questione energetica e del picco la nostra voce è invece sprofondata nel frastuono dell’informazione- intrattenimento- spettacolo in cui si fraintende il significato delle parole. Vediamo quali sono i principali fraintendimenti.
Prezzi bassi. L’affermazione che non trova avversari nell’opinione pubblica è che dal 2014 il prezzo del petrolio è “crollato” ed è ora basso. In realtà il prezzo del petrolio ha avuto effettivamente un crollo sia dopo la crisi del 2007- 2008, sia dopo il periodo 2011- 2014 durante il quale volava intorno ai 90-100 $/barile, ma non è mai sceso al di sotto del doppio del prezzo di fine secolo scorso (20$/b) e spesso, come adesso, è più di tre volte quel valore. Il prezzo del petrolio non è basso o, meglio, lo è solo rispetto ai record dei quindici anni trascorsi e, soprattutto, ai costi crescenti di estrazione. Quindi se in questa fase i paesi consumatori sentono un peso relativo della bolletta petrolifera è solo perché i produttori soffrono una perdita di reddito. Vi dicono nulla le crisi persistenti del Venezuela, della Nigeria, dell’Iran e le stesse inquietudini saudite?
Shale. Lo shale è stata la risposta dell’industria petrolifera statunitense alla stasi di produzione che, a fronte di una domanda crescente, dovuta a sua volta alla Cina e ad altri mercati emergenti, aveva innescato la corsa al rialzo del primo decennio di questo secolo e poi il rapido recupero dopo la crisi del 2007- 2008. Lo shale (come ha detto in un bel post Dario Faccini) riguarda quasi esclusivamente gli Stati Uniti e circa il 5% della produzione globale e, mentre anche li si comincia a pensare a cosa verrà dopo e quanti operatori resteranno stecchiti sul campo, l’idea che la tecnica del fracking sia esportabile rimane un’ipotesi.
Il picco non è mai avvenuto. Questo è il più idiota dei fraintendimenti che ho sentito in bocca anche a persone relativamente intelligenti. Come se il consumo di una risorsa non rinnovabile potesse avere una dinamica diversa da quella descritta da una curva che cresce nel tempo poi raggiunge un massimo (o più di uno, o un plateau oscillante) per poi declinare. Il picco è inesorabile. Quindi, al più, non è ancora avvenuto che è una cosa diversa dal dire che non è mai avvenuto.
Da più parti si è detto che nel primo decennio del XXI secolo c’è stato il picco del petrolio convenzionale (cioè del petrolio facile e a buon mercato), lo stesso post citato precedentemente mi ha convinto che tale affermazione sia ancora valida. Il picco del convenzionale è dietro alle nostre spalle. Ciò che è venuto dopo è sempre petrolio ma non è più a buon mercato. Possiamo ammettere di esserci sbagliati pensando che non si sarebbero estratte le categorie di petrolio più costoso e che, per un certo tempo, alcuni operatori possono produrre in perdita, ma questo non sposta di molto il dibattito. Il nostro interesse era ed è far entrare nell’agenda politica il tema energetico dai due punti di vista illustrati sopra: l’esaurimento delle risorse fossili e il cambiamento climatico. Nostro interesse era ed è che ci si guardi negli occhi e si dica: “Signori e Signore, la principale risorsa energetica mondiale, quella senza la quale nulla di quello che ci gira intorno esisterebbe, si sta rapidamente esaurendo; cogliamo l’occasione per organizzare per tempo, cioè prima di una vera crisi di scarsità, una vasta e rapida transizione energetica, in modo di trovarci, nel più breve lasso di tempo possibile, al massimo un paio di decenni, con una struttura energetica prevalentemente basata sulle fonti rinnovabili, cioè in una situazione invertita rispetto al presente nel quale le fonti fossili coprono ancora l’85% dei consumi energetici globali. Nulla, gli avversari, cioè coloro che hanno interessi diretti nel paradigma fossile hanno combattuto strenuamente per annullare i nostri tentativi. Ma perfino molti amici, convinti ad esempio della gravità della situazione ambientale, hanno iniziato a seminare dubbi catturati dalla propaganda avversaria sull’abbondanza ed i prezzi bassi.
In sostanza il Picco di tutti i liquidi combustibili non è ancora avvenuto, ma la fine del petrolio facile è dietro le nostre spalle e si è visto. Se il prezzo non sale soffrono i produttori e si parla di circa 1 miliardo di persone che vivono sui proventi dell’estrazione petrolifera. Se il prezzo sale, seguendo l’aumento dei costi, soffrono le economie dei paesi consumatori. Peraltro non abbiamo mai detto: il picco avviene il giorno tal dei tali. Abbiamo sempre detto: importa poco la data che segnerà l’anno del picco, ma piuttosto importa metter mano per tempo alla mitigazione. Questo concetto, lo abbiamo ripetuto fino alla noia fin dal 2005 quando Robert Hirsh & C scrissero la loro analisi sul tema.
La propaganda ha, per ora trionfato, ma, come si dice, “gutta cavat lapidem non vi, sed saepe cadendo”.
Non demordiamo.

lunedì 19 marzo 2018

Le Maestre Cattive di Pomezia contro Putin, la piovra

Octoputin: la maschera dell'orco cattivo.


Scusate ancora un post un po' OT dove parto dalla faccenda delle "maestre cattive" di Pomezia non per giustificarle o condannarle, ma per sviluppare un ragionamento su come le informazioni vengono trasmesse e interpretate nel nostro sistema mediatico.

La storia delle maestre (e anche di Putin) mi ha fatto venire in mente come tutto il sistema mediatico nel nostro mondo è una gigantesca "Commedia dell'Arte" dove il vettore dell'informazione (il giornalista) e il  ricevente (lettore o ascoltatore) si impegnano insieme a identificare i personaggi come "maschere" archetipali.


