martedì 21 aprile 2015

La maledizione delle miniere. Da Nauru alle Apuane

 Di Jacopo Simonetta  




Il film Rapa Nui ed i libri di Jared Diamond hanno reso celebre la triste storia dell’Isola di Pasqua, spesso citata come un modello di quello che potrebbe accadere, su di una diversa scala temporale, all'intero pianeta Terra.

Certo, la possibilità di verificare su casi reali le dinamiche evolutive dei sistemi socio-economico-ambientali è vitale per capire cosa sta succedendo oggi nel mondo.

In fondo, sistemi piccoli e grandi sono soggetti alle medesime leggi fisiche ed ecologiche, ma occorre prudenza nell'estrapolazione dei risultati.   Sistemi più grandi sono, infatti, anche più complessi e dispongono di maggiori riserve, per cui non si comportano mai esattamente come i sistemi relativamente più semplici che possiamo studiare in dettaglio.   Una parte importante dell’evoluzione dei sistemi dipende dal loro livello di complessità, ancor più che dalla loro natura.

Tuttavia, la disponibilità di “casi di studio” relativamente semplici rimane una delle maggiori risorse per capire dinamiche specifiche ed è per questo che vorrei qui proporre un altro esempio, assai meno famoso, eppure ancor più istruttivo di quello dell’Isola di Pasqua. Si tratta infatti di una storia contemporanea che riguarda uno stato riconosciuto ed organizzato come gli altri: con bandiera, governo, parlamento, banca centrale e tutto il resto, compreso un seggio all’ONU.   Però in scala: la superficie dello stato è di circa 21 Kmq e la popolazione circa 14.000 persone. Stiamo parlando dell’isola di Nauru. Una storia che trovo particolarmente interessante perché emblematica di molte dinamiche economiche, sociali ed ecologiche correlate con l’industria mineraria in tutte le parti dal mondo.

Scoperta nel 1798 dagli inglesi, fu battezzata nientemeno che “Pleasant Island”.   All'epoca c’erano forse un migliaio di persone, organizzate in dodici clan che riconoscevano l’autorità di un unico capo. Le attività principali erano coltivare una terra particolarmente fertile e pescare sulla barriera corallina, che circonda interamente l’isola. Nel corso del secolo seguente, Nauru passò rapidamente di mano fra varie potenze coloniali che non sapevano che farsene, ma non senza conseguenze.  La disponibilità di armi moderne, avute in scambio dai navigatori che vi facevano scalo, fu infatti all'origine della guerra civile che, nel 1870, spazzò via buona parte della popolazione.

Nel 1900 le cose cambiarono. Il geologo Albert Ellis scoprì che l’isola era ricchissima di fosfati, un minerale strategico sia per l’agricoltura che per l’industria chimica. Certo, l’escavazione ed il trasporto erano molto problematici, ma lo sfruttamento minerario dell’isola comunque iniziò e proseguì sempre, anche durante l’occupazione giapponese. L’isola fu quindi coinvolta nella seconda guerra mondiale, cui sopravvissero meno di 1000 isolani.

Terminate le ostilità, Nauru divenne un protettorato dell’Australia che, forte dei mezzi tecnici e delle fonti energetiche postbelliche, riorganizzò in modo assai più efficiente lo sfruttamento economico dei fosfati.

Nel 1968 scadeva il mandato dell’ONU e l’isola divenne uno stato indipendente, formalmente riconosciuto, malgrado le minuscole dimensioni.   E la prima cosa che fece il nuovo governo fu di contrarre un grosso prestito internazionale per comprare i diritti di sfruttamento dalle compagnie minerarie australiane, neozelandesi ed inglesi che li detenevano.

In effetti, questo passaggio avvenne proprio in concomitanza con il picco di estrazione, ma noncuranti di ciò i nauruani non esitarono a contrarre dei debiti per potenziare la loro industria estrattiva e rilanciare la produzione.   Per una quindicina d’anni funzionò e questo isolotto divenne il secondo paese più ricco del mondo, ai punti con l’Arabia Saudita.   Per fare un solo esempio, una popolazione di poche migliaia di persone si permise il lusso, fra l’altro, di una compagnia aerea nazionale con ben sei Boeing 737 che portavano gli isolani a fare shopping in giro per il Pacifico, dalle Hawaii a Melbourne, da Hong Kong a S. Francisco.

Altre centinaia di milioni di dollari furono investite all'estero, dove il governo mise insieme un enorme patrimonio; ivi compreso un intero grattacielo, in centro ad Honolulu, per sistemarvi gli uffici che gestivano questa immensa ricchezza.

Ma alla fine degli anni ’80 la produzione tracollò e nel 2005 l’ultima miniera venne abbandonata.   E con la crisi delle miniere emerse anche il bubbone delle innumerevoli truffe che gli amministratori e la gente di Nauru si erano fatti rifilare negli anni della grande sbornia collettiva.

