martedì 18 dicembre 2012

Scienza del Clima: stesso destino dei “Limiti dello Sviluppo”?

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di Massimiliano Rupalti



Gli studi sull'esaurimento delle risorse , come “I Limiti dello Sviluppo” del 1972, sono stati attaccati e demonizzati negli anni 80 e quindi consegnati al bidone della spazzatura delle idee scientifiche “sbagliate”. Ora è il turno della scienza del clima di essere attaccata e demonizzata. Due storie parallele che si svolgono in tempi diversi.



Negli anni 1950, il problema dell'esaurimento dei minerali ed il problema climatico iniziavano ad essere riconosciuti. Nel 1956 Marion King Hubbert pubblicava il primo studio che esaminava l'esaurimento del petrolio a livello mondiale, studio che suggeriva il modello che oggi prende il suo nome, il “Modello di Hubbert”. Pressappoco nello stesso periodo, nel 1957, Roger Revelle è stato coautore, insieme a Hans Suess, del primo saggio che osservava che la concentrazione di biossido di carbonio nell'atmosfera stava aumentando come risultato della combustione di combustibili fossili e indicava gli effetti climatici relativi.

Sia gli studi climatici sia quelli sull'esaurimento del petrolio avevano a che fare con sistemi complessi e non lineari, così le stime quantitative delle tendenze future sono diventate possibili solo con lo sviluppo dei computer digitali. I primi modelli generali di circolazione (GCM) sono stati sviluppati al NOAA della NASA nei tardi anni 60. Il primo modello del mondo che esaminava il sistema economico mondiale alla luce dell'esaurimento delle risorse è stato pubblicato da Jay Forrester nel 1971, col titolo di “World Dynamics”. Un anno dopo, nel 1972, apparve lo studio più dettagliato “I Limiti dello Sviluppo”. Gli eventi hanno segnato una rapida crescita dei due nuovi campi di ricerca: “Scienza del Clima” e “Modellizazione del Mondo”.

Lo studio del 1972 “I Limiti dello Sviluppo” aveva già identificato gli elementi principali del comportamento del sistema mondiale. Ecco i risultati di base di quello studio.


Come vedete, il modello aveva già identificato i “punti di non ritorno” del sistema dove l'esaurimento graduale delle risorse naturali e l'aumento dell'inquinamento avrebbero portato al collasso della produzione industriale ed agricola e, più tardi, al collasso della popolazione. La scelta fatta per costruire questo modello è stata quella di “aggregare” la maggior parte delle variabili coinvolte, cioè di considerarle tutte insieme per limitare le inevitabili incertezze che si hanno quando si ha a che fare con singole variabili. Mancando dati sufficienti per costruire un modello molto dettagliato, l'approccio dello studio dei “Limiti dello Sviluppo” è stato euristico ed orientato alla comprensione del comportamento del sistema, piuttosto che a fare previsioni esatte. 

Sull'altro versante delle simulazioni, gli scienziati del clima si sono ritrovati ad affrontare la grande complessità del clima mondiale, per il quale spesso mancavano dati sufficienti. Il risultato è stato che la modellizzazione climatica è cresciuta con un consistente sforzo sperimentale per misurare i parametri del sistema. Diversi di questi parametri richidevano studi estensivi per essere compresi e quantificati. Col tempo, i modelli sono cresciuti in sofisticazione quando i dati in entrata sono diventati più dettagliati ed affidabili. Forse a causa di questa stessa sofisticazione, i modelli hanno avuto dei problemi nell'affrontare la questione dei “punti di non ristorno”, cambiamenti repentini che potrebbero risultare dal rafforzamento di retroazioni (feedback) all'interno del sistema climatico. La conseguenza è stata una tradizione a presentare i risultati dei modelli climatici come curve dolci e continue. Ecco qua, per esempio, le curve dell'aumento delle temperature contenute nel primo rapporto del IPCC del 1990.


I risultati delle simulazioni non sono cambiate di molto nell'ultimo rapporto del IPCC del 2000. Ora, ecco la differenza fra i due campi di ricerca: La modellizzazione del mondo, con la sua visione di collasso, sembrava fornire una minaccia più immediata e preoccupante che non le dolci curve della scienza del clima. La differenza ha avuto conseguenze. 

Sappiamo cos'è accaduto allo studio iconico della modellizzazione del mondo: “I Limiti dello Sviluppo” del 1972. E' parso sufficientemente minaccioso a molta gente da subire una serie di attacchi politici negli anni 80 che lo hanno portato nel bidone della spazzatura delle teorie scientifiche “sbagliate”. Il problema non è stato solo la demonizzazione di un singolo studio, ma il fatto che un intero campo scientifico sia stato posto in cattiva luce, il che ha portato alla scomparsa quasi totale dei fondi per la ricerca in quell'area. Solo in anni recenti stiamo assistendo al tentativo laborioso della modellizzazione del mondo di riemergere come legittimo campo di studio. 