E' esattamente quello che facevano gli attori e gli spettatori dell'antica commedia dell'arte. Quando entrava in scena un tizio vestito di tessuto multicolore, si sapeva che quello era "Arlecchino" e che era povero ma intelligente. Non c'era bisogno di altro: Arlecchino si muoveva e parlava in scena secondo le caratteristiche del suo personaggio, così come gli spettatori si aspettavano.

Sui media di oggi, vediamo qualcosa di molto simile. Abbiamo, fra le tante maschere, il saggio dai capelli bianchi (tipo di Luigi Bella e la sua cura per il cancro), il genio incompreso (tipo Andrea Rossi e il suo scaldabagno atomico), la Jeune Fille o la principessa (tipo Diana di Inghilterra o le varie star dei settimanali popolari), il superuomo (Berlusconi o Trump)  l'impiegato statale fannullone (tipicamente un meridionale senza nome), e altre.

Ma il fulcro e il centro di tutta la storia sono le due maschere principali, sempre in scena e quasi le uniche: la vittima innocente e il carnefice. (*)

Queste due maschere si possono incarnare in varie categorie di persone reali. La vittima innocente è tipicamente una donna, oggetto di varie vessazioni sessuali o di violenza in forma di femminicidio. Ma esiste una gerarchia fra le vittime: in cima alla graduatoria stanno i bambini, che sono per definizione sempre innocenti. Il carnefice è tipicamente un uomo, l'orco cattivo (tipo Sauron o Vladimir Putin), ma può essere anche una donna nella sua incarnazione di strega cattiva (Angela Merkel) o femme fatale (Mata Hari).

Nel caso delle maestre di Pomezia (o quello, precedente, delle maestre di Rignano Flaminio) abbiamo visto una rappresentazione in cui due tipiche vittime (donne e bambini) si sono incontrate sulla scena mediatica. Era impossible che fossero tutte e due nello stesso ruolo, così le maestre hanno preso il ruolo di carnefici. rispettando la gerarchia comunemente accettata (**).

Una volta stabiliti i ruoli, non c'è stato più bisogno di discutere o di capire come sono veramente andate le cose: per definizione, i carnefici (le maestre) sono i cattivi mentre le vittime (i bambini) sono i buoni. Pantalone non può prendere il ruolo di Arlecchino e neppure viceversa. Da qui seguono le centinaia di commenti appropriati: "Licenziatele!" "In galera subito!" "Mettetele al muro!" eccetera.

Funziona anche con Putin nel ruolo dell'orco cattivo.  Lo spettacolo continua.




(*) Da notare come la commedia che si svolge oggi sui nostri media ci proponga delle storie estremamente povere di contenuti in confronto a quelle dell'antica Commedia dell'Arte. Arlecchino, Pulcinella e gli altri erano personaggi fortemente caratterizzati, ma comunque con una certa flessibilità di comportamento: poveri, ma intelligenti: buoni, ma capaci di trucchi, allegri, ma anche malinconici. I nostri sono o buoni o cattivi, punto e basta. Da notare anche che fra i personaggi disponibili sui nostri media, non esiste più la figura del "povero intelligente," tipo Arlecchino, che sembra essere stata inglobata fra quelle degli orchi e delle streghe, tutti/e meritevoli di galera immediata.

(**) Notate anche come ogni personaggio della commedia, sia antica che moderna, possa portare una maschera, ma mai più di una. Così, le maestre di Pomezia portano la maschera della strega cattiva, ma non quella delle impiegate fannullone e nemmeno quella delle vittime del femminicidio. Allo stesso modo, ogni tentativo di fare indossare la maschera dell'orco cattivo a Berlusconi e a Trump è fallito perché loro portano già un'altra maschera: quella del superuomo.





sabato 17 marzo 2018

Inquinamento e disinformazione



Un post di "WM"

La Pianura Padana è probabilmente una delle aree più inquinate in Italia e forse in Europa. L'orografia e la meteorologia invernale con anticicloni stabili e spesso inversione termica favoriscono la subsidenza e lo scarso rimescolamento atmosferico aiuta molto al ristagno degli inquinanti.

I provvedimenti seguono normative che basandosi su dati rilevati da apposite centraline dove il principale elemento di valutazione è il particolato PM10, anche indicato come polveri sottili, impongono restrizioni in particolare ai diesel e ai riscaldamenti.

Fermo restando che qualunque iniziativa che in favore della riduzione dei consumi energetici mi vede favorevole vorrei far notare che spesso, quasi sempre, questi provvedimenti servono a poco o nulla. Infatti nei giorni in cui non circolano o lo fanno in numero minore, anche motori diesel Euro 4, le PM10 non scendono quasi mai e si attende il vento o la pioggia per risolvere temporaneamente la questione.

Vediamo perché: le cosiddette polveri sottili si formano certamente nella combustione, anzi, con i motori a gasolio di ultima generazione (common rail) l'estrema pressione di iniezione forma in partenza un particolato molto fine, paradossalmente un vecchio diesel di 50 anni fa che ammorbava l'aria con il suo fumo nero era forse  meno pericoloso per la nostra salute, non molto, ma le PM10 e ancor più le PM2,5 passano i nostri alveoli e possono arrivare in circolo sanguigno facendo danni.

Ma l'aspetto che vorrei sottolineare è che le PM10 che vengono misurate non tengono conto dell'origine. Vi siete mai chiesti dove va la gomma vulcanizzata dei vostri pneumatici che per attrito si consumano? La polvere della strada e l'asfalto stesso si consumano, poi i freni:  sia dischi che materiale d'attrito, anche loro contribuiscono a far polvere,  i lavori pubblici se non piove alzano polvere a volontà, la raccolta foglie nelle città ora che vengono utilizzate quelle odiose e rumorose ventole a motore in sostituzione delle scope alza polvere e così via.

