martedì 30 luglio 2013

Il crollo intermittente dell'Impero Romano

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Ho definito la tendenza di alcuni sistemi a collassare dopo aver raggiunto il picco il “Dirupo di Seneca”. Qui parto da alcune considerazioni sul fatto che il collasso possa essere un processo morbido o irregolare che potremmo definire come graduale o intermittente. Prendo l'Impero Romano come esempio, mostrando che esso, di fatto, è declinato molto più rapidamente di quanto non abbia impiegato per crescere. Ma il declino è stato sicuramente tutt'altro che morbido. 

di Ugo Bardi

L'idea di un collasso imminente della nostra civiltà è già abbastanza brutta di per sé, ma ha questo piccolo sviluppo imprevisto nel fatto che il collasso può essere accelerato da ciò che ho chiamato il “Dirupo di Seneca”, dalle parole del Filosofo Romano che per primo ha notato che, “La fortuna è lenta, ma la rovina è veloce”. Il concetto del Dirupo di Seneca sembra avere guadagnato un po' di forza nel Web e molte persone lo stanno discutendo. Di recente, ho trovato un interessante commento di Jason Heppenstall su questo punto sul suo blog “22 billion energy slaves” (22 miliardi di schiavi energetici) che riassume il dibattito come:

”Dalla parte del collasso rapido ci sono quelli come Dmitry Orlov (che basa le sue valutazioni sulla propria esperienza nel vedere l'URRS implodere) ed Ugo Bardi, che si aspetta un declino tipo 'Dirupo di Seneca'. James Kunstler, Michael Ruppert e un bel numero di altri può essere aggiunto allo schieramento del collasso rapido.

In confronto, quelli come John Michael Greer calcolano che ci troviamo di fronte a un'era estenuante di declino terminale punteggiata da gravi crisi che, al momento, sembreranno molto dure a tutti coloro che ne saranno coinvolti, ma che cederanno il passo ad un plateau di relativa stabilità, sebbene ad un livello inferiore di flusso di energia”. 

A dire la verità le due posizioni potrebbero non trovarsi in un così radicale disaccordo fra loro come vengono descritte. L'idea del collasso rapido (alla Seneca) non significa necessariamente che il collasso sarà continuo. Il modello che descrive l'Effetto Seneca da quel tipo di risultato, ma i modelli sono, come sempre, solo delle approssimazioni. Il mondo reale potrebbe seguire la curva in una serie di “asperità” che daranno l'impressione di un certo recupero alle persone che vivranno il doloroso periodo del declino. 

Così, il collasso potrebbe ben essere “punteggiato”: una serie di periodi di temporanea stabilità separati da collassi severi. Ma potrebbe comunque essere molto più rapido di quanto lo sia stata la crescita precedente. Ho discusso questo punto nel mio primo post sull'Effetto Seneca, ma lasciate che ritorni sul tema e che prenda in considerazione uno dei casi meglio conosciuti di collasso: quello dell'Impero Romano. 

Per prima cosa, alcune considerazioni qualitative. La fondazione di Roma risale al 753 AC, mentre la fine dell'Impero d'Occidente viene di solito indicata nel 476 DC, con la detronizzazione dell'ultimo Imperatore d'Occidente, Romolo Augustolo. Ora, fra queste due date, un arco temporale di oltre 1.200 anni, l'Impero ha raggiunto un picco. Quando è successo?

La risposta dipende da quale parametro consideriamo, ma sembra chiaro che, a prescindere dalla scelta che facciamo, il picco non è stato a metà strada – è stato molto più tardi. L'Impero era ancora forte e potente durante il secondo secolo DC e possiamo prendere l'era dell'Imperatore Traiano come quella del “picco dell'Impero” (morto nel 117 DC). Potremmo anche notare che fino ai tempi dell'Imperatore Marco Aurelio (che è morto nel 180 DC), l'impero non mostrava segni evidenti di debolezza, quindi possiamo considerare il picco come avvenuto a metà del secondo secolo DC. Alla fine, la data esatta non ha importanza: l'Impero ha impiegato circa 900 anni per giungere dalla fondazione di Roma al picco del secondo secolo DC. Quindi, ci sono voluti soltanto 400 anni – probabilmente di meno – perché l'Impero scomparisse. Un collasso asimmetrico in effetti, alla Seneca. 

Abbiamo anche alcuni dati quantitativi sul ciclo dell'Impero. Per esempio, guardate questa immagine da Wikipedia.

La figura fa vedere la dimensione dell'esercito Romano lungo l'arco di tempo di esistenza dell'Impero. Con tutte le incertezze del caso, anche questa immagine mostra una tipica forma “Seneca” sia per l'Impero d'Occidente si per quello d'Oriente. Il declino è più rapido della crescita, davvero. 

Ci sono altri indicatori che possiamo considerare sul collasso dell'Impero Romano. In molti casi, non abbiamo dati sufficienti per dire molto, ma in alcuni possiamo dire che il collasso fu, davvero, improvviso. Per esempio, potete dare un'occhiata ad una immagine famosa dal libro di Joseph Tainter “Il Collasso delle Società Complesse”.


La figura mostra il contenuto d'argento di un “denarius” Romano, che nel terzo secolo DC è diventato puro rame. Notate come il declino comincia lento ma poi continua sempre più rapido. Seneca stesso avrebbe capito questo fenomeno molto bene. 

Così, l'Impero Romano sembra che sia stato colpito da un “collasso di Seneca” e questo ci dice che il verificarsi di questo tipo di rapido declino possa essere un tratto comune delle entità che noi chiamiamo “civiltà” o “imperi”. 

