mercoledì 21 maggio 2014

Collasso globale e Colonie resilienti

 Una riflessione di Alessandro Corradini sulle cause ultime del collasso in corso (che ci si ostina ancora a chiamare "crisi")
Di Alessandro Corradini

Siamo pieni zeppi di problemi spaventosi:

-          picco del petrolio,
-          cambiamenti climatici,
-          crollo della biodiversità,
-          crisi economica inarrestabile,
-          mafie e corruzioni dilaganti,
-          disoccupazione tecnologica,
-          armi di distruzione di massa (e convenzionali),
-          collasso oceanico (acidificazione, innalzamento dei livelli, anossia, inquinamento da microplastiche, collasso delle specie ittiche, ecc...),
-          inquinamenti d'ogni genere e tipo,
-          mancanza di istituzioni di governo globali a fronte di gravi problemi su scala planetaria,
-          crescenti diseguaglianze sociali, ecc... ecc... ecc...

Un sacco di problemi!

Tutti fenomeni concreti e pervasivi. Non catastrofismo, ma rilevazione oggettiva di un’autentica catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità. Per quanto gravi e spaventosi, tuttavia, tali fenomeni sono sintomi, non cause. Risalendo le catene di causa-effetto che generano questa spaventosa moltitudine di devastazioni, si può risalire ad una sola causa iniziale che le accomuna tutte. L’identificazione di un’unica causa scatenante semplifica enormemente lo scenario complessivo, ma c’è poco da rallegrarsene, poiché tale origine riguarda un fenomeno così radicato ed onnipresente da essere pressoché intrattabile. Mi riferisco ai soldi. Il problema, per inciso, non è che ne abbiamo pochi. Il problema è che ci ostiniamo ad usarli come mezzo di regolazione generale dell’economia nonostante ogni evidenza scientifica ce lo sconsigli!

Il collasso globale a cui stiamo assistendo increduli da ormai sei anni (e che ancora viene eufemisticamente chiamata “crisi”) altro non è che l’accumulo e l’intrecciarsi di tutti quei gravi sintomi generati da un’infinità di comportamenti distorti connessi all’uso del denaro. Di fatto tale pratica consiste in un groviglio di usanze socialmente ed universalmente accettate che danno forma a tutta la nostra realtà, imbrigliandola in una oppressiva varietà di relazioni impersonali che allontanano i decisori dalle conseguenze delle loro decisioni. Questo complesso intreccio è riconducibile a 3 elementi principali:

1)     la massimizzazione della ricchezza monetaria (sia in termini privati, sia in termini collettivi, ossia di PIL),
2)     l’uso del debito (a cui oggi è connesso tra l’altro la creazione stessa della moneta),
3)     gli scambi commerciali (ossia le logiche di mercato e la speculazione).

Il mix di questi tre elementi comporta da un lato una forte de-responsabilizzazione sia degli individui sia delle comunità e dall’altro lato una feroce competizione causata da una scarsità indotta attraverso una redistribuzione della ricchezza completamente iniqua. Una trattazione dettagliata del perché l’uso del denaro, del debito e delle logiche di scambio commerciale abbiano effetti tanto devastanti sulle sorti del nostro pianeta richiederebbe tuttavia un’esposizione troppo estesa e complessa per essere qui riportata. Per chi volesse farsene un'idea approssimativa, potrà trovare qualche interessante spunto di riflessione qui , qui , qui, qui, qui, e qui. Questo microscopico elenco, tutt’altro che esaustivo ed omogeneo, non è che una capocchia di spillo dei motivi per considerare il “Business As Usual” (o BAU, ovvero il solito modo di condurre gli affari) come un vero e proprio "ordigno fine-di-mondo".

Ma non è questo il punto.

Ammesso e non concesso che si condivida questa “radicale” critica all’economia imperante, esistono alternative pratiche all’uso del denaro e dei suoi corollari? Se sì, è possibile realizzare concretamente tali opzioni?

Iniziamo col dire che ogni eventuale alternativa è destinata ad apparirci strana ed aliena. Non può che apparirci così, abituati come siamo ad un’unica e monolitica realtà economica. La quasi totalità degli esseri umani, negli ultimi millenni, sono nati, cresciuti, vissuti e morti in una società monetaria e/o basata sul debito. La stratificazione ed il consolidamento culturale, psicologico e politico dell’attuale paradigma è quindi colossale. Pensare di uscirne collettivamente e rapidamente da questo paradigma appare perciò un’impresa improba e folle. Il pianeta, però, è un paziente ormai grave ed il nostro futuro è fortemente incerto. La comunità scientifica internazionale ci sta avvertendo che siamo ormai ad un passo dalla soglia che conduce alla sesta estinzione di massa del pianeta (e forse abbiamo già iniziato a varcare tale soglia). Un cambiamento radicale è quindi divenuto necessario ed urgente. Serve una cura drastica, ma soprattutto serve una cura che ci appaia molto… “strana”. Non per il gusto di stupire, ma poiché, come sostenne una volta Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l'ha generato”. Tentativi di riformare, regolarizzare ed addomesticare l’attuale economia monetaria e finanziaria, oltre che tardivi, al momento, risulterebbero probabilmente vani e persino controproducenti. È più probabile, infatti, che i grandi capitali, grazie al loro strapotere, addomestichino facilmente qualsiasi tentativo di riforma, piuttosto che il contrario.

Ci serve disperatamente un’opzione sufficientemente radicale e “strana”, ma quale?

La più ovvia e razionale è l’abbandono completo (e sufficientemente repentino) dell’uso del denaro, del debito e degli scambi commerciali. L’intera economia monetaria andrebbe sostituita da una più pratica e realistica economia basata sulle risorse. Le risorse (naturali e non) sono l'unica vera ricchezza materiale. La loro monetizzazione al contrario, per quanto importante all'interno dell'attuale paradigma, è solo un'astrazione mentale funzionale alla ripartizione della ricchezza globalmente presente sul pianeta. La moneta da accesso alla ricchezza materiale, non è la ricchezza materiale, né la può creare “magicamente dal nulla”. Poiché le risorse naturali, a seguito del superamento della capacità di carico del pianeta, sono in via di rapido esaurimento, parrebbe logico strutturare l'economia, la politica e la società in modo da opporsi strenuamente a tale esaurimento. L’idea di fondo è quindi banale: affinché un sistema economico sia sostenibile sul lungo termine, le risorse a sua disposizione devono essere l’elemento da cui partire per regolare produzione e consumi. Non è certo un’idea particolarmente nuova, ne hanno già parlato noti movimenti come il Venus Project e il Zeitgeist Movement (su cui non intendo esprimere giudizi di sorta). L’idea circola ormai da anni e sembrerebbe logico attendersi che l’attuale collasso economico favorisca un suo approfondimento ed un serio e vasto dibattito. Eppure nulla è ancora accaduto in tal senso. Tutto tace, persino a livello teorico ed accademico. Ciò avvalorerebbe l’idea che “mettere in discussione denaro, debito e logiche di scambio” equivalga a pretendere un cambio di prospettiva semplicemente troppo estremo per l’attuale cultura dominante. Movimenti di massa simili alla cosiddetta “Primavera Araba”, agli indignados e ad Occupy Wall Street, ma in senso apertamente anti-monetarista, per ora, non se ne vedono. Si parla di libertà e democrazia, spesso di equità economica, ma non di riformare il sistema economico fin dalle sue fondamenta. Ciò è ritenuto quasi universalmente un’utopia. I pensatori e gli intellettuali di ogni genere e tipo sembrano fermi ad un: “No grazie! Ci siamo già passati, si chiama comunismo e non funziona”. Il fatto che l’economia delle risorse non abbia nulla a che fare con i regimi del cosiddetto “socialismo reale” (i quali mai e poi mai hanno abolito l’uso di denaro, debiti e scambi commerciali) non smuovere minimamente il dibattito. Sia l’immaginario collettivo, sia la classe intellettuale, sia quella politica sembrano completamente soggiogati da un falso e cinico “realismo” imposto dallo stesso sistema economico che ormai nessuno riesce più a gestire e nemmeno moderare. La nostra civiltà è ostaggio di un pseudo-realismo che ritiene plausibile e doverosa una crescita economica infinita utilizzando le risorse finite (ormai quasi letteralmente) del pianeta.

Quindi come se ne esce?