Riscaldamenti:  la stragrande maggioranza funziona a metano in tutta la pianura padana,  questo di polvere non ne fa proprio se mai sono i vecchi camini e le stufe che contribuiscono a creare un bel pulviscolo ma siamo onesti, non ce ne sono così tanti da creare tutto questo inquinamento, da anni si installano impianti ad alta efficienza  anche a  pellet che assicurano una combustione ottimale.

Una cosa dove invece si dovrebbe intervenire, seppur poco importante per le PM10, vietare una volta per tutte le porte aperte in pieno inverno dei centri commerciali e negozi, ma solo perché credo sia uno spreco insostenibile e assurdo.

In definitiva come si potrebbe intervenire? Riguardo la circolazione automobilistica una cosa utile sarebbe di evitare i semafori sincronizzati sul rosso nelle aree urbane che spesso vengono così regolati per evitare eccessi di velocità ma che con frenate e ripartenze peggiorano ulteriormente il problema, altro intervento; agire sulla velocità nelle arterie di scorrimento, tangenziali e autostrade, ridurla e puntare sulla regolarità, poche accelerazioni e frenate.

Modalità a costo zero ma con effetti immediati.

Ho tralasciato la questione inquinanti, ossidi di azoto, di zolfo, di carbonio, benzene, PCA ecc. in quanto i provvedimenti al momento non prevedono soste o limitazioni del traffico a loro causa anche se sarebbe utile che ci si pensasse.


wm

venerdì 16 marzo 2018

Le Maestre di Pomezia: Ammazzarle Subito, o Prima Torturarle?




Scusate per questo post un po' OT sul blog di Cassandra, ma certe volte hai l'impressione di affacciarti sull'abisso. Hai l'impressione che quello che chiamiamo la "società civile" sia un'idea atrettanto evanescente di quella del tuo angelo custode di cui ti raccontavano da piccolo.

La faccenda delle maestre di Pomezia da questa impressione. Leggiamo sui giornali che c'è una rilevazione video, che però non è pubblicamente disponibile. Forse è vero che le maestre sono state violente con i bambini, ma non sappiamo quasi niente di come sono andate veramente le cose.

Quello che impressiona è come sulla stampa la condanna sia stata unanime e uniforme. Tutti i giornali hanno riportato la stessa versione dei fatti, che è andata giù come una cosa ovvia, incluso le foto dei "bambini maltrattati" prese dal Web che non hanno niente a che vedere con il caso specifico di Pomezia.

Nemmeno su Facebook c'è stato molto dibattito, per ora: un piccolo numero di commenti qua e là, con i soliti frustrati che invocano la pena di morte per le maestre. Nell'immaginario pubblico, le "maestre violente" sembrano aver acquisito la stessa consistenza di altre figure mitologiche o mitologizzate, dal lupo cattivo a Hitler. Il caso delle maestre di Rignano Flaminio, accusate di riti satanici e pedofilia nei riguardi dei loro allievi, è stato più spettacolare di questo, ma rientra nella stessa categoria.

Cosa è successo che ha trasformato le maestre in piccoli mostri nell'immaginario collettivo? Difficile dirlo, le maestre che conosco sono tutte impiegate statali un po' frustrate - anzi parecchio frustrate - da dover gestire bambini maleducati e irrequieti e una burocrazia asfissiante (*). Con in più il rischio di doversi gestire anche genitori violenti (capita anche questo) oppure - peggio - genitori ben capaci di ricorrere a vie legali che possono rovinare completamente la vita a una persona. Nel complesso, le maestre sono persone del tutto innocue, anche se è probabile - anzi, praticamente certo - che qualcuna vada occasionalmente fuori di testa. Ma com'è che sono diventate tutte dei mostri potenziali?

Forse è la stampa che ha totalmente perso ogni rapporto con la realtà. I giornalisti sono de-professionalizzati e altrettanto frustrati delle maestre. I giornali son stati spiazzati dal Web e si sono ridotti a degli acchiappa-click che sparano di tutto e di più senza distinzione. E la scuola sta implodendo in una spirale di mancanza di fondi, de-professionalizzazione dei docenti, politici che pensano che la cultura sia qualcosa che i ragazzi possono trovare in un tablet, e altro.

Ma non basta il declino della stampa e della scuola a spiegare la situazione. In qualche modo, sembra che ci sia una rabbia spaventosa che cova e sobbolle nella cosiddetta "società civile" - una rabbia che cerca disperatamente un qualcosa o qualcuno su cui sfogarsi: i politici ladri, gli immigrati che ti portano via il lavoro, i neri che ti chiedono un euro al parcheggio, Merkel La Strega, Putin il Barbaro, e - infine - le maestre che picchiano i tuoi figlioletti innocenti. E tutta questa rabbia e questo odio si deve manifestare in qualche modo e riversarsi su qualcosa o qualcuno (**).

E allora? E allora, niente. Tutto quello che succede ha una ragione per succedere, e ci deve essere anche una ragione per la demonizzazione delle maestre. Quale sia esattamente, non so dire, ma ci stiamo muovendo in una direzione dove forse nessuno di noi vorrebbe andare, ma ci stiamo andando lo stesso e, alla fine dei conti, tutti ci ritroviamo a spingere per andarci più in fretta.



(*) Se cercate qualcuno che prova a difendere le maestre - impresa difficile ma non impossibile - lo potete trovare in questo gruppo di Facebook, "la voce dei docenti"

(**) Sulla faccenda del "capro espiatorio" potete provare a leggervi "Delle cose nascoste fin dalla generazione del mondo" di René Girard (un commento interessante, qui)




giovedì 15 marzo 2018

"Viaggiare Elettrico" di Ugo Bardi. La presentazione del rettore dell'Università di Firenze




Questa è la presentazione del libro "Viaggiare Elettrico" di Ugo Bardi (Lu::Ce edizioni, 2018), tenuta dal rettore dell'Università di Firenze, prof. Luigi Dei.