Il problema con la scienza del clima, tuttavia, è che la sua visione del problema è diventata gradualmente sempre più drammatica. Con la calotta polare del nord sulla strada della fusione completa, siccità, alluvioni ed uragani, la questione del cambiamento climatico repentino non può più essere ignorata. Gli scenari che tengono conto dei punti di non ritorno cominciano a sembrare ancora più preoccupanti di quelli forniti dalla modellizazione del mondo negli anni 70. 

Quindi potrebbe non essere un caso il fatto che stiamo vedendo una reazione contro la scienza del clima molto simile a quella vista negli anni 80 contro la modellizzazione del mondo. Uno sforzo concertato viene portato avanti per demonizzare la scienza del clima e gli scienziati del clima agli occhi del pubblico e per far passare tutta la faccenda per uno scherzo o, peggio ancora, una truffa premeditata. Fra le altre cose, gli attuali attacchi alla scienza del clima sono più aggressivi e violenti di quanto lo sia stato qualsiasi altro attacco contro la modellizzazione del mondo. Oggi, le tecnologie di demonizzazione sono molto meglio conosciute e raffinate di quanto lo fossero negli anni 80. La costruzione del “Climategate” per esempio, è un vero capolavoro di come ingannare il pubblico. 

Così, quello che stiamo vedendo sono due storie parallele che si svolgono in tempi diversi. Non è impossibile che la scienza del clima farà la stessa fine della modellizzazione del mondo negli anni 80: demonizzata e ridicolizzata da un attacco politico concertato e ben finanziato e conseguentemente rimossa dal parco dei campi di studio legittimi. Se questo accadesse, potrebbero tranquillamente passare un paio di decenni prima di renderci conto che studiare scienza del clima era importante. A quel punto, sarà sicuramente troppo tardi. 

Forse, tuttavia, la recente ondata di sintomi del cambiamento climatico, dagli uragani alla fusione delle calotte di ghiaccio, renderanno il problema così chiaro da risparmiare la scienza del clima dal destino della demonizzazione toccato alla modellizzazione del mondo. Tuttavia, la campagna anti-scienza è ancora in corso ed abbiamo già perso un sacco di tempo. E' troppo tardi? Solo il tempo ce lo potrà dire.






lunedì 17 dicembre 2012

Riconoscere la Realtà

Di Chris Vernon. Traduzione di Massimiliano Rupalti.


Abbiamo un problema. Sapevo che avevamo un problema da molto tempo. E' stato solo negli ultimi anni, tuttavia, da quando ho abbandonato la mia carriera in ingegneria per prendere un dottorato in glaciologia, studiando il cambiamento della calotta glaciale della Groenlandia, che la grandezza ed il quadro temporale sono diventati chiari. Ora è quasi impossibile limitare il riscaldamento globale, il riscaldamento medio della temperatura dell'aria in superficie, a meno di 2°C rispetto alle temperature preindustriali [1, 2]. Capite inoltre che le temperature sulla superficie aumentano di più di questa media globale e che gli estremi è probabile che siano ulteriormente aumentate dalle retroazioni positive. E quasi impossibile perché persino per avere una possibilità del 50% di mantenere il riscaldamento al di sotto di quella soglia alquanto arbitraria, le emissioni globali di gas serra dovrebbero raggiungere il picco entro i prossimi 5 anni, più o meno, per poi crollare rapidamente per decenni: “... la soglia di 2°C non è più attuabile” [3].

Questa caduta delle emissioni dovrebbe avvenire contro le tendenze di ricchezza in aumento nelle economie in crescita e nelle popolazioni in crescita. La storia recente, anche anche con il più grande rallentamento in decenni, non ci dà speranza in quanto le emissioni globali stanno attualmente aumentando più rapidamente che mai. [2]. E' una fantasia quella di suggerire che la comunità globale sia in grado collettivamente di scegliere di raggiungere il picco e di diminuire le emissioni nei prossimi 5 anni.

La mancanza di azione non è per mancanza di conoscenza. I dati e la comprensione scientifica sono stati chiari per molto tempo e ciononostante le emissioni nell'ultimo decennio sono aumentate in misura molto maggiore che non nei decenni precedenti (fra il 2002 e il 2011 le emissioni sono aumentate da 2,5 GtCa-1 a 9,5 GtCa-1 (giga tonnellate di carbonio all'anno alla meno 1) [4]). Non c'è nulla nei dati che suggerisca che ci siamo resi conto della serietà della nostra situazione. Infatti è vero il contrario: stiamo accelerando verso il disastro più rapidamente di quanto la comunità scientifica ritenesse possibili anche solo un decennio fa.

