mercoledì 5 luglio 2017

Stagnazione italiana

Di Jacopo Simonetta.
Articolo già apparso su Crisis, what crisis? 17/05/2017

Nei giorni scorsi è apparso un ennesimo articolo sulla crisi economica italiana.   Ho scelto questo come spunto per una riflessione perché è stato pubblicato su “Econopoly”, una rubrica del Sole 24ore. Dunque su di un giornale che certamente non condivide i miei presupposti ecologici e fisici, ma che indubbiamente è molto competente sugli argomenti economici e finanziari.  Insomma, un giornale da cui mi separa un baratro a livello per-analitico, ma da cui c’è sempre da imparare.
In sintesi, l’autore dell’articolo, Alessandro Magnoli Bocchi, prospetta tre scenari possibili per il prossimo decennio:
“Scenario 1 (probabilità: 75 %) – Status quo e accettazione di fatto della leadership tedesca. In pratica, continuare sull’andazzo degli ultimi 10 anni.
Scenario 2 (15 %) – Riforma dell’Unione Europea e attuazione di riforme incisive in Italia.  Un mix di investimenti pubblici, semplificazioni burocratiche, riforme politiche, liberalizzazione economiche che dovrebbero "rilanciare la crescita".
Scenario 3 (10 %) – Uscita dall’euro. Bancarotta, ristrutturazione del debito e poi chissà?
Purtroppo, mi trovo sostanzialmente d’accordo sul fatto che questi sono i tre scenari possibili, ma aggiungerei che i primi due condurrebbero con ogni probabilità al terzo.   Dunque, in tempi magari un poco più lunghi, la bancarotta sembrerebbe una specie di fato ineluttabile.   La causa principale di si foschi presagi sarebbe, secondo l'autore, il ritardo e l’inerzia nel portare avanti sostanziali riforme liberali al sistema.
Senza nulla voler togliere all’effettivamente asfissiante inefficienza di tanta parte del nostro sistema, siamo sicuri che non ci sia dell’altro?

Volendo dare una risposta che non sarà letta, vorrei far notare a dr. Magnoli Bocchi che la crisi economica, sia pure in modo molto diverso da caso a caso, sta gradualmente interessando tutti i paesi del mondo.   Perfino la Cina che, sotto molti aspetti, svolge oggi il ruolo di “faro ideale” per la nostra classe dirigente. Un po’ come in passato lo furono l’URSS per i comunisti e gli USA per i liberali.   A mio avviso ciò significa che, al di la delle situazioni contingenti ad ogni realtà nazionale e locale, sono all’opera fattori globali afferenti, purtroppo, alla tragica realtà dei “Limiti allo Sviluppo” nei suoi vari aspetti.
Ciònondimeno, è vero che l’economia tedesca si sta dimostrando più dinamica e resiliente di quelle degli altri paesi UE e, soprattutto di quella italiana.   Un dato di fatto che meriterebbe un approfondimento.   Fra i numerosi aspetti della questione, vorrei qui attirare l’attenzione su di un argomento mai preso in considerazione quando si parla di “competitività” internazionale e, viceversa, critico; oltre che irreparabile.

La sindrome del posacenere.

Un mio vecchio amico una volta mi disse: “Vedi l’urbanistica è come un posacenere.   Se tutte le cicche sono dentro un piattino di vetro, la stanza è pulita e funzionale.  Se le stesse cicche le spargo dappertutto, l’avrò resa uno schifo impraticabile."
Chi si voglia prendere la briga di osservare su Google le foto satellitari delle periferie urbane, scoprirà una cosa sorprendente.   In alcuni paesi, ad esempio la Germania, le città sono state complessivamente costruite con un certo ordine e criterio.   Ad esempio separando la campagna, le aree industriali, quelle commerciali e quelle residenziali.   A titolo d'esempio, qui vediamo Friburgo (220.000 abitanti).