Era la prima presentazione un po' "ufficiale" del libro ed è stata fatta presso lo Chalet Fontana a Firenze, il 2 Marzo 2018. Appena possibile, metterò on line la registrazione della mia presentazione del libro.


https://luce-edizioni.it/prodotto/viaggiare-elettrico/

martedì 13 marzo 2018

I Limiti Fisici alla Crescita Economica


Il lavoro di Roberto Burlando e Angelo Tartaglia come editori ha generato questo libro nel quale ho contribuito con uno dei capitoli. Devo dire che ne è venuto fuori veramente un libro interessante, aggiornato, e anche comprensibile, sia pure non un libro divulgativo. Il problema è sempre il solito: uno lavora gratis per far fare soldi agli editori specializzati che fanno pagare questi libri uno sfracello: questo qui, se lo volete in forma cartacea lo dovete pagare 130 Euro (ma cos'hanno nella testa? Un allevamento di pipistrelli?). Tanto più che  - per risparmiare - non si preoccupano nemmeno di inventarsi una copertina decente. Per fortuna l'e-book è più abbordabile, ma in ogni caso finisce che pochissimi hanno accesso a questi testi, mentre invece tutti sono esposti alle fesserie che girano su internet. Evvabbé, contentiamoci. Perlomeno un bel libro lo abbiamo scritto.

 

I limiti fisici alla crescita economica

Un post di Roberto Burlando e Angelo Tartaglia. 

 E’ recentemente stato pubblicato il libro Physical limits to economic growth, apparso nella collana Routledge Studies in Ecological Economics. L’opera ha tratto occasione dal convegno Science and the Future che si svolse, presso il Politecnico di Torino, nell’ottobre 2013. Il tema è pienamente espresso dal titolo e l’intento è quello, insieme, di presentare lo stato dell’arte su una serie di problematiche rilevanti e di offrire approfondimenti originali su vari aspetti della sostenibilità o insostenibilità del sistema socio-economico globale contemporaneo.

Un impegno, assunto e perseguito nel convegno del 2013 e continuato in questo testo, era ed è quello di intavolare un dibattito scientifico tra ambiti culturali differenti: scienze della natura da un lato e scienze economico-sociali dall’altro. Come è ovvio e ben noto i linguaggi sono diversi ma la pesante oggettività dei fatti impone o imporrebbe uno sforzo congiunto per analizzare con disincanto e senza barriere artificialmente costruite la fenomenologia evolutiva delle società umane nel contesto ambientale del nostro pianeta, e, possibilmente, suggerire modalità razionali e praticabili per gestire trasformazioni la cui rapidità sta ripercuotendosi negativamente e pesantemente, e ancor più rischia di farlo nel futuro, sull’umanità nel suo insieme.

Come già per Science and the Future anche nel caso del libro si è faticato ad intavolare un confronto di merito, al di là della dimensione mediatica, tra posizioni diverse all’interno delle singole discipline; ci si è però quanto meno sforzati di mettere insieme scienze umane e scienze naturali, anche se all’interno di una impostazione comune. In questo senso l’opera non è “neutra”, come sta scritto nell’Introduzione, o “bipartisan” come a volte si vorrebbe anche su questioni sulle quali si registrano maggioranze assai qualificate, ma il modo dell’esposizione cerca di presentare fatti ed interpretazioni in una forma che consenta a chiunque lo desideri di effettuare una lettura critica al di fuori dei rituali e delle forme spesso usati in questo campo nei canali di comunicazione che vanno per la maggiore.

In concreto il testo si articola in sei capitoli, suddivisi in due gruppi di tre. Il primo gruppo è quello delle scienze naturali o “esatte”; il secondo è quello delle scienze socioeconomiche.

Gli autori sono molteplici, inclusi, in doppia veste, anche i due curatori del volume. L’introduzione, dei curatori, evidenzia il comune piano metodologico dei contributi, presentando fin dall’inizio alcuni criteri ritenuti necessari per potersi muovere nelle discussioni attuali distinguendo tra ciò che merita di essere considerato e discusso tra sostenitori di visioni diverse e ciò che è pura disinformazione, priva di basi scientifiche (quel che è poi stato definito come le “fake news” sul piano scientifico).

L’argomento che si trova per primo, affrontato da Ugo Bardi, è quello del limite rappresentato dalle risorse finite disponibili sulla terra. Una analisi focalizzata prevalentemente sulle risorse inorganiche reperibili nella crosta terrestre mostra la possibilità di una gestione, se non proprio circolare, quanto meno tendente alla chiusura dei cicli produzione-consumo su tempi molto lunghi. L’approccio è quello di trattare lo sviluppo economico complessivo come un processo metabolico di un organismo composto da più sottoinsiemi mutuamente interagenti e inglobati gli uni negli altri a partire dall’ecosfera complessiva, passando per la biosfera e giungendo alla tecnosfera – che è quella costituita dall’insieme delle strutture industriali costruite dall’umanità negli ultimi secoli. Ogni ambito ha le sue specificità ma, analizzato in termini termodinamici, tutti debbono convivere con gli stessi vincoli e sottostanno a dinamiche simili.

