martedì 28 dicembre 2021

Contadini: stritolati da media, finanza e industria.

 Di Silvano Molfese

 

La centrale termoelettrica a biomasse di Laino (CS), nel 2016 ha ricevuto 39 milioni di incentivi pubblici per bruciare 340 mila tonnellate di alberi. (1) 

 In Italia da molti anni in qua sui media, quando si parla di agricoltura, ci si riferisce frequentemente a qualche prodotto di nicchia impreziosito magari da una confezione infiocchettata, per aumentarne il prezzo: per contadini e agricoltori che annaspano con i ricavi, è diventato quasi l’unico modo per ripagare il proprio lavoro e gli altri costi di produzione.

In questo contesto culturale c’è chi confonde l’agricoltura con l’industria come capitò a chi scrisse “L’agricoltura inquina più delle automobili” (https://laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2016/01/08/news/l-agricoltura-inquina-piu-delle-automobili-1.12745660) quando in realtà si trattava di centrali termoelettriche a legna (biomasse) che trasformano l’energia chimica del legno in energia elettrica: tali centrali fanno parte a tutti gli effetti del settore industriale.

Scrivere che bruciare legna per ottenere energia elettrica è agricoltura, è come dire che fabbricare guanti in cuoio è attività zootecnica. Con ciò non si vuole escludere che l’agricoltura possa inquinare.  (*)

Vediamo come influisce l’industria finanziaria sull’agricoltura. Nel documentario "I signori dell'acqua", trasmesso su Rai 2 (il 2 ottobre 2020, ore 22,55), si mettono in evidenza i danni che il mondo della finanza ha arrecato al settore primario: un esempio ci viene dall’Australia dove, in seguito alle speculazioni di borsa “migliaia di agricoltori e allevatori sono finiti sul lastrico: l’acqua si compra, per quote, con una valutazione di 500 dollari per megalitro (un milione di litri d’acqua). Come viene spiegato non si compra o si vende acqua materiale, ma il diritto a prelevarla e utilizzarla. In un paese che sta soffrendo una siccità mai conosciuta prima a causa del cambiamento climatico.” (https://www.watergrabbing.com/i-signori-dellacqua/)

Nel XX secolo anche in agricoltura è stata impiegata diffusamente la meccanizzazione per ridurre i tempi di lavoro: se per coltivare un ettaro di grano agli inizi del ‘900 erano necessarie circa mille ore di lavoro all’anno, attualmente si impiegano circa venti ore soltanto!

Nello stesso periodo si è fatto largo uso di concimi di sintesi e di pesticidi pensando di aumentare le rese e senza considerare i deleteri effetti sulla biosfera.

La grande industria, nonostante tutti gli forzi di adattamento sostenuti dagli agricoltori, esercita una concorrenza spietata e altre forme di pressione, nei confronti dei prodotti agricoli.

Queste grandi imprese cercano di proteggere i loro affari con attività lobbistiche condizionando le scelte governative: negli USA per esempio, durante l’111° Congresso, l’industria dei combustibili fossili spese ben 347 milioni di dollari per attività lobbistiche e contributi alla campagna elettorale a fronte dei quali il governo stanziò circa 20,5 miliardi di dollari per sovvenzionare questo comparto industriale. (2)

Fino ad alcuni decenni fa il vestiario era fatto a partire da fibre naturali (come cotone, lana, lino, ecc.) che sono state largamente sostituite con fibre sintetiche derivate da petrolio.

Sicché nella biosfera si trovano microplastiche in quantità sempre maggiori che risultano molto dannose per i viventi uomo incluso.

Purtroppo oltre al costoso danno ambientale per tutti, c’è la beffa per gli allevatori: mentre una volta la lana era molto apprezzata (un kg di lana valeva quanto un kg di olio) ora, in base alle leggi vigenti, è considerata rifiuto speciale.

Paradossalmente la lana, che da tempo immemore fa parte del ciclo della biosfera, è considerata da qualche anno pericolosa per la biosfera stessa!

Per farla breve gli allevatori annualmente per tosare una pecora perdono 2,25 € per la tosa. Se la lana avesse mantenuto il valore di tanti decenni fa, l’allevatore avrebbe avuto un incasso netto equivalente ad almeno 10 € a capo (**)

Le industrie petrol-chimiche hanno immesso cosi tanta plastica nella biosfera che non solo vestiamo ma respiriamo, mangiamo e beviamo plastica.