Se un ostacolo è troppo grande per scavalcarlo, si può sempre girarci attorno. La cultura di massa e le istituzioni politiche e sociali sono ormai del tutto impermeabili e refrattarie verso proposte politiche pragmatiche. Queste vengono confuse sistematicamente per estremismi, stramberie ed utopie. È quindi necessario agire per una via meno diretta, cioè quella della colonizzazione. Il nome “colonizzazione” è tristemente associato a pratiche di sfruttamento e dominio. La colonizzazione a cui qui mi riferisco, tuttavia, non ha nulla a che vedere con quella triste esperienza storica. Qui, con “colonizzazione”, ci si vuol riferire semplicemente ad una modalità di diffusione dell’economia basata sulle risorse, attraverso l’inoculazione di detto sistema economico all’interno di quello esistente. Per disfarsi delle logiche monetaristiche, del debito e dello scambio e passare al nuovo paradigma si deve raccogliere subito il consenso immediatamente disponibile. Date le circostanze, sarà un consenso fortemente minoritario e “di nicchia”, ma rapidamente ed economicamente organizzabile. In termini pratici, parliamo quindi di un consenso che tale proposta può raccogliere e concentrare agevolmente in un solo luogo per formare appunto una colonia iniziale, il cui scopo sia quello di fungere da esempio e da “replicatore” per nuove future colonie a lei analoghe. Non potendo convincere e convertire l’economia globale per intero, si parta convertendone un pezzetto alla volta, partendo da chi è già convinto, in modo da minimizzare i tempi di realizzazione da un lato ed i costi di un’eventuale inazione dall’altro. In tal modo si evita di sprecare tempo, risorse, talenti e speranze nell’affannoso ed illusorio tentativo di risolvere tutti i nostri problemi tramite la creazione di un consenso vasto e diffuso. Ci si scorda facilmente infatti che un consenso vastissimo non solo è estremamente improbabile, ma persino inutile. Perché inutile? Beh, diciamo così: esiste un vastissimo consenso planetario che considera la fame nel mondo uno scandalo inaccettabile, ma questo non ha ancora eliminato “lo scandalo”. Meglio una nicchia motivata ed attiva che una massa concorde, ma dissipativa ed inamovibile (soprattutto se per rendere la massa “concorde” si devono spendere colossali risorse mediatiche, finanziarie, politiche e temporali). Per citare l’antropologa Margaret Mead:

« Non dubitate che un piccolo gruppo di cittadini coscienti e risoluti non possa cambiare il mondo. In fondo è così che è sempre andata ».

Il concetto di “colonia” parte da questa constatazione storica per saltare dalla fase di analisi e discussione collettiva a quella dell’azione, nella speranza di spezzare l’attendismo lassista e suicida su cui sembra essersi ripiegato il mondo.

Ma cosa sarebbe una “colonia”  di preciso?

Beh, una colonia, prima di tutto, sarebbe una comunità di persone, una comunità coesa attorno ad idee economiche rigidamente coerenti con l’effettiva disponibilità e la massimizzazione delle risorse. L’attuale economia è tutta concentrata sulla massimizzazione monetaria a noi tanto famigliare e grazie a questa spacca la società sottostante in una miriade di strutture ed individui separati da vorticosi fiumi di concorrenza, diffidenza e contrattazione. Con le “colonie” parliamo invece di realtà organizzative in cui aspetti economici, tecnico-scientifici e politici non sono separati e conflittuali, bensì fusi insieme in un approccio istituzionalmente pragmatico e razionalista. Per giungere a tale traguardo occorre possedere un alto grado di complessità interna. Una colonia quindi non ha nulla a che vedere con una minuscola comunità, basata sul pauperismo o su filosofie analoghe a quelle dei “figli dei fiori” o della “New Age”. Le colonie sono comunità dalla dimensione minima di diverse centinaia di persone (senza un limite massimo) e caratterizzate da una densissima consistenza tecnologica, scientifica ed organizzativa.

Una colonia sarebbe qualcosa di mai visto prima. Sarebbe una comunità opulenta, determinata ed acculturata. Sarebbe però anche un luogo fisico attraente, un sistema produttivo iper-efficiente ed un micro-mondo con una struttura organizzativa mai sperimentata prima. Una realtà assolutamente NON spontanea, ma frutto piuttosto di un accurato e laborioso lavoro di progettazione, studio e pianificazione. Un lavoro decisamente impegnativo, collettivo e multidisciplinare, al punto da potersi definire olistico e perpetuo. Le risorse risparmiate dal “rinunciare a convincere tutti” a creare un mondo migliore devono essere in gran parte spese in questa intensissima fase di progettazione e riprogettazione perenne. Per questo stesso motivo non è possibile dare ora una rappresentazione completa e precisa di cosa sarà una colonia. Una descrizione puntuale sarà possibile solo dopo quella fase di progettazione multidisciplinare iniziale che ancora non è mai avvenuta.

Da un punto di vista generale e concreto, tuttavia, si può già dire che una colonia sarà un luogo in cui le cose di cui si necessita non si comprano, ma si prendono liberamente in prestito senza che avvengo nessun tipo di scambio commerciale tra le parti. Anche per beni di consumo quali alimenti, bevande, vestiti e quant’altro, non dovrebbe esserci nessuno scambio, né di moneta, né di merci, né di diritti od altre utilità. Tale economia, ai nostri occhi, può apparire a prima vista come una società inauditamente generosa. Si tratta tuttavia di un’illusione: si può tagliar gole per una goccia d’acqua, se ci si trova persi in un deserto; regalarne a litri a degli sconosciuti parrebbe follemente generoso in quella situazione, ma basta uscire dal deserto per considerare immediatamente tale morbosa attenzione per l’acqua una follia. L’essere umano è un animale fortemente adattativo e se cambia completamente il contesto in cui opera, allora cambia anche completamente il suo modo di pensare e comportarsi. Uscendo dall’economia di scambio basata sul denaro e sul debito ci si sbarazza anche di gran parte di quell’egoismo e quella bramosia di soldi che ci contraddistingue ora. Non si tratta di rendere “perfetti” gli esseri umani privandoli delle normali pulsioni egoistiche (operazione impossibile e/o sconveniente). Si tratta piuttosto di creare un contesto “migliore” per facilitare comportamenti positivi ed auspicabili. Quel contesto “migliorativo” sarebbe appunto la colonia.

Le prime colonie, in particolare, dovendo fungere da esempio e supporto per tutte le colonie future, dovranno essere lussureggianti, sovra-strutturate, riccamente attrezzate, tecnologicamente avanzatissime, risolute nel perseguire gli obiettivi comuni e profondamente acculturate (soprattutto sul piano tecnico e scientifico). In poche parole dovrebbero essere realtà… fortemente elitarie. Può suonare ingiusto, ma si tratta di una necessità, poiché su di esse graverà la responsabilità di garantire il successo dell’intero processo di colonizzazione (con tutto ciò che questo implica a livello globale). Le prime colonie oltre a favorire l’intera opera di colonizzazione con la loro “robustezza” devono anche apparire attraenti sotto ogni possibile punto di vista: il ché implica possedere sistemi produttivi iper-efficienti, sistemi organizzativi impeccabili, un’estetica affascinante, una convivialità seducente, ecc... Chi non è un colono deve desiderare ardentemente di poterlo divenire un giorno. Guardando una colonia, dall’esterno si deve rimanere sbalorditi al punto di sforzarsi di voler sapere e capire come funziona prima e di volerne far parte dopo. Creare una tale “attrattività estrema” partendo dall’economia monetaria in cui attualmente ci troviamo implica inevitabilmente creare delle enclavi inizialmente molto elitarie. Tale difetto iniziale andrebbe però via via stemperandosi ed infine sparirebbe completamente man mano che le colonie si moltiplicano. Scopo delle colonie, infatti, rimarrebbe ovviamente quelle di creare sempre nuove colonie e di sostenersi vicendevolmente in modo da espandere ed irrobustire l’economia non-monetaria, non-creditizia e non-mercantilista a tutto vantaggio delle sorti del pianeta, ma anche a proprio vantaggio. Ma mano che le colonie si moltiplicano, l’accumulo di conoscenze, esperienze e risorse condivise rende i costi di fondazione delle nuove colonie decrescenti e la necessità di vincere le resistenze psicologiche e l’incredulità dei non-coloni, meno pressante. Ciò renderà le nuove colonie sempre  meno elitarie e sempre più “ordinarie” ed inclusive.