Incapaci di mantenere il tenore di vita e gli impegni finanziari assunti, i nauruani cominciarono ad arrampicarsi sugli specchi, finendo invischiati fra mafia russa, debiti, tribunali e sanzioni internazionali. Il patrimonio mobiliare ed immobiliare, i diritti minerari, gli aerei e perfino i diritti di pesca sulle acque territoriali, tutto o quasi è finito nel buco.

Oggi Nauru è uno dei paesi più poveri del mondo e sopravvive sostanzialmente di elemosina internazionale.   Le sue entrate principali derivano dalla vendita del loro voto all’ONU e dalla gestione, per conto dell’Australia, di un campo di concentramento per stranieri indesiderati.

Ma non è questa la parte più triste ed istruttiva della storia.

I giacimenti di fosfato di Nauru erano formati da depositi intrappolati fra pinnacoli di roccia calcarea molto dura, coperti da una sessantina di centimetri di suolo straordinariamente fertile.   Il clima era tipicamente tropicale-umido.

Lo sfruttamento minerario ha comportato la completa asportazione della vegetazione e del suolo,
quindi lo scavo dei sedimenti ricchi in fosfati, grattando tra i pinnacoli calcarei.  
Nei decenni, questo ha trasformato l’intera isola in una plaga impraticabile.  

Ma non basta: la vegetazione attuale di Nauru è composta principalmente da una rada sterpaglia che è riuscita ad insediarsi negli anfratti tra le rocce delle miniere chiuse da più tempo. In quelle abbandonate più di recente non c’è praticamente niente.  Di conseguenza, il sole surriscalda la superficie dell’isola, creando una colonna d’aria calda che allontana le piogge. Oggi, un isolotto tropicale in mezzo all'oceano, soffre di siccità cronica e l’acqua dolce proviene da un dissalatore che funziona nella misura in cui altri paesi hanno la condiscendenza di recapitare, via nave, carburante e pezzi di ricambio.


I diritti sulla pesca oceanica sono stati venduti ad altri per pagare parte dei debiti, e comunque i nauruani non sarebbero in grado di farla.   Rimangono le acque costiere la cui fauna è stata oramai ridotta ai minimi termini dalla pesca eccessiva e dall'acidificazione del mare che sta danneggiando questa, come le altre barriere coralline.   Il tentativo di lanciare i turismo in un posto così triste è ovviamente fallito.
Rimane abitabile solo una piccola zona intorno ad un laghetto ed una fascia di un paio di centinaia di metri lungo la costa. Una fascia quasi completamente edificata, che l’innalzamento del livello oceanico finirà con l’inghiottire almeno in buona parte.

Nel frattempo, dall'indipendenza ad oggi, la popolazione è raddoppiata.   Per circa il 30% è costituita da immigrati che vennero per lavorare nelle miniere; per poi restare qui, non avendo i mezzi per tornare in patria.

Ma questa storia non è ancora finita.  Malgrado lo stato di salute precario ed i servizi sanitari in rapida diminuzione, la popolazione continua a crescere vigorosamente, grazie all'elevata natalità. Il cibo viene quasi tutto importato ed è abbondante, anche se di pessima qualità. Una combinazione che ha dato alla gente di Nauru il dubbio primato di popolazione con la massima incidenza di obesità e di diabete del mondo.

Ma il governo non demorde e, proprio in questo momento, sta tentando di rilanciare l’estrazione dei fosfati. Si, perché il fosfato non è finito.  Come normalmente succede, quelli che sono esauriti sono i giacimenti migliori; quelli che davano un buon rendimento con poco lavoro. Ma sedimenti più poveri e più profondi ci sono ancora e per sfruttarli sono stati fatti accordi con delle compagnie minerarie internazionali. Naturalmente ciò spazzerà via anche la rada sterpaglia che è ricresciuta in alcune zone e abbasserà ulteriormente l’isola, rispetto ad un oceano sempre più minaccioso. In compenso, è possibile che ci siano dei proventi, specialmente in vista del prossimo picco dei fosfati sahariani e dei deliranti progetti di sviluppo agricolo dell’Australia settentrionale. Ma anche se gli affari andassero bene per qualche tempo, saranno le compagnie a trarne profitto, non certo per gli isolani che hanno ceduto i diritti e non hanno ancora finito di pagare i debiti.

Se ora allarghiamo lo sguardo alle principali aree estrattive del Pianeta, troviamo che la storia di Nauru è una parabola di validità quasi universale.   E’ vero che all'interno di paesi di taglia normale o grande le dinamiche molto più complesse comportano conseguenze meno rapide e devastanti, ma se scendiamo al livello locale, troviamo che la somiglianza è molto forte.   In Canada, Cina, Stati uniti e molti altri paesi ancora, intere regioni stanno diventando dei veri inferni di voragini e cumuli di detrito, spesso irreparabilmente contaminate da sostanze tossiche e/o radioattive.

