Una riflessione di Alessandro Corradini sulle cause ultime del collasso in corso (che ci si ostina ancora a chiamare "crisi")
Di Alessandro Corradini
                                                   
                  
                          
Alessandro
Siamo pieni zeppi di problemi spaventosi: 
-          picco del petrolio, 
-          cambiamenti climatici,
-          crollo della biodiversità, 
-          crisi economica inarrestabile,
-          mafie e corruzioni dilaganti,
-          disoccupazione tecnologica,
-          armi di distruzione di massa (e convenzionali), 
-         
 collasso oceanico (acidificazione, innalzamento dei livelli, anossia, 
inquinamento da microplastiche, collasso delle specie ittiche, ecc...), 
-          inquinamenti d'ogni genere e tipo, 
-          mancanza di istituzioni di governo globali a fronte di gravi problemi su scala planetaria,
-          crescenti diseguaglianze sociali, ecc... ecc... ecc...
Un sacco di problemi!
Tutti
 fenomeni concreti e pervasivi. Non catastrofismo, ma rilevazione 
oggettiva di un’autentica catastrofe senza precedenti nella storia 
dell’umanità. Per quanto gravi e spaventosi, tuttavia, tali fenomeni 
sono sintomi, non cause. Risalendo le catene di causa-effetto che 
generano questa spaventosa moltitudine di devastazioni, si può risalire 
ad una sola causa iniziale che le accomuna tutte. L’identificazione di 
un’unica causa scatenante semplifica enormemente lo scenario 
complessivo, ma c’è poco da rallegrarsene, poiché tale origine riguarda 
un fenomeno così radicato ed onnipresente da essere pressoché 
intrattabile. Mi riferisco ai soldi. Il problema, per inciso, non è che 
ne abbiamo pochi. Il problema è che ci ostiniamo ad usarli come mezzo di
 regolazione generale dell’economia nonostante ogni evidenza scientifica
 ce lo sconsigli!
Il
 collasso globale a cui stiamo assistendo increduli da ormai sei anni (e
 che ancora viene eufemisticamente chiamata “crisi”) altro non è che 
l’accumulo e l’intrecciarsi di tutti quei gravi sintomi generati da 
un’infinità di comportamenti distorti connessi all’uso del denaro. Di 
fatto tale pratica consiste in un groviglio di usanze socialmente ed 
universalmente accettate che danno forma a tutta la nostra realtà, 
imbrigliandola in una oppressiva varietà di relazioni impersonali che 
allontanano i decisori dalle conseguenze delle loro decisioni. Questo 
complesso intreccio è riconducibile a 3 elementi principali:
1)     la massimizzazione della ricchezza monetaria (sia in termini privati, sia in termini collettivi, ossia di PIL), 
2)     l’uso del debito (a cui oggi è connesso tra l’altro la creazione stessa della moneta),
3)     gli scambi commerciali (ossia le logiche di mercato e la speculazione).
Il
 mix di questi tre elementi comporta da un lato una forte 
de-responsabilizzazione sia degli individui sia delle comunità e 
dall’altro lato una feroce competizione causata da una scarsità indotta 
attraverso una redistribuzione della ricchezza completamente iniqua. Una
 trattazione dettagliata del perché l’uso del denaro, del debito e delle
 logiche di scambio commerciale abbiano effetti tanto devastanti sulle 
sorti del nostro pianeta richiederebbe tuttavia un’esposizione troppo 
estesa e complessa per essere qui riportata. Per chi volesse farsene 
un'idea approssimativa, potrà trovare qualche interessante spunto di 
riflessione qui , qui , qui, qui, qui, e qui.
 Questo microscopico elenco, tutt’altro che esaustivo ed omogeneo, non è
 che una capocchia di spillo dei motivi per considerare il “Business As 
Usual” (o BAU, ovvero il solito modo di condurre gli affari) come un 
vero e proprio "ordigno fine-di-mondo". 
Ma non è questo il punto.
Ammesso
 e non concesso che si condivida questa “radicale” critica all’economia 
imperante, esistono alternative pratiche all’uso del denaro e dei suoi 
corollari? Se sì, è possibile realizzare concretamente tali opzioni?
Iniziamo
 col dire che ogni eventuale alternativa è destinata ad apparirci strana
 ed aliena. Non può che apparirci così, abituati come siamo ad un’unica e
 monolitica realtà economica. La quasi totalità degli esseri umani, 
negli ultimi millenni, sono nati, cresciuti, vissuti e morti in una 
società monetaria e/o basata sul debito. La stratificazione ed il 
consolidamento culturale, psicologico e politico dell’attuale paradigma è
 quindi colossale. Pensare di uscirne collettivamente e rapidamente da 
questo paradigma appare perciò un’impresa improba e folle. Il pianeta, 
però, è un paziente ormai grave ed il nostro futuro è fortemente 
incerto. La comunità scientifica internazionale ci sta avvertendo che 
siamo ormai ad un passo dalla soglia che conduce alla sesta estinzione 
di massa del pianeta (e forse abbiamo già iniziato a varcare tale 
soglia). Un cambiamento radicale è quindi divenuto necessario ed 
urgente. Serve una cura drastica, ma soprattutto serve una cura che ci 
appaia molto… “strana”. Non per il gusto di stupire, ma poiché, come 
sostenne una volta Albert Einstein: “Non si può risolvere un problema 
con la stessa mentalità che l'ha generato”. Tentativi di riformare, 
regolarizzare ed addomesticare l’attuale economia monetaria e 
finanziaria, oltre che tardivi, al momento, risulterebbero probabilmente
 vani e persino controproducenti. È più probabile, infatti, che i grandi
 capitali, grazie al loro strapotere, addomestichino facilmente 
qualsiasi tentativo di riforma, piuttosto che il contrario. 