Come scienziato, non dovrei usare parole emotive come disastro, tuttavia questo è ciò che ci aspetta – un inevitabile disastro confezionato da noi stessi. La reticenza all'interno della comunità scientifica ha probabilmente contribuito all'inerzia della nostra civiltà. Abbiamo abbastanza da dire e, soprattutto, da fare. Mentre sto scrivendo, tuttavia, il mio ufficio è calmo, mezzo vuoto. I miei colleghi sono ad una conferenza dall'altra parte del pianeta, aumentando le loro personali emissioni di carbonio e portandole fra le più alte del mondo.

I due barlumi di speranza che ho avuto fino a poco tempo fa stanno svanendo. Il primo era offerto dai ricercatori che quantificano la dote di combustibili fossili della Terra. Le loro prove suggerivano che non ci fossero riserve disponibili per perturbare grandemente il sistema climatico [5]. Questa è la domanda alla quale ho cercato di rispondere nel mio master [6] qualche anno fa. Tuttavia, mentre l'estrazione di risorse non convenzionali continua ad ampliarsi e mentre la fusione dell'Artico libera probabilmente riserve significative a nord (secondo Colin Campbell ciò è vero solo per il gas naturale, ndt.), la speranza che questi limiti delle riserve applichino un freno significativo e tempestivo diminuisce. In secondo luogo, la crescita delle nostre emissioni è collegata alla nostra crescita economica. Senza una domanda in aumento da parte una popolazione ricca in aumento, le riserve di idrocarburi rimarrebbero inutilizzate.

La minaccia di un collasso economico, nel nostro caso collegato a debiti inutilizzabili, è famigliare e sembra plausibile almeno per le economie occidentali sviluppate. Esattamente tre anni fa ho scritto sul blog, con le prove, circa il picco delle emissioni del 2008 indotto dall'economia. L'economia globale sì è rivelata di gran lunga più resiliente di quanto pensassi. In ogni caso, se le economie occidentali collassassero, i quattro quindi restanti della popolazione mondiale è improbabile che abbiano bisogno di chiedere due volte prima di prendere approfittare di ogni allentamento nella fornitura di idrocarburi e tentare di riavviare la traiettoria di crescita dalle emissioni.

Il tempo della speranza è finito. E' semplicemente illogico continuare a credere che le pericolose proiezioni climatiche future possano essere mitigate da accordi nazionali ed internazionali o per mezzo di un'azione pro-attiva. Ora dobbiamo considerare una vita in un mondo di 4°C più caldo, descritto qui in un rapporto della Banca Mondiale (qui l'articolo di presentazione tradotto in italiano, ndt.) [7] . La nostra civiltà globale sembra che stia per affrontare un periodo di declino prolungato. Molto probabilmente questo sarà dovuto agli impatti dannosi del cambiamento climatico ma se, contro le previsioni, venissimo risparmiati dagli impatti climatici peggiori, ciò sarebbe da attribuire solo al declino causato dalla carenza energetica paralizzante o al collasso economico. Non c'è un modo facile per scendere per la nostra popolazione di 7 miliardi di abitanti, avviata ai 9 miliardi, non dal livello che abbiamo raggiunto ora.

La prima metà del ventunesimo secolo rappresenta probabilmente un nuovo picco della civiltà umana, la prima civiltà realmente globale, che eclissa i numerosi picchi precedenti della nostra specie. Da qui, ora possiamo solo sperare che i costi dell'essere saliti così in alto non saranno così disastrosi da negare ai nostri futuri discendenti i loro trionfi.

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[1] PriceWaterhouseCoopers, November 2012.
[2] Peters, G. P., Marland, G., Le Quere, C., Boden, T., Canadell, J. G. & Raupach, M. R. 2012. Rapid growth in CO2 emissions after the 2008-2009 global financial crisis. Nature Climate Change, 2, 2-4.
[3] Anderson, K. & Bows, A. 2012. A new paradigm for climate change. Nature Climate Change, 2, 639-640.
[4] Boden, T.A., G. Marland, and R.J. Andres. 2012. Global, Regional, and National Fossil-Fuel CO2 Emissions. Carbon Dioxide Information Analysis Center, Oak Ridge National Laboratory, U.S. Department of Energy, Oak Ridge, Tenn., U.S.A. doi 10.3334/CDIAC/00001_V2012
[5] Nel, W. P. & Cooper, C. J. 2009. Implications of fossil fuel constraints on economic growth and global Warming. Energy Policy, 37, 166-180.
[6] Vernon, C., Thompson, E. & Cornell, S. 2011. Carbon dioxide emission scenarios: limitations of the fossil fuel resource. Procedia Environmental Sciences, 6, 206-215.
[7] Potsdam Institute for Climate Impact Research and Climate Analytics, November 2012. Turn Down the Heat: why a 4C warmer World Must be Avoided. Report for the World Bank.

domenica 16 dicembre 2012

Cambiamento Climatico: confessioni di un picchista

Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Il picco del petrolio potrebbe essere arrivato o arrivare presto, ma questo non ha fermato le emissioni di CO2 nel loro incremento e il cambiamento climatico dall'andare avanti più veloce che mai. Questo potrebbe rendere presto il problema del picco del petrolio irrilevante. Ecco una visione personale di come sono arrivato ad essere un picchista che è più preoccupato del cambiamento climatico che del picco del petrolio (Immagine da The Daily Kos).