E' anche vero, tuttavia, che il collasso Romano è stato lungi dall'essere morbido. Ha attraversato periodi di apparente stabilità, interrotti da periodi di declino estremamente rapido. I cronisti dell'epoca hanno descritto questi periodi di crisi, ma nessuno di loro sembra aver collegato i puntini: non hanno mai visto che ogni crisi era collegata con la precedente e che una portava alla successiva. Il collasso intermittente è stato invisibile per gli antichi Romani, proprio come lo è per noi oggi. 








domenica 28 luglio 2013

Più domande che risposte


Di Max Iacono
Da “The Frog that jumped out”. Traduzione di MR



Di Max Iacono

Riguardo al cambiamento climatico, al picco dell'energia (petrolio, gas e uranio) e ai limiti della crescita più in generale (o alternativamente riguardo alle “tre E” interconnesse di Energia, Economia e Ambiente - Energy, Economy and Environment -) ci sono chiaramente “più domande che risposte”. Ecco la top ten delle mia domande favorite che penso abbiano risposte inadeguate (anche se ce ne sono diverse altre): 


1. E' stato deciso – ma su quale base scientifica se non sul fatto che vari paesi hanno “concordato su questo” politicamente? - … che non dovremmo permettere alla temperatura media della Terra di salire oltre i 2°C rispetto al periodo preindustriale. Ma se 0,8°C stanno già scatenando un tale caos, osservabile e onnipresente, cosa porteranno i 2°C in più? Quando diciamo che i 2°C in più sono “accettabili”, sappiamo di cosa stiamo parlando? Ecco cosa succede dove vivo in questo momento. Ed altre storie simili abbondano in altre parti e luoghi nel mondo. 

2. Per evitare di salire oltre i 2°C non dovremmo emettere più di 600 miliardi di tonnellate di CO2 da ora al 2050 (dando per scontato che dopo il 2050 possiamo essere del tutto liberi dal carbonio). Riguardo a questo problema, vi prego di leggere il seguente e recente rapporto sul clima mondiale e i combustibili fossili fatto dal governo australiano. Al ritmo attuale di emissioni, siamo sulla strada buona per emettere tutte i 600 miliardi di tonnellate consentiti di carbonio nel 2028. Cosa succede dopo il 2050 o il 2028? Di quali tipi di energia si alimenterà il mondo? Quali attività umane saranno eliminate? O semplicemente GONFIEREMO quel limite e ci dirigeremo verso i 3, 4, 5 o 6°C in più?

3. L'energia rinnovabile è presumibilmente la risposta. Ma anche se l'energia rinnovabile potesse essere fatta decollare ad un ritmo per cui le credenze degli accattoni  l'energia fossile venissero rapidamente ritirate e la gran parte dell'attuale infrastruttura e delle installazioni (alcune delle quali costruite solo di recente) diventassero inutili e venissero stornate, che ne sarebbe degli usi energetici (e sono molto significativi) che non si appoggiano all'uso di elettricità? Per esempio, aerei o navi, camion o trattori, macchine per costruzioni pesanti o per l'estrazione mineraria e i molti altri usi che dipendono dal petrolio? Le navi, gli aerei e le macchine pesanti si fermeranno dopo il 2028? E tutti quei turisti che sfrecciano intorno al globo su flotte aeree sempre più grandi, se ne staranno tutti a casa? Per cortesia, leggete i post seguenti sul picco dell'energia e la non sostituibilità del petrolio con l'elettricità di Antonio Turiel qui, qui e qui. Potete invece trovare una sintesi relativa al recente libro “Il pianeta saccheggiato” di Ugo Bardi qui

4. La popolazione mondiale è previsto che raggiunga gli 8 o 9 (o 9,5) miliardi di persone nel 2050. I 2 miliardi di persone in più saranno estremamente povere o ci sarà più crescita economica alla quale potranno partecipare? E se sì, usando quale energia o quali altre risorse in esaurimento o a basso EROEI per alimentarla (per una spiegazione del EROEI, leggete per favore il post di Antonio Turiel sopra)? O forse ci sarà una massiccia redistribuzione della ricchezza? E come potrebbe mai essere accettata dato che ora la gente ricca e le multinazionali non sembrano nemmeno voler pagare la loro parte di tasse? La popolazione mondiale, secondo il recente rapporto dell'ONU potrà essere facilmente di 9,5 miliardi di persone. Ed ecco solo alcuni degli effetti probabili dell'aumento della popolazione umana.

5. E che ne sarà di tutti gli altri problemi ambientali come la deforestazione, lacidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità ed ogni sorta di inquinamento tossico? Come verranno affrontati un po' più seriamente di adesso? E quando? Un recente sommario di come fare (quantomeno) una valutazione ambientale complessiva corretta si trova qui. Ma dopo aver fatto una valutazione corretta (forse esiste già), chi sarà poi a seguirla praticamente e come? 

6. Se la società mondiale, la sua economia e la sua politica, saranno completamente trasformate in qualcosa di più sostenibile (più sostenibile dell'attuale capitalismo di mercato neoliberale globalizzato), chi progetterà e realizzerà il programma di trasformazione o il processo e quando comincerà questo lavoro (o sarà come uno dei tanti “processi di pace” in corso adesso che tendono a durare per sempre e ad ottenere nulla ed i cui scopi sembrano essere principalmente foglie di fico, più che altro)? Esistono un sacco di buone idee ed analisi su come l'attuale economia globalizzata funziona in questo momento. Una si trova qui. Ed esistono anche un sacco di buone idee su come potrebbe essere trasformata l'attuale economia globalizzata e in cosa, che potrebbe essere più sostenibile. Una si trova qui. E un'altra, da una diversa prospettiva, si trova qui. Ed una terza qui. E ce ne sono anche molte altre. Ma la domanda chiave è chi deciderà quali di queste alternative dovrà essere perseguita e come verrà fatto? Fino ad ora, sembriamo piuttosto inchiodati al BAU (Business As Usual) o al massimo a cercare di convincere gli altri che per varie ragioni sono meno consapevoli che ci troviamo davvero in un bel casino, forse sperando che qualcosa che sia più all'altezza delle reali sfide pratiche comincerà ad accadere grazie a questo. 

7. E riguardo alle economie ed ai loro problemi, che ne dite del gigantesco e sconcertante debito che chi grandi paesi occidentali (e molte banche) hanno accumulato? Come ci confrontiamo con questo? Ci sarà una iper inflazione massiccia o, se no, cos'altro? Ci saranno più “salvataggi” in stile Cipro? Ecco un riassunto molto breve della situazione del debito italiano. C'è anche il timore che il “salvataggio” in stile Cipro in cui i depositi vengono confiscati possa diventare la normalità in futuro. Lo diventerà? E se sì, quali ne saranno gli effetti (vedete qui e qui)? Oppure, forse, uno o l'altro dei “Sogni Chimerici” (o incubi) descritti nell'articolo seguente (dicasi disastro ambientale) andrà avanti? 
8. Proveremo davvero ad attuare la decrescita e la contrazione economica e a spostarci verso economie più locali ed essenziali cosiddette “sostenibili”? Di nuovo, chi farà questo e quando comincerà il processo in tutto il mondo e sulla scala necessaria? Sarà un processo gestito o sarà il risultato di un collasso lento o massiccio ed improvviso? O forse di una serie di collassi minori? Ci sarà ancora “globalizzazione” e la spedizione di vari beni che potrebbero essere prodotti localmente da un lato all'altro del pianeta? E se la globalizzazione sarà eliminata o ridotta, come verrà presa una decisione tale e chi la attuerà? Alcuni pensano che la globalizzazione sia la risposta e qualcuno pensa invece che sia il problema. Per esempio, qui. Quale analisi è corretta e, in ogni caso, come verranno attuate le conclusioni? L'economia mondiale e la globalizzazione possono essere “gestite”?