L’atto stesso della colonizzazione, in quest’ottica, è quindi opposta al concetto storico di violenza o sfruttamento del colonizzato. Al contrario la colonizzazione dell’economia attuale da parte di economie basate sulle risorse appare di fatto come una liberazione ed un’emancipazione dell’intera umanità basata sull’adesione spontanea e volontaria al nuovo paradigma. Non è solo umanità e benevolenza a chiedere un tale comportamento, lo chiede anche la logica: le persone motivate sono più efficienti ed efficaci di quelle indotte o costrette ad operare in un modo che non le rappresenta. L’adesione spontanea, oltre che democraticamente corretta, è fondamentale per una società che brama un efficientismo senza precedenti come appunto dovranno fare le colonie.

Ma perché le colonie abbiano successo devono avere effettivamente un’economia più efficiente di quella monetaria. E sarà così.

Perché?

Saranno efficienti anche ma, non solo per la leva motivazionale e l’approccio scientifico/razionalista che le modellerà. Essendo organizzate per massimizzare le risorse (non solo quelle materiali come l’energia e le materie prime, ma anche quelle umane, immateriali ed organizzative), all’interno delle colonie è possibile strutturare produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi con modalità molto difficili od impossibili da attuare e/o sostenere in modo sistematico all’interno di economie monetarie/creditizie/mercantiliste in cui attualmente noi tutti viviamo.

Farò qui 5 esempi per rendere quest’ultimo concetto meno nebuloso e più concreto. Tali esempi non sono da considerarsi esaustivi, ma piuttosto minimali e basilari. Essi hanno uno scopo meramente illustrativo volto a facilitare una visione di come le cose potrebbero funzionare dentro un tale “strano” sistema economico e allo stesso tempo per mostrarne i possibili vantaggi e peculiarità. Di seguito parlerò quindi di:

1)     Omniteche;
2)     Tassazione temporale;
3)     Efficienza sostenibile;
4)     Propagazione accelerata delle conoscenze;
5)     Prevenzione sociale.

                                                  
Le “OMNITECHE”

Una biblioteca è un’istituzione che presta libri, una videoteca una che presta filmati ed una ludoteca un’istituzione che presta giocattoli. Nulla di strano in questo. Estendendo tale concetto, tuttavia, si può anche immaginare un’istituzione che presta qualsiasi cosa: un’omniteca per l’appunto. Le omniteche sono entità alquanto improbabili in un sitema economico di mercato poiché la loro presenza è in antitesi alla concezione di scambio economico di mercato. In un’economia basata sulle risorse, tuttavia, tale istituzione potrebbe non solo esistere, ma essere l’istituzione più diffusa per eccellenza, così come ora lo sono i negozi per noi. Come abbiamo detto, infatti, una colonia è un luogo in cui i beni di cui si necessita non si comprano, né si noleggiano, né si barattano o scambiano.

Una biblioteca non può prestare libri che non ha e di solito lo fa seguendo determinate regole interne (presta solo ai tesserati, un numero massimo di libri, da restituire entro un limite massimo di tempo, ecc…) e così pure l’omniteca non può prestare beni che non possiede e quando li presta lo fa seguendo delle proprie regole (che rispecchiano la strategia dell’intera colonia per preservare o accrescere il più possibile le risorse globalmente disponibili all’interno di quel micro-mondo).

A differenza della biblioteca però l’omniteca presta di tutto e non solo libri, il ché implica anche beni di consumo come cibo, acqua, vestiti, medicinali. Anche per i beni di consumo, nella colonia, si mangia, beve, ecc… liberamente e gratuitamente, ma sempre e solo all’interno della disponibilità e sostenibilità delle risorse collettive, quindi all’interno delle regole imposte dall’ominiteche. Parliamo di regole condivise, appositamente architettate e costantemente perfezionate dalla colonia nella sua totalità al fine di minimizzare sprechi ed abusi.

Sul piano fisico e logistico, non è detto che un’omniteca debba essere intesa come un unico ed immenso magazzino con tutti i possibili beni concepibili. Può essere intesa piuttosto come un a serie di punti di distribuzione variamente disposti e specializzati, ma facenti tutti capo ad una sola autorità: la colonia stessa. Ogni colono non è quindi solo un utente delle omniteche, ma anche un proprietario, un gestore, un amministratore, un controllore. Questa sovrapposizione ed alternanza di ruoli deve far leva su un senso di appartenenza e di responsabilizzazione perenne che coinvolta tutti i coloni, senza eccezione alcuna.

Se la competizione commerciale offre forse i suoi vantaggi, anche la collaborazione evoluta sicuramente ne ha di importanti, ad esempio: in un’economia basata sulle risorse, se lascio morire di fame un mio simile (o anche solo se lo mantengo in uno stato sub-ottimale), non sto solo commettendo qualcosa di moralmente discutibile, sto anche danneggiando il mio stesso patrimonio, poiché quella persona, la sua forza fisica e le sue competenze sono parte della mia stessa ricchezza (che è poi quella di tutti gli altri coloni). Allo stesso modo se un colono distruggesse un bene della colonia, farebbe non solo un atto eticamente discutibile, ma danneggerebbe sé stesso in modo del tutto paragonabile a quello di un appartenente ad un nucleo famigliare che devasti i beni della propria famiglia. Il mondo e gli esseri umani non sono perfetti ed eventi deleteri possono sempre accadere, ma è evidente che la struttura sociale della colonia, analogamente a quella della famiglia rendono più improbabili incidenti del genere. Un contesto che, ai diritti legati alla proprietà privata, sostituisce, come perno dell’intera economia, il dovere di conservare, arricchire e condividere beni comuni, è un contesto che tende a minimizzare “incidenti” invece abbastanza frequenti in una realtà come la nostra. In quest’ultima è nettamente distinto “ciò che è mio da ciò che è tuo” e quindi anche i pesi e gli oneri su cui ricade ogni danno accidentalmente o volutamente arrecato. Ciò causa una tensione perenne verso la competizione e la sfiducia reciproca anche quando queste risultano dannose od eccessivamente onerose.

La pressione sociale esercitata dalla collettività coloniale, tramite le regole dell’omniteche, sui singoli coloni, non è un’intrusione dispotica all’interno delle libertà personali, così come la fruizione gratuita degli stessi beni e servizi non è un eccesso di prodigalità. E’ semplicemente la logica conseguenza che scaturisce dalla piena consapevolezza del fatto che non ci possono essere “scelte personali” completamente slegate dalla disponibilità collettiva delle risorse condivise. In ultima analisi, infatti, indipendentemente dal sistema economico adottato, le risorse presenti su un pianeta finito devono essere obbligatoriamente finite e qualsiasi “scelta personale” che finga che siano infinite è semplicemente un’illusione.

La presenza capillare delle omniteche rende il concetto stesso di proprietà privata non inutile, né proibita, ma certamente marginale. La ricchezza personale e quella collettiva divengono quindi tendenzialmente la stessa cosa. D’altra parte essere liberi, in funzione di espedienti connessi a regole condivise, di poter distruggere le altrui potenzialità, per non dire l’intero pianeta ed il futuro delle generazioni a venire ad esso connesso, in una civiltà degna di questo nome, non dovrebbe far parte delle opzioni considerate tollerabili.

Le omniteche, cioè i bazar che “regalano” o prestano i beni a disposizione dell’intera economia, non sono l’albero della cuccagna né una forma di comunismo rivisitato. Sono il trionfo della logica razionalista, dell’onestà intellettuale e della collaborazione civile. Le omniteche benché possano apparirci utopiche, sono solo un sistema di distribuzione delle risorse economiche la cui estensione reale oltrepassa i confini fisici dell’omniteca stessa e permea l’intera colonia sotto forma di pressione sociale, controllo distribuito e partecipazione attiva (il sistema immunitario della colonia che garantisce la possibilità di mantenere il sistema nel lungo periodo).

La TASSAZIONE TEMPORALE

In un’economia monetaria, un sistema di tassazione perfettamente egualitario ed equilibrato pare un obiettivo quasi impossibile da raggiungere. In un colonia, priva di denaro, invece è piuttosto semplice istituire un sistema di tassazione perfettamente equo. Dato che non circolano soldi e che le 24 ore giornaliere sono uguali per qualsiasi colono, porre una quota di tale tempo ad esclusiva disposizione delle esigenze della collettività è un modo estremamente semplice, verificabile e pratico per organizzare una tassazione non-monetaria. Eliminando la tassazione monetaria, si eliminano anche tutti gli intrighi politici, le sperequazioni sociali, i costosi sistemi di regolamentazione e controllo, le farraginose e gigantesche infrastrutture burocratiche e tutte le deformazioni di mercato legate alla concorrenza scorretta che caratterizzano le economie monetarie in merito all’annosa questione delle tasse nonché alla loro evasione ed elusione. Tali costi ed inefficienze sono semplicemente estranee ed inapplicabili ad un’economia basata sulle risorse che operi tassazioni temporali.