Nel 2003 ho assistito alla mia prima conferenza sul picco del petrolio, a Parigi. Era tutto nuovo per me: il soggetto, la gente, le idee. E' stato lì che ho potuto incontrare per la prima volta quelle grandi figure della vita di ASPO, l'associazione per lo studio del picco del petrolio. Ho incontrato Colin Campbell, Jean Laherrere, Kennteh Deffeyes, Ali Morteza Samsam Bakthiari e molti altri. E stata una di quelle esperienze che ti segnano la vita. 

A Parigi, ho imparato molto sull'esaurimento del petrolio, ma anche su un'altra materia che stava emergendo: il conflitto degli studi sull'esaurimento del petrolio con gli studi sul cambiamento climatico. Quella conferenza di ASPO ha visto l'inizio del contrasto che si sarebbe infiammato molto di più negli anni a seguire. Da un lato del dibattito c'erano i “preoccupati dal clima”. Essi erano chiaramente inorriditi nel vedere che i loro sforzi per fermare il riscaldamento globale erano minacciati da questa nuova idea: che non ci sarebbero stati sufficienti combustibili fossili per causare il danno che paventavano. Dall'altra parte i “preoccupati dall'esaurimento” si facevano chiaramente beffa dell'idea del cambiamento climatico: il picco del petrolio, dicevano, renderà tutti le preoccupazioni a questo proposito obsolete. 

La mia impressione, a quel tempo, era che la posizione dei preoccupati dal clima fosse insostenibile. Non che fossi diventato un negazionista del cambiamento climatico, assolutamente no: il meccanismo fisico del cambiamento climatico mi è sempre stato chiaro è non ho mai messo in dubbio che aggiungere CO2 in atmosfera causasse un riscaldamento. Ma la novità del concetto di picco del petrolio, la scoperta di un nuovo campo di studi, le implicazioni di un declino della disponibilità di energia, tutto questo mi portava a vedere l'esaurimento come la principale sfida che avevamo davanti. 

Questa mia impressione è durata pochi anni; non di più. Più studiavo l'esaurimento del petrolio, più mi ritrovavo a studiare il clima: i due soggetti sono così strettamente legati fra loro che non si può studiarne uno ignorando l'altro. Ho scoperto che la scienza del clima non riguarda soltanto il moderno riscaldamento globale. E' la vera rivoluzione scientifica del ventunesimo secolo. Non è niente di meno che un cambiamento radicale di paradigma su qualsiasi cosa che avviene sul nostro pianeta, paragonabile alla rivoluzione Copernicana di secoli fa. 

La scienza del clima ci da un quadro completo di come il sistema terrestre si sia gradualmente evoluto e sia cambiato, mantenendo condizioni favorevoli alla vita organica nonostante il graduale aumento della radiazione solare negli ultimi 4 miliardi di anni. E' un equilibrio delicato che dipende da molti fattori, compreso il sotterramento di grandi quantità di carbonio che erano precedentemente parte della biosfera e che, durante le ere geologiche, si sono trasformate in quelli che oggi chiamiamo “combustibili fossili”. Estrarre e bruciare combustibili fossili significa alterare lo stesso meccanismo che ci mantiene in vita. La scienza del clima è affascinante, persino bella, ma è quel tipo di bellezza che può uccidere. 

Quindi, passo dopo passo, ho chiuso il cerchio. Se all'inizio ero più preoccupato dall'esaurimento piuttosto che dal clima, ora è il contrario. Non che non mi preoccupi più del picco del petrolio, so molto bene che ci troviamo in problemi seri con la disponibilità non solo di petrolio, ma di tutte le risorse minerali. Ma gli eventi recenti, la fusione della calotta polare artica, gli uragani, le siccità, gli incendi e tutto il resto, mostrano chiaramente che il problema climatico sta aumentando di velocità e sta prendendo una dimensione che era totalmente inaspettata solo pochi anni fa. 

Il cambiamento climatico è un problema gigantesco. Fa impallidire il picco del petrolio in tutti i suoi aspetti. Sappiamo che gli esseri umani hanno vissuto migliaia di anni senza usare i combustibili fossili, ma non hanno mai vissuto in un mondo dove l'atmosfera conteneva 400 parti per milione di CO2 – che stiamo per raggiungere e superare. Non sappiamo nemmeno se sarà possibile per gli esseri umani sopravvivere in un mondo simile. 