9. Ci sarà anche uno sforzo per portare diminuire gradualmente il numero di esseri umani sul pianeta fino ad un numero ragionevole? Per esempio ai circa 2-2,5 miliardi di persone che c'erano 70 anni fa nel 1943, un terzo del numero odierno. In un articolo dal titolo “Riduzione Globale della Popolazione per Affrontare l'Inevitabile”, Il World Watch Institute dice che la popolazione non deve solo non crescere ulteriormente, ma deve essere ridotta drasticamente. E Paul Ehrlich dice cose analoghe qui. Chi deciderà di attuare un tale programma e come? E dove e quando sarà attuato e con quale sostegno politico e impegno?

10. Esiste già ogni sorta di buone analisi (e vengono costantemente migliorate, affinate e aggiornate) a proposito di: a) la natura e la realtà del/i problema/i di cambiamento climatico, picco dell'energia, limiti della crescita, capacità di carico del pianeta e dell'interazione delle tre E e... b) varie altre analisi specifiche delle diverse parti del problema e di CIO' CHE NON SI PUO' FARE, esistono a loro volta (Cioè che non possiamo continuare ad usare i combustibili fossili ed anche che non possiamo continuare a fare diverse altre cose che attualmente facciamo). Sfortunatamente esistono sempre meno analisi e descrizioni specifiche di COSA INVECE DOVREMMO FARE e – più importante – come e chi dovrebbe farlo a a partire da quando. Cioè: a) come dovrebbe essere una nuova società mondiale che sia sostenibile (realmente e non solo come finzione o qualche tipo di ossimoro) in termini specifici, piuttosto che generici - e, più importante, b) come e con quali misure, politiche e programmi, attuati da chi e a partire da quando (e completati quando) potremmo trasformare l'attuale società umana sul pianeta Terra in una nuova società “sostenibile”. Quando comincerà questo processo seriamente e in maniera complessiva?


Se avessi le risposte a tutte (o anche solo ad alcune) delle domande qui sopra, meriterei di sicuro il Premio Nobel per la Pace per aver Salvato il Pianeta o perlomeno la Biosfera o la Razza Umana. Essendo tutti chiaramente non solo obbiettivi Nobili, ma anche degni del Premio Nobel. Ma visto che io non ho le risposte, forse qualcun altro può farsi avanti e rivendicare l'ambito premio? O la risposta sta nell'eliminare anche i Premi Nobel (quando il raggiungimento di molti degli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio - Millennium Developement Goals  MDG – è fallito, l'obbiettivo è stato semplicemente spostato in avanti)? Nel qual caso, una petizione veloce mandata sia a Oslo sia a Stoccolma potrebbe facilmente essere il trucco per il quale potremmo tornare tutti al BAU e aspettare e vedere  semplicemente cosa accade. 


venerdì 26 luglio 2013

Punto cieco

Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR



di Antonio Turiel

Cari lettori,

in fondo alle nostre retine, abbiamo tutti un punto cieco. Si chiama così perché non c'è nessuno fotorecettore in quella zona che, pertanto, non trasmette alcuna immagine. Si tratta di un vero e proprio buco in mezzo alla retina, che tecnicamente si chiama scotoma. La ragione dell'esistenza di questo buco è che da quella zona esce tutto il “cablaggio neurale” (il nervo ottico, in realtà, è un fascio di neuroni, un mazzo di cavi) che raccoglie l'immagine codificata da tutti i fotorecettori della retina e la trasmette per mezzo di impulsi nervosi verso il Nucleo Laterale Genicolato e da lì alla corteccia visuale. Dato che in questo punto c'è il collettore di tutta l'informazione visuale captata dalla retina, per forza questo occupa una posizione abbastanza centrale nella stessa. Così, anziché esserci una zona senza visione discretamente dispersa alla periferia della retina, dove la densità dei fotorecettori è minore e l'immagine è più sbiadita, questa si trova in mezzo alla retina e molto vicina alla fovea, il punto di miglior visione. Un problema, di sicuro, comune a tutti i mammiferi.
Tale buco di dati in una zona tanto centrale non è innocuo: muovendo i nostri occhi, alcuni oggetti variano molto in fretta, visto che passano dall'essere visibili al cadere dentro il buco e a non esserlo più. Questa intermittenza dei dati visuali potrebbe causare molti problemi agli animali, che potrebbero distrarsi per via dello sfarfallio che questo genera. Tuttavia, le strutture fisiche e neuronali dei mammiferi permettono di diminuire enormemente l'impatto di questa limitazione.

Da una parte, i nostri occhi sperimentano microscosse (movimenti molto rapidi del globo oculare) che permettono al nostro cervello di integrare nel tempo l'informazione di una certa area ottenuta da diverse angolazioni (strategia che ci permette anche di percepire il colore azzurro in tutto il campo visivo, nonostante che i fotorecettori associati a questo colore siano assenti nella fovea). Ho un amico che usava questa stessa strategia nella sua macchina: i tergicristalli del veicolo, che era molto vecchio, non funzionavano più, e quando pioveva le gocce di pioggia che si accumulavano sul parabrezza rendevano difficile la visione. Il mio amico cominciava allora a muovere la testa su e giù, a destra e a sinistra, per “integrare” le lacune dell'immagine della strada e dei veicoli che ci circolavano. La verità è che non so se ha ancora la stessa vecchia macchina perché non sono più salito con lui. Credo che, fortunatamente per lui, gliela abbiano rubata (non funzionava nemmeno la chiusura delle portiere).