Anche nel nostro piccolo italiano troviamo, in scala, dinamiche analoghe. Personalmente, conosco bene l’industria lapidea apuana che sta arricchendo alcune decine di persone, con il sostegno incondizionato delle amministrazioni ed il disinteresse della maggior parte delle persone. Ma quando avranno finito, la gente si accorgerà che l’eredità lasciatagli saranno finanze ed infrastrutture pubbliche irreparabilmente dissestate, uno stato di calamità idrogeologica semi-permanente ed un immenso buco.

Ciò che apparentemente nessuno che conti qualcosa è in grado di capire è che l’industria è oggi un “gioco” a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince, a spese di chi ha le miniere e le discariche. Ci sono ragioni termodinamiche e sistemiche precise perché non possa essere che così. Varie volte ne è stato trattato su questo stesso blog e da autori importanti, ma non sembra che, collettivamente, siamo in grado di fermarci.

Nel frattempo, la storia di Nauru procede.   Non è ancora finita, ma lo sarà presumibilmente tra breve. Quali opzioni rimangono possibili per questo popolo che, come tanti altri, ha saputo trasformare la propria fortuna in una maledizione?




lunedì 20 aprile 2015

La terza ganascia dell’insostenibilità.

di Jacopo Simonetta

Per questo articolo sono completamente debitore alla breve conferenza “Limiti alla crescita di un sistema a complessità crescente” che il professor Angelo Tartaglia ha tenuto a Firenze, in occasione della presentazione pubblica del rapporto al Club di Roma, "Extacted", del prof. Ugo Bardi.    Una di quelle rare occasioni in cui, ascoltando una persona, provi la piacevolissima sensazione di sentire le finestre del cervello che si aprono cigolando.

In effetti, anche nell'ambito delle ristretta cerchia di persone che si preoccupano dell’insostenibilità del nostro sistema di vita e della nostra popolazione, l’attenzione principale va al deterioramento quali/quantitativo delle risorse.   Un attenzione notevole, ma minore, viene data all'accumulo di rifiuti solidi, liquidi e gassosi nell'atmosfera, le acque ed i suoli.   Ma non sono due le ganasce che stringono il nostro sistema, bensì tre.   E chiunque abbia mai maneggiato un trapano sa che un oggetto stretto da tre parti contemporaneamente non ha alcun margine di libertà.
Il terzo elemento in questione è il livello di complessità raggiunto dalla nostra economia e dalla nostra società.    Un argomento non certo nuovo per i lettori abituali di questo blog, ma al quale viene raramente data la visibilità che merita.

  Per chi volesse approfondire, consiglio subito tre testi di natura molto diversa, ma che trattano vari aspetti di questo complesso argomento:, The Collapse of Complex Societies (J. Tainter 1988), Bottleneck: Humanity's Impending Impasse (W. Catton 2009), Thermodymnamique de l’évolution ( F. Roddier 2012). Giusto per richiamare l’attenzione sull'argomento, vorrei qui riprendere alcuni passaggi della conferenza del prof. Tartaglia per giungere, però, a conclusioni assai diverse dalle sue.

Se prendiamo due punti, questi sono collegati da una sola relazione.   Tre punti da tre relazioni, quattro punti da sei, cinque punti da 10 relazioni e così via.     In una rete, il numero di relazioni potenziali cresce molto più rapidamente di quello dei nodi.

In un sistema reale, i nodi possono essere singole persone, ma anche organizzazioni, imprese, interi paesi.   Dunque generalmente abbiamo a che fare con nodi che, a loro volta, sono composti da reti o, più spesso, da un sistema di reti articolate su più livelli organizzativi.   Tutto ciò moltiplica ulteriormente la complessità del sistema.

Lungo ognuna delle connessioni può transitare una certa quantità di materia, energia e/o informazione.     Se il flusso aumenta, la connessione comincia a dare dei problemi che possono arrivare al blocco completo del flusso, come accade in autostrada la sera di Pasquetta.    Dunque, se i flussi aumentano, occorre aumentare le connessioni ed i nodi, ma questo rende sempre più difficile un controllo ed una gestione coordinata della rete.   Anche perché il controllo della rete comporta una moltiplicazione dei nodi e delle relazioni.    Ad esempio, ci vorranno reti di telecamere per controllare la rete stradale; e poi una rete di controllo e manutenzione delle telecamere e così via. Insomma, il punto cruciale è che il funzionamento di una rete può essere migliorato aumentandone la complessità, ma fino a quando?

A titolo di esempio, citerò il caso estremamente semplice di una singola lampadina.    Una vecchia lampadina ad incandescenza funziona sulla base dello schema “A” ed è assai poco efficiente.   Le lampadine a led hanno rendimenti enormemente superiori in fase di uso, ma funzionano sulla base dello schema “B”.