Ci serve disperatamente un’opzione sufficientemente radicale e “strana”, ma quale?
La
 più ovvia e razionale è l’abbandono completo (e sufficientemente 
repentino) dell’uso del denaro, del debito e degli scambi commerciali. 
L’intera economia monetaria andrebbe sostituita da una più pratica e 
realistica economia basata sulle risorse.
 Le risorse (naturali e non) sono l'unica vera ricchezza materiale. La 
loro monetizzazione al contrario, per quanto importante all'interno 
dell'attuale paradigma, è solo un'astrazione mentale funzionale alla 
ripartizione della ricchezza globalmente presente sul pianeta. La moneta
 da accesso alla ricchezza materiale, non è la ricchezza materiale, né 
la può creare “magicamente dal nulla”. Poiché le risorse naturali, a 
seguito del superamento della capacità di carico del pianeta, sono in 
via di rapido esaurimento, parrebbe logico strutturare l'economia, la 
politica e la società in modo da opporsi strenuamente a tale 
esaurimento. L’idea di fondo è quindi banale: affinché un sistema 
economico sia sostenibile sul lungo termine, le risorse a sua 
disposizione devono essere l’elemento da cui partire per regolare 
produzione e consumi. Non è certo un’idea particolarmente nuova, ne 
hanno già parlato noti movimenti come il Venus Project e il Zeitgeist Movement
 (su cui non intendo esprimere giudizi di sorta). L’idea circola ormai 
da anni e sembrerebbe logico attendersi che l’attuale collasso economico
 favorisca un suo approfondimento ed un serio e vasto dibattito. Eppure 
nulla è ancora accaduto in tal senso. Tutto tace, persino a livello 
teorico ed accademico. Ciò avvalorerebbe l’idea che “mettere in 
discussione denaro, debito e logiche di scambio” equivalga a pretendere 
un cambio di prospettiva semplicemente troppo estremo per l’attuale 
cultura dominante. Movimenti di massa simili alla cosiddetta “Primavera Araba”, agli indignados e ad Occupy Wall Street,
 ma in senso apertamente anti-monetarista, per ora, non se ne vedono. Si
 parla di libertà e democrazia, spesso di equità economica, ma non di 
riformare il sistema economico fin dalle sue fondamenta. Ciò è ritenuto 
quasi universalmente un’utopia. I pensatori e gli intellettuali di ogni 
genere e tipo sembrano fermi ad un: “No grazie! Ci siamo già passati, si
 chiama comunismo e non funziona”. Il fatto che l’economia delle risorse
 non abbia nulla a che fare con i regimi del cosiddetto “socialismo 
reale” (i quali mai e poi mai hanno abolito l’uso di denaro, debiti e 
scambi commerciali) non smuovere minimamente il dibattito. Sia 
l’immaginario collettivo, sia la classe intellettuale, sia quella 
politica sembrano completamente soggiogati da un falso e cinico 
“realismo” imposto dallo stesso sistema economico che ormai nessuno 
riesce più a gestire e nemmeno moderare. La nostra civiltà è ostaggio di
 un pseudo-realismo che ritiene plausibile e doverosa una crescita 
economica infinita utilizzando le risorse finite (ormai quasi 
letteralmente) del pianeta.
Quindi come se ne esce?
Se
 un ostacolo è troppo grande per scavalcarlo, si può sempre girarci 
attorno. La cultura di massa e le istituzioni politiche e sociali sono 
ormai del tutto impermeabili e refrattarie verso proposte politiche 
pragmatiche. Queste vengono confuse sistematicamente per estremismi, 
stramberie ed utopie. È quindi necessario agire per una via meno 
diretta, cioè quella della colonizzazione. Il nome “colonizzazione” è 
tristemente associato a pratiche di sfruttamento e dominio. La 
colonizzazione a cui qui mi riferisco, tuttavia, non ha nulla a che 
vedere con quella triste esperienza storica. Qui, con “colonizzazione”, 
ci si vuol riferire semplicemente ad una modalità di diffusione 
dell’economia basata sulle risorse, attraverso l’inoculazione di detto 
sistema economico all’interno di quello esistente. Per disfarsi delle 
logiche monetaristiche, del debito e dello scambio e passare al nuovo 
paradigma si deve raccogliere subito il consenso immediatamente 
disponibile. Date le circostanze, sarà un consenso fortemente 
minoritario e “di nicchia”, ma rapidamente ed economicamente 
organizzabile. In termini pratici, parliamo quindi di un consenso che 
tale proposta può raccogliere e concentrare agevolmente in un solo luogo
 per formare appunto una colonia iniziale, il cui scopo sia quello di 
fungere da esempio e da “replicatore” per nuove future colonie a lei 
analoghe. Non potendo convincere e convertire l’economia globale per 
intero, si parta convertendone un pezzetto alla volta, partendo da chi è
 già convinto, in modo da minimizzare i tempi di realizzazione da un 
lato ed i costi di un’eventuale inazione dall’altro. In tal modo si 
evita di sprecare tempo, risorse, talenti e speranze nell’affannoso ed 
illusorio tentativo di risolvere tutti i nostri problemi tramite la 
creazione di un consenso vasto e diffuso. Ci si scorda facilmente 
infatti che un consenso vastissimo non solo è estremamente improbabile, 
ma persino inutile. Perché inutile? Beh, diciamo così: esiste un 
vastissimo consenso planetario che considera la fame nel mondo uno 
scandalo inaccettabile, ma questo non ha ancora eliminato “lo scandalo”.