Ma, nonostante le microscosse e l'integrazione temporale dell'informazione visiva in angolazioni leggermente diverse che fa il nostro cervello, una parte di questo spazio visivo vuoto non può essere recuperato. Tuttavia, nella realtà non vediamo questo buco – che d'altra parte sarebbe fastidioso – e ciò si deve ad una delle grandi meraviglie del sistema neuronale: la plasticità neuronale. A causa dell'azione di meccanismi la cui discussione allungherebbe inutilmente questo post, le reti neurali biologiche tendono a massimizzare l'informazione che trasmettono. La zona del buco non trasmette nessuna informazione (il segnale che proviene da lì è costantemente nullo). Ogni area della retina è mappata da alcuni neuroni di elaborazione che codificano e comprimono il segnale, inviando soltanto quello che è rilevante, visto che il nervo ottico ha un'ampiezza di banda limitata e la retina ottiene più informazioni al secondo di quelle che può trasmettere. Pertanto, ognuno di questi neuroni compila l'informazione di un'area della retina associata, chiamata campo recettivo del neurone stesso. I neuroni che coprono la zona del punto cieco hanno campi recettivi più grandi di quelli che coprono altre zone, visto che tutta l'area che cade sul punto cieco non fornisce informazione, fino al punto che finiscono per creare l'illusione di continuità fra due neuroni che si trovano in realtà ai lati opposti del punto cieco. Dal punto di vista del nostro cervello, non esiste tale punto cieco, visto che lo spazio vuoto viene riempito con un segnale artificiale, che non è altro che un'estrapolazione di ciò sta sta intorno al punto cieco. Questa è la base di alcuni illusioni ottimali (ottiche), come illustrato dall'immagine seguente.

Chiudete l'occhio destro e guardate la croce con l'occhio sinistro, da una distanza simile alla lunghezza del vostro braccio. Senza smettere di guardare la croce, avvicinatevi lentamente allo schermo fino a che il punto non scompaia. 


Questa illusione di riempimento è talmente forte che ci può far vedere un testo scritto dove in realtà c'è solo uno spazio vuoto. L'illusione si mantiene finché tentiamo di leggere quel testo, momento nel quale svanisce bruscamente (non ho trovato nessun esempio di questa illusione su internet, così vi faccio un altro esempio di riempimento).

Con l'occhio sinistro chiuso, guardate la croce ed avvicinate la visuale finché il buco di destra non si riempia delle linee verticali. 

La cosa più interessante di tutto questo è che siamo completamente persuasi del fatto che ci sia un testo con un senso in quella zona, semplicemente perché il nostro cervello agilmente interpola il testo che sta intorno e ci fa percepire una impressione sbagliata di sicurezza, di prevedibilità. Naturalmente, questo effetto succede anche quando leggiamo qualsiasi testo; il miraggio dei caratteri che vediamo lateralmente nelle linee a seguire viene rimpiazzato dal testo reale quando il fuoco della nostra visuale si posa su quel luogo.

Questo fenomeno di interpolazione da quanto percepito nei buchi della nostra percezione è il risultato dei meccanismi generali di elaborazione dell'informazione attivi nel nostro cervello. Meccanismo, pertanto, che agisce in tutte le sfaccettature della nostra elaborazione sensoriale e a volte anche in quella intellettiva.

Facevo queste (lunga) riflessione sulla fisiologia della nostra elaborazione dell'informazione, rispolverando concetti che ho imparato all'inizio della mia tesi di dottorato (incredibili percorsi di vita e di carriera di uno scienziato), alla fine di una riunione scientifica annuale alla quale ho assistito in questi giorni nella città tedesca di Hannover. Si trattava della riunione annuale di tutte le reti europee di ricerca in campo ambientale finanziate da un determinato programma dell'Unione Europea. Io presiedo una di queste reti e pertanto ho l'obbligo di seguirla. Sono due giorni intensi durante i quali si rincontrano colleghi di tutta Europa e di alcuni stati associati. Quest'anno, come quello precedente, italiani, greci, portoghesi e spagnoli parlano delle proprie miserie (curiosamente gli irlandesi non sembrano interessati a questo tipo di reti, visto che non ne ho incontrato nessuno). Miserie che risultavano curiosamente simili nei diversi paesi. Come novità di quest'anno ho potuto verificare che i francesi cominciano a guardare al futuro con pessimismo ed anche un collega svizzero vedeva nuvoloni consistenti all'orizzonte (a quanto mi ha spiegato, la Svizzera è un'economia esportatrice e con il crollo dell'Unione Europea si poteva prevedere che il suo stesso futuro economico non era da vedersi florido; problema, di sicuro, condiviso anche dalla Germania). Alla fine, dato il clima di crisi profonda, di necessità di cambiamento, ho pensato di andare oltre a quanto sono solito fare in questo tipo di incontri e provare ad introdurre il tema del picco del petrolio nelle conversazioni, ma in modo dolce, senza chiamarlo col suo nome finché non fosse inevitabile per la conversazione. Siccome so che in generale è di cattivo gusto in ambienti scientifici evocare il problema dell'esaurimento di un modello che ci ha procurato tanto progresso e tanto benessere, mi sono limitato a seguire la conversazione in modo convenzionale, forzando le cose il giusto, tentando di far uscire il mio interlocutore dalle sue comode ipotesi e di confrontarsi con la dura realtà.

E secondo me non sono mancate le occasioni nei due giorni della riunione. I diversi progetti esposti parlavano della difficile gestione delle risorse e dei rifiuti in modo continuativo. Sono stati menzionati varie volte i problemi che causerà la crescita della popolazione mentre la produttività agricola non cresce già più; in almeno tre presentazioni il tema centrale era l'acqua, la sua gestione e la sua scarsità – una oratrice è giunta a dire che la stessa OCSE considera la scarsità d'acqua un problema più urgente del cambiamento climatico. Il cambiamento climatico, naturalmente, occupava un posto centrale in più di un terzo delle presentazioni. Le prove scientifiche presentate sono state opprimenti. Tutte le presentazioni, comprese le più tecniche, parlavano di limiti, di problemi che non si era in grado di dominare con la tecnologia. Ma tutte quante, invariabilmente – e la mia non è stata un'eccezione – parlavano di nuove tecniche, di nuovi metodi, per risolvere problemi che sono sempre più vecchi e più pressanti. Li avevamo anche prima, ma non eravamo in grado di vederli.