 Non c’è bisogno di essere elettricisti per capire che l’aumento dell’efficienza è avvenuto a costo di un aumento proporzionalmente molto maggiore di complessità.
E la complessità costa sia in termini economici, sia in termini di energia grigia incorporata nell'oggetto; ma anche in termini di consumo di materiali rari non riciclabili ed in termini di guasti.   In effetti, è vero che il singolo led ha una vita operativa lunghissima, ma le lampadine no perché spesso si rompe qualcuno dei numerosi componenti a monte del led.

Tornando ai sistemi su cui funziona la nostra società, osserviamo che ogni relazione è costituita da qualcosa (strade, cavi, processori, rotte, bande di frequenza, tubi,  eccetera) che per essere mantenuto in efficienza abbisognano di manutenzione e controllo.   Man mano che la rete cresce e diviene più complessa, aumenta il rischio di guasti, incidenti, ingorghi ecc.     Si rende allora necessario investire per migliorare l’efficienza e la a sicurezza di nodi e connessioni, il che significa migliorare le tecnologie, le procedure, i regolamenti, i comportamenti, la vigilanza, la manutenzione, ecc.    Tutte cose soggette all'implacabile legge dei “ritorni decrescenti”.   Ciò significa che , man mano che si migliora, ogni ulteriore miglioramento comporta un costo sempre maggiore a fronte di un risultato sempre minore.    In pratica, avvicinandosi al massimo teoricamente possibile di efficienza e sicurezza, il costo dei miglioramenti tende ad infinito.

Riassumendo, nell'economia reale l’incremento delle reti comporta quindi un aumento dei vantaggi connessi con l’interscambio di materia, energia ed informazione.    Vantaggi che generalmente prendono la forma di un qualche tipo di ricchezza (non necessariamente monetaria).   Ma il costo per mantenere efficiente una rete viepiù complessa aumenta più rapidamente dei vantaggi che questa porta.   Dunque una frazione crescente della ricchezza prodotta grazie alla rete deve essere reinvestita nella medesima.    Finché, teoricamente, l’intera ricchezza viene riassorbita dalla rete ed il sistema collassa secondo una tipica “curva di Seneca”, probabilmente prima di raggiungere i limiti imposti dall’esaurimento delle risorse che alimentano la rete.

Molto altro è stato detto dal prof  Tartaglia, ma questo mi pare già sufficiente per  trarre la conclusione che la sostenibilità non dipende solo da un prelievo delle risorse proporzionato al loro rinnovamento ed una produzione di rifiuti che non ecceda la capacità di assorbimento da parte degli ecosistemi.   Altrettanto dipende da un livello di complessità del sistema socio-economico che sia efficacemente gestibile con una quota modesta delle risorse complessivamente disponibili.

A questo punto, le mie opinioni divergono però da quelle del professor Tartaglia, che spero legga queste note e mi contesti.   Nella sua conferenza, egli concludeva infatti sostenendo che è ancora possibile realizzare una società sostenibile a condizione che si facciano urgentemente tre cose:

  • Ridistribuire la ricchezza anziché far crescere le disuguaglianze, inseguendo il mito di una ricchezza globale sempre crescente.
  • Passare dalla competizione alla cooperazione.
  • Cambiare società, cultura e morale in modo degno di un essere razionale, rispetto alla società degli scimpanzé tecnologici in cui viviamo ora.





Personalmente concordo pienamente con questi tre punti, ma non penso che siano realizzabili, neppure qualora ve ne fosse la volontà (che non c’è).   E neppure che sarebbero sufficienti, nell’improbabile caso che si realizzassero.


In primo luogo, se non risulterà molto sbagliato il rapporto “limiti della crescita” (e non sembra proprio che questo sia probabile), il collasso del sistema economico globale comincerà ad essere evidente fra 5 – 15 anni da ora.   Possiamo pensare che dei paesi e delle classi dirigenti in crescente affanno, sempre più concentrate sull’emergenza del momento, riescano a coordinare uno smantellamento programmato del sistema amministrativo ed economico?

In secondo luogo, sappiamo che l’aumento della complessità è solo uno dei tre insiemi di fattori che stanno stritolando la nostra civiltà.   Pensiamo davvero di poter trovare una scappatoia a tutte e tre contemporaneamente?   Soprattutto tenendo conto dell’aggrovigliata matassa di sinergie e retroazioni che lega tutti questi diversi fattori?

Per citare un solo esempio: l’inquinamento delle acque aggrava la penuria della medesima.   La risposta è pozzi più profondi, dissalatori ecc. che comportano maggiori consumi di energia.  Dunque sistemi più complessi che dissipano più energia, che richiedono filiere più lunghe e reti commerciali più interconnesse.   Queste aumentano l’inquinamento globale ed il depauperamento delle risorse. Fra l’altro, ciò aggrava l’effetto serra che, in molte aree del pianeta, si manifesta con temperature più altre e minori piogge, il che aggrava i problemi di inquinamento delle acque.   Per citare solo una piccola parte dei fattori coinvolti in questa sola retroazione.