Benché teoricamente semplicità, efficienza ed equità siano raggiungibili anche tramite la “normale” tassazione monetaria, all’atto pratico, esse sono difficilmente raggiungibili nella realtà quotidiana e comunque non senza asprissime lotte sociali. Il fatto è che, in un’economia monetaria, le differenze di reddito e patrimonio, cioè le differenze monetarie tra individui, sono la misura stessa della differenza sociale e materiale che passa tra l’essere avvantaggiati o svantaggiati rispetto agli altri. La tassazione, in una società che fa delle differenze monetarie la principale leva motivazionale e competitiva, non può risultare miracolosamente affrancata dalla faziosità ed arbitrarietà che un tale atteggiamento discriminatorio inevitabilmente implica. Viceversa l’inclusione di una quota fissa di tempo da parte di ogni persona esistente nell’economia, all’interno dell’apparato pubblico coloniale, ha il vantaggio di aumentare enormemente il controllo distribuito ed una partecipazione non solo “premurosa” ma anche tecnicamente consapevole della “cosa pubblica”. Un tale livello di coinvolgimento collettivo è semplicemente impossibile in un’economia in cui circola denaro. In essa, infatti, l’apparato statale ed i cittadini sono due entità disgiunte e sovente contrapposte. Da tale separazione scaturiscono inevitabilmente una lunga serie di dinamiche di coercizione, collusione e corruzione che degradano gravemente le potenzialità teoriche dell’economia monetaria nel suo complesso e ,al tempo stesso, gettano le basi per un clima di insicurezza, sfiducia e contrapposizione che paralizza i vari attori attorno a comportamenti egoistici ed opportunistici tipicamente di breve o brevissimo respiro. 
                 
L’EFFICIENZA SOSTENIBILE

L’introduzione della produzione industrializzata ha creato un’abbondanza senza precedenti nella storia. Allo stesso tempo però, rimanendo in economie monetarie, si è presto incappati in un colossale problema di inquinamento e di sperpero sistemico di risorse fisiche legato a fenomeni industriali come l’obsolescenza programmata, l’usa-e-getta e tante altre modalità di produzione, consumo o speculazione finanziaria volte unicamente a massimizzare la movimentazione complessiva del denaro a scapito di tutto il resto (sopravvivenza a lungo termine dell’intero pianeta compresa). La concorrenza economica derivante da “l’uso di denaro, del debito e dello scambio commerciale” spinge, infatti, gli individui a fomentare in ogni modo (ed ad ogni costo) i propri simili a consumare sempre di più (contribuendo a fomentare un perverso, frustrante e perenne ciclo di illusione ed insoddisfazione). I soggetti economici che non si adeguano a tale esasperazione grottesca del consumo, nella nostra economia, risultano competitivamente inadeguati e quindi tendono purtroppo ad incappare nel fallimento economico a cui sono poi associati il discredito sociale e un restringimento delle libertà di scelta a livello personale. La pressione sociale verso una tale deviata omologazione culturale e quindi fortissima.

Tale tendenza collettiva sfocia in una colossale distruzione di risorse (energia e materia) priva di una reale utilità sia per i singoli sia per la collettività nel suo complesso. I bisogni ed i desideri spontanei hanno un grado di disomogeneità e limitatezza che mal sia adatta sia alla produzione di massa sia alla religione “della crescita economica infinita”. Tali bisogni sono quindi stati rapidamente affiancati da ben più numerosi e lucrosi “bisogni e desideri indotti”, il cui soddisfacimento non implica una reale utilità, ma sfortunatamente implica un reale consumo di preziose risorse, cioè uno spreco. A tale insostenibile danno, si aggiunge poi un corrispondente livello d’inquinamento legato alla produzione prima ed al consumo poi, fino allo smaltimento dei beni prodotti con tali logiche di brevissimo respiro.

Tale assurdo e triste comportamento collettivo non è strettamente legato a bontà d’animo o all’intelligenza dei singoli. Per sopravvivere e prosperare (ma anche più banalmente per essere socialmente accettati) all’interno di un’economia monetaria si è spronati ad agire così. Se però si abbandona l’uso di denaro, del debito e degli scambi commerciali, allora tutto ciò che brucia risorse senza produrre un’utilità reale smette d’essere un cosiddetto “male necessario” per tornare ad essere quel che in effetti è: solo e soltanto “un male”. Non dovendo vendere qualcosa né comprare altre cose, non v’è necessità di esasperare, ingannare e convincere gli altri ad espandere al massimo i propri consumi. Anzi, in un economia delle risorse, meno i singoli consumano a parità d’utilità e meglio è per tutti. Il concetto stesso di rifiuto, spreco od inquinamento sono antitetici ad un’economia volta a massimizzare le risorse poiché tali concetti ne sono una negazione di fatto. Mentre in un’economia consumista c’è un interesse strategico a ché gli altri siano perennemente insoddisfatti, in un’economia “coloniale” v’è un interesse strategico a ché gli altri siano il più soddisfatti possibile. La maggior efficienza a cui il sistema delle colonie spinge non riguarda perciò solo l’uso efficiente delle risorse materiali, ma anche lo sviluppo armonico ed il benessere delle persone (intese sia come lavoratori, sia come consumatori, sia come persone e basta). In un’economia “coloniale”, ad esempio, venendo meno il rapporto reddito/consumo, decade anche l’enorme alibi psicologico, politico e sociale con cui si accetta l’inaccettabile in nome di una piena occupazione (per altro impossibile da realizzare pienamente in società altamente tecnologiche).

Inoltre nelle economie monetarie ogni reale incremento d’efficienza raggiunto, traducendosi in una maggior disponibilità del bene risparmiato, porta sovente al paradosso di Jevons ovvero ad un maggior consumo collettivo di tale bene (poiché la maggior disponibilità complessiva del bene risparmiato comporta un suo abbassamento di prezzo che ne favorisce il consumo). Un’economia coloniale, al contrario, tende spontaneamente a tradursi in una forma di economia circolare in cui ogni risorsa è rimessa “in circolo” anziché smaltita anticipatamente e dannosamente in una discarica o in un  “termovalorizzatore” (che rappresentano la fase finale della consueta logica lineare di estrazione, lavorazione, consumo nelle economie monetarie). La circolarità dei beni e servizi, in una colonia, non è d’altra parte ostacolata da interessi privati che potrebbero vedere in tale virtuosismo un attentato ai loro profitti, poiché il concetto stesso di “profitti” non è contemplato, mentre quello di utilità sì (ed essa è collegata inesorabilmente alle risorse reali e quindi al loro sfruttamento razionale e moderato).

La PROPAGAZIONE ACCELERATA DELLE CONOSCENZE

Un’economia monetaria pone drastici vincoli alla libera circolazione della conoscenza. Vincoli quali, ad esempio, i diritti d’autore, i segreti industriali, i brevetti, ecc… Tali tutele legali sono di fatto un freno socialmente accettato che ferma o rallenta (a seconda dei casi) la circolazione di idee e conoscenze. Tale vincolo però svanisce, se si eliminano i soldi, il debito e lo scambio dall’economia. Svanendo quest’ultimi, infatti, svanisce anche la necessità di porre tutele legali (e non) al loro sfruttamento economico/monetario. Inoltre, dato che la psicologia ha dimostrato che la creatività è sfavorita ed inibita dalle mere ricompense in denaro, ingabbiare la produzione intellettuale, scientifica e tecnologica all’interno di logiche monetarie deprime oltre alla loro circolazione anche le potenzialità produttive in tali ambiti. Come se tutto ciò non bastasse, va poi ricordato che, nella nostra attuale economia, libera ed imparziale circolazione della conoscenza tecnica lede gravemente i vantaggi competitivi derivanti dalle asimmetrie informative di mercato. Attualmente, retorica e buoni propositi a parte, esiste quindi una convenienza diffusa a mantenere le conoscenze tecniche al livello minimo necessario a far funzionare l’economia monetaristica stessa. La circolazione delle idee, delle conoscenze scientifiche e di quelle tecnologiche è poi ulteriormente ostacolata, nell’attuale economia, da logiche volte ad ammortizzare pienamente gli investimenti in specifiche unità produttive. Nelle economie attuali, esiste inoltre la necessità di massimizzare i profitti tramite il rilascio sul mercato di prodotti con numerose versioni intermedie, caratterizzate da piccoli miglioramenti graduali e da incompatibilità possibilmente totali rispetto ai modelli precedenti, in modo da spingere i consumatori ripetuti ad acquisti ripetuti con la maggior frequenza possibile a fronte di costi di ricerca e sviluppo mantenuti il più possibile bassi. Tutte queste logiche distorsive perdono completamente utilità e senso in un’economia che si basa sulle risorse anziché sul lucro monetario derivante dal loro scambio.