Ho cercato l'avvicinamento al tema facendo colazione con un collega che si dedica allo studio dei sistemi di gestione dell'energia rinnovabile. Era preoccupato dal fatto che durante l'ultimo decennio la temperatura globale non è aumentata allo stesso ritmo dei decenni precedenti, in contraddizione con i modelli climatici. Ho pensato che il tema lo preoccupasse per il possibile destino di questa energia mancante (di fatto, abbiamo commentato dei lavori recenti che indicano che questo calore mancante si sta accumulando nell'oceano profondo e può provocare un'alterazione delle correnti profonde molto più rapida e brusca di quanto ci si attende), ma in realtà il suo timore era centrato nella possibile perdita di appoggio politico da parte della UE alla lotta contro il cambiamento climatico, che porterebbe ad una perdita di interesse alle energie rinnovabili.

In realtà, ognuno vede quegli aspetti del problema che lo toccano più da vicino. Il fatto è che io gli ho detto che in realtà l'impegno della Commissione Europea verso le energie rinnovabili andava oltre, secondo me, della lotta contro il cambiamento climatico e che la questione della sicurezza energetica non era disprezzabile. Gli ho detto, quindi, che la produzione di petrolio sta avendo dei problemi, ma lui mi ha risposto che grazie al petrolio di scisto sfruttato con la tecnica del fracking, gli Stati Uniti sarebbero stati autosufficienti almeno nel 2020. Gli ho chiarito che in realtà quello che si dice è nel 2035, che è una falsità e che in realtà un tale bilancio positivo sarà possibile solo secondo il rapporto della IEA, dove si fa questo tipo di propaganda, con una caduta dei consumi di petrolio del 32%, cosa che avverrà solo se gli Stati Uniti sprofondano in una recessione profondissima. Tali affermazioni da parte mia lo hanno lasciato un tantino perplesso, ma nonostante il fatto di aver dimostrato di essere piuttosto documentato sul tema, è tornato al tema del cambiamento climatico ed alla sua connessione con la produzione rinnovabile. Guardare la croce gli dava più sicurezza che arrischiarsi a vedere che finiva sopra un punto cieco.

Durante la cena dell'altro giorno, mi sono seduto di fianco ad un altro collega, una gran persona, molto gradevole, con un'ampia conoscenza dello stato del mondo e con un'ampia cultura. La verità è che conversare con lui è una delizia, perché si può sempre imparare qualcosa. Inoltre, è un uomo che ha viaggiato molto ed ha visto i diversi luoghi dove è stato con una certa visione critica, quindi le sue osservazioni sono perspicaci e penetranti. In più, si tratta di una persona con esperienza in ambiti più avanzati di quelli accademici, quindi anziché trincerarsi nella sua torre d'avorio, si dedica a cose pratiche, a cose che funzionano, lasciando perdere i deliri tecnici. In questo senso mi sembrava un interlocutore ideale per parlare di questi temi, soprattutto visto che il sistema che aveva presentato richiedeva – e ne era consapevole – grandi quantità di energia. Proprio in quel senso, provocandolo (“Credo che ciò che hai spiegato oggi sia un po' utopico”, gli ho detto), abbiamo discusso il concetto di EROEI, che gli sembrò del tutto naturale. Di fatto, nell'analisi dei sistemi che costruiscono lo incorporano esplicitamente, anche se non con questo nome. Parlando dell'inarrestabile ascesa della Cina, gli ho lanciato il mio primo vero siluro: “E da dove uscirà il petrolio necessario per alimentare la crescita della Cina?”. Sicuro, un'altra volta dagli scisti americani, non solo sotto forma di petrolio, ma anche di gas. Lì, data la vicinanza col mio interlocutore, sono stato netto: “Un tale boom del gas naturale non esiste, tutto ciò che si dice è falso”. La sua sorpresa di fronte alla mia affermazione è stata grande ed io rincaravo la dose, quando un altro collega, sentendo l'enormità delle mie parole, si è introdotto nella conversazione facendola scivolare rapidamente verso temi più leggeri. Più tardi, durante la cena, il tema dei limiti è planato varie volte senza che ci ci entrassimo mai fino in fondo e, vedendo che il mio interlocutore non voleva tornare sul tema da dove verrà il petrolio per la Cina, ho lasciato perdere. Ma per ora i linguaggi convenzionali non ci hanno permesso di parlare seriamente della questione.

L'ultimo giorno, tornavo all'hotel dal ristorante dove cenavamo, camminando, sotto una pioggia intensa, accompagnato da una collega di un certo rango nella gerarchia europea. Abbiamo parlato un po' di tutto, anche se io sapevo che era una conversazione con molti limiti. Quando hai una posizione all'interno della burocrazia europea devi essere molto attento a quello che dici, perché un'indiscrezione o una frase che si presti a cattive interpretazioni può causare molti problemi. Nonostante questo, la conversazione ci ha consentito di giungere a commentare i recenti tumulti a Istambul (la mia interlocutrice era turca). Parlando degli indignados in Spagna, del futuro dell'Europa e degli altri, l'ho detto abbastanza apertamente: “Credo che ignoriamo il problema fondamentale della scarsità di risorse. Sono convinto che l'Europa non potrà rialzare la testa, non potrà uscire da questa crisi perché le mancheranno, fra le altre cose, fonti di energia”. La mia collega camminava in silenzio, guardando in avanti, senza dire nulla, sotto la pioggia che ci cadeva addosso. L'hotel ormai era vicino. Io non stavo dicendo nulla di essenzialmente diverso dai problemi che abbiamo sentito enunciare negli ultimi due giorni, ma mentre le presentazioni scientifiche che avevamo sentite erano centrate su proposte di soluzioni tecniche o peroravano “l'approfondimento dello studio dei problemi”, io ponevo semplicemente e in modo chiaro l'impossibilità di uscire dalla trappola dove siamo caduti. Ho aspettato per qualche secondo una reazione, prima di proseguire: “Crediamo che l'Europa deve per forza uscire dalla crisi, quando in realtà non vogliamo capire che non esiste un'uscita convenzionale dalla stessa. Questo non verrà accettato finché la Germania non entri, essa stessa, in una profonda recessione”. Qui la mia interlocutrice non ha potuto evitare di annuire, con un mezzo sorriso. Arrivati all'hotel, lei si è accomiatata cortesemente, ringraziandomi per la compagnia e la conversazione.