Ad oggi, il picco del petrolio non sta risolvendo il problema del cambiamento climatico, lo sta peggiorando, perché spinge l'industria ad usare risorse sempre più sporche, dalle sabbie bituminose al carbone. Forse in futuro vedremo un declino nell'uso degli idrocarburi e di conseguenza dell'emissione di gas serra. Ma, se continuiamo su questa strada, il picco del petrolio sarà solo un piccolo sobbalzo nel cammino verso la catastrofe. 







sabato 15 dicembre 2012

Bicentenario della ritirata di Russia

Bicentennial of Napoleon's retreat from Russia


Duecento anni fa, il 14 Dicembre 1812, gli ultimi soldati francesi lasciavano la Russia dopo una disastrosa ritirata in un inverno gelido. Napoleone aveva marciato verso Mosca con quasi mezzo milione di soldati; solo 100.000, o forse soltanto 25.000, tornarono a casa.

In un certo senso, Napoleone era stato sconfitto per non aver compreso il potere del clima sulle attività umane. Più che altro, tuttavia, è stato un disastro causato dalla stupidità, avidità e ignoranza umana.

Sfortunatamente, in duecento anni non sembra che abbiamo imparato molto dai nostri errori. Non è un buon segno per quello che ci aspetta nel futuro.

venerdì 14 dicembre 2012

Il futuro dell'energia

Guest post di Giorgio Nebbia

La Gazzetta del Mezzogiorno, martedì 27 novembre 2012

Il futuro dell’energia


Giorgio Nebbia nebbia@quipo.it

Come in tutti i periodi di crisi e di grandi mutamenti economici e sociali tutti cercano di formulare previsioni: i governi, le imprese (che cercano di capire che cosa e come produrre), le banche (che sono preoccupate per i soldi che dovranno prestare a governi e imprese), le compagnie di assicurazioni (preoccupate per i soldi che dovranno versare per risarcire catastrofi e errori). Così da alcuni anni a questa parte si moltiplicano le previsioni dei consumi e fabbisogni energetici, dal momento che tutti i fenomeni economici richiedono energia: per produrre acciaio, per scaldare le case, per far camminare le automobili, per ottenere patate e grano, eccetera.

Le previsioni sono in genere estese a periodi fra il 2025 e il 2035, più in la ben pochi si azzardano ad andare. Tutti più o meno concordano nel fatto che la popolazione umana aumenterà dagli attuali 7000 milioni di persone a un numero intorno a 8500 milioni di persone verso il 2030. Queste persone avranno bisogno di varie cose irrinunciabili: alimenti, prima di tutto, metalli, cemento, acqua e inevitabilmente produrranno crescenti quantità di rifiuti. Le previsioni concordano su un crescente fabbisogno di energia e si tratta piuttosto di immaginare da dove trarla.

La richiesta annua di energia oggi, 2012, si aggira nel mondo intorno a circa 12.000 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), un valore che corrisponde all’energia “contenuta” in circa 4300 milioni di tonnellate di petrolio, più circa 5000 milioni di tonnellate di carbone, più circa 3000 miliardi di metri cubi di gas naturale, più l’elettricità fornita dalle centrali idroelettriche e nucleari e da un po’ di fonti rinnovabili. Le previsioni per il 2030 si aggirano intorno ad un fabbisogno di 16.000 milioni di tep all’anno. Le miniere di carbone contengono ancora riserve abbastanza grandi di questo combustibile fossile solido, ma la sua estrazione è pericolosa e il suo uso inquinante, anche se è quello che costa meno, per unità di energia fornita, tanto che il suo uso sembra destinato ad aumentare.

Peggiore è la situazione del petrolio, l’unico che fornisce i carburanti liquidi indispensabili per tenere in moto i novecento milioni di autoveicoli di oggi che diventeranno oltre 1500 milioni nel 2030. I grandi giacimenti mondiali di petrolio si stanno più o meno rapidamente impoverendo. Per soddisfare una crescente richiesta mondiale di petrolio, stimata di circa 5000 milioni di tep all’anno nel 2030, le previsioni contano sui giacimenti sottomarini a profondità sempre maggiori e in mari sempre più profondi e sulle tecniche, peraltro molto inquinanti, che permettono di estrarre il petrolio dalle rocce e sabbie che ne sono impregnate nel sottosuolo; alcuni prevedono che, sfruttando queste difficili risorse petrolifere, gli Stati Uniti potrebbero soddisfare i propri crescenti fabbisogni e addirittura diventare esportatori di petrolio.

