domenica 17 marzo 2013

Grandezza smisurata: il racconto del collasso


Di Ugo Bardi.

Da “Cassandra's Legacy” . Traduzione di MR



Non molto tempo fa, stavo parlando con un amico americano nel bosco vicino a casa mia. Mentre camminavamo, gli indicavo gli effetti del cambiamento climatico che erano visibili tutt'intorno a noi: alberi parzialmente secchi, vegetazione danneggiata, segni di incendi ed altro. Dopo un po', però, ho notato che le mie parole non producevano alcuna replica. Era come se lui non stesse ascoltando quello che stavo dicendo oppure, se poteva sentirmi, non riusciva a dare un senso a quello che dicevo. 

Il mio amico non è un negazionista climatico nel senso di qualcuno che è guidato da ragioni ideologiche. Era solo che per lui il cambiamento climatico era un concetto totalmente alieno. Non era proprio parte della sua visione del futuro del mondo, che lui sembrava vedere come dominato smartphone sempre più potenti. 

Penso che il modo in cui vediamo il mondo sia principalmente come se fosse una storia. Assorbiamo nuove informazioni confrontandole agli elementi concatenati del piano di una storia lunga e complessa che abbiamo in testa. Per alcuni di noi, è un racconto di progresso e di gadget sempre più sofisticati. Per altri, è un racconto di grandezza iniziale e di successivo fallimento. E col mio amico nel bosco era come se fossimo personaggi di storie diverse come se, diciamo, il principe Amleto incontrasse Homer Simpson.   

Il concetto del mondo come racconto mi è tornato in mente leggendo “Grandezza smisurata, il motivo per cui le civiltà falliscono”, un libro di William Ophuls. Sta tutto lì: la nostra storia, la storia della nostra civiltà che vediamo mentre passa attraverso la sua splendida traiettoria che l'ha portata ad altezze mai viste in passato, ma che finirà in un collasso ancora più splendido. 

Il libro non cerca di convincerci di niente, non crea modelli, non presenta soluzioni, non sostiene che dobbiamo cambiare comportamento. E' solo quello: un racconto del collasso che incombe su di noi in un libro sottile di meno di 70 pagine, scritto in uno stile che ricorda molto quello del “Declino e Caduta dell'Impero Romano di Edward Gibbon.

Un paio di estratti (p. 57)

“Senza mezzi termini, le società umane sono dipendenti dalle proprie idee dominanti, dai loro stili di vita ricevuti, e sono fanatiche nel difenderli. Pertanto, sono estremamente riluttanti a riformarle. “Ammettere l'errore e limitare le perdite”, ha detto Tuchman, “è raro fra gli individui, sconosciuto fra gli stati”.


E (p. 68)

“... la tracotanza di ogni civiltà è che essa è, come il Titanic, inaffondabile. Pertanto, manca la motivazione a pianificare in caso di naufragio. Inoltre, le contraddizioni e le difficoltà della civiltà sono visti non come sintomi di un imminente collasso ma, piuttosto, come problema da risolvere con migliori politiche e ulteriore organico

In un certo senso, è una storia affascinate, drammatica e dal ritmo rapido e per molti di noi è il racconto giusto del mondo per come lo vediamo. Altri, tuttavia, continueranno a vedere gli smartphone come più importanti del cambiamento climatico.






sabato 16 marzo 2013

E' La negazione la più grande barriera al cambiamento sostenibile?

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (h/t Max Iacono)

Di

1 Febbraio 2013

La battaglia per il riconoscimento del cambiamento climatico potrebbe essere finalmente essere vinta ma, a meno che non troviamo modi innovativi per far fronte alla nostra paura di agire, potremmo ancora perdere la guerra.


Sono la paura e la negazione che ci impediscono di agire su questioni globali come il cambiamento climatico? Foto: Handout / Reuters


Esiste un vecchia barzelletta che dice che la negazione non è un fiume in Egitto (gioco di parole denial/the Nile, che si pronunciamo quasi allo stesso mondo in inglese, ndt.). Tuttavia, è la più perniciosa delle barriere nell'affrontare le sfide della sostenibilità della nostra epoca.