Un altro aspetto che ha influito sull’industrializzazione agricola, dopo la II guerra mondiale, è legato alla conversione di diversi comparti dell’industria bellica ad usi civili. Un esempio è il nitrato di ammonio, usato come esplosivo, che è stato largamente utilizzato in agricoltura a partire dall’ultimo dopoguerra: i milioni e milioni di quintali sparsi sui suoli agricoli di tutto il mondo negli ultimi cinquanta anni, hanno indotto eutrofizzazione, alterazione del ciclo dell’azoto e spreco di energia. Quando è noto che l’inserimento delle leguminose nella rotazione agraria e le letamazioni, sono più che sufficienti a ripristinare i livelli di azoto nel terreno coltivato.  (https://ilblogdellasci.wordpress.com/2013/05/02/molecole-a-due-facce/)

(L’ultimo gravissimo incidente con il nitrato di ammonio si è verificato il 4 agosto 2020 nel porto di Beirut.)

 Una volta l’Italia, per il suo variegato paesaggio agrario, era considerata il giardino d’Europa: con la meccanizzazione gran parte dell’ambiente rurale è stato stravolto. Inoltre il passaggio dall’agricoltura all’industria agricola ha comportato l’espulsione dal mondo rurale di milioni di contadini in pochi decenni e la perdita di saperi, cultivar e numerose razze di animali domestici.

 

Note

(*) - Inquinamento: alterazione in senso sfavorevole dei caratteri fisici, chimici o

        biologici dell’ambiente naturale, causata dalle attività umane. (dal Dizionario

        enciclopedico dei termini scientifici - BUR Dizionari Rizzoli, 1990)

 

(**) – La lana prodotta annualmente da una pecora varia da un paio di kg fino a 8 – 10 kg ed anche di più: ho considerato una media di 5 kg di lana ed il costo della tosa pari a 2,5 € per capo; l’azienda che smaltisce la lana paga all’allevatore 0,05 € per ogni kg di lana conferito (questi dati in base a quanto riferitomi da un allevatore); ho considerato 2,5 €/kg il prezzo al produttore dell’ olio vergine di oliva.

 

(1) - Laghi F. - intervento al webinar “Biomasse forestali ad uso energetico: impatto su clima ambiente e salute.” del 25 marzo 2021 dal 29° al 47° minuto  (https://www.facebook.com/gufitalia/videos/524323588552842/)

 

 (2) - Musolino E., Auth K. 2014 – Governance climatica e maledizione delle risorse.

State of the world 2014,  Edizioni ambiente, 205-213

sabato 18 dicembre 2021

Scienza, boschi, orsi e nuvole

Miguel Martinez racconta l'incontro di qualche giorno fa a Firenze con la scienziata Russa Anastasiya Makarieva. Dal blog "Kelebek".

di Miguel Martinez


Ieri sera al tramonto, un gran freddo, le nuvole rosse scure a ovest. E la luna mezza, sopra i cipressi neri a destra, che si stagliano contro il fuoco del sole morente.

Sotto Bellosguardo, quel muretto silenzioso dove a volte cammina un gatto nero, e a sinistra puoi vedere la neve sui monti, e sotto la città con sopra la vecchia nemica, Fiesole…

Saliamo verso Martignolle, e Marco mi recita i versi del poeta folle, Dino Campana:

Al giardino spettrale al lauro muto

De le verdi ghirlande

A la terra autunnale

Un ultimo saluto!

Camminando tra i muri silenziosi che nascondono i segreti di una città occulta, arriviamo alla villa dell’antica famiglia.

Da un capo della grande sala, ci guarda Abramo in un quadro settecentesco, mentre si appresta a sacrificare Isacco; dall’altro capo, ci guarda in ritratto l’avo della famiglia, e ha la stessa barba e lo stesso sguardo (e fede) di Abramo. E tra i due, la menoràsulla credenza di legno che porta incisa la data MDCXXXVII.

Ci siamo riuniti per ascoltare Anastasija Makarieva, capelli neri, occhi azzurri a mandorla e zigomi alti, dell’Istituto di Fisica Nucleare di San Pietroburgo. Un ente erede di quell’altra metà del mondo, che non solo riusciva a costruire dal nulla bombe atomiche sovietiche, ma esplorava mondi sconosciuti agli occidentali.