Le promesse dell’energia nucleare sembrano definitivamente svanite; un poco potrebbe aumentare l’elettricità ottenuta da grandi centrali che utilizzano il moto delle acque; qualcosa potrà venire dal Sole e dal vento. L’uso di tutta questa energia farà aumentare i gas che finiscono nell’atmosfera per cui la temperatura “media” della Terra potrebbe aumentare in venti anni fra 2 e 4 gradi Celsius, con catastrofici effetti sul clima futuro.

E l’Italia ? Negli anni settanta del secolo scorso, dopo la prima grande crisi energetica, sono stati fatti vari Piani Energetici Nazionali, rivelatisi tutti sbagliati nelle previsioni e nei rimedi suggeriti. Poi nell’ultimo ventennio si è vissuti alla giornata e solo in questo 2012 il governo ha finalmente formulato una Strategia Energetica Nazionale (SEN)(il termine “piano” è stato evitato perché sembra porti sfortuna): i consumi totali di energia dovrebbero restare costanti fino al 2030. Dovrebbero diminuire le importazioni di petrolio da circa 65 a circa 45 milioni di tonnellate all’anno con un aumento dell’estrazione da nostri giacimenti terrestri e sottomarini, da circa 5 a circa 12 milioni di tonnellate all’anno. Alcuni critici si chiedono se davvero esistano riserve nazionali di questo genere ancora da sfruttare e quali sarebbero gli effetti ambientali. Gli attuali giacimenti italiani di gas naturale si stanno esaurendo: il SEN prevede tuttavia una ripresa della produzione nazionale da nuovi giacimenti, al fianco di ancora rilevanti importazioni.

Le importazioni di carbone dovrebbero restare stazionarie intorno a 20 milioni di tonnellate all’anno. La produzione di elettricità dovrebbe restare più o meno costante fino al 2030, fra 300 e 320 miliardi di chilowattora all’anno: dovrebbe raddoppiare la produzione di elettricità dai rifiuti (la moltiplicazione degli inceneritori non è una buona prospettiva) e dovrebbe aumentare molto l’elettricità da impianti fotovoltaici solari. Dovrebbero restare più o meno costanti i consumi energetici finali nell’industria, nelle abitazioni, nei trasporti e dovrebbero diminuire un poco le emissioni annue di gas serra. Come mai si parla così poco di documenti da cui dipendono la vita e il lavoro futuro di tutti noi ?
 

giovedì 13 dicembre 2012

Gli Stati Uniti primi produttori mondiali di petrolio nel 2017?

Di Matthieu Auzanneau.
Da “The Oil Man”. Traduzione di Massimiliano Rupalti



Il potenziale di sviluppo dei petroli da scisto appare incerto.

La  produzione americana di greggio sorpasserà quella dall'Arabia Saudita nel 2017, annuncia l'Agenzia Internazionale Per l'Energia (IEA) nel suo rapporto annuale, reso pubblico il 12 novembre. Grazie al boom dei petroli da scisti, l'industria americana dell'estrazione del greggio sarà in grado di diventare la prima nel mondo.

La rinascita della produzione degli Stati Uniti, iniziata nel 2007, permetterà a Zio Sam di reinsediarsi sul suo trono di re del petrolio, perduto a vantaggio dell'Arabia Saudita dopo l'inizio del declino della produzione americana nel 1971. A condizione che questa rinascita perduri.

Il Nord America (Stati Uniti e Canada) giungerà prossima a tornare esportatrice netta di greggio da qui al 2030, Prevede la IEA. Un'evoluzione suscettibile di ridistribuire le carte della geopolitica mondiale come mai dopo la caduta del muro di Berlino. Secondo Fatih Birol, capo economista della IEA, ”le fondamenta del sistema energetico mondiale sono in movimento”. L'annuncio della IEA ha generato molto rumore.

In Francia, Dominique Seux, editorialista a Echos, approfitta dell'occasione e del suo pubblico di circa 1,6 milioni di ascoltatori della fascia mattutina di France Inter per chiedere ad Hollande che si “liberi dei Verdi” ed autorizzi  lo sfruttamento dei gas e dei petroli da scisto dell'Esagono. Dominique Seux sottolinea che gli Stati uniti “si riavvicineranno all'indipendenza energetica”. La prima economia del mondo ha, tuttavia, un po' di strada da percorrere. Nel 2011, gli Stati Uniti hanno estratto 7,8 milioni di barili di greggio al giorno (Mb/g), ai quali si aggiungono [tavola 4a] 1 Mb/g di biocombustibili: in totale, la produzione americana di petrolio (e dei suoi diversi sostituti e sottoprodotti) hanno raggiunto i 10,9 Mb/g e quindi è già quasi pari a quella della Russia e dell'Arabia Saudita. Tuttavia, oggi nel 2012, gli Stati uniti hanno consumato 18,8 milioni di barili al giorno. La ripresa attuale della produzione americana di petrolio rimane non meno “spettacolare”, secondo l'espressione usata nel rapporto della IEA.