Non siamo tanto ciechi. E' solo che non vogliamo smettere di guardare la croce, perché sappiamo che quando giriamo lo sguardo apparirà una verità urgente e scomoda.

Saluti.
AMT


giovedì 25 luglio 2013

Ted Patzek sull'agricoltura industriale

Da “Lifeitself”. Traduzione di MR

Di Ted Patzek

Come ho sostenuto in alcuni post precedenti (1, 2, e 3), l'agricoltura industriale è il progetto più vasto al mondo come impatto sulla Terra, più vasto di qualsiasi altra attività umana. Bisogna tenere a mente che in confronto agli impatti ambientali globali dell'agricoltura industriale, l'esplosione del pozzo di Macondo (Deepwater Horizon) è un gioco da ragazzi. Lo so perché sono co-autore di un libro su questo tema. Per esempio, nella foresta amazzonica, gli incendi del sottobosco appiccati dagli esseri umani colpiscono 3 milioni di chilometri quadrati, un'area pari all'India. Cercate sul sito della NASA un riassunto di questa catastrofe globale.


I ricercatori hanno mappato per la prima volta l'estensione e la frequenza degli incendi del sottobosco attraverso un'area di studio (in verde) che copre 1.2 milioni di miglia quadrate (3 milioni di chilometri quadrati) nel sud della foresta amazzonica. Gli incendi erano ampiamente diffusi lungo i confini della foresta durante il periodo dello studio, dal 1999 al 2000. Gli incendi ricorrenti, tuttavia, sono concentrati in aree privilegiate dalla confluenza di condizioni climatiche adatte alla combustione e a fonti di accensione da parte degli esseri umani (che bruciavano la foresta per le piantagioni di soia o canna da zucchero). Immagine: Osservatorio della Terra della NASA.

Da un punto di vista ecologico, l'agricoltura industriale crea ecosistemi aperti e permanentemente immaturi, molti dei quali vengo resettati dagli esseri umani ogni anno. Siccome l'agricoltura di solito partorisce la creatura, per lo più ecosistemi nudi, la stessa è soggetta ad un enorme tasso di erosione del suolo. Il suolo quindi diventa un'altra risorsa fossile esauribile. In un post precedente, vi ho raccontato che l'agricoltura industriale non è sostenibile, perché viene continuamente sussidiata con risorse fossili esauribili, compresa l'acqua fossile. Se volete verificare cosa stiamo facendo con l'acqua, basta rimanere in Australia.

Parlando di combustibili fossili, l'umanità estrae un miglio cubo (quattro chilometri cubi) di petrolio fossile all'anno e 150 chilometri cubi di acqua all'anno. Gran parte di quest'acqua è insostituibile su scala temporale umana e può essere considerata un'altra risorsa fossile. Gran parte dell'acqua di falda viene estratta per l'agricoltura.

Quindi, quanto è grande l'agricoltura industriale? E' difficile quantificare gli impatti dell'agricoltura sulla Terra, ma un'analisi dei dati FAOSTAT può illuminarne alcuni aspetti. Ecco quindi cosa ho fatto: ho considerato le colture più diffuse al mondo per agrocombustibili e alimentazione del bestiame: mais, soia, canna da zucchero e olio di palma (semi di colza in Europa). Ho tenuto conto di tutti i paesi in America, Asia. Africa, Europa e Oceania. Separatamente, ho considerato il grano e il riso. La linea di fondo è mostrata nelle tre figure sotto.

Per coltivare colture per gli agrocombustibili, gli esseri umani hanno strappato alle foreste tropicali e alle savane più produttive della Terra (praterie e steppe) un'area pari al subcontinente indiano. Il danno permanente alla salute del pianeta è stato sconcertante e gli esseri umani pagheranno caro per questa follia con le loro vite e la loro salute. Le due colture principali, grano e riso, ora coprono un'area equivalente a quella della Repubblica Democratica del Congo. Vi prego di ricordare che queste sono solo le aree agricole. Ora pensate alle strade di accesso, agli insediamenti di esseri umani (che lavorano la terra, spostano le cose e portano i fertilizzanti), gli impianti di stoccaggio e lavorazione, il trasporto dai tropici alle latitudini moderate e così via.

L'area complessiva delle principali colture per agrocombustibili come mais, canna da zucchero, soia ed olio di palma (ed anche colza) è quasi triplicata negli ultimi 50 anni ed ora supera l'area dell'India. L'area totale del grano e del riso è quasi raddoppiata fino a raggiungere l'area della Repubblica Democratica del Congo. Le colture per agrocombustibili prosperano negli Stati Uniti e ai tropici ed hanno avuto un'enorme impatto negativo sulla salute dell'ambiente del pianeta. 


Un'area equivalente al subcontinente indiano è stata strappata alle foreste e alle savane della Terra principalmente per colture per agricombustibili. Pensate che massacrare l'ecosistema più produttivo del pianeta sia una cosa buona per la sua (e nostra) salute?

L'area del grano e del riso ora è uguale all'area totale di uno dei paesi più grandi dell'Africa, la Repubblica Democratica del Congo, che non è né democratica né una repubblica. 

Con questo quarto capitolo concludo, per il momento, la mia analisi delle influenze multiple e complesse dell'industria degli agrocombustibili sullo stato del pianeta. Spero che da ora capiate che gli agrocombustibili sono una ricetta sicura perché l'umanità si suicidi più rapidamente è più completamente. 


L'agricoltura non si ferma ai margini delle terre emerse. Ecco una ampia fioritura di alghe su una spiaggia di Qingdao, in Cina (6 luglio 2013). Un fattore centrale è il grande apporto di nutrienti dagli scarichi agricoli e dalle acque reflue, ma anche i nutrienti iniettati per l'allevamento di alghe contribuiscono a loro volta. Questa marea verde, diffusa su oltre 7.500 miglia quadrate, è ritenuta essere il doppio dell'esplosione che nel 2008 ha minacciato gli eventi di vela durante le Olimpiadi di Pechino.

Concludendo, per favore guidate di meno, usate meno di tutto, tormentate i vostri “rappresentanti” per avere un sistema di trasporto elettrico e cominciate a comprare localmente. Ben presto dovrete usare metropolitana leggera, treno elettrico e comprare cibo locale. E, per favore, non fate finta che non vi abbia detto per l'ennesima volta di cominciare a comportarvi come cittadini responsabili di un pianeta vivente e di smettere di essere dei robot consumatori in stile Pacman. 