Il secondo capitolo, scritto da Stefano Caserini, riguarda il mutamento climatico globale. La situazione presente e gli scenari futuribili vengono accuratamente passati in rassegna, ribadendo le argomentazioni scientifiche che nullificano le residue posizioni negazioniste, anche nelle forme insidiose ed ambigue in cui tendono ora a presentarsi, messa da parte la baldanzosa arroganza di qualche anno fa. Caserini evidenzia anche quelli che sono i vincoli concreti cui il mondo dovrebbe attenersi per poter sperare di conseguire l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura superficiale media del pianeta “ben al di sotto dei 2 °C” come sta scritto nell’accordo di Parigi. In particolare si pone in evidenza come percentuali variabili tra il 30% e l’80% (a seconda della fonte) delle risorse energetiche fossili dovrebbero restare sotto terra. Non si può che rilevare la contraddizione tra questa esigenza e la politica materialmente perseguita in Italia e in altri paesi, di continua ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare e la sottoscrizione di contratti di acquisto a futura memoria di gas metano e di petrolio. Le risorse investite in queste ricerche e nello sfruttamento di nuovi giacimenti dovrebbero piuttosto essere indirizzate al settore delle fonti rinnovabili e della riduzione dei consumi di energia, eliminando gli sprechi e accrescendo l’efficienza degli apparati energivori e dei sistemi produttivi.

L’argomento del terzo capitolo (Angelo Tartaglia) è quello dei limiti di un sistema a complessità crescente. Un sistema a complessità crescente è certamente il sistema economico globalizzato. Come sappiamo, il paradigma (e il dogma) dell’economia main stream è quello della crescita. Mentre l’aspetto della impossibilità di una crescita materiale indefinita in un qualunque contesto finito è quello più dibattuto e su cui si pone l’accento nei primi due capitoli, qui si analizza un problema che di solito resta implicito. In sintesi si fa vedere che in un sistema di relazioni in cui i nodi crescono di numero la complessità cresce più in fretta dei nodi. Nel caso dell’economia i “nodi” possono essere operatori economici, attività produttive, servizi e così via; mentre la complessità è misurata dalle interconnessioni tra tutti questi soggetti, lungo le quali viaggiano informazioni, materiali, merci etc. In sintesi si vede che, se al crescere dei nodi cresce la ricchezza lorda prodotta, al crescere della complessità cresce il costo del mantenimento del sistema sotto controllo e in sicurezza. Questa seconda crescita è però più veloce della prima: in pratica “l’utile” ricavato da questo modo di funzionare della macchina mondo si assottiglia progressivamente e il tutto finisce per diventare insicuro e ingovernabile.

I primi tre capitoli esauriscono i temi legati alla dimensione naturale e oggettiva. Si viene quindi alla seconda parte: quella delle scienze umane. Il capitolo quattro (Joseph Tainter e un gruppo di suoi collaboratori) espone una accurata e approfondita critica dell’”ottimismo tecnologico” che è stato la bandiera dell’evoluzione dell’economia mondiale, a partire dai paesi più avanzati, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si mostra con chiara evidenza che non vi sono vie d’uscita tecnologiche che possano globalmente neutralizzare l’impoverimento delle risorse materiali. Un meccanismo che ha funzionato fino ad oggi viene progressivamente smontato dall’ineludibile declino della produttività dell’innovazione. In altri termini (e questo richiama in qualche modo il capitolo tre) gli investimenti necessari per perseguire e conseguire un ulteriore progresso tecnologico, a parità di rilevanza del risultato, crescono sempre più. E’ una versione più specifica della legge del “diminishing return” che l’economia classica già conosce.

Nel quinto capitolo Ian e Julia Schindler analizzano in termini formali le strategie possibili per un percorso verso la sostenibilità del sistema mondo in presenza di vincoli energetici. La discussione è impostata a partire da un esame dei cicli economici storicamente dati e da una riconsiderazione di quanto accaduto formulata usando parametri energetici. Numerosi concetti tipici della scienza economica vengono messi in campo esprimendoli però in termini di fabbisogni di energia. Dalle valutazioni esposte emerge un giudizio positivo sul movimento delle transition towns e sulla proposta della permaculture.

Il capitolo finale della seconda parte (Roberto Burlando) prende in esame la questione del negazionismo, in particolare nei confronti del cambiamento climatico, e muovendo dalle analisi generali (Oreskes & Conway, Washington & Cook) sul tema, considera lo specifico della teoria economica e degli economisti. Da un lato evidenzia l’evoluzione dell’ economia mondiale negli ultimi decenni (quelli del neo-liberismo o fondamentalismo di mercato) con la crescita delle rendite e della concentrazione di reddito e ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più ristretta della popolazione (popolarizzata come la “dittatura dell’1%”), che usa qualunque mezzo (dalla legislazione che favorisce la concentrazione di potere di mercato ai paradisi  fiscali) a tutela dei propri interessi e per contrastare qualunque cosa (tutela dell’ambiente o delle popolazioni) possa contenerne l’espansione. Dall’altro presenta un’accurata analisi critica del pensiero economico main stream (in articolare delle teorizzazioni dell’equilibrio economico generale) e dei suoi assunti, sottolineandone sia la distanza dalla realtà economica in cui viviamo sia il carattere spesso dogmatico e l’inadeguatezza degli assiomi su cui si fonda, quali l’individualismo metodologico ed etico, e il carattere sostanzialmente riduttivista. Questi tratti risultano sostanzialmente inadeguati ad interpretare l’evoluzione dell’economia mondiale contemporanea e ancor più a proporre soluzioni ai problemi emergenti.