Friburgo (Germania) e dintorni
Esattamente l’opposto di quello che abbiamo fatto in Italia e, in misura ancora maggiore, in tanta parte della Spagna e della Grecia.   Per essere furbi, abbiamo fatto praticamente tutto dappertutto, creando suburbi vasti come intere provincie, dove si mescolano e si accavallano villette e capannoni, piazzali e condomini, magazzini e centri commerciali.   Mentre sul “retro della città” agonizzano i frammenti di quella che avrebbe potuto essere campagna; gradualmente invasi da baracche, depositi più o meno abusivi, piazzali e tutto l’armamentario del degrado sub-urbano.   Sempre a titolo di esempio, qui vediamo Prato (190.000 abitanti che consumano forse il quadruplo della superficie rispetto a Friburgo).
Prato e dintorni.
Certo, costruire in questo modo ha permesso ai privati di abbattere i costi di costruzione e di urbanizzazione, tanto delle casette, quanto dei capannoni e dei piazzali industriali.   Ma ora, esaurito questo effimero vantaggio, ci troviamo con una situazione ingestibile ed irreparabile.   Molto semplicemente, avere costruito così le nostre città ha delle conseguenze che si possono riassumere così:
  • Maggiori costi e minore efficienza di tutti i servizi di rete (elettricità, acqua, gas, fognature, trasporti pubblici, ecc.) al punto che spesso non sono neppure realizzabili (tipicamente le fognature e la depurazione).
  • Maggiori costi di gestione della rete idrica e maggiore rischio idrogeologico.
  • Maggiori costi e tempi di trasporto.  Sulle medesime strade si incolonnano tir, automobili, apette e ciclisti, assieme ad autobus e pedoni.   Il pericolo è costante, l’efficienza minima.
  • Maggiori costi di intervento per qualunque opera di manutenzione, integrazione o ammodernamento, sia delle reti, che di impianti, case, ecc.   Al punto che spesso si rinuncia a farli (tipicamente: aree verdi urbane, piste ciclabili, parcheggi scambiatori, ecc.).
  • Necessità di uso dell’auto privata e del camion, con le conseguenze del caso.
  • A parità di altri fattori, maggiori tassi di tutti i tipi di inquinamento e conseguenti costi diretti ed indiretti.
  • Elevato disturbo ed intralcio reciproco fra le diverse attività che si accatastano a casaccio nello stesso posto.
  • Degrado paesaggistico ed impraticabilità turistica di zone che, magari, contengono oggetti di del pregio storico od artistico delle ville lucchesi o di quelle venete.
  • Massima distruzione di suolo, soprattutto agricolo e perlopiù di eccellente qualità.   In questo modo infatti, non solo le aree artificializzate vengono rese irreversibilmente sterili, ma anche ben più vaste superfici che diventano inutilizzabili a causa della frammentazione e della difficoltà di accesso.
  • Isolamento delle residue aree agricole e naturali che perdono così buona parte della loro biodiversità e resilienza.
Nel complesso, non sarei in grado di quantificare il danno, ma in un contesto in cui i margini di guadagno sono sempre più sottili e la competizione sempre più esacerbata, credo che questo genere di costi, moltiplicati per un intero paese, abbiamo un peso rilevante.  Perché dunque nessuno ne parla?
Credo sia per due ragioni principali: La prima è che oramai non c’è più niente da fare.  Non possiamo immaginare di demolire e rifare i due terzi dell’edificato nazionale.
La seconda è che la responsabilità ricade sull’intera popolazione.  Dal privato cittadino che ha voluto farsi la villetta dove aveva ereditato un pezzetto di terra; all’industriale che per i suoi capannoni ha comprato terreno agricolo per poi farsi cambiare la destinazione d’uso. Fino al tizio che trova comodo accumulare i suoi rifiuti in un cantuccio dietro la città, invece di conferirli secondo norma.   Passando per il palazzinaro che spara le sue villette a schiera dove il terreno costa meno, ciò dove è più lontano dai servizi essenziali.
Insomma, fino agli anni ’60 il “laissez faire, laissez passer” ha funzionato.  Abbiamo fatto le stesse cose dei tedeschi e dei francesi, con costi minori.  Si sa che gli italiani sono furbi!   Ma col passare del tempo, abbiamo dovuto cominciare a fare i conti con l’oste e scoprire che chi aveva speso di più per costruire meglio si trovava poi ad avere dei costi di gestione ridotti ed una maggiore produttività.
Oh perbacco! Ma non è che per caso sul Sole 24ore si parla spesso di inefficienza e scarsa produttività?