Per motivi analoghi a quelli sopraccitati, non solo le conoscenze già disponibili sono ostacolate dalle logiche monetaristiche, ma anche l’uso dei dati grezzi lo è. Dal momento che i singoli soggetti economici non desiderano che altri sappiano cose che li possano danneggiare. Non vivendo in un ambiente economico che premia la collaborazione, l’attuale tendenza generalizzata è quella di tenere i dati raccolti (di qualsiasi tipo essi siano) a proprio esclusivo vantaggio, perdendo così gli infiniti vantaggi che deriverebbero invece da una loro aggregazione, integrazione e/o incrocio. Questo aspetto, dati i bassissimi costi di calcolo già oggi raggiunti, implica un danno latente immenso per le attuali comunità.
                         
Nonostante l’economia monetaria abbia creato un mito popolare del progresso scientifico e tecnologico, facendo credere che esso possa risolvere praticamente ogni cosa, la realtà è che essa si oppone fortemente a tale progresso, non di rado arrivando persino ad impiegare ingenti risorse finanziarie per screditare la comunità scientifica in modo da preservare forme di business altrimenti screditati (il caso delle lobby del tabacco sia preso a caso esemplare, ma non unico, di tale tendenza). Inutile dire che anche questi aspetti illeciti e/o illegali perdono di valore e significato se si esce dalle logiche basate sullo scambio commerciale.

Sul lato opposto, la conoscenza, in una economia coloniale, sarebbe la più preziosa delle risorse, poiché essa è di fatto l’unica che può espandersi senza limiti e che comporta ricadute a cascata su tutte le altre risorse. 

La PREVENZIONE SOCIALE

Un’economia monetaria è un’economia piena di contrasti, conflitti d’interesse e contraddizioni. L’interesse di una buona salute pubblica, ad esempio, confligge con l’esigenza di un’industria farmaceutica di vendere farmaci e cure di vario genere. L’interesse di società private che utilizzano od operano intorno alle carceri, contrasta con l’interesse collettivo di una giustizia imparziale e con la prevenzione (anziché la repressione ex-post) del crimine. L’interesse ad una pace duratura confligge con l’interesse dell’industria bellica a vendere armi. L’interesse collettivo ad un’ottima cultura generale confligge con il vantaggio competitivo dei singoli tra classi sociali differenti e con l’esistenza di asimmetrie informative. Si potrebbe andare avanti all’infinito a descrivere interessi generali rilevanti che contrastano con interessi privati di pari importo. Tali conflitti e le loro deleterie conseguenze sussistono in un’economia monetaria, ma sono degli intollerabili “non-senso” in economie non-monetarie.

Un’economia non-monetaria potrebbe facilmente basare la strategia di salute pubblica sulla prevenzione invece che sulla cura delle patologie, un approccio difficile da realizzare in un economia che venera l’aumento infinito del PIL. Non solo, grandissima parte (se non tutta) la corruzione e la criminalità (organizzata e non) deriva dalla possibilità e dalla necessità di convertire denaro in utilità. Se si spezza tale legame, allora si elimina anche la prima causa del crimine “professionale” e dei sistemi di corruzione sistemica degli apparati pubblici e privati. La prevenzione sociale (intesa in senso lato), in un’economia delle risorse, non è un costo, una scelta ideologica o un sogno, ma un semplice e banale investimento per minimizzare i costi e massimizzare l’utilità sia dei singoli sia della collettività.

Venendo meno le sperequazioni sociali inoltre vengono meno tutte criticità associate a tali sperequazioni reddituali e patrimoniali. Ciò vuol dire che le economie coloniali, a livello sociale partirebbero immediatamente avvantaggiate rispetto ad economie monetarie di entità analoga. Le colonie avrebbero non solo meno sprechi, ma anche meno esternalità negative non solo in ambito ambientale ma anche relazionale e sociale.


Concludo dicendo con piena convinzione che l’utopia è impossibile, ma se pensiamo che anche il “meglio” sia impossibile e persino un modesto “più efficiente” possa essere impossibile, allora non siamo poi così moderni come vorremmo far credere a noi stessi e agli altri.


Alessandro

martedì 20 maggio 2014

La crisi delle terre rare: un segno dei tempi in arrivo?

Da2degrees”. Traduzione di MR

La crisi di disponibilità di terre rare sembra essersi allontanata, ma è un'anticipazione dei problemi che avremo?


Le terre rare non si trovano tipicamente in depositi economicamente sfruttabili.

di Ugo Bardi

L'embargo petrolifero del 1972 ci ha lasciati con una forte percezione di quanto siamo vulnerabili alle interruzioni della fornitura di risorse minerali. Queste preoccupazioni avrebbero potuto materializzarsi di nuovo quando nel 2010 la Cina ha annunciato che le sue esportazioni di terre rare sarebbero state ridotte. Visto che la Cina ha quasi il monopolio delle terre rare, i prezzi sono andati rapidamente alle stelle e tutto il mercato è stato in agitazione per alcuni anni, con diverse segnalazion di scarsità per applicazioni cruciali nell'industria elettronica. Ciononostante, la crisi delle terre rare sembra essere stata sopravvalutata, più che altro risultato delle nostre stesse paure. Oggi, la bolla è scoppiata e i prezzi delle terre rare sono crollati. Sono ancora più alti di quanto fossero in precedenza, ma la produzione non è calata e le paure di scarsità sembrano essersi ridimensionate. Quindi, come dovrebbe essere interpretata questa crisi? E' stato solo un fenomeno speculativo o segnala l'arrivo di problemi reali?

“Dopo la grande crisi petrolifera degli anni 70, il mondo non ha più conosciuto grandi crisi di risorse attribuite a fattori politici”.

Di certo la crisi delle terre rare ha colto di sorpresa molti di noi. Dopo la grande crisi petrolifera degli anni 70, il mondo non aveva più conosciuto grandi crisi di risorse attribuite a fattori politici. Questa calma è stata, molto probabilmente, il risultato del trionfo del fenomeno che chiamiamo “globalizzazione”. Col mondo che diventa un unico, enorme mercato per ogni tipo di bene, se un paese rifiuta di vendere una risorsa, i compratori possono semplicemente ottenerla altrove. La competizione spinge anche i venditori a tagliare i prezzi il più possibile e questo spesso significa trascurare il costo dell'inquinamento generato dall'estrazione.

Ma c'è un problema in questo mercato globale: è basato su un paradigma di abbondanza. Funziona finché le risorse sono sufficientemente abbondanti da permettere ai compratori di scegliere i venditori. Quando i venditori sono di meno o, peggio ancora, qualcuno ha il monopolio di una risorsa, allora le cose cambiano. I prezzi aumentano, i costi dell'inquinamento non vengono più trascurati e coloro che hanno il controllo della preziosa e rara risorsa sono tentati di usarla come arma economica, politica o persino militare. Questi fattori potrebbero essere stati alla base della crisi delle terre rare. I cinesi potrebbero aver ragionato sul fatto che le loro risorse erano preziose e limitate quindi che valesse la pena di conservarle. Un altro fattore che potrebbe averli portati a questa decisione è l'orrendo costo del danno causato dall'estrazione delle terre rare, spesso estratte con operazioni su piccola scala, pericolose ed inquinanti. Infatti, anche al di là del caso delle terre rare, il paradigma dell'abbondanza delle risorse minerali sembra che stia per uscire di scena.

Una serie di fattori stanno causando un aumento dei costi di estrazione; compresi più alti costi energetici, degrado dei minerali di alta densità e inquinamento in aumento. Questi maggiori costi generano ritorni economici decrescenti dell'estrazione e, di conseguenza, prezzi più alti per tutti i beni minerali. Allo stesso tempo, l'inquinamento collegato all'estrazione sta aumentando, per esempio in termini di emissioni di CO2 generati bruciando carbonio fossile. Vista sotto questa luce, la crisi delle terre rare di qualche anno fa, anche se non è più preoccupante in sé stessa, potrebbe essere stato un primo sintomo di quello che avverrà. Solo pochi anni dopo, stiamo assistendo ad una crisi molto più pesante per la globalizzazione con il conflitto in Ucraina che sembra segnalarci un ritorno ad un mondo a due blocchi (o, forse, più di due). Un fattore importante che ha creato questa crisi potrebbe essere stata la percezione che l'Ucraina potrebbe avere grandi risorse di gas di scisto nella valle di Lublin, nelle provincie occidentali. In una percezione di abbondanza, non avrebbe senso giungere a grandi crisi geopolitiche per queste risorse (o per qualsiasi singola risorsa). Ma in una percezione di scarsità è vero il contrario. Questi due effetti, infatti, sono due facce della stessa medaglia, una conseguenza del graduale esaurimento dei depositi di alta densità. Ciò che abbiamo visto con le terre rare è solo un sintomo di un nuovo mondo che sta arrivando.