Anastasija (con l’accento sulla “i”) non si occupa affatto di bombe atomiche, ma di boschi.

Tutti abbiamo sentito parlare dei boschi dell’Amazzonia, ma non si parla mai di quelli forse ancora più grandi che vanno dal Baltico al Pacifico.

Ora, da laureato in lingue orientali che fa fatica a distinguere un frassino da un olmo, che non ha preso appunti, e va a memoria, provo a raccontarvi, eventuali scemenze sono solo mie…

Si dice che stiamo vivendo un’immensa crisi ambientale, legata alle emissioni di CO2 con relativo riscaldamento globale; e che bisogna ridurre quindi tali emissioni.

Che ha però un sottinteso enorme: se il problema è troppo CO2, riduciamo il CO2 anche al costo di una strage, fine del problema. La guerra contro il cambiamento climatico è tutto lì.

Gli scienziati di San Pietroburgo non negano affatto la questione delle emissioni, ma dicono che c’è un altro fattore, che forse è anche più importante, che ci sta portando verso la catastrofe climatica.

Se esiste la vita, esiste perché esiste la biosfera; e la biosfera è intimamente legata a qualcosa che i russi chiamano la pompa biotica.

Gli alberi sono macchine in apparenza straordinariamente incompetenti: disperdono il 90% (cito a memoria) dell’acqua che assorbono nell’atmosfera.

Ma gli alberi della costa colgono la poca acqua che il mare manda sulla terra; solo loro, grazie all’evapotraspirazione, riescono a far salire ciò che per sua natura scende. Emettendo non solo acqua, ma anche altre sostanze che permettono all’acqua di condensarsi, formano le nuvole, e attraverso vari meccanismi molto complessi – che si affiancano a quelli noti alla meteorologia – creano i venti, che portano l’umidità all’interno.

E permettono quindi la vita nei continenti, e generano i fiumi.

Quindi, la vita sulla terra dipende dal mondo dei boschi.

Ma non basta piantare milioni di alberi a caso, come vorrebbero fare i tecnoverdi.

Anastasija ci racconta degli abeti, piantati in massa all’inizio del Novecento, in Boemia, che oggi sono stati infestati e distrutti in poco tempo dai parassiti, perché non esiste alcuna varietà; del problema degli alberi coevi – la pompa biotica funziona davvero solo quando c’è l’insieme di alberi di tante generazioni, con tutto l’ecosistema circostante.

E un artista americano che ci ascolta racconta di un suo amico, che per ricreare un bosco, prese con grande lentezza l’humus di un bosco ancora intatto, con tutta la sua varietà.

Siberia e Amazzonia sono i due poli forestali del mondo, nella loro immensa diversità.

Ma per qualche motivo, la Siberia che stanno svendendo alle multinazionali dell’industria del legname, non sembra interessare a nessuno.

“Sono stata solo due volte in Siberia”,

ammette Anastasija.

“Ma ogni anno io e il mio compagno ci accampiamo in una tenda, sulla costa del Mare Bianco.

Una volta abbiamo visto un orso. Da molto lontano… allora ci siamo avvicinati.

Ce lo siamo trovati davanti, e allora ho sentito dentro di me, quello che l’orso pensava dentro la sua testa: era arrivata la fine!

Ha guardato un’ultima volta il mare, poi si è girato, cercando di far vedere il meno che potesse del suo profilo. E poi improvvisamente, ha raccolto tutte le sue forze, ed è scappato nel bosco!”

E ci regala la foto del gufo, visto su un albero molto, molto a nord, con cui apriamo questa storia.


domenica 12 dicembre 2021

Ma che cosa significa per la scienza avere a che fare con i "sistemi complessi" ?


Una "stick bomb" fatta con degli stecchetti tipo quelli del gelato. Questo arnese ha un comportamento non lineare, tipico dei sistemi complessi. Dimostra che un sistema non deve necessariamente essere complicato per essere complesso. (UB)


di Fabio Vomiero

Che si stesse vivendo un periodo di grande fermento e fecondità nell'ambito di tutta quella ricerca scientifica che si occupa principalmente dello studio della cosiddetta "complessità", era cosa abbastanza nota ed evidente già da tempo, tanto che il Nobel per la fisica assegnato a Giorgio Parisi per i suoi studi sui vetri di spin e su altri sistemi complessi e agli altri due fisici dell'atmosfera per le loro ricerche sulla modellistica del clima, non costituisce affatto una sorpresa.