In terzo luogo, i sistemi aumentano la propria complessità aumentando la quantità di energia che dissipano.   Così facendo, accumulano informazione al loro interno.   Maggiore è la dissipazione di energia, maggiore è la complessità del sistema che, così, riesce a dissipare più energia e così via.   Una retroazione che può svilupparsi solo finché c’è abbondanza di energia ed è possibile scaricare disordine fuori dal sistema (o dal sotto-sistema) in crescita.     Nell'economia globalizzata attuale, entrambe le cose stanno rapidamente diventando difficili.

La prima per il peggioramento quali/quantitativo delle risorse energetiche e per varie retroazioni nocive che hanno cominciato (o cominceranno a breve) a ridurre l’energia netta disponibile.   In termini assoluti ed ancor più pro-capite.
La seconda, perché ogni sotto-sistema, mentre scarica la propria entropia all'esterno, “si becca” l’incremento di entropia prodotto dagli altri.   Il caso del clima è forse il più evidente, ma non meno distruttiva per l’economia è la corsa all’esternalizzazione.   Cioè al fatto che ogni nodo della rete economica scarica sugli altri la maggior parte possibile dei suoi costi, assumendosi però quota parte di quelli di tutti gli altri.

Certamente potremmo ancora aumentare la quantità di energia che assorbiamo, ad esempio coltivando ogni metro di terra emersa e perfino di mare; oppure sfruttando i giacimenti di idrocarburi artici.  Ma con costi economici ed energetici molto rapidamente crescenti.   E' quanto meno molto probabile che, globalmente, abbiamo da già superato il limite della "crescita antieconomica".   Come accennato, forse l’energia netta disponibile ha già cominciato a diminuire ed, in ogni caso, lo farà tra breve.   Nel frattempo la popolazione cresce, il che significa che cresce la complessità.

Semplificare il proprio sotto-sistema per ridurne i consumi e gli impatti sarebbe una strategia attraente.   Ma, come fatto presente dal Tartaglia, sarebbe possibile esclusivamente in un quadro di cooperazione.   In un quadro di competizione, infatti, chi dissipa di più vince, necessariamente.   Finché riesce ad accaparrarsi risorse e scaricare rifiuti, naturalmente; poi muore.

Ma anche in un contesto utopico di cooperazione fra le potenze principali del pianeta, non dimentichiamoci che l’incremento della complessità e della dissipazione di energia è stata esattamente la strategia grazie alla quale oggi su questo pianeta vivono oltre 7 miliardi di persone.   Una struttura meno complessa e dissipativa potrebbe sostenere un numero molto minore di persone.

Non dimentichiamoci che ognuno di noi è uno di quei “punti” di cui abbiamo parlato all'inizio.

In parole povere, io la vedo in questi termini:   Allo stato attuale delle cose, ci sono moltissime cose che potremmo e dovremmo fare, per esempio quelle indicate da Tartaglia.   Ma nessuna che ci possa risparmiare un prezzo molto alto in termini di difficoltà, sofferenze e morti.   Ovviamente, in un meta-sistema della mole e della complessità dell’intero Pianeta, ci sono ampi margini di incertezza e sicuramente ci saranno soggetti che se la caveranno a buon mercato, o perfino meglio di come se la passino adesso.   Ma il trend generale peggiorerà necessariamente di anno in anno, per un lungo periodo.




domenica 19 aprile 2015

Una tavola periodica degli elementi in via di esaurimento

Dafastcoexist”. Traduzione di MR (via Jacopo Simonetta)

Questa è una lezione che l'industria della tecnologia deve capire bene.

di Jessica Leber


Potreste non rendervene conto, ma quasi ovunque intorno a voi ci sono metalli rari provenienti dalla terra. Nel vostro telefono, computer o in qualsiasi altro schermo LCD, per esempio, troverete un po' di indio, un metallo morbido e malleabile che è disponibile in quantità ridotte sulla crosta terrestre. Il gallio, che può emettere luce da un impulso elettrico, viene usato in semiconduttori, LED, laser e nell'industria solare. Il renio, uno degli elementi più rari della crosta terrestre, serve comunemente nei motori dei jet. In altre parole, nelle nostre vite quotidiane dipendiamo da molti metalli che sono o poco comuni, o ambientalmente dannosi o che si trovano soltanto in luoghi come Cina, Bolivia o nella Repubblica Democratica del Congo dilaniata dalla guerra (non nazioni con le quali gli Stati Uniti si trovano in buoni rapporti). Qual è il rischio che un giorno non saremo in grado di dipendere da nessuno di questi elementi? E' questa la domanda posta dai ricercatori dell'Università di Yale, che ora hanno catalogato quanto siamo in pericolo di mettere tutte le nostre uova nello stesso cestino.

La concentrazione degli elementi in un circuito stampato.