La conclusione generale del libro, ricapitolando l’insieme dei contributi, mette insieme il necessario realismo riguardo ai fatti e sostiene l’esigenza di un vero e proprio cambio di paradigma, che solo può essere la premessa di un cammino che riporti il nostro stile di vita nel solco della sostenibilità. Da un lato i mutamenti globali che una impostazione, in parte inconsapevole, delle relazioni del dare ed avere ha messo in moto continueranno per inerzia per un tempo lungo anche decenni. Dall’altro le vie di uscita nel dettaglio dovranno e potranno essere costruite sul campo senza aspettarsi ricette miracolose fin da subito. Il presupposto indispensabile è, comunque, quello di passare da un approccio competitivo, basato su un radicale pessimismo riguardo alla natura umana, ineludibilmente egoista, ad uno collaborativo a partire da consapevolezza e razionalità. Il problema non è solo quello di convincere intellettuali ed esperti a liberarsi da dogmi ed assiomi irrazionali, ma quello di promuovere e costruire una capillare e razionale consapevolezza generalizzata riguardo a ciò che sta accadendo e alla necessità di unire le risorse umane per riprendere le redini di uno sviluppo a vantaggio di tutti e che non coincide con una impossibile crescita della produzione materiale.

sabato 3 marzo 2018

Il limite dei “Limiti”.


di Jacopo Simonetta

Ad oggi, purtroppo, il modello World3, cuore dello studio dei “Limiti della Crescita”, si è dimostrato di gran lunga il migliore fra i tanti modelli proposti nel tentativo di capire quello che ci sta accadendo.  La sua capacità previsionale si è infatti dimostrata ampiamente maggiore di quanto i suoi stessi autori non si aspettassero. Eppure contiene almeno un errore strutturale consistente: la teoria della “Transizione Demografica”.   Un errore trascurabile nella fasce ascendente delle curve, ma critico nella fase di declino e, forse,di  collasso del sistema socio-politico globale.

La teoria

L’idea alla base di questa teoria è che, aumentando il benessere, dapprima diminuiscano prima la mortalità e, successivamente, la natalità; così da ritrovare un relativo equilibrio ad un livello molto più alto di quello di partenza. Il corollario, è che non bisogna quindi preoccuparsi di controllare i parametri demografici (natalità, mortalità e saldo migratorio), bensì aumentare e diffondere il benessere economico,  “condizione necessaria e sufficiente” per la definitiva soluzione dei problemi umani.

La teoria, nata alla fine del XIX secolo, ha alcuni pregi e parecchi difetti.  
Il merito principale è di individuare una serie di fattori sociali e culturali che effettivamente danno un contributo importante alla dinamica di una popolazione umana.   Ad esempio, il livello di istruzione femminile, l’accesso ai contraccettivi moderni, l’accesso al mercato del lavoro per le donne, l’innalzamento dell’età matrimoniale, eccetera sono certamente elementi importanti; cruciali in determinati contesti.  E sono tutti fattori quasi sempre associati ad un aumento del reddito, almeno in età moderna.
Un primo importante difetto è invece quello di pretendere che una stessa dinamica debba necessariamente verificarsi dovunque e comunque.

Un secondo ed ancor maggiore difetto non è proprio della teoria in se, ma dei modelli da essa derivati ed ampiamente utilizzati dalle principali istituzioni mondiali (ma non da World3). Cioè dare per scontato che gli ecosistemi, di cui le popolazioni fanno parte, siano comunque in grado di sostenere la maggiore popolazione post-transizione.  Di conseguenza, sembra che le popolazioni umane possano solo crescere o stabilizzarsi, senza mai diminuire se non, eventualmente, in conseguenza di proprie dinamiche interne. Politicamente molto corretto, ma scientificamente del tutto irrealistico.

Il terzo e principale difetto è che il modello è reversibile nel tempo.  In pratica, la teoria prevede che, quando una popolazione viene colpita da una crisi economica, aumentino sia la mortalità, sia la natalità. Considerando il solo livello globale, i flussi migratori sono considerati indifferenti. Per quanto riguarda la mortalità, la previsione è corretta, ma gli effetti sulla natalità sono molto più complessi.  Vediamo quindi una serie di casi reali (ovviamente, visti i limiti di spazio, si farà cenno solo a quei dettagli che sono utili in questa sede).

Casi reali.

Senza pretesa di condurre un’analisi sistematica, ci limiteremo qui ad una carrellata di casi emblematici, con attenzione agli indizi utili per delineare scenari demografici sia pur minimamente realistici.  Fermo restando che la realtà sarà sempre diversa da come la abbiamo immaginata. 

Cina


Il doppio picco, negativo delle nascite e positivo delle morti, seguito da un brusco rimbalzo della natalità è un fenomeno molto frequente che ritroveremo anche in altri esempi.  Si verifica quasi sempre quando una popolazione viene colpita da una improvvisa calamità, molto violenta, ma di breve durata come una guerra ad alta intensità o una grave epidemia.  Molto più interessante è quello che è accaduto dopo.  Infatti, malgrado le politiche decisamente nataliste di Mao, le nascite sono calate con estrema rapidità ben prima del “miracolo cinese”. Da notare anche che la legge sul figlio unico è stata introdotta quando la natalità era già poco al di sopra dell’1,5% e, dall'andamento successivo della curba, si direbbe che abbia svolto un ruolo determinante nel prevenire un picco riproduttivo analogo a quello avvenuto in Italia negli anni ’60 (v. seguito).   Viceversa, il successivo livellamento, fra l’1 e lo 0,5 %, è probabilmente dovuto ad altri fattori, tanto è vero che la modifica della legge (adesso sono consentiti due figli per coppia) non ha per adesso modificato sensibilmente la curva.

Per quanto riguarda la correlazione con la crescita economica, è da notare che il “miracolo cinese” è avvenuto dopo che la natalità era già sostanzialmente scesa.  Oggi, in una fase di brusco rallentamento, se non di stagnazione, dell’economia cinese, i provvedimenti per rilanciare la natalità stanno avendo risultati deludenti.   La natalità è tuttora in calo.

Un fattore che sicuramente sta giocando un ruolo è la prospettiva di un futuro senza crescita economica in un paese in cui è stato fatto un massiccio sforzo per l’istruzione di base alle bambine, l’industrializzazione e il lavoro femminile. Tutti fattori che hanno contribuito molto a scardinare la famiglia confuciana tradizionale, a tutto detrimento della natalità. Cioè esattamente il contrario di quanto all'epoca si riprometteva il governo maoista che pure avviò questi provvedimenti.

India.