Fino a quando si potrà prolungare la ripresa della produzione americana di oro nero? Miracolo o miraggio?


Le stime della IEA sono in linea con quelle del dipartimento dell'Energia americano, che ha previsto che dall'anno prossimo, la produzione americana totale di carburanti liquidi (biocombustibili compresi) raggiungerà gli 11,4 Mb/g, superando la produzione di greggio dell'Arabia Saudita (11,6 Mb/g; attesi). Primo ridimensionamento: Le proiezioni della IEA, come quelle del dipartimento dell'Energia americano, aggiungono alla produzione di petrolio quella del gas naturale liquido (in inglese NGL per Natural Gas Liquid). Gli NGL, essenzialmente del propano, non possono, nella maggior parte dei casi, sostituire il petrolio. In particolare, soltanto un terzo degli NGL possono essere usati come carburanti per motori. Se si escludono questi NGL, la produzione americana di petrolio greggio in senso stretto non va oltre i 6,2 Mb/g, mentre quella dell'Arabia Saudita arriva a 9,9 Mb/g. Secondo Chris Nelder, un esperto di petrolio americano, dire che la produzione americana arriverà presto ad eguagliare la produzione saudita “è come dire che un latte macchiato contiene la stessa quantità di caffè di un espresso doppio”.

Il cuore del problema adesso: quanto tempo potrà andare avanti il boom della produzione di petrolio da scisti negli Stati Uniti?

La produzione di petrolio da scisti si sviluppa oggi essenzialmente nello stato del nord Dakota, sulla formazione geologica di Bakken. La corsa verso il Nord Dakota, uno Stato freddo ed isolato alla frontiera col Canada, attratto numerosi giornalisti. Curiosamente, ben pochi colleghi hanno studiato il caso dello Stato americano vicino del Nord Dakota, sotto il quale si estende a sua volta la formazione di Bakken e dove l'estrazione di petroli da scisto è più antica: il Montana. La produzione di petrolio da scisti dello Stato del Montana declina dal 2006, dopo aver superato un picco di poco superiore ai 100.000 barili al giorno.


Questo grafico ed il seguente sono stati pubblicati da Kate Mackenzie, del blog  "Alphaville", sul sito del Financial Times.


Il  declino dei petroli da scisto del Montana è stato rapido. Pertanto, dopo il 2006, il nome dei pozzi non ha cessato di crescere, sottolinea Bob Brackett, un analista del gabinetto del Bernstein Reserch, autore di uno studio sul potenziale di sviluppo della fromazione di Bakken.
Bob Brackett ha dato una spiegazione al declino del Montana famigliare, per i lettori di 'Oil Man', in un'intervista pubblicata in luglio:

”I siti dove si trovano le risorse offrono delle aree di perforazione limitate/finite. Le aree migliori vengono perforate per prime, le meno redditizie in seguito. (…) L'industria ha perforato i 'frutti' a portata di mano e non ha più accesso a delle opportunità della stessa qualità”.

Il profilo tipico dei pozzi di petrolio da scisto si caratterizza da un declino quasi immediato ed estremamente rapido delle estrazioni:


La fratturazione della roccia non permette di liberare gli idrocarburi se non in un perimetro ristretto. Mantenere una produzione elevata implica dunque l'aumento costante del numero dei pozzi (come lo abbiamo già spiegato qui). La produzione di petrolio da scisto rende necessario perforare da dieci a cento volte di più che per il petrolio convenzionale, come indica la direzione del gruppo francese Total. Bastano circa sei anni, come si vede nel grafico qui sotto, perché un pozzo della formazione di Bakken si ritrovi quasi esaurito, diventando ciò che nel gergo dell'industria si chiama uno “stripper”, cioè un pozzo molto poco produttivo. Per il momento, la formazione di Bakken conta 200 stripper, fra i suoi pozzi recenti. Fra dieci anni, secondo Brackett, se ne dovrebbero avere 4000, diventando la maggioranza dei pozzi perforati dall'inizio del boom nel 2006. Le risorse accessibili nel Nord Dakota appaiono nettamente più importanti di quelle che sembra si stiano esaurendo nel vicino Montana.  


Bob Brackett descrive tuttavia la natura della trappola che si potrebbe serrare sulla speranza di un rinascimento della produzione americana di oro nero:

Tutte le cose buone hanno una fine. Nel caso del Nord Dakota, questa fine non avrà luogo prima di qualche anno, ma seguirà lo stesso destino” (del Montana).