 Meglio una nicchia motivata ed attiva che una massa concorde, ma 
dissipativa ed inamovibile (soprattutto se per rendere la massa 
“concorde” si devono spendere colossali risorse mediatiche, finanziarie,
 politiche e temporali). Per citare l’antropologa Margaret Mead: 
«
 Non dubitate che un piccolo gruppo di cittadini coscienti e risoluti 
non possa cambiare il mondo. In fondo è così che è sempre andata ».
Il
 concetto di “colonia” parte da questa constatazione storica per saltare
 dalla fase di analisi e discussione collettiva a quella dell’azione, 
nella speranza di spezzare l’attendismo lassista e suicida su cui sembra
 essersi ripiegato il mondo.
Ma cosa sarebbe una “colonia”  di preciso?
Beh,
 una colonia, prima di tutto, sarebbe una comunità di persone, una 
comunità coesa attorno ad idee economiche rigidamente coerenti con 
l’effettiva disponibilità e la massimizzazione delle risorse. L’attuale 
economia è tutta concentrata sulla massimizzazione monetaria a noi tanto
 famigliare e grazie a questa spacca la società sottostante in una 
miriade di strutture ed individui separati da vorticosi fiumi di 
concorrenza, diffidenza e contrattazione. Con le “colonie” parliamo 
invece di realtà organizzative in cui aspetti economici, 
tecnico-scientifici e politici non sono separati e conflittuali, bensì 
fusi insieme in un approccio istituzionalmente pragmatico e 
razionalista. Per giungere a tale traguardo occorre possedere un alto 
grado di complessità interna. Una colonia quindi non ha nulla a che 
vedere con una minuscola comunità, basata sul pauperismo o su filosofie 
analoghe a quelle dei “figli dei fiori” o della “New Age”. Le colonie 
sono comunità dalla dimensione minima di diverse centinaia di persone 
(senza un limite massimo) e caratterizzate da una densissima consistenza
 tecnologica, scientifica ed organizzativa.
Una
 colonia sarebbe qualcosa di mai visto prima. Sarebbe una comunità 
opulenta, determinata ed acculturata. Sarebbe però anche un luogo fisico
 attraente, un sistema produttivo iper-efficiente ed un micro-mondo con 
una struttura organizzativa mai sperimentata prima. Una realtà 
assolutamente NON spontanea, ma frutto piuttosto di un accurato e 
laborioso lavoro di progettazione, studio e pianificazione. Un lavoro 
decisamente impegnativo, collettivo e multidisciplinare, al punto da 
potersi definire olistico e perpetuo. Le risorse risparmiate dal 
“rinunciare a convincere tutti” a creare un mondo migliore devono essere
 in gran parte spese in questa intensissima fase di progettazione e 
riprogettazione perenne. Per questo stesso motivo non è possibile dare 
ora una rappresentazione completa e precisa di cosa sarà una colonia. 
Una descrizione puntuale sarà possibile solo dopo quella fase di 
progettazione multidisciplinare iniziale che ancora non è mai avvenuta.
Da
 un punto di vista generale e concreto, tuttavia, si può già dire che 
una colonia sarà un luogo in cui le cose di cui si necessita non si 
comprano, ma si prendono liberamente in prestito senza che avvengo 
nessun tipo di scambio commerciale tra le parti. Anche per beni di 
consumo quali alimenti, bevande, vestiti e quant’altro, non dovrebbe 
esserci nessuno scambio, né di moneta, né di merci, né di diritti od 
altre utilità. Tale economia, ai nostri occhi, può apparire a prima 
vista come una società inauditamente generosa. Si tratta tuttavia di 
un’illusione: si può tagliar gole per una goccia d’acqua, se ci si trova
 persi in un deserto; regalarne a litri a degli sconosciuti parrebbe 
follemente generoso in quella situazione, ma basta uscire dal deserto 
per considerare immediatamente tale morbosa attenzione per l’acqua una 
follia. L’essere umano è un animale fortemente adattativo e se cambia 
completamente il contesto in cui opera, allora cambia anche 
completamente il suo modo di pensare e comportarsi. Uscendo 
dall’economia di scambio basata sul denaro e sul debito ci si sbarazza 
anche di gran parte di quell’egoismo e quella bramosia di soldi che ci 
contraddistingue ora. Non si tratta di rendere “perfetti” gli esseri 
umani privandoli delle normali pulsioni egoistiche (operazione 
impossibile e/o sconveniente). Si tratta piuttosto di creare un contesto
 “migliore” per facilitare comportamenti positivi ed auspicabili. Quel 
contesto “migliorativo” sarebbe appunto la colonia.