Guardando ciascuno dei 62 metalli che usiamo oggi, compresa la scarsità di ogni elemento, la concentrazione in ciascuna nazione e la difficoltà di trovare sostituti adatti, lo studio crea una tavola periodica del rischio (o, come lo chiamano i ricercatori, “criticità”). I metalli come zinco, rame ed alluminio – quelli più comunemente usati nelle industrie manifatturiere da molto prima della rivoluzione dei computer – pongono un piccolo rischio, pertanto hanno punteggi di “criticità” relativamente bassi. Tuttavia, a differenza dei metalli che erano comuni nelle ere passate, quelli usati nelle tecnologie più nuove ed emergenti, compresi smartphone, batterie, celle solari avanzate e varie applicazioni mediche, non sono altrettanto facili da ottenere in modo affidabile, mostra la valutazione. Alcuni degli elementi, come l'arsenico e il selenio, non possono essere estratti singolarmente; di solito sono un sottoprodotto di altri processi minerari.



Elementi con il maggiore rischio di disponibilità. (nota: questa figura è stata corretta durante la traduzione - l'articolo di Leber mostrava un dettaglio da una figura dall'articolo originale di Graedel, ma interpretato in modo sbagliato. Questa qui sopra è la figura completa.)

sabato 18 aprile 2015

Principio di produzione massima di entropia

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Come sanno molti di voi che hanno seguito ciò che ho scritto, sono un grande sostenitore della teoria secondo cui i sistemi complessi adattivi sotto un flusso di energia (come la civiltà umana o la vita stessa) si organizzano in modo tale in modo da massimizzare la creazione di entropia. In alcuni circoli scientifici è conosciuto come Principio di Produzione Massima di Entropia (MEP, dalle iniziali in inglese).

Quella teoria ha attirato la mia attenzione in modo molto forte un paio di anni fa. E' supportata da un corpus di opere, comprese quelle di Dorion Sagan, Eric Schneider, James J. Kay, Stanley N. Salthe, L. M. Martyushev, Jeremy England, Eric Chaisson ed altri.

Sono stato fissato con questa teoria per un bel po'. L'ho usata per sostenere la mia intuizione secondo cui il comportamento umano rispetto all'uso di energia e alla crescita – specialmente la tendenza delle società umane a crescere oltre il proprio supporto vitale – sia deterministica.

venerdì 17 aprile 2015

I limiti alla combustione: un calcolo di ordine di grandezza

DaResource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Quantità totale di carbonio fossile sulla Terra, da Vanderbroucke e Largeau (1)


Negli ultimi anni, lo sviluppo del “gas di scisto” e del “petrolio di scisto” negli Stati Uniti ha generato un'ondata di ottimismo che si è ampiamente diffusa nella mediasfera. Era comune sentir parlare di “un secolo di abbondanza”, persino di “secoli”, forniti da queste nuove fonti. Tuttavia, col recente collasso del mercato del petrolio, queste affermazioni sembrano aver fatto la stessa fine di quelle degli avvistamenti del mostro di Loch Ness. Ma rimane un punto da fare: qual è esattamente il limite di ciò che possiamo bruciare? Potremmo davvero continuare a bruciare per secoli? O, forse, persino per millenni o ancora di più?

Vediamo se possiamo fare un calcolo, almeno in termini di ordine di grandezze. La prima domanda è quanti combustibili fossili abbiamo su questo pianeta. Viene riferito che il totale sia circa 1,5x10+16 t (tonnellate), Principalmente sotto forma di cherogene, un prodotto della decomposizione della materia organica che è un precursore della formazione di combustibili fossili (gas, petrolio e carbone) (2).

Sembra tanto carbonio, specialmente se confrontiamo questo numero con la quantità che stiamo consumando oggigiorno. I dati riportati dal CDIAC (Carbon Dioxide Information Analysis Center) dicono 9,2x10+9 t di carbonio trasformato in CO2 come risultato della combustione di combustibili fossili (gas + petrolio + carbone) nel 2013. Come stima di ordine di grandezza,a questo tasso, potremmo continuare a bruciare per più di un milione di anni prima di finire realmente il carbonio fossile.

Ma ovviamente, questo non è possibile. Semplicemente, non c'è abbastanza ossigeno nell'atmosfera per bruciare tutto il carbonio fossile esistente. La quantità totale di ossigeno libero è stimata essere circa 1,2x10+15 t or 3,7x10+19 mol O2 (una “mole” è un'unità usata in chimica per confrontare la quantità di reagenti nelle reazioni chimiche). Un mole di ossigeno molecolare reagirà esattamente con un mole di carbonio per formare biossido di carbonio e, visto che 1,5x10+16 t di carbonio corrispondono a 1,25x10+21 mol, ne consegue che non possiamo bruciare più di circa l1% del carbonio fossile esistente. Siamo scesi a 10.000 anni anziché milioni di anni.