La produzione dovrebbe ancora aumentare nel Nord Dakota. Ma anche i costi di produzione, con risultati necessariamente sempre più mediocri. L'industria americana dell'estrazione di petrolio da scisto ha intrapreso una corsa sempre più veloce su un tapis roulant esso stesso sempre più veloce ma al contrario. Caldo! (Non parlerò dell'impatto sul clima). Il dipartimento dell'Energia americano considera, tutto sommato, una progressione relativamente modesta della produzione totale risultante dai giacimenti compatti: meno di 1,5 Mb/g come picco, situato prima del 2030, contro circa gli 0,6 Mb/g di oggi, secondo lo scenario di riferimento. Niente che, in sé, possa cambiare radicalmente quella che è la dipendenza energetica americana.

Fonte : Energy Information Administration (EIA), 2012. "EUR" : Estimated Ultimate Recovery. "TRR" : Technically Recoverable Ressources, un concetto “altamente incerto”, secondo gli autori (cf. p. 56).

Gli esperti della IEA stessi ammettono che sono lontani dall'avere una certezza assoluta del loro pronostico, il quale è stato reso 'il' pronostico un po' ovunque nella stampa economica. 

Fatih Birol, il capo economista della IEA, si da la pena di sottolineare che la geologia e le prestazioni dei giacimenti compatti negli Stati Uniti sono ancora “poco conosciuti” e che non è certo che delle nuove riserve siano accessibili in quantità sufficiente per mantenere la produzione nel futuro, riporta il Financial Times. L'Arabia Saudita potrebbe rimanere il primo produttore mondiale nel 2020, ha ammesso Fatih Birol in un'intervista telefonica.

I petroli da scisto giocheranno lo stesso ruolo di Big Oil del petrolio dell'Alaska? Lanciata fra i due shock petroliferi degli anni 70, la produzione dell'Alaska doveva permettere, secondo i suoi promotori di allora, di affrancare gli Stati Uniti dalla dipendenza dall'OPEC. Dieci anni dopo la sua messa in produzione, il greggio dell'Alaska si avviava al declino:


Ultima nota (per ora) su questa nuova uscita del World Energy Outlook della IEA – la cui precedente uscita aveva confermato che il picco del petrolio convenzionale  - 80% della produzione di greggio mondiale – è stata raggiunta nel 2006: sullo stesso grafico dove si vede la produzione futura degli Stati Uniti superare ipoteticamente quella dell'Arabia Saudita nel 2017, si nota che la IEA si aspetta che quella della Russia, attualmente secondo produttore mondiale, si avvii ad un lento declino a partire dal 2015. 


Avremo sicuramente l'occasione di riparlarne...











martedì 11 dicembre 2012

Come NON comunicare al pubblico il problema climatico





Il meglio che si possa di questo clip è che è carino e ben confezionato. Ma come efficacia comunicativa non ci siamo proprio.

Esaminiamolo. Ci mostra all'inizo una coppia impegnata in normali attività in cucina. Le immagini si soffermano sul fatto che lei accende un fornello a gas e poi sul buttare i rifiuti nel secchio della spazzatura. Sono quelli i problemi? No, perché a un certo punto non si parla più di rifiuti e nemmeno di fornelli a gas. Invece arriva un black-out che costringe i protagonisti ad accendere una candela. A questo punto, viene fuori un orso polare che mostra ai due qualcosa che sembrerebbe la loro bolletta elettrica - cosa che li fa urlare di dolore. Dopodiché, appare un'esortazione che dice "il clima sta cambiando - dobbiamo cambiare le nostre abitudini, e risparmiare energia, altrimenti la temperatura globale aumenterà di sei gradi centigradi"

Lodevole, ma tutta la faccenda non ha una concatenazione logica, se non attraverso una serie di passaggi complicati che la maggior parte degli spettatori non saranno certamente in grado di fare. Cosa c'entrano i rifiuti con i black-out? Cosa c'entra il fornello a gas con i black-out? Cosa c'entrano i black-out con il cambiamento climatico? Cosa c'entra l'orso polare con la bolletta elettrica della famiglia?

E poi: dobbiamo risparmiare energia per evitare i black-out? Oppure la dobbiamo risparmiare per pagare una bolletta meno salata? Oppure, ancora, per ridurre il riscaldamento globale? Oppure per aiutare gli orsi polari?

E infine: lo spot ci dice che dovremmo cambiare le nostre abitudini, ma in che modo? Stando al buio con la candela accesa? Adottando un orso polare? O come, esattamente? 

Insomma, una gran confusione di idee e concetti affastellati l'uno sull'altro per un tentativo interessante, ma che fallisce nei suoi obbiettivi e risulta poco comprensibile a chi non è già dentro la materia.

Se vogliamo comunicare l'urgenza di agire contro il cambiamento climatico, dobbiamo cercare di fare molto meglio di così. Altrimenti, non lamentiamoci se il pubblico non capisce qual'è il problema e non lo ritiene importante.