E' oramai da qualche decina d'anni, infatti, che anche la scienza, così come tutte le attività umane, si è venuta a trovare nel mezzo di un rapido processo di evoluzione e di maturazione che l'ha portata ad essere oggi un qualcosa di molto diverso da quello che era soltanto qualche anno o secolo fa, avendo spostato gradualmente il proprio interesse dallo studio dei sistemi fisici classici (meccanica, termodinamica, elettromagnetismo) allo studio dei sistemi appunto complessi che riguardano più concretamente la vita di tutti i giorni, ecosistemi, sistemi biologici, sociali ed economici, clima, per esempio. Vi è pertanto la fondata sensazione che lo studio della complessità abbia inaugurato veramente una sorta di nuova stagione scientifica dopo quelle della fisica relativistica e quantistica, e che di conseguenza le tre principali assunzioni tipiche della fisica classica, riduzionismo, determinismo e reversibilità siano venute definitivamente meno.

Ma che cosa si intende, allora, quando in ambiente scientifico si parla di complessità e di sistemi complessi.

Naturalmente, come spesso accade anche nel caso di molti altri concetti particolarmente difficili da esplicare, come per esempio quelli di vita, evoluzione biologica o coscienza, non esistono mai delle definizioni univoche, si tratta pertanto di riuscire a fornire eventualmente dei quadri teorici e concettuali che possano essere almeno il più possibile coerenti e operativamente utili.

Dunque, quando noi, osservatori del mondo, decidiamo di studiare un qualsiasi sistema, di fatto stacchiamo idealmente un pezzo di mondo, lo isoliamo per comodità analitica da tutto il resto e cerchiamo poi di studiarne la struttura fondamentale con la costruzione di un modello semplificato che utilizzi il linguaggio della matematica. Facciamo quindi una precisa operazione di scelta analitica delle osservabili secondo noi rilevanti e fissiamo in qualche modo il sistema per avere così la possibilità di studiarlo abbastanza efficacemente e di riuscire, il più delle volte, ad elaborare anche delle buone predizioni sull'evoluzione del sistema stesso.

Quando poi però decidiamo di studiare anche la frontiera del nostro sistema che per comodità analitica abbiamo isolato e semplificato, reinserendolo idealmente nel mondo reale in cui esiste invece una stretta relazione dinamica tra il sistema e l'ambiente (e con altri sistemi), ecco che allora quasi sempre il nostro sistema diventa complesso. L'ambiente infatti è in continuo mutamento e pertanto questo nuovo grado di relazione sarà in grado di generare un continuo scambio di materia, energia e informazione tra il sistema e l'ambiente, tale da riuscire a modificare anche la configurazione e il comportamento del sistema stesso che a quel punto, per poter essere ancora studiato efficacemente, avrà bisogno di altri modelli e di altre rappresentazioni.

Ebbene, questo processo di comparsa di nuove strutture e di nuovi comportamenti in un sistema in stretta relazione con il suo ambiente si chiama "emergenza" e costituisce un concetto fondamentale nella descrizione dei sistemi complessi. In altre parole, quando in un sistema molti elementi, componenti o particelle, "collaborano" insieme, si assiste spesso a fenomeni di rottura spontanea di simmetria e all'acquisizione di caratteristiche strutturali e comportamenti collettivi "nuovi" ed imprevedibili, che poi dovranno essere descritti con variabili e parametri diversi da quelli utilizzati per il sistema iniziale. Ne consegue che la peculiarità fondamentale di un sistema complesso è quindi quella di evolvere in maniera non lineare e sostanzialmente impredicibile, il che significa che questi sistemi non potranno più essere chiaramente descritti in modo deterministico, ma soltanto in termini di probabilità ed è per questo che nell'approccio allo studio di questi sistemi sarà bene abituarsi ad acquisire una certa dimestichezza con concetti apparentemente sgraditi quali incertezza, caso, approssimazione, indeterminazione.

E' dunque abbastanza evidente come una consapevolezza epistemologica di questo tipo possa in parte scontrarsi con quell'immagine vagamente meccanicistica e positivista della scienza come calcolatrice ultima del mondo, che ancora oggi viene divulgata e insegnata nelle scuole e che, in qualche modo, fatica ad essere aggiornata, quando, in realtà, i sistemi che possiamo veramente calcolare analiticamente e prevedere nel dettaglio utilizzando la matematica, in natura sono molto pochi e molto semplici.