Contrariamente alla Cina, durante gli anni ’70 e primi anni ’80 l’India fu il paese che più di ogni altro si prodigò per contenere il “baby boom”, giungendo addirittura a praticare sterilizzazioni forzate in maniera massiccia. Con tutto ciò, la natalità che continuò comunque a crescere inesorabile fino alla metà degli anni ‘80, per poi cominciare a declinare autonomamente e lentamente; restando comunque ben addentro al territorio positivo.  Un fatto questo non privo di conseguenze.
Qualcuno ricorderà di quando si parlava di “Cindia”: in parecchi vagheggiavano un’alleanza strutturale fra questi due giganti che, uniti, avrebbero dominato il mondo.   Partiti praticamente insieme nel 1980, i due paesi più popolosi del mondo hanno invece seguito strade assai diverse e, ad oggi, la Cina ha vinto la corsa.   

Vari fattori vi hanno giocato, ma certamente la precoce riduzione della natalità ha consentito ai cinesi un sensibile aumento del reddito pro capite già prima del 2001 e, quando la Cina entrò nel WTO, la sua popolazione era già quasi stabilizzata, seppure complessivamente giovane.   Una condizione ottimale per approfittare della situazione con il più fantastico tasso di crescita economica mai visto nella storia umana.

Viceversa, la crescita demografica indiana continua tuttora ad assorbire parte della crescita economica, con un aumento del potere d’acquisto del cittadino medio che è meno della metà di quello dei cinesi. Di conseguenza, mentre milioni di famiglie cinesi hanno potuto investire e/o risparmiare, la maggior parte delle famiglie indiane si devono accontentare della sopravvivenza.

Nigeria.

La Nigeria è il paese che più di tutti si presta ad illustrare l’esplosione repentina delle “bomba demografica”.  In soli 50 anni la sua popolazione è triplicata e continua a crescere ad un vertiginoso tasso vicino al 3% annuo (tempo di raddoppio circa 25 anni).

Le conseguenze sono complesse.  Anche se molti acclamano il vertiginoso aumento del PIL del paese, la devastazione pressoché totale degli ecosistemi ha provocato la disintegrazione degli equilibri sociali e delle culture tradizionali, con un tasso di inurbamento fantastico sia per dimensione che per velocità. Guerre tribali e religiose, terrorismo, corruzione ad ogni livello, disoccupazione alle stelle e molto altro completano un quadro che sta già contribuendo a destabilizzare una bella fetta di mondo. Come se non bastasse, una situazione politico-sociale molto instabile all’interno di un paese ricco di risorse minerarie non può che essere un potente attrattore per speculatori privi di scrupoli di tutto il mondo.

Particolarmente interessante è che i oggi due terzi della popolazione vive in completa miseria, ma ciò non impedisce alla stragrande maggioranza delle persone di essere molto ottimiste.  Oggi, in Nigeria, quasi tutti hanno progetti per un futuro che immaginano molto migliore del presente. Questa è probabilmente una delle due principali ragioni per un calo così lento della natalità, malgrado un ambiente così ostile per la grande maggioranza dei cittadini.  L’altro motivo probabile è che la larghissima maggioranza dei nigeriani sono cattolici o mussulmani: molto convinti e credenti in entrambi i casi.

Impossibile dire come andrà, ma di sicuro la proiezione demografica ufficiale (circa 500 milioni di persone al 2050) è la meno probabile di tutte. Anche tenendo conto che l’impronta ecologica è un parametro parziale, non c’è dubbio che la popolazione attuale abbia già ampiamente superato la capacità di carico del Paese. Qualunque cosa fermerà un simile impulso sarà dunque qualcosa di “bilico” che coinvolgerà il mondo intero. 

Russia.

La Russia si trova in una condizione opposta quella della Nigeria. Raggiunse il massimo di crescita demografica alla fine del XIX secolo, per poi gradualmente declinare, anche a causa delle due guerre mondiali, parimenti disastrose sul piano demografico, ancorché di segno opposto su quello geopolitico.   La prima segnò infatti la fine dell’Impero Russo, la seconda la nascita di quello Sovietico.

Per quanto riguarda il secondo dopoguerra, è da notare che proprio nel periodo della massima potenza sovietica, il tasso di natalità calava rapidamente, a fronte di un tasso di mortalità in diminuzione fino alla metà degli anni ’60, per poi tornare a crescere leggermente. Dal nostro punto di vista, è però ancora più interessante ciò che è accaduto dopo.  Il collasso dello stato sovietico e la gravissima crisi economica che lo ha caratterizzato iniziò infatti alla metà degli anni ’80, puntualmente accompagnato non solo da un balzo della mortalità (come c’era da aspettarsi), ma soprattutto con un ulteriore sdrucciolone della natalità, che raggiunse il minimo storico durante il decennio 1995-2005.  Per poi riprendersi, ma solo in parte, a fronte di una migliorata situazione economica e di una maggiore stabilità politica.

Un fatto questo molto importante perché ulteriormente confermato negli ultimi anni, ma diametralmente opposto alle previsioni fatte in base alla teoria demografica dominante. 

Italia.



A prima vista l’Italia si presenta come un caso paradigmatico di “transizione demografica”; ma ad uno sguardo più attento forse non del tutto.  Dal 1900, la mortalità è andata diminuendo, mentre la natalità cresceva.  Poi ci fu il duplice disastro della “grande guerra” e, subito dopo, della “spagnola”.   Da notare che in questo, come in moltissimi altri casi, durante la fase acuta delle moria anche la natalità è crollata, per rimbalzare subito dopo ad un livello leggermente superiore a quello precedente.  Interessante è anche osservare che, analogamente a quanto visto per la Cina di Mao, le politiche demografiche di Mussolini non impedirono un calo sensibile della natalità durante il “ventennio”.