Naturalmente, tuttavia, bruciare quel 1% di carbonio significherebbe esaurire l'ossigeno dell'atmosfera e questo sarebbe leggermente negativo per noi, a prescindere da quanto ci servano i combustibili fossili. In pratica, non possiamo esaurire più di una piccola percentuale dell'ossigeno atmosferico, altrimenti l'effetto sulla salute umana e sull'intera ecosfera sarebbe probabilmente disastroso. Diciamo che potremmo essere disposti a scommettere che una perdita del 5% è ancora entro limit ragionevoli, anche se nessuno può esserne sicuro. Significa che abbiamo solo 500 anni circa per continuare a bruciare prima di cominciare a percepire sintomi di soffocamento. Ma la storia non finisce qui.

Finora, abbiamo ragionato in termini di quantità totale di combustibili fossili, come se fossero tutti bruciabili, ma è così? Il kerogene, la componente principale di questo carbonio, può essere combinato con l'ossigeno producendo una certa quantità di calore (3) ma difficilmente può essere considerato un combustibile, perché sarebbe molto costoso da estrarre e il rendimento di energia netta sarebbe modesto o persino negativo. Nel 1997 Rogner (4) ha portato a termine una ricerca estesa delle risorse di carbonio potenzialmente utilizzabili come combustibili. A pagina 149 di questo link possiamo trovare una stima aggregata di 9,8x10+11 t di carbonio come “riserve” e fino a 5,5x10+12 t di “risorse”, le seconde definite come non economicamente estraibili con i prezzi attuali. “Ulteriori risorse” vengono riportate ad una quantità possibile di 1,5x10+13 t di carbonio, ma è una stima piuttosto azzardata. Se ci limitiamo alle riserve provate vediamo che all'attuale tasso di circa 1x10+10 t/anno ci resterebbe ancora circa un secolo.

Non abbiamo ancora finito. Ora dobbiamo considerare quanto carbonio possiamo combinare con l'ossigeno prima che l'aumento dell'effetto serra causato dal risultante biossido di carbonio generi cambiamenti irreversibili nel clima terrestre. Il “punto di non ritorno” della catastrofe climatica viene spesso stimato come quello corrispondente ad un amento di temperatura di 2°C e, per non superarla, non dovremmo rilasciare più di circa 10+12 t di CO2 in atmosfera. Ciò corrisponde a 3,7x10+11 t di carbonio (5). E' circa un terzo della stima globale di Rogner delle riserve. Quindi, a questo punto, non abbiamo più un secolo, ma solo 2 o 3 decenni circa (e osservate che la stima di quello che possiamo bruciare evitando la catastrofe potrebbe essere ottimistica. Vedete anche qui per una stima più dettagliata che tiene conto dei diversi tipi di combustibile).

Vedete quanto possa essere fuorviante elencare le risorse di carbonio come se fossero soldati allineati per la battaglia. Non tutto ciò che esiste all'interno della crosta terrestre può essere estratto e bruciato e non possiamo permetterci di estrarre e bruciare tutto ciò che potrebbe essere estratto senza distruggere l'atmosfera. Tenendo conto dei vari fattori coinvolti, siamo scesi da più di un milione di anni a pochi decenni di disponibilità.

Ma, naturalmente, calcolando il numero di anni rimanenti a tassi di produzione costante è a sua volta fuorviante. In pratica, i tassi di produzione del combustibile non sono mai stati costanti nella storia, la produzione tende piuttosto a seguire una curva “a campana” che raggiunge un picco e poi declina. Oggi potremmo essere vicini al picco (vedete ad esempio qui). Il declino imminente ci salverà dal cambiamento climatico catastrofico? Al momento, non possiamo dirlo, sono troppe le incertezze coinvolte in queste stime. Ciò che possiamo dire è che non siamo di fronte a secoli di abbondanza, ma a un declino che potrebbe anche essere molto rapido, considerando la possibilità di un “collasso di Seneca”.

In breve, l'era dei combustibili fossili sta finendo. E' il momento di prenderne nota e passare ad altro.

___________________

(1) M. Vandenbroucke, C. Largeau, Cherogene: origine, evoluzione e struttura, Organic Geochemistry, Volume 38, Numero 5, maggio 2007, Pagine 719-833, ISSN 0146-6380, http://dx.doi.org/10.1016/j.orggeochem.2007.01.001.

(2) Falkowski, P., R.J. Scholes, E. Boyle, J. Canadell, D. Canfield, J. Elser, N. Gruber, et al. 2000. “Il ciclo globale del carbonio: un test sulla nostra conoscenza della Terra come sistema”.  Science 290 (5490) (13 ottobre): 291–296. doi:10.1126/science.290.5490.291. http://www.sciencemag.org/content/290/5490/291.abstract.

(3) Muehlbauer, Michael J. e Alan K. Burnham. 1984. “Calore della combustione del petrolio di scisto di Green River”. Industrial & Engineering Chemistry Process Design and Development 23 (2) (aprile): 234–236. doi:10.1021/i200025a007. http://dx.doi.org/10.1021/i200025a007.