Le
 prime colonie, in particolare, dovendo fungere da esempio e supporto 
per tutte le colonie future, dovranno essere lussureggianti, 
sovra-strutturate, riccamente attrezzate, tecnologicamente 
avanzatissime, risolute nel perseguire gli obiettivi comuni e 
profondamente acculturate (soprattutto sul piano tecnico e scientifico).
 In poche parole dovrebbero essere realtà… fortemente elitarie. Può 
suonare ingiusto, ma si tratta di una necessità, poiché su di esse 
graverà la responsabilità di garantire il successo dell’intero processo 
di colonizzazione (con tutto ciò che questo implica a livello globale). 
Le prime colonie oltre a favorire l’intera opera di colonizzazione con 
la loro “robustezza” devono anche apparire attraenti sotto ogni 
possibile punto di vista: il ché implica possedere sistemi produttivi 
iper-efficienti, sistemi organizzativi impeccabili, un’estetica 
affascinante, una convivialità seducente, ecc... Chi non è un colono 
deve desiderare ardentemente di poterlo divenire un giorno. Guardando 
una colonia, dall’esterno si deve rimanere sbalorditi al punto di 
sforzarsi di voler sapere e capire come funziona prima e di volerne far 
parte dopo. Creare una tale “attrattività estrema” partendo 
dall’economia monetaria in cui attualmente ci troviamo implica 
inevitabilmente creare delle enclavi inizialmente molto elitarie. Tale 
difetto iniziale andrebbe però via via stemperandosi ed infine 
sparirebbe completamente man mano che le colonie si moltiplicano. Scopo 
delle colonie, infatti, rimarrebbe ovviamente quelle di creare sempre 
nuove colonie e di sostenersi vicendevolmente in modo da espandere ed 
irrobustire l’economia non-monetaria, non-creditizia e non-mercantilista
 a tutto vantaggio delle sorti del pianeta, ma anche a proprio 
vantaggio. Ma mano che le colonie si moltiplicano, l’accumulo di 
conoscenze, esperienze e risorse condivise rende i costi di fondazione 
delle nuove colonie decrescenti e la necessità di vincere le resistenze 
psicologiche e l’incredulità dei non-coloni, meno pressante. Ciò renderà
 le nuove colonie sempre  meno elitarie e sempre più “ordinarie” ed inclusive.
L’atto
 stesso della colonizzazione, in quest’ottica, è quindi opposta al 
concetto storico di violenza o sfruttamento del colonizzato. Al 
contrario la colonizzazione dell’economia attuale da parte di economie 
basate sulle risorse appare di fatto come una liberazione ed 
un’emancipazione dell’intera umanità basata sull’adesione spontanea e 
volontaria al nuovo paradigma. Non è solo umanità e benevolenza a 
chiedere un tale comportamento, lo chiede anche la logica: le persone 
motivate sono più efficienti ed efficaci di quelle indotte o costrette 
ad operare in un modo che non le rappresenta. L’adesione spontanea, 
oltre che democraticamente corretta, è fondamentale per una società che 
brama un efficientismo senza precedenti come appunto dovranno fare le 
colonie.
Ma perché le colonie abbiano successo devono avere effettivamente un’economia più efficiente di quella monetaria. E sarà così. 
Perché?
Saranno
 efficienti anche ma, non solo per la leva motivazionale e l’approccio 
scientifico/razionalista che le modellerà. Essendo organizzate per 
massimizzare le risorse (non solo quelle materiali come l’energia e le 
materie prime, ma anche quelle umane, immateriali ed organizzative), 
all’interno delle colonie è possibile strutturare produzione, 
distribuzione e consumo di beni e servizi con modalità molto difficili 
od impossibili da attuare e/o sostenere in modo sistematico all’interno 
di economie monetarie/creditizie/mercantiliste in cui attualmente noi 
tutti viviamo.
Farò
 qui 5 esempi per rendere quest’ultimo concetto meno nebuloso e più 
concreto. Tali esempi non sono da considerarsi esaustivi, ma piuttosto 
minimali e basilari. Essi hanno uno scopo meramente illustrativo volto a
 facilitare una visione di come le cose potrebbero funzionare dentro un 
tale “strano” sistema economico e allo stesso tempo per mostrarne i 
possibili vantaggi e peculiarità. Di seguito parlerò quindi di: 
1)     Omniteche;
2)     Tassazione temporale;
3)     Efficienza sostenibile;
4)     Propagazione accelerata delle conoscenze;
5)     Prevenzione sociale.
Le “OMNITECHE” 
Una
 biblioteca è un’istituzione che presta libri, una videoteca una che 
presta filmati ed una ludoteca un’istituzione che presta giocattoli. 
Nulla di strano in questo. Estendendo tale concetto, tuttavia, si può 
anche immaginare un’istituzione che presta qualsiasi cosa: un’omniteca 
per l’appunto. Le omniteche sono entità alquanto improbabili in un 
sitema economico di mercato poiché la loro presenza è in antitesi alla 
concezione di scambio economico di mercato. In un’economia basata sulle 
risorse, tuttavia, tale istituzione potrebbe non solo esistere, ma 
essere l’istituzione più diffusa per eccellenza, così come ora lo sono i
 negozi per noi. Come abbiamo detto, infatti, una colonia è un luogo in 
cui i beni di cui si necessita non si comprano, né si noleggiano, né si 
barattano o scambiano. 