P.S.

Ecco le aree globali delle colture incluse nella mia analisi. La fonte di tutti i dati è la FAOSTAT, ho scritto programmi MATLAB che leggono i dati per tutti i paesi sul pianeta ed ho analizzato le colture che ho preso in considerazione. 

La più vasta coltura del pianeta è di gran lunga il mais, seguita da riso, soia e grano. Le aree della canna da zucchero e delle piantagioni di olio di palma sono molto più piccole, ma a loro volta sono in rapida crescita. 

Negli ultimi 50 anni, l'area totale adibita a coltura del mais è raddoppiata fino a raggiungere le dimensioni dell'Iran.

Negli ultimi 50 anni, l'area delle risaie è aumentata del 30% ed ha quasi raggiunto l'area dell'Iran.


Negli ultimi 50 anni, l'area totale della coltura di soia è aumentata di 5 volte fino a raggiungere l'area del Venezuela.

Durante gli ultimi 50 anni, l'area totale della coltura di grano è quasi raddoppiata fino a raggiungere l'area del Venezuela. Il balzo del 1991 segue la caduta dell'Unione Sovietica e gli sbalzi della produzione di grano in Ucraina e Russia.

Negli ultimi 50 anni, l'area totale di coltura della canna da zucchero è raddoppiata raggiungendo quasi l'area della Polonia.

Negli ultimi 50 anni, l'area totale di coltura delle piantagioni per l'olio di palma è cresciuto di 6 volte, raggiungendo quasi l'area della Polonia.



mercoledì 24 luglio 2013

Un mare di gas naturale?

Da “The Oil Crash" del 29 dicembre 2010. Traduzione di MR


 Di Antonio Turiel

Cari lettori,

in questi giorni molti lettori mi hanno consultato su una notizia apparsa recentemente nel quotidiano El País, dice quanto segue:


Le nuove scoperte fanno impennare le riserve e cambiano le regole del mercato 

Leggendo la notizia si ha l'impressione siano avvenute delle scoperte del tutto inaspettate di grandissime sacche di gas in determinate formazioni non convenzionali (vale a dire, che non hanno la stessa geologia dei giacimenti sfruttati fino ad ora o convenzionali) che fino ad ora erano inaccessibili e che ora sono stati aperti grazie a nuove tecniche, cambiando così completamente il panorama: gli Stati Uniti passano dall'essere importatori a esportatori di gas, ci sono molte buone prospettive in Europa (per cui la Russia perde il suo peso nel Vecchio Continente), altri paesi come l'Argentina riuscirebbero a risolvere i loro problemi di dipendenza dell'estero... Insomma, una rivoluzione molto positiva.

La notizia ha tre implicazioni principali:

  1. La produzione di gas aumenta enormemente, per cui si allontana il fantasma della scarsità di gas (il redattore de El País parla addirittura di quattro decenni).
  2. Il prezzo del gas si manterrà stabile durante questo periodo.
  3. Anche se la notizia non lo commenta, l'aumento di gas è un aspetto chiave per compensare l'ormai conclamato declino della produzione di petrolio convenzionale, visto che una buona parte del petrolio non convenzionale futuro deve provenire dalla conversione da gas a liquidi.

In realtà, nulla è buono come sembra, come abbiamo già detto su questo blog, soprattutto in alcune parti di un post di luglio, “Il picco del gas” e in alcuni commenti sparsi di altri post. Il gas non convenzionale proviene fondamentalmente da tre tipi di terreno: shale (o scisti), letti di carbone e sabbie bituminose. Secondo l'ultimo World Energy Outlook dell'Agenzia internazionale per l'Energia (International Energy Agency – IEA), le sabbie bituminose hanno un potenziale limitato, il metano del letto di carbone è, principalmente, una grande risorsa cinese e in misura minore degli Stati Uniti e l'opzione più alla portata di Stati Uniti ed Europa, mentre quella che spiega l'attuale abbondanza in Nord America è il gas da ardesia. Tuttavia, c'è una moltitudine di ma, in replica alle implicazioni citate sopra:

  1. Non è evidente che si stia producendo una tale abbondanza di gas negli Stati Uniti, visto che le cifre sono un po' contraffatte, come denuncia Dave Cohen. Tenendo conto che le curve di produzione di gas decadono più rapidamente di quanto modellizzato (esponenziale anziché iperbolico), in alcuni casi smettendo di essere sfruttabile economicamente solo in un paio d'anni, alcuni geologi affermano che le riserve sono gonfiate. Di fatto, le compagnie che sfruttano queste riserve hanno tutti gli incentivi per gonfiare le proprie riserve perché così il loro valore in borsa aumenta, con la speranza che vengano comprate dalle compagnie più grandi. La stessa IEA ha moderato il suo ottimismo sulla produzione di gas non convenzionale che del 2009 occupava un posto centrale, mentre nel 2010 si riconosce che la sua abbondanza comincerà a declinare dopo il 2011. 
  2. Il gas si vende a piedi (metri) cubi o per unità termiche equivalenti britanniche BTU (grosso modo, 1.000 piedi cubi di gas naturale equivalgono a un milione di BTU, MBTU). Al giorno d'oggi, il prezzo minimo per MTBU perché sia redditizio sfruttare il gas di shale è di 8$, mentre attualmente se ne stanno pagando circa 4. Pertanto, il prezzo del gas dovrebbe salire, e di molto, per poter sfruttare questa fonte su scala apprezzabile. A maggior abbondanza, dati i costi ambientali enormi dello sfruttamento delle ardesie (di cui abbiamo discusso nel “picco del gas") è possibile che il gas di shale non sia una fonte netta di energia, ma una perdita, per cui a lungo termine si dovrà vedere che non è economico sfruttare questo gas. 
  3. L'abbondanza di gas naturale, che se non si producono nuovi progressi tecnici ha tutta l'aria di durare pochi anni, non si potrà nemmeno usare per trasformarlo su grande scala in succedaneo del petrolio per mancanza di infrastruttura di liquefazione, che richiede un grande capitale e tempo per il suo sviluppo. 