(4) Rogner, H-H. 1997. “Valutazione delle risorse di idrocarburi mondiali”.
Annual Review of Energy and the Environment 22 (1) (28 novembre): 217–262. doi:10.1146/annurev.energy.22.1.217. http://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev.energy.22.1.217?journalCode=energy.2.

(5) IPCC. Cambiamento climatico 2013: la base fisica scientifica.  (Cambridge University Press, 2014).







giovedì 16 aprile 2015

Declino energetico e cambiamento di modello culturale

DaThe Oil Crash”. Traduzione di MR


di Antonio Turiel


Cari lettori,

una delle questioni che sono state trattate in modo frammentario in questi cinque anni di post è la necessità di un cambiamento culturale profondo per fare in modo che la nostra società possa far fronte alla decrescita energetica. La maggior parte delle discussioni che ho sviluppato nel blog hanno avuto a che fare con diversi aspetti del cambio di modello economico e finanziario. Qualche giorno fa abbiamo discusso su queste stesse pagine alcuni aspetti chiave dei cambiamenti necessari nel nostro modello di assegnazione delle risorse, che alla fine è una discussione sulla struttura di fondo che deve avere un modello economico che possa funzionare quando l'energia sia meno abbondante.

Gli aspetti che ho analizzato in quel post, e ancora di più le ricette che ho proposto per ottenere strutture che possano resistere ad un processo tanto acuto come la decrescita energetica, non erano meramente economiche: alla fine dei conti, un sistema feudale in cui la maggioranza vive sulla soglia della sussistenza potrebbe ottenere facilmente gli obbiettivi di sostenibilità e resilienza per garantire la sua continuità nel tempo. Tuttavia, nella mente di tutti c'è l'interesse di preservare alcuni aspetti che abitualmente sono considerati desiderabili del modello sociale attuale (le pari opportunità, l'uguaglianza di fronte alla legge, la democrazia, l'educazione e la sanità universali, …), ben oltre il tutt'altro che ideale – a volte persino grottesco – livello in cui si trovano oggigiorno queste conquiste sociali.

Molta gente che conosce la problematica della crisi energetica da per scontato che queste strutture di carattere ugualitario siano esclusivamente frutto dell'abbondanza energetica e che senza di essa non potranno essere mantenute. Tuttavia, la grande diversità di sistemi di organizzazione sociale che si possono trovare nella Storia dell'Umanità, soprattutto se ci si allontana dalla visione prevenuta che è la norma nel mondo occidentale, indica che non è del tutto evidente che i nostri unici punti di arrivo della nostra società siano l'autoritarismo o l'estinzione.

Discutere di questi aspetti in profondità e adeguatamente richiederebbe un approccio da parte di Antropologia, Storia e Sociologia che prendessero in considerazione allo stesso tempo le crude realtà della Fisica, della Geologia e dell'Ecologia. Poche persone hanno questa capacità di sintesi. In generale sono i filosofi, come Jorge Riechmann, quelli che fanno questo sforzo di comprensione – nel senso di includere - tutto questo problema poliedrico. Ma non mi risulta che gente proveniente dalle ultime tre discipline che elencavo sopra facciano lo sforzo di avvicinarsi alle prime tre (forse fra i pochi che potrebbero farlo c'è il mio collega Antonio García-Olivares). Naturalmente io non ho le conoscenze, né il bagaglio culturale, né la capacità necessari ad affrontare con qualche garanzia questa discussione. Ma non per questo il dibattito dev'essere ignorato e capisco che nel contesto di questo blog, che pretende essere soltanto uno strumento divulgativo, sicuramente questa discussione non può essere ulteriormente posticipata.

mercoledì 15 aprile 2015

Le piattaforme glaciali antartiche fondono sempre più in fretta

Da “scienceblog.com/gregladen”. Traduzione di MR

Di Greg Laden


L'Antartide è praticamente coperta di ghiacciai. I ghiacciai sono entità dinamiche che, a meno che non si trovino in piena fusione, tendono a crescere nei pressi delle loro parti più spesse (ecco perché quelle sono le parti più spesse) e si sciolgono all'esterno verso i bordi, dove le aree liminali o fondono (di solito stagionalmente) sul posto oppure cadono in mare.

I ghiacciai dell'Antartide sono circondati da diverse piattaforme glaciali. La piattaforme glaciali in realtà estensioni distali dei ghiaccia in movimento che galleggiano sull'oceano. Questo è uno dei luoghi, al momento probabilmente il luogo, in cui si verifica la fusione accelerata dall'inquinamento di gas serra di origine umana. Le piattaforme glaciali sono ancorate sul posto lungo i margini (di solito ricoprono valli lineari come fiordi) e in un punto di terra al di sotto della piattaforma a qualche distanza dal margine del ghiaccio al di sotto del livello del mare.