Una
 biblioteca non può prestare libri che non ha e di solito lo fa seguendo
 determinate regole interne (presta solo ai tesserati, un numero massimo
 di libri, da restituire entro un limite massimo di tempo, ecc…) e così 
pure l’omniteca non può prestare beni che non possiede e quando li 
presta lo fa seguendo delle proprie regole (che rispecchiano la 
strategia dell’intera colonia per preservare o accrescere il più 
possibile le risorse globalmente disponibili all’interno di quel 
micro-mondo). 
A
 differenza della biblioteca però l’omniteca presta di tutto e non solo 
libri, il ché implica anche beni di consumo come cibo, acqua, vestiti, 
medicinali. Anche per i beni di consumo, nella colonia, si mangia, beve,
 ecc… liberamente e gratuitamente, ma sempre e solo all’interno della 
disponibilità e sostenibilità delle risorse collettive, quindi 
all’interno delle regole imposte dall’ominiteche. Parliamo di regole 
condivise, appositamente architettate e costantemente perfezionate dalla
 colonia nella sua totalità al fine di minimizzare sprechi ed abusi. 
Sul
 piano fisico e logistico, non è detto che un’omniteca debba essere 
intesa come un unico ed immenso magazzino con tutti i possibili beni 
concepibili. Può essere intesa piuttosto come un a serie di punti di 
distribuzione variamente disposti e specializzati, ma facenti tutti capo
 ad una sola autorità: la colonia stessa. Ogni colono non è quindi solo 
un utente delle omniteche, ma anche un proprietario, un gestore, un 
amministratore, un controllore. Questa sovrapposizione ed alternanza di 
ruoli deve far leva su un senso di appartenenza e di 
responsabilizzazione perenne che coinvolta tutti i coloni, senza 
eccezione alcuna.
Se
 la competizione commerciale offre forse i suoi vantaggi, anche la 
collaborazione evoluta sicuramente ne ha di importanti, ad esempio: in 
un’economia basata sulle risorse, se lascio morire di fame un mio simile
 (o anche solo se lo mantengo in uno stato sub-ottimale), non sto solo 
commettendo qualcosa di moralmente discutibile, sto anche danneggiando 
il mio stesso patrimonio, poiché quella persona, la sua forza fisica e 
le sue competenze sono parte della mia stessa ricchezza (che è poi 
quella di tutti gli altri coloni). Allo stesso modo se un colono 
distruggesse un bene della colonia, farebbe non solo un atto eticamente 
discutibile, ma danneggerebbe sé stesso in modo del tutto paragonabile a
 quello di un appartenente ad un nucleo famigliare che devasti i beni 
della propria famiglia. Il mondo e gli esseri umani non sono perfetti ed
 eventi deleteri possono sempre accadere, ma è evidente che la struttura
 sociale della colonia, analogamente a quella della famiglia rendono più
 improbabili incidenti del genere. Un contesto che, ai diritti legati 
alla proprietà privata, sostituisce, come perno dell’intera economia, il
 dovere di conservare, arricchire e condividere beni comuni, è un 
contesto che tende a minimizzare “incidenti” invece abbastanza frequenti
 in una realtà come la nostra. In quest’ultima è nettamente distinto 
“ciò che è mio da ciò che è tuo” e quindi anche i pesi e gli oneri su 
cui ricade ogni danno accidentalmente o volutamente arrecato. Ciò causa 
una tensione perenne verso la competizione e la sfiducia reciproca anche
 quando queste risultano dannose od eccessivamente onerose.
La
 pressione sociale esercitata dalla collettività coloniale, tramite le 
regole dell’omniteche, sui singoli coloni, non è un’intrusione dispotica
 all’interno delle libertà personali, così come la fruizione gratuita 
degli stessi beni e servizi non è un eccesso di prodigalità. E’ 
semplicemente la logica conseguenza che scaturisce dalla piena 
consapevolezza del fatto che non ci possono essere “scelte personali” 
completamente slegate dalla disponibilità collettiva delle risorse 
condivise. In ultima analisi, infatti, indipendentemente dal sistema 
economico adottato, le risorse presenti su un pianeta finito devono 
essere obbligatoriamente finite e qualsiasi “scelta personale” che finga
 che siano infinite è semplicemente un’illusione.
La
 presenza capillare delle omniteche rende il concetto stesso di 
proprietà privata non inutile, né proibita, ma certamente marginale. La 
ricchezza personale e quella collettiva divengono quindi tendenzialmente
 la stessa cosa. D’altra parte essere liberi, in funzione di espedienti 
connessi a regole condivise, di poter distruggere le altrui 
potenzialità, per non dire l’intero pianeta ed il futuro delle 
generazioni a venire ad esso connesso, in una civiltà degna di questo 
nome, non dovrebbe far parte delle opzioni considerate tollerabili.