Se ci pensate, la maggioranza dei link di questo post sono vecchi di molti mesi e potrei persino darvi dei link ad articoli di due o tre anni fa, seguendo la discussione su The Oil Drum sul tema. E' un tema che si discute attivamente, che lo scorso anno ha avuto un grande miglioramento grazie al WEO del 2009... Ed ora El País annuncia la buona nuova. Perché? Forse mancano gli investitori o il credere nei miracoli...


Saluti.
AMT

domenica 21 luglio 2013

Desertec: la zattera e il transatlantico

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR


Il transatlantico "Great Eastern". Varato nel 1858 era di gran lunga la nave più grande mai costruita e tale rimase per almeno mezzo secolo. Ma era anche troppo grande per essere funzionale e fu un disastro commerciale. L'ambizioso progetto “Desertec”, l'idea di alimentare l'Europa con energia rinnovabile dal Nord Africa, potrebbe avere lo stesso destino (fonte dell'immagine).



Ho seguito la storia di “Desertec” a lungo; l'idea ambiziosa di costruire impianti solari su larga scala in Nord Africa per produrre energia da spedire in Europa.

Desertec mi ha sempre lasciato perplesso. Con i suoi impianti enormi e un costo di circa 400 miliardi di dollari, mi ha sempre fatto pensare che fosse come passare da una zattera ad un transatlantico senza aver mai costruito nulla in mezzo. In breve, l'equivalente moderno dello sfortunato transatlantico “Great Eastern”, costruito a metà del diciannovesimo secolo e troppo grande per i suoi tempi. Così, non sono stato sorpreso nel leggere, recentemente, che il progetto ha dei problemi (leggete anche qui).

Non che l'idea di base del progetto Desertec sia sbagliata. Il Nord Africa riceve un sacco di luce solare ed ha ampi spazi liberi che potrebbero essere usati con profitto per raccogliere questa energia per produrre elettricità. Ma ciò non è stato sufficiente per far funzionare economicamente il progetto. Il primo problema è stato il collasso dei prezzi dei pannelli fotovoltaici. Questo ha reso obsoleta l'idea originale del progetto che avrebbe dovuto poggiare sull'uso del solare a concentrazione. In pratica, con prezzi così bassi, aveva senso costruire impianti fotovoltaici direttamente in Europa. Anche con una radiazione solare inferiore, si sarebbero evitati i costi enormi dell'infrastruttura necessaria per portare l'elettricità dal Nord Africa.

Oltre a questo, il progetto Desertec ha sofferto del fatto di essere stato concepito con una specie di “mentalità Apollo”; l'idea che, se potevamo andare sulla Luna, allora potevamo fare tutto (ammesso che volessimo spendere abbastanza soldi). Ma il successo dell'Apollo non è mai stato ripetuto, anche se il fantasma del razzo Saturno è stato evocato molte volte per altri scopi, dall'economia basata sull'idrogeno alla fusione. Questo tipo di enormi sforzi con un recupero dell'investimento a lungo termine erano possibili negli anni 60, ma oggi non più. Con così poche risorse rimaste, viene data la priorità a progetti che promettono ritorni rapidi. E di certo Desertec non è uno di questi. Non abbiamo più quei soldi.

Ci sarebbe solo un modo per salvare il Desertec: costruire prima una macchina del tempo e quindi costruire gli impianti negli anni 60 (o, forse, ai tempi del “Great Eastern”).


sabato 20 luglio 2013

Il punto di non ritorno del negazionismo sul cambiamento climatico



Da “The frog that jumped out”. Traduzione di MR



di Ugo Bardi

In un precedente post, ho evidenziato come la posizione dei negazionisti climatici stesse diventando sempre più insostenibile. Ora, il discorso del Presidente Obama sembra avere mosso le acque non poco.


O almeno così sembra leggendo un articolo rivelatore di Chris Ladd, commentatore repubblicano sul Washington Times. Questo articolo deve essere letto ed assaporato – davvero sbalorditivo per il modo in cui dichiara chiaramente come la strategia di comunicazione del GOP (Grand Old Party – il partito repubblicano) gli si stia ritorcendo contro. Peter Sinclair ha già fatto un commento su questo pezzo; ne riproduco qui qualche estratto (il grassetto è mio):

..... ci dobbiamo rendere conto che la nostra strategia di negazione cieca si sta rivelando un suicidio politico

Dobbiamo smettere di spingere su “scienziati” pazzi che attuano tattiche prese in prestito dall'industria del tabacco per “smascherare” la ricerca credibile sul cambiamento climatico. 

A livello politico, i Repubblicani non devono confondere il cambiamento climatico con altri problemi di scienza contro credenze. Su questo problema l'opinione pubblica alla fine si muoverà nella direzione dei fatti riconosciuti a prescindere da quanta distorsione generiamo

Il cambiamento climatico.... sta diventando sufficientemente visibile al profano medio da condizionare i suoi progetti per le vacanze. Non possiamo più nuotare contro la corrente di questa marea scientifica ancora a lungo.

Quando l'opinione pubblica si allinea alla scienza ufficiale, la nostra posizione negazionista ci costerà l'opportunità di partecipare alla formazione delle politiche. Ci stiamo posizionando per un collasso politico catastrofico e improvviso che potrebbe diffondersi oltre questo singolo problema

...i conservatori non possono partecipare alla formazione di queste alternative se il partito fa in modo di essere definito politicamente da un branco di pazzi ridicoli. La negazione categorica del cambiamento climatico potrebbe essere la più grande minaccia del futuro a lungo termine del movimento conservatore. Per il Partito Repubblicano negli Stati Uniti, il negazionismo è un fiume che si sta prosciugando rapidamente.

Ora, il dibattito politico è un sistema complesso e, come tale, è soggetto a rapide “transizioni di fase” nelle quali i problemi ignorati fino ad un certo punto diventano improvvisamente importanti e centrali. Questo potrebbe essere la conseguenza di un solo evento eccezionale, come l'attacco del 9/11, o come conseguenza di un corpus di prove gradualmente crescente, come potrebbe accadere col cambiamento climatico.

Stiamo assistendo al punto di non ritorno del dibattito sul clima? Non possiamo ancora dirlo, ma è da notare che l'articolo del signor Ladd non ha ancora attirato su di sé (finora) il solito flusso di commenti dei negazionisti rabbiosi. Così, potremmo trovarci di fronte a grandi cambiamenti, in effetti.