Quindi ci fu un picco di natalità a cavallo del nuovo disastro rappresentato dalla 2a Guerra Mondiale (che fece molte più distruzioni, ma meno morti della prima, malgrado i bombardamenti, l’olocausto, le rappresaglie, ecc.). Poi, e questo è molto interessante, una netta depressione durante gli anni ’50 e quindi un ripido picco in corrispondenza col il periodo più ottimista della nostra storia: quei mitici anni ’60 che ancora ci ossessionano.  Infine, il graduale calo fino a quota di mantenimento alla metà degli anni ’90 e poi sotto.  Infine, la crisi mai finita del 2008 si è finora accompagnata sia ad un lieve aumento della mortalità, sia una lieve diminuzione della natalità. Sicuramente è presto per dire se sarà una tendenza duratura e diversi fattori concorrono a questo risultato, ma è interessante perché analogo a quanto già visto in Russia ed in molti altri paesi.

Tirando le somme.

La carrellata di cui sopra è molto parziale, ma significativa. Direi che si possono trarre le seguenti conclusioni, certamente parziali, ma interessanti:

1 - La bomba demografica ci sta scoppiando sotto il naso proprio ora ed ha appena cominciato a farci male. Il “meglio” deve arrivare ed arriverà. Non possiamo sapere quanto tempo ci vorrà per tornare a densità umane compatibili con la sopravvivenza della Biosfera, ma sappiamo che, se non accadesse, l’estinzione della nostra specie diventerebbe una prospettiva molto realistica.  

2 - La “transizione demografica” descrive abbastanza bene quello che succede durante le fasi di rapida crescita, ma trascura completamente il ruolo complesso dei Ritorni Decrescenti  e dei limiti su tutti i fenomeni fisici di crescita, comprese la crescita economica e quella demografica.  Di conseguenza, risulta del tutto inadeguata per delineare scenari realistici per i prossimi decenni.  Questa tara rende assai poco affidabili gli scenari delineati da Word3 successivi al 2030-2040.

3 - Gli interventi governativi a favore della  natalità hanno di solito un impatto marginale, mentre quelli volti a ridurre la mortalità possono avere effetti spettacolari, a condizione di disporre dei mezzi economici necessari.  Anche gli interventi governativi di contrasto della natalità si sono dimostrati poco efficaci, tranne nel caso della Cina; cioè in un paese dove anche solo parlare di “diritti individuali” costituisce un reato grave

4 - Catastrofi improvvise come guerre ad elevata intensità o gravi epidemie hanno effetti molto brevi nel tempo perché, subito dopo, la società recupera la tendenza precedente.  Sono quindi del tutto inefficaci per controllare popolazioni in fase di rapida crescita, mentre possono avere effetti enormi su popolazioni che sono già in calo per altri fattori.  Ma simili shock potrebbero anche avere l’effetto di rilanciare la natalità.  Diciamo che le conseguenze a medio e lungo termine delle gravi calamità sono imprevedibili.

5 – Perlomeno nelle odierne  società reduci da periodi di “boom” economico, il peggioramento delle condizioni economiche, o anche il solo rallentamento della crescita, provoca una riduzione della natalità, a fronte di un incremento sia della mortalità che dell’emigrazione. Quindi riduzioni relativamente rapide della popolazione, anche in assenza di fatti particolarmente drammatici.

6 – In tutti i paesi del mondo il tasso di natalità sta diminuendo, ma l’inerzia intrinseca di popolazioni longeve come le nostre fa si che, in assenza di limiti, effettivamente la popolazione tenderebbe a crescere ancora per tutto il secolo in corso, secondo le proiezioni dell’ONU (circa 12 miliardi di persone per il 2100).   Il problema è che i limiti invece ci sono.

 Il limite dei “Limiti”.

Secondo World3, ben entro il 2050, la popolazione mondiale non tenderà a stabilizzarsi, bensì a diminuire.  La fine della crescita demografica globale per il 2030 è uno scenario reso molto credibile dalla dimostrata validità del modello.

Ma se questo si è dimostrato estremamente affidabile in fase di crescita, non lo sarà per la fase di decrescita.  Per i motivi visti, c’è infatti da aspettarsi che il decremento demografico sarà molto più rapido di quanto indicato dal modello, pur senza bisogno alcuno di immaginare scene raccapriccianti. Per fare solo un’ipotesi, un decremento del 3% annuo significherebbe dimezzamento della popolazione in circa 25 anni, pur senza bisogno di fosse comuni e monatti.

Un secondo punto, completamente assente dalle analisi di World3, sono le dinamiche regionali.  La flessione demografica, come tutti gli altri fattori in gioco, non sarà uniforme. Al contrario, ci saranno realtà molto diverse, ad esempio con aree in calo relativamente rapido, altre in relativo equilibrio ed altre ancora in rapida crescita.

Questo accentuerà le pressioni già presenti in materia di grandi flussi migratori che sono ampiamente in grado di cambiare drasticamente il quadro . 
Per citare un solo esempio, abbiamo visto che l'Italia ha un saldo naturale negativo, ma ciò nondimeno vive da oltre 10 anni il periodo di massima crescita demografica della sua storia. 


Altri fattori, come il clima, le guerre, le carestie eccetera contribuiranno a delineare un quadro imprevedibile nei suoi dettagli.

Questo crea contemporaneamente rischi ed opportunità.  Da una parte, infatti, la possibilità di importare gente dall'estero sarà senz'altro un’opportunità, ma solo ed esclusivamente se i flussi saranno controllati in modo da rispettare almeno due parametri: 1- rallentare, ma non fermare il decremento demografico; 2 – rispettare un livello di integrazione tale da prevenire conflitti gravi con gli autoctoni.
In caso contrario, una crescente conflittualità sarà inevitabile, con conseguenze probabilmente devastanti su economie e società già fortemente fragilizzate da altri fattori.