Le
 omniteche, cioè i bazar che “regalano” o prestano i beni a disposizione
 dell’intera economia, non sono l’albero della cuccagna né una forma di 
comunismo rivisitato. Sono il trionfo della logica razionalista, 
dell’onestà intellettuale e della collaborazione civile. Le omniteche 
benché possano apparirci utopiche, sono solo un sistema di distribuzione
 delle risorse economiche la cui estensione reale oltrepassa i confini 
fisici dell’omniteca stessa e permea l’intera colonia sotto forma di 
pressione sociale, controllo distribuito e partecipazione attiva (il 
sistema immunitario della colonia che garantisce la possibilità di 
mantenere il sistema nel lungo periodo). 
La TASSAZIONE TEMPORALE
In
 un’economia monetaria, un sistema di tassazione perfettamente 
egualitario ed equilibrato pare un obiettivo quasi impossibile da 
raggiungere. In un colonia, priva di denaro, invece è piuttosto semplice
 istituire un sistema di tassazione perfettamente equo. Dato che non 
circolano soldi e che le 24 ore giornaliere sono uguali per qualsiasi 
colono, porre una quota di tale tempo ad esclusiva disposizione delle 
esigenze della collettività è un modo estremamente semplice, 
verificabile e pratico per organizzare una tassazione non-monetaria. 
Eliminando la tassazione monetaria, si eliminano anche tutti gli 
intrighi politici, le sperequazioni sociali, i costosi sistemi di 
regolamentazione e controllo, le farraginose e gigantesche 
infrastrutture burocratiche e tutte le deformazioni di mercato legate 
alla concorrenza scorretta che caratterizzano le economie monetarie in 
merito all’annosa questione delle tasse nonché alla loro evasione ed 
elusione. Tali costi ed inefficienze sono semplicemente estranee ed 
inapplicabili ad un’economia basata sulle risorse che operi tassazioni 
temporali. 
Benché
 teoricamente semplicità, efficienza ed equità siano raggiungibili anche
 tramite la “normale” tassazione monetaria, all’atto pratico, esse sono 
difficilmente raggiungibili nella realtà quotidiana e comunque non senza
 asprissime lotte sociali. Il fatto è che, in un’economia monetaria, le 
differenze di reddito e patrimonio, cioè le differenze monetarie tra 
individui, sono la misura stessa della differenza sociale e materiale 
che passa tra l’essere avvantaggiati o svantaggiati rispetto agli altri.
 La tassazione, in una società che fa delle differenze monetarie la 
principale leva motivazionale e competitiva, non può risultare 
miracolosamente affrancata dalla faziosità ed arbitrarietà che un tale 
atteggiamento discriminatorio inevitabilmente implica. Viceversa 
l’inclusione di una quota fissa di tempo da parte di ogni persona 
esistente nell’economia, all’interno dell’apparato pubblico coloniale, 
ha il vantaggio di aumentare enormemente il controllo distribuito ed una
 partecipazione non solo “premurosa” ma anche tecnicamente consapevole 
della “cosa pubblica”. Un tale livello di coinvolgimento collettivo è 
semplicemente impossibile in un’economia in cui circola denaro. In essa,
 infatti, l’apparato statale ed i cittadini sono due entità disgiunte e 
sovente contrapposte. Da tale separazione scaturiscono inevitabilmente 
una lunga serie di dinamiche di coercizione, collusione e corruzione che
 degradano gravemente le potenzialità teoriche dell’economia monetaria 
nel suo complesso e ,al tempo stesso, gettano le basi per un clima di 
insicurezza, sfiducia e contrapposizione che paralizza i vari attori 
attorno a comportamenti egoistici ed opportunistici tipicamente di breve
 o brevissimo respiro.  
L’EFFICIENZA SOSTENIBILE
L’introduzione
 della produzione industrializzata ha creato un’abbondanza senza 
precedenti nella storia. Allo stesso tempo però, rimanendo in economie 
monetarie, si è presto incappati in un colossale problema di 
inquinamento e di sperpero sistemico di risorse fisiche legato a 
fenomeni industriali come l’obsolescenza programmata, l’usa-e-getta e 
tante altre modalità di produzione, consumo o speculazione finanziaria 
volte unicamente a massimizzare la movimentazione complessiva del denaro
 a scapito di tutto il resto (sopravvivenza a lungo termine dell’intero 
pianeta compresa). La concorrenza economica derivante da “l’uso di 
denaro, del debito e dello scambio commerciale” spinge, infatti, gli 
individui a fomentare in ogni modo (ed ad ogni costo) i propri simili a 
consumare sempre di più (contribuendo a fomentare un perverso, 
frustrante e perenne ciclo di illusione ed insoddisfazione). I soggetti 
economici che non si adeguano a tale esasperazione grottesca del 
consumo, nella nostra economia, risultano competitivamente inadeguati e 
quindi tendono purtroppo ad incappare nel fallimento economico a cui 
sono poi associati il discredito sociale e un restringimento delle 
libertà di scelta a livello personale. La pressione sociale verso una 
tale deviata omologazione culturale e quindi fortissima.