Per il resto, siamo costretti a ricorrere necessariamente ad altri tipi di strumenti concettuali, sperimentali e metodologici, anche di tipo congetturale e logico-inferenziale, con lo scopo di riuscire in qualche modo, in sinergia con il metodo riduzionistico classico, a fornire anche altri tipi di descrizione e a studiare altri aspetti dinamici degli stessi sistemi.

Potremmo pertanto cercare di riassumere le principali caratteristiche dei sistemi complessi in questo modo: sono sistemi aperti a flussi di materia, energia e informazione e quindi sono sensibili al contesto, possono dispiegare diversi tipi di comportamento possibile (approccio probabilistico), sono imprevedibili in dettaglio, sono soggetti al fenomeno dell'emergenza, non sono descrivibili da un unico modello formale, ma serve un approccio plurimodellistico, sono il risultato della loro storia.

Sono dunque esempi di sistema complesso i sistemi biologici e la proprietà emergente della vita, l'evoluzione biologica, i terremoti, gli ecosistemi, i sistemi cognitivi studiati dalle neuroscienze, il decorso e la cura delle malattie, la farmacocinetica, i sistemi sociali ed economici, il clima, le pandemie, ma anche semplicemente stormi di uccelli, colate di lava, applausi, aziende, vie trafficate. Oltre che naturalmente tutti quei sistemi più propriamente di competenza della fisica studiati anche da Parisi, come per esempio i vetri di spin e i processi di allineamento dei ferromagneti, i superconduttori, oppure, più in generale, le transizioni di fase.

In tutti questi casi, come in moltissimi altri, la sola descrizione dei sistemi con l'applicazione delle leggi ultime della fisica (che generalmente valgono per classi di eventi) e della rigorosa descrizione matematica centrata sui loro componenti (riduzionismo) non è più sufficiente e tende evidentemente a fallire se non si pone particolare attenzione anche alla complessità storica e locale data dai vincoli e dalle condizioni iniziali e al contorno in cui effettivamente si andranno poi a realizzare i singoli eventi.

Tutte cose concettualmente abbastanza semplici da capire e soprattutto operativamente evidenti. Si tratterebbe soltanto di riuscire finalmente a convincere anche un certo tipo di "fisicalismo" ingenuo e resistente ad aggiornarsi, magari condividendo e facendo propri alcuni principi epistemologici già peraltro operativi da tempo nel campo per esempio delle scienze biologiche.

Il che vorrebbe dire avere a che fare anche con un'idea di scienza a questo punto meno mitologica, dogmatica e autoritaria, ma invece più umile e raffinatamente di tipo "artigianale", grazie alla quale poter recuperare in qualche modo quella sua sempre più scricchiolante credibilità, uscita ancora una volta piuttosto malconcia anche dalla recente ed emblematica esperienza del Covid.




venerdì 3 dicembre 2021

Limitaristi e abbondantisti





Di Luca Pardi

Il dibattito tra limitaristi (Robeyns, 2017) e abbondantisti si trasforma periodicamente in quello tra catastrofisti e ottimisti-utopisti. I primi hanno una visione generalmente cupa della disponibilità futura di risorse mentre i secondi tendono a credere che fenomeni di penuria, sempre possibili per molte ragioni nel breve periodo, si siano rivelate inesistenti nel lungo periodo. I limitaristi- catastrofisti sono pessimisti anche per quanto riguarda la crisi ambientale e la sua rappresentazione paradigmatica: il cambiamento climatico. Gli ottimisti ribattono che il problema è amplificato da visioni ideologiche anticapitaliste e che una combinazione di tecnologia e politiche locali e globali ci trarrà dagli impicci, come è sempre avvenuto nella Storia. E il dibattito si ripete all'infinito!