Elaborato sulla base di dati da:  "Extracted, come la ricerca di ricchezza minerale sta saccheggiando il pianeta" di Ugo Bardi. Sarà pubblicato il 12 giugno da Chelsea Green e sarà disponibile attraverso tutti i canali principali e i rivenditori online. E' stato presentato nel 2013 come rapporto al Club di Roma, un think-tank internazionale, la cui missione è di intraprendere l'analisi e far crescere il dibattito su come ottenere un pianeta più resiliente e sostenibile. Per leggere altro, comprate il libro di Ugo Extracted: come la ricerca di ricchezza minerale sta saccheggiando il pianeta

domenica 18 maggio 2014

La fusione dei ghiacci antartici è ormai irreversibile

Da “Mother Jones”. Traduzione di MR (h/t Claudio Della Volpe)

Secondo due nuovi studi, il collasso di gran parte della calotta glaciale dell'Antartide occidentale ora potrebbe essere irreversibile. Questo potrebbe significare un aumento del livello del mare di 3 metri.

Di Chris Mooney


Questo ghiacciaio antartico potrebbe essere storia, dice una nuova ricerca. Contiene quasi 60 centimetri di aumento di livello del mare ed è solo l'inizio. NASA

Se capisci realmente il riscaldamento globale, sai che si tratta soltanto di ghiaccio. E' questo ciò che conta. Il Pianeta Terra non ha sempre avuto grandi calotte glaciali ai poli, non del tipo di quelle che attualmente ricoprono la Groenlandia e l'Antartide. In altri periodo, gran parte dell'acqua era invece in forma liquida, negli oceani – e gli oceani erano molto più alti. Quanto più alti? Secondo l'Accademia Nazionale delle Scienze le grandi calotte glaciali del globo contengono acqua ghiacciata sufficiente ad aumentare i livelli del mere in tutto il mondo di più di 60 metri. Sono circa 200 piedi. E questo fa apparire l'aumento del livello del mare che abbiamo visto finora, dovuto al riscaldamento globale, trascurabile ed insignificante. E' per questo che gli scienziati hanno temuto a lungo che un giorno come questo sarebbe arrivato. Due nuovi saggi scientifici, nelle riviste Science e Geophysical Research Letters, riportano che i grandi ghiacciai della Calotta Glaciale dell'Antartide Occidentale sembrano essere diventati irrimediabilmente destabilizzati. Tutto il processo potrebbe ancora svilupparsi nell'arco di secoli, ma a causa delle particolari dinamiche di questa calotta glaciale, il collasso di questi grandi ghiacciai ora “sembra inarrestabile”, secondo la NASA (dietro uno dei due studi ci sono dei loro ricercatori).

Visualizzazione dei cambiamenti di temperatura
 in Antartide. NASA Earth Observatory  
Il primo studio, di ricercatori della NASA e dell'Università della California – Irvine, usa il radar satellitare per esaminare una schiera di grandi ghiacciai lungo il Mare di Amundsen nell'Antartide Occidentale, che collettivamente contengono l'equivalente di 1,2 metri di aumento del livello del mare. Il risultato è la documentazione di un “ritiro rapido e continuo” - per esempio, i ghiacciai Smith e Kohler si sono ritirati di 35km dal 1992 – e i ricercatori dicono che “non ci sono [grandi] ostacoli che impediscano che i ghiacciai si ritirino ulteriormente”. Nel comunicato stampa della NASA, i ricercatori sono ancora più loquaci ed uno di loro osserva che questi ghiacciai “hanno superato il punto di non ritorno”.

L'altro gruppo di ricercatori, di stanza all'Università di Washington, giungono a conclusioni simili col loro saggio su Science. Ma lo fanno usando un modello computerizzato di uno di questi ghiacciai in particolare: il Ghiacciaio Thwaites, raffigurato sopra, che contiene circa 60 cm di aumento del livello del mare e che si sta ritirando rapidamente. “La simulazione indica che sono iniziate le prime fasi di un collasso”, osserva il loro saggio. Di più c'è che il ghiacciaio Thwaites è un “fulcro” del resto della Calotta Glaciale dell'Antartide Occidentale; il suo rapido collasso “probabilmente si riverserebbe nei bacini adiacenti, minando gran parte dell'Antartide Occidentale”. E considerando che l'intera Calotta Glaciale dell'Antartide Occidentale contiene acqua sufficiente per aumentare il livello del mare da 3 a 4 metri, questa è una cosa molto grossa.

E' ancora una volta importante enfatizzare che solo perché questi ghiacciai possono aver superato il “punto di non ritorno” non significa che il drammatico aumento del livello del mare avvenga domani. C'è un limite alla velocità cui un ghiacciaio e una calotta glaciale possono spostarsi e il saggio di Science enfatizza il fatto che l'intero processo potrebbe impiegare diverse centinaia di anni e probabilmente anche un millennio.

Nel grande schema delle cose, però, la conseguenza sarebbe un pianeta molto diverso. E l'Antartide Occidentale è solo l'inizio. Secondo il glaciologo ed esperto della Groenlandia Jason Box, se si confronta dove ci troviamo ora a dove si trovavano i livelli di biossido di carbonio atmosferico nei passati periodo di riscaldamento della storia della Terra, se ne può dedurre che gli esseri umani hanno già messo in moto 21 metri di aumento del livello del mare.

https://www.youtube.com/watch?v=CInlWHIYqlY









sabato 17 maggio 2014

Riscaldamento globale: solo una gigantesca fluttuazione naturale?

DaMcGill”. Traduzione di MR  

L'analisi statistica esclude l'ipotesi del riscaldamento naturale con più del 99% di sicurezza


Un'analisi dei dati sulla temperatura dal 1500 esclude la possibilità che il riscaldamento globale nell'era industriale sia solo una fluttuazione naturale edl clima terrestre, secondo un nuovo studio del fisico dell'Università McGill, professor Shaun Lovejoy. Lo studio, pubblicato online il 6 aprile nella rivista Climate Dynamics rappresenta un approccio nuovo alla domanda se il riscaldamento globale dell'era industriale si stato causato o no dalle emissioni umane provenienti dalla combustione di combustibili fossili. Piuttosto che usare complessi modelli computerizzati per stimare gli effetti dell'emissione di gas serra, Lovejoy esamina i dati storici per valutare l'ipotesi contraria: che il riscaldamento durante l'ultimo secolo sia dovuto a variazioni naturali a lungo termine della teperatura. “Questo studio sarà una mazzata a qualsiasi negazionista climatico sia ancora esistente”, dice Lovejoy. “I loro due argomenti più convincenti – che il riscaldamento è in origine naturale e che i modelli computerizzati sono sbagliati – sono entrambi contraddetti direttamente da questa analisi, o semplicemente non le si applicano”.

Lo studio di Lovejoy applica la metodologia statistica per determinare la probabilità che il riscaldamento globale dal 1880 sia dovuto alla variabilità naturale. La sua conclusione: l'ipotesi del riscaldamento naturale potrebbe essere esclusa “con livelli di certezza maggiori del 99% e molto probabilmente maggiori del 99,9%”. Per valutare la variabilità naturale prima prima della maggior parte dell'interferenza umana, il nuovo studio usa “ricostruzioni climatiche multi-proxy” sviluppate dagli scienziati negli ultimi anni per stimare le temperature storiche, così come le tecniche di analisi della fluttuazione provenienti dalla geofisica non lineare. Le ricostruzioni climatiche tengono conto di una varietà di indicatori trovati in natura, come gli anelli degli alberi, le carote di ghiaccio e i sedimenti lacustri. E le tecniche di analisi della fluttuazione rende possibile capire le variazioni di temperatura su una grande gamma di scale temporali. Per l'era industriale, l'analisi di Lovejoy usa il biossido di carbonio proveniente dalla combustione di combustibili fossili come proxy per tutte le influenze generate dall'uomo – una semplificazione giustificata dalla relazione stretta fra l'attività economica globale e l'emissione di gas serra e inquinamento da particolato, dice Lovejoy. “Ciò permette al nuovo approccio di includere implicitamente gli effetti raffreddanti dell'inquinamento da particolati che sono ancora male quantificati nei modelli computerizzati”, aggiunge.