Tale
 tendenza collettiva sfocia in una colossale distruzione di risorse 
(energia e materia) priva di una reale utilità sia per i singoli sia per
 la collettività nel suo complesso. I bisogni ed i desideri spontanei 
hanno un grado di disomogeneità e limitatezza che mal sia adatta sia 
alla produzione di massa sia alla religione “della crescita economica 
infinita”. Tali bisogni sono quindi stati rapidamente affiancati da ben 
più numerosi e lucrosi “bisogni e desideri indotti”, il cui 
soddisfacimento non implica una reale utilità, ma sfortunatamente 
implica un reale consumo di preziose risorse, cioè uno spreco. A tale 
insostenibile danno, si aggiunge poi un corrispondente livello 
d’inquinamento legato alla produzione prima ed al consumo poi, fino allo
 smaltimento dei beni prodotti con tali logiche di brevissimo respiro.
Tale
 assurdo e triste comportamento collettivo non è strettamente legato a 
bontà d’animo o all’intelligenza dei singoli. Per sopravvivere e 
prosperare (ma anche più banalmente per essere socialmente accettati) 
all’interno di un’economia monetaria si è spronati ad agire così. Se 
però si abbandona l’uso di denaro, del debito e degli scambi 
commerciali, allora tutto ciò che brucia risorse senza produrre 
un’utilità reale smette d’essere un cosiddetto “male necessario” per 
tornare ad essere quel che in effetti è: solo e soltanto “un male”. Non 
dovendo vendere qualcosa né comprare altre cose, non v’è necessità di 
esasperare, ingannare e convincere gli altri ad espandere al massimo i 
propri consumi. Anzi, in un economia delle risorse, meno i singoli 
consumano a parità d’utilità e meglio è per tutti. Il concetto stesso di
 rifiuto, spreco od inquinamento sono antitetici ad un’economia volta a 
massimizzare le risorse poiché tali concetti ne sono una negazione di 
fatto. Mentre in un’economia consumista c’è un interesse strategico a 
ché gli altri siano perennemente insoddisfatti, in un’economia 
“coloniale” v’è un interesse strategico a ché gli altri siano il più 
soddisfatti possibile. La maggior efficienza a cui il sistema delle 
colonie spinge non riguarda perciò solo l’uso efficiente delle risorse 
materiali, ma anche lo sviluppo armonico ed il benessere delle persone 
(intese sia come lavoratori, sia come consumatori, sia come persone e 
basta). In un’economia “coloniale”, ad esempio, venendo meno il rapporto
 reddito/consumo, decade anche l’enorme alibi psicologico, politico e 
sociale con cui si accetta l’inaccettabile in nome di una piena 
occupazione (per altro impossibile da realizzare pienamente in società 
altamente tecnologiche).
Inoltre
 nelle economie monetarie ogni reale incremento d’efficienza raggiunto, 
traducendosi in una maggior disponibilità del bene risparmiato, porta 
sovente al paradosso di Jevons ovvero ad un maggior consumo collettivo 
di tale bene (poiché la maggior disponibilità complessiva del bene 
risparmiato comporta un suo abbassamento di prezzo che ne favorisce il 
consumo). Un’economia coloniale, al contrario, tende spontaneamente a 
tradursi in una forma di economia circolare in cui ogni risorsa è 
rimessa “in circolo” anziché smaltita anticipatamente e dannosamente in 
una discarica o in un  “termovalorizzatore” (che 
rappresentano la fase finale della consueta logica lineare di 
estrazione, lavorazione, consumo nelle economie monetarie). La 
circolarità dei beni e servizi, in una colonia, non è d’altra parte 
ostacolata da interessi privati che potrebbero vedere in tale 
virtuosismo un attentato ai loro profitti, poiché il concetto stesso di 
“profitti” non è contemplato, mentre quello di utilità sì (ed essa è 
collegata inesorabilmente alle risorse reali e quindi al loro 
sfruttamento razionale e moderato).
La PROPAGAZIONE ACCELERATA DELLE CONOSCENZE
Un’economia
 monetaria pone drastici vincoli alla libera circolazione della 
conoscenza. Vincoli quali, ad esempio, i diritti d’autore, i segreti 
industriali, i brevetti, ecc… Tali tutele legali sono di fatto un freno 
socialmente accettato che ferma o rallenta (a seconda dei casi) la 
circolazione di idee e conoscenze. Tale vincolo però svanisce, se si 
eliminano i soldi, il debito e lo scambio dall’economia. Svanendo 
quest’ultimi, infatti, svanisce anche la necessità di porre tutele 
legali (e non) al loro sfruttamento economico/monetario. Inoltre, dato 
che la psicologia ha dimostrato che la creatività è sfavorita ed inibita
 dalle mere ricompense in denaro, ingabbiare la produzione 
intellettuale, scientifica e tecnologica all’interno di logiche 
monetarie deprime oltre alla loro circolazione anche le potenzialità 
produttive in tali ambiti. Come se tutto ciò non bastasse, va poi 
ricordato che, nella nostra attuale economia, libera ed imparziale 
circolazione della conoscenza tecnica lede gravemente i vantaggi 
competitivi derivanti dalle asimmetrie informative di mercato. 