C'è un Think Tank chiamato RethinkX che cerca di essere al di sopra o, meglio, più avanti di questo stallo ideologico. Essi sono sia catastrofisti che ottimisti con una fiducia sconfinata nella forza dell’innovazione tecnologica. In un crescendo di iperboli tecno-ottimistiche negli ultimi anni questo Think Tank ha pubblicato una serie di documenti su produzione di cibo, mobilità e trasporto, produzione di energia che raggiunge un apice nel loro ultimo documento Rethinking Humanity nel quale si spingono ad immaginare la seguente previsione:

Il sistema produttivo prevalente cambierà da un modello di estrazione e processo centralizzato di risorse scarse, che richiede grandi dimensioni per estensione e portata, a un modello di creazione localizzata a partire da elementi costitutivi illimitati e onnipresenti: un mondo costruito non su carbone, petrolio, acciaio, bestiame e cemento ma su fotoni, elettroni, DNA, molecole e (q)bit. [pagina 5]

Questa sorprendente dichiarazione riassume e amplifica i risultati dei loro precedenti documenti su cibo, energia e mobilità. Secondo RethinkX in ciascuno dei cinque principali settori produttivi della nostra civiltà globale: produzione di cibo ed energia, estrazione di materiali, mobilità/ trasporto e comunicazione/ informazione, si assisterà molto presto a un salto di almeno un ordine di grandezza in efficienza, grazie a una combinazione di (dirompente) innovazione shumpeteriana e ad una transizione culturale all'interno delle comunità locali. Tutto questo nell'arco di tempo da qui al 2035. Non male!

Ed è qui che si manifesta il lato catastrofista.

Il decennio che ci attende sarà turbolento, destabilizzato sia dalle innovazioni tecnologiche dirompenti che capovolgeranno le fondamenta dell'economia globale sia dagli shock sistemici dovuti a pandemie, conflitti geopolitici, disastri naturali, crisi finanziarie e disordini sociali che potrebbero portare a drammatici punti di svolta per l'umanità, incluse migrazioni e persino guerre. Di fronte a ogni nuova crisi saremo tentati di guardare indietro anziché avanti, scambiando ideologia e dogma con ragione e saggezza, scagliandoci gli uni contro gli altri invece di fidarsi l'uno dell'altro. Se teniamo duro, possiamo emergere insieme per creare la civiltà più ricca, più sana e più straordinaria della storia. Se non lo faremo, ci uniremo ai ranghi di ogni altra civiltà fallita lasciando agli storici futuri di risolverne l’enigma. I nostri figli ci ringrazieranno per aver portato loro un'Era di Libertà o ci malediranno per averli condannati a un'altra epoca oscura. La scelta è nostra. [pagina 6]

Non è esclusa una nuova era oscura, l'esito apparentemente tragico di una transizione non realizzata, dovrebbe spingerci ad agire ora. E questo “noi” non è un “noi” generico siamo proprio noi, voi che state leggendo questo post, così come me che lo sto scrivendo e coloro che, in genere, negli ultimi decenni si sono mostrati preoccupati per il destino dell'umanità e della civiltà. Le classi dirigenti in carica non sono incluse nel "noi", semplicemente non sono in grado di aiutare molto:

Le epoche buie non si verificano per mancanza di sole, ma per mancanza di leadership. È improbabile che i centri di potere consolidati, gli Stati Uniti, l'Europa o la Cina, svantaggiati da mentalità, convinzioni, interessi e istituzioni in carica, possano condurre la transizione. In un mondo globalmente competitivo, comunità, città o stati più piccoli, più affamati e più adattabili come Israele, Mumbai, Dubai, Singapore, Lagos, Shanghai, California o Seattle hanno maggiori probabilità di sviluppare un sistema organizzativo vincente.[pagina 6]

Insomma, non dicono che la salvezza ci sarà, ma che abbiamo i mezzi tecnici e le risorse umane per arrivarci. Si tratta di trovare i mezzi sociali e politici.

Il fatto che la tecnologia sia sempre fonte di nuovi problemi è una verità inutile ed è inutile lamentarsene. Togliere la tecnologia agli umani sarebbe come togliere le zanne ai leoni o il pungiglione alle vespe. Siamo così da prima che fossimo Homo sapiens. Cinque milioni di anni fa Homo habilis faceva già cose che i nostri cugini scimpanzé non possono fare. Gli umani devono seguire il loro percorso fino alla fine perché è il loro. Fortunatamente il percorso non è univoco e la nostra intelligenza deve applicarsi per capire quali percorsi appaiono meno traumatici. La cattiva notizia è che nessuno verrà a salvarci dall'esterno guidando la cavalleria, siamo soli.

Ma è davvero una cattiva notizia?





Robeyns, I., 2017. Wellbeing, freedom and social justice: the capability approach re-examined. OpenBook Publishers, Cambridge, UK.