Mentre il suo nuovo studio non fa uso di enormi modelli computerizzati comunemente usati dagli scienziati per stimare la grandezza del cambiamento climatico futuro, le scoperte di Lovejoy di fatto sono complementari a quelle del IPCC, dice. Il suo studio prevede, col 95% di sicurezza, che un raddoppio dei livelli di biossido di carbonio nell'atmosfera causerebbero un riscaldamento del clima fra i 2,5 e i 4,2°C. Questa forbice è più precisa – ma è in linea con – la previsione del IPCC secondo cui le temperature aumenterebbero da 1,5 a 4,5°C se le concentrazioni di CO2 raddoppiassero. “Abbiamo avuto una fluttuazione della temperatura media semplicemente enorme dal 1880 – nell'ordine di circa 0,9°C”, dice Lovejoy. “Questo studio mostra che le possibilità che questo sia causato da fluttuazioni naturali sono meno di una su cento ed è probabile che siano meno di una su mille”. “Mentre il rifiuto statistico di un'ipotesi generalmente non può essere usato per concludere la verità di qualsiasi alternativa specifica, in molti casi – compreso questo – il rifiuto di una aumenta grandemente la credibilità dell'altra”.

“Scaling fluctuation analysis and statistical hypothesis testing of anthropogenic warming”, S. Lovejoy, Climate Change, pubblicato online il 6 aprile 2014.

http://link.springer.com/search?query=10.1007%2Fs00382-014-2128-2

http://www.physics.mcgill.ca/~gang/eprints/eprintLovejoy/neweprint/Anthro.climate.dynamics.13.3.14.pdf


giovedì 15 maggio 2014

Come distruggere una civiltà

DaResource crisis”. Traduzione di MR


di Ugo Bardi

Questo è il terzo post di commenti sul “saggio finanziato dalla NASA” (un termine che è diventato virale) sul collasso sociale di Motessharry, Rivas e Kalnay (MRK). Nel mio primo post sul tema, ho discusso alcune caratteristiche qualitative del modello. Nel secondo post, ho commentato sul dibattito. Qui approfondirò la struttura del modello e penso di poter mostrare che i risultati del modello MRK sono molto generali, in quanto possono essere riprodotti con un modello semplice. Alla fine dei conti, è  possibile distruggere una civiltà spendendo troppo in infrastrutture non produttive – come i Moai nell'Isola di Pasqua (immagine sopra da Wikimedia, licenza creative commons)

I modelli matematici possono essere molto divertenti, ma se li si usano per proiettare il futuro della nostra civiltà i risultati potrebbero essere un pochino spiacevoli, per non dire peggio. E' stato questo il destino del primo modello quantitativo che ha esaminato il futuro del sistema mondiale, il famoso studio “I Limiti dello Sviluppo”, sponsorizzato dal Club di Roma nel 1972. Questo studio ha mostrato che se l'economia mondiale fosse stata portata avanti come al solito, il solo risultato possibile sarebbe stato il collasso.

Questo genere di risultati spiacevoli sono una caratteristica di gran parte dei modelli che tentano di prevedere il destino a lungo termine della nostra civiltà. Non che la cosa debba sorprendere, considerata la velocità alla quale stiamo buttando via le nostre risorse naturali. Ciononostante, ogni qualvolta vengono discussi, questi generano molte critiche ed opposizione. E' il risultato, principalmente, di reazioni emotive: non c'è niente da fare: è il modo in cui funziona la mente umana.

Ma proviamo a mettere da parte le emozioni ed esaminiamo uno studio recente di Motessharry, Rivas e Kalnay (MRK) sul destino della società umana che è diventato famoso come “lo studio finanziato dalla NASA”, dopo un commento di Nafeez Ahmed. Il modello ha attratto molte critiche (al solito) ma vale la pena darci un'occhiata con un po' di attenzione perché evidenzia alcune caratteristiche del nostro mondo che dovremmo cercare di capire se pensiamo ancora di poter evitare il collasso (o perlomeno mitigarlo).

Il modello MRK ha questa caratteristica specifica: divide la specie umana in due categorie, la “gente comune” e le “élite”, assumendo che la prima categoria produca ricchezza mentre la seconda no. In alcune assunzioni, risulta che le élite possano completamente drenare tutte le risorse disponibili e portare la società ad un irreversibile collasso, anche se le risorse sono rinnovabili e possano ricostituire la riserva iniziale.

Penso che questo sia un punto fondamentale che descrive eventi che sono accaduti in passato. Come ho osservato in un post precedente, il modello potrebbe descrivere il modo in cui l'Impero Romano ha distrutto sé stesso attraverso spese militari eccessive (forse noi stiamo facendo la stessa cosa). Oppure potrebbe descrivere il collasso della società dell'Isola di Pasqua, con moltissimo capitale naturale sperperato nella costruzione di inutili statue di pietra mettendo a dura prova le risorse disponibili (la storia potrebbe essere più complessa di così, ma i suoi elementi principali rimangono gli stessi).

Così, sembra che le élite (meglio definite come “élite non produttive") potrebbero giocare un ruolo fondamentale nel collasso delle società. Ma come può essere modellata questa cosa esattamente? Il modello MRK lo fa usando un approccio che, come ho osservato in precedenza, è tipico della dinamica dei sistemi, anche se loro non usano quel termine nel loro saggio. Non solo, si tratta chiaramente un modello sullo stile di quei modelli “a portata di mente” che ho proposto in un mio saggio. L'idea dei modelli a portata di mente è di evitare il flagello di gran parte dei modellidi tutti i tipi – quello della “sovraparametrizzazione strisciante”. Siccome, come modellista, vieni spesso accusato che il tuo modello è troppo semplice, allora tendi ad aggiungere parametri su parametri. Il risultato non è necessariamente più realistico, ma certamente si aggiunge sempre più incertezza al modello. Da qui la necessità di modelli “a portata di mente” (un termine che attribuisco a  Seymour Papert).

Lasciate quindi che provi a rielaborare il modello MRK, semplificandolo un po' e rendendolo più snello. Al posto di parlare di “élite” e “gente comune”, parliamo di due diversi tipi di capitale. Un tipo che chiamiamo “produttivo” e l'altro “non produttivo”. Il capitale è il risultato dello sfruttamento delle risorse naturali. “il capitale “produttivo” è il tipo che porta ad ulteriore sfruttamento e crescita dell'economia, l'altro tipo è capitale che viene semplicemente buttato.

Vi spiego cosa intendo con l'esempio dell'economia dell'Isola di Pasqua: il capitale produttivo è la struttura agricola, mentre il capitale non produttivo è la struttura per costruire i Moai. L'agricoltura sostiene le persone che coltivano la terra. La costruzione dei Moai non fa niente del genere – è un puro spreco di risorse e lavoro umano. Ai nostri tempi, possiamo dire che il capitale produttivo è qualsiasi cosa sfrutti le risorse disponibili, dalle raffinerie ai pescherecci. Il capitale non produttivo è tutto il resto, dagli yacht privati ai carri armati.

Quindi, possiamo costruire un modello che includa questi elementi? Certo che possiamo. Ecco una versione del modello sullo stile dei modelli “a portata di mente”.(fatto usando il software "Vensim")
Il modello una versione snellita del modello MRK, dove ho aggiunto una riserva di “inquinamento” (che non c'era nel modello MRK) e dove ho semplificato la struttura produttiva a cascata. Servirebbe un po' di tempo per spiegare il modello in dettaglio e non c'è abbastanza spazio qui. Se volete approfondire questo tema, potere leggere il mio saggio su “Sustainability” o questo mio post col titolo piuttosto ambizioso di “Picco del petrolio, entropia e filosofia stoica”. Ma, per favore, tenete conto che il modello, anche se molto semplificato, ha una logica. Ciò che fa è descrivere il degrado del potenziale termodinamico delle risorse iniziali (il primo riquadro in alto a sinistra) in una serie di riserve di capitale che, alla fine, vengono dissipate sotto forma di inquinamento. Le “K” sono costanti che determinano quanto rapidamente il capitale fluisce da una riserva all'altra. Le frecce indicano le retroazioni: qui ipotizziamo, per esempio, che la produzione di capitale industriale sia proporzionale alla dimensione sia della riserva di risorse sia della riserva di capitale.