Attualmente, retorica e buoni propositi a parte, esiste quindi una 
convenienza diffusa a mantenere le conoscenze tecniche al livello minimo
 necessario a far funzionare l’economia monetaristica stessa. La 
circolazione delle idee, delle conoscenze scientifiche e di quelle 
tecnologiche è poi ulteriormente ostacolata, nell’attuale economia, da 
logiche volte ad ammortizzare pienamente gli investimenti in specifiche 
unità produttive. Nelle economie attuali, esiste inoltre la necessità di
 massimizzare i profitti tramite il rilascio sul mercato di prodotti con
 numerose versioni intermedie, caratterizzate da piccoli miglioramenti 
graduali e da incompatibilità possibilmente totali rispetto ai modelli 
precedenti, in modo da spingere i consumatori ripetuti ad acquisti 
ripetuti con la maggior frequenza possibile a fronte di costi di ricerca
 e sviluppo mantenuti il più possibile bassi. Tutte queste logiche 
distorsive perdono completamente utilità e senso in un’economia che si 
basa sulle risorse anziché sul lucro monetario derivante dal loro 
scambio.
Per
 motivi analoghi a quelli sopraccitati, non solo le conoscenze già 
disponibili sono ostacolate dalle logiche monetaristiche, ma anche l’uso
 dei dati grezzi lo è. Dal momento che i singoli soggetti economici non 
desiderano che altri sappiano cose che li possano danneggiare. Non 
vivendo in un ambiente economico che premia la collaborazione, l’attuale
 tendenza generalizzata è quella di tenere i dati raccolti (di qualsiasi
 tipo essi siano) a proprio esclusivo vantaggio, perdendo così gli 
infiniti vantaggi che deriverebbero invece da una loro aggregazione, 
integrazione e/o incrocio. Questo aspetto, dati i bassissimi costi di 
calcolo già oggi raggiunti, implica un danno latente immenso per le 
attuali comunità.
Nonostante
 l’economia monetaria abbia creato un mito popolare del progresso 
scientifico e tecnologico, facendo credere che esso possa risolvere 
praticamente ogni cosa, la realtà è che essa si oppone fortemente a tale
 progresso, non di rado arrivando persino ad impiegare ingenti risorse 
finanziarie per screditare la comunità scientifica in modo da preservare
 forme di business altrimenti screditati (il caso delle lobby del 
tabacco sia preso a caso esemplare, ma non unico, di tale tendenza). 
Inutile dire che anche questi aspetti illeciti e/o illegali perdono di 
valore e significato se si esce dalle logiche basate sullo scambio 
commerciale.
Sul
 lato opposto, la conoscenza, in una economia coloniale, sarebbe la più 
preziosa delle risorse, poiché essa è di fatto l’unica che può 
espandersi senza limiti e che comporta ricadute a cascata su tutte le 
altre risorse.  
La PREVENZIONE SOCIALE
Un’economia
 monetaria è un’economia piena di contrasti, conflitti d’interesse e 
contraddizioni. L’interesse di una buona salute pubblica, ad esempio, 
confligge con l’esigenza di un’industria farmaceutica di vendere farmaci
 e cure di vario genere. L’interesse di società private che utilizzano 
od operano intorno alle carceri, contrasta con l’interesse collettivo di
 una giustizia imparziale e con la prevenzione (anziché la repressione 
ex-post) del crimine. L’interesse ad una pace duratura confligge con 
l’interesse dell’industria bellica a vendere armi. L’interesse 
collettivo ad un’ottima cultura generale confligge con il vantaggio 
competitivo dei singoli tra classi sociali differenti e con l’esistenza 
di asimmetrie informative. Si potrebbe andare avanti all’infinito a 
descrivere interessi generali rilevanti che contrastano con interessi 
privati di pari importo. Tali conflitti e le loro deleterie conseguenze 
sussistono in un’economia monetaria, ma sono degli intollerabili 
“non-senso” in economie non-monetarie. 
Un’economia
 non-monetaria potrebbe facilmente basare la strategia di salute 
pubblica sulla prevenzione invece che sulla cura delle patologie, un 
approccio difficile da realizzare in un economia che venera l’aumento 
infinito del PIL. Non solo, grandissima parte (se non tutta) la 
corruzione e la criminalità (organizzata e non) deriva dalla possibilità
 e dalla necessità di convertire denaro in utilità. Se si spezza tale 
legame, allora si elimina anche la prima causa del crimine 
“professionale” e dei sistemi di corruzione sistemica degli apparati 
pubblici e privati. La prevenzione sociale (intesa in senso lato), in 
un’economia delle risorse, non è un costo, una scelta ideologica o un 
sogno, ma un semplice e banale investimento per minimizzare i costi e 
massimizzare l’utilità sia dei singoli sia della collettività.
Venendo
 meno le sperequazioni sociali inoltre vengono meno tutte criticità 
associate a tali sperequazioni reddituali e patrimoniali. Ciò vuol dire 
che le economie coloniali, a livello sociale partirebbero immediatamente
 avvantaggiate rispetto ad economie monetarie di entità analoga. Le 
colonie avrebbero non solo meno sprechi, ma anche meno esternalità 
negative non solo in ambito ambientale ma anche relazionale e sociale.
Concludo
 dicendo con piena convinzione che l’utopia è impossibile, ma se 
pensiamo che anche il “meglio” sia impossibile e persino un modesto “più
 efficiente” possa essere impossibile, allora non siamo poi così moderni
 come vorremmo far credere a noi stessi e agli altri.