Ora, andiamo ai risultati ottenuti con alcuni valori dei parametri. Prendiamo r1=0,25, k1=0,03, k2=0,075, k3=0,075, k4=0,05. I valori iniziali delle riserve sono, dall'alto in basso, 5, 0,1, 0,1, 0,01 – potreste pensare alla riserva come se fosse misurata in unità di energia e le costanti in unità di energia/tempo. Con questi presupposti, il modello produce lo stesso fenomeno osservato dal modello MRK. Cioè, si osserva il collasso irreversibile del sistema, anche se le risorse naturali si ricostituiscono, tornando abbondanti come all'inizio del ciclo.


Vedete? Il capitale produttivo e non produttivo (che MRK chiamano della “gente comune” e delle “élite”) vanno entrambi a zero e scompaiono. Ma osservate come le risorse naturali si ricostituiscono e tornano al loro valore precedente (in realtà più alto che all'inizio!). Questa civiltà ha distrutto tutto il proprio capitale e non ricomincerà ad accumularne ancora per moltissimo tempo. Osservate anche come questi risultati dipendano dall'ipotesi che il capitale non produttivo non possa essere trasformato in capitale produttivo. Forse si tratta di una semplificazione drastica, ma è anche vero che trasformare spade in aratri è una bella metafora, ma non una cosa che si possa fare facilmente. 

A questo punto, lasciate che dica che questo post è solo una bozza. Posso dirvi che mi ci sono voluti circa 15 minuti per scrivere il modello, qualche ora per provarlo e circa un'ora per scrivere questo post. Quindi, queste considerazioni non hanno la pretesa di essere alcunché di definitivo: il modello deve essere studiato molto più in dettaglio. Quando ho tempo (cioè, non appena mi riesce di riparare la mia macchina della clonazione), mi piacerebbe scrivere un articolo completo su questo tema (qualcuno fra i lettori mi darebbe una mano? Magari qualcuno che ha una macchina della clonazione migliore della mia?). 

Ciononostante, anche se questi risultati sono solo preliminari, penso che il fatto che i risultati di MRK siano così facilmente riproducibili indichi che ci sia qualcosa di concreto nel loro lavor. Ci stiamo distruggendo perché stiamo sprecando il nostro capitale naturale in imprese inutili, dai carri armati ai SUV? (ed anche molta burocrazia  un sistema finanziario sovradimensionato). Stiamo distruggendo la nostra civiltà costruendo queste strutture inutili proprio come gli abitanti dell'Isola di Pasqua hanno distrutto sé stessi per costruire i Moai? E' una cosa alla quale dovremmo pensare. 

(Come considerazione finale, penso che questo modello abbia molto a che fare con l'idea di Tainter dei “ritorni decrescenti della complessità”, se intendiamo che “complessità” significhi che molte risorse vengano usate per costruire cose che non producono niente. Ho già cercato di modellare l'idea di Tainter con un modello a portata di mente in un mio post precedente e mi dispiace vedere che a Tainter non è piaciuto particolarmente il modello MRK. Ma penso che sia principalmente una questione di linguaggio utilizzato. Se lavoriamo sulla comunicazione, penso che sia possibile trovare molti punti di contatto nei diversi approcci dei modellatori e degli storici). 

martedì 13 maggio 2014

L'invasione degli zombie delle risorse

DaResource crisis”. Traduzione di MR


(immagine da WikiHow  - licenza Creative Commons)

Probabilmente avrete sentito dire che le “nuove idee nascono come eresie e muoiono come superstizioni”. Ma può essere anche peggio: ci sono idee che si rifiutano semplicemente di morire e, come zombie, continuano per sempre a perseguitare il panorama mentale umano. Una di queste idee è che il problema delle risorse minerali consiste nel “finire” qualcosa. Una manifestazione tipica di questa idea-zombie è un recente articolo di Matt Ridley apparso sul Wall Street Journal dal titolo “Le risorse del pianeta non stanno finendo”.

Difficilmente mi posso immaginare un articolo più inutile di questo: contiene tutte le banalità tipiche di questo campo, compreso la ormai quasi obbligatoria calunnia al Club di Roma sulla base dell'idea che lo studio su “I limiti dello Sviluppo” del 1972 aveva previsto che a questo momento avremmo dovuto finire le risorse minerali (e, naturalmente, non è così). Pura leggenda; quello studio non ha mai detto niente del genere. E' solo un'altra idea-zombie che perseguita il panorama mentale umano.

Ma, a parte le banalità e le leggende, l'articolo di Matt Ridley è sbagliato perché è basato sul classico "specchietto per le allodole":  quello che dice che non ci dobbiamo preoccupare di “finire” le risorse minerali. Non è così. Lasciatemelo dire enfaticamente, con certezza e inequivocabilmente: NON finiremo un bel niente. Non è questo il problema; il vero problema con le risorse sono i ritorni economici decrescenti. Significa che abbiamo estratto le risorse “facili” (leggi poco costose) e che ora siamo costretti ad estrarre da risorse più “difficili” (leggi più costose). Lasciate che vi mostri cosa sta accadendo con un esempio: il caso dell'estrazione dell'argento.



Questa immagine, dal blog “SRSrocco Report”, dice tutto. In meno di 10 anni, il rendimento dell'estrazione dell'argento è diminuito di quasi la metà di quello che era all'inizio. Cioè, oggi dobbiamo trattare quasi il doppio della roccia rispetto a 10 anni fa per estrarre la stessa quantità di argento. Non stiamo finendo l'argento: la produzione è rimasta più o meno costante nell'ultimo decennio, ma estrarlo costa di più. Questo non è che un esempio, come espongo nel mio recente libro “Extracted”, tutte le risorse minerali stanno mostrando lo stesso problema: rendimenti di estrazione decrescenti.

Ora, ci si può eccitare per le nuove tecnologie quanto si vuole (come fa Matt Ridley nel suo articolo), ma qui c'è un problema reale. Per estrarre minerali, bisogna trivellare, sollevare e macinare roccia e per questo serve energia e risorse (leggi soldi). La tecnologia può fare molte cose, per esempio bellissimi smartphone, ma non si può macinare la pietra con gli smartphone. La tecnologia, proprio come quasi tutto il resto, soffre del problema dei ritorni decrescenti (discuto questo punto in dettaglio in un mio articolo recente).

Quindi c'è una ragione per l'aumento dei prezzi di tutti i beni minerali – sono i ritorni economici decrescenti. Sfortunatamente, tuttavia, alcune menti tendono ad essere infettate dal virus dello zombie delle risorse che ci racconta che non c'è nulla di cui preoccuparci. Ma c'è molto di cui preoccuparsi: se qualcosa costa di più, potresti non essere in grado di permettertela. In un caso del genere, potresti anche dire che non c'è (o persino che l'hai “finita”).

Quindi, non è una buona idea rilassarsi e sperare che i miracoli della tecnologia ci libereranno dall'esaurimento delle risorse: nessun problema può mai essere risolto se ci si rifiuta di ammettere che esiste. A quel punto si possono trovare soluzioni sotto forma di maggiore efficienza, sostituzione, riciclaggio e altro. Si può fare, ma ci servono soldi, pianificazione e sacrifici. Più di tutto, dobbiamo sparare alla testa dello zombie delle risorse e riconoscere il problema per poter agire.


lunedì 12 maggio 2014

Ultima chiamata a Urbania

Ciao a tutt*,
breve comunicazione di servizio: se vi troverete nella zona di Urbania (Pesaro - Urbino) il 21 maggio prossimo, potrebbe interessarvi la proiezione del film documentario di Enrico Cerasuolo "Ultima Chiamata".

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Il messaggio del rapporto su “I Limiti dello Sviluppo” è oggi più importante che mai: la Terra è un sistema finito e la crescita economica infinita rischia di portare società e ambiente al collasso.

Oltre 40 anni dopo la pubblicazione del libro, che prevedeva già nel 1972 gli scenari di crisi che stiamo vivendo, la tendenza a prendere decisioni a breve termine condiziona e ritarda ancora la nostra capacità di agire.

Oggi gli autori de “I Limiti dello Sviluppo” ci forniscono uno sguardo diverso sulle ragioni dell'attuale crisi globale, condividendo con noi la loro visione del futuro. C'è ancora tempo per un'ultima chiamata?

Grazie a materiali di repertorio, in parte inediti, e alle voci di oggi dei protagonisti coinvolti nella discussione del libro, con questo documentario il regista Enrico Cerasuolo ci conduce in un racconto coinvolgente, che sottolinea l'urgenza di prendere decisioni che possano salvaguardare il nostro futuro.

Il finale di questa storia non è ancora stato scritto. Scriviamolo insieme.