Non che dovremmo esserne sorpresi, perché, come esseri umani, siamo bravissimi a bloccare tutti i tipi di trauma, nella speranza di tenere insieme le cose solo un po' più a lungo.

Ci sono stati alcuni eventi durante la scorsa settimana che hanno portato la questione della negazione in una luce particolare. Ho parlato in privato con l'amministratore delegato di una grande azienda a Davos che mi ha detto che, nell'attuale difficile situazione economica, non era in grado di parlare di questioni di sostenibilità pubblicamente, in quanto gli azionisti avrebbero percepito questo come un perdere di vista la crescita dei profitti a breve termine.

Tornato a Londra un paio di giorni più tardi, l'amministratore delegato di una grossa impresa di investimento della città mi ha raccontato di quanto i dirigenti abbiano paura di esprimere la verità nei mercati. L'istinto gregario è vivo e vegeto quindi.

Forse ancora più preoccupante - dall'altra parte del mondo - è stata la risposta del premier del New South Wales, Barry O'Farrell, per le devastanti inondazioni che sono seguite a un'estate australiana di caldo senza precedenti.

"Cerchiamo di non trasformare questo quasi-disastro, questo episodio che ha danneggiato le proprietà e tante altre cose, in un dibattito politicamente corretto sul cambiamento climatico", ha detto.

E non è affatto solo. Il senso di enorme frustrazione tra i negoziatori del cambiamento climatico e i leader istituzionali a Davos circa l'incapacità di chi detiene il potere di prendersi la responsabilità era palpabile.

I vertici della Banca Mondiale, FMI e OCSE si sono incontrati privatamente coi leader politici e hanno detto loro, collettivamente, di dimenticare il concetto di crescita se non sono preparati ad affrontare i cambiamenti climatici e la scarsità di risorse.

Il discorso dell'ultimo giorno a Davos, era del presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim, che ha dedicato sette dei 10 minuti dello stesso ai presidenti e primi ministri mondiali parlando della terribile catastrofe che ci attende.

Per fortuna è pronto a mettere la testa oltre il parapetto. In un articolo del Washington Post, non avrebbe potuto essere più chiaro: "Proprio come le istituzioni di Bretton Woods sono state create per evitare una terza guerra mondiale, il mondo ha bisogno di un approccio coraggioso e globale per evitare la catastrofe climatica che gli si trova di fronte oggi. Bank Group è pronta a lavorare con gli altri per affrontare questa sfida. Con ogni investimento che facciamo e ogni nostra azione, dobbiamo avere in mente la minaccia di un mondo ancora più caldo e la possibilità di una crescita inclusiva verde.

Ha continuato: "Dopo l'anno più caldo mai registrato negli Stati Uniti, un anno in cui l'uragano Sandy ha causato miliardi di dollari di danni, una siccità record ha bruciato terreni agricoli nel Midwest e la nostra organizzazione ha riferito che il pianeta potrebbe diventare più caldo di sette gradi, cosa stiamo aspettando? Dobbiamo prendere le cose velocemente sul serio. Il pianeta, la nostra casa, non può aspettare."

Ma il suo squillo di tromba sarà caduto nel vuoto? La risposta a breve termine probabilmente è sì, ed i capi delle varie istituzioni sono in difficoltà su quale approccio adottare per ottenere reale traino.

Dire alla gente quanto sia brutta la situazione rischia di spingerla ancora di più verso la negazione, non vedendo alcuna via d'uscita. Ma il falso ottimismo maschera la verità che dobbiamo affrontare.

Achim Steiner, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente, crede che dobbiamo essere molto più positivi, mostrando fino a che punto siamo già arrivati negli ultimi 25 anni e come l'innovazione può portarci al livello successivo. Questa è una cosa buona e giusta, ma può rappresentare un approccio lento in un momento in cui abbiamo bisogno di cambiamenti rapidi e profondi.

Forse la risposta è quella di cercare idee altrove, soprattutto tra i professionisti che sanno come lavorare con la dipendenza e il trauma, perché se ci prendiamo il tempo di guardare in profondità, il dolore collettivo è alla radice dei problemi che dobbiamo affrontare.

L'economista Jeffrey Sachs, che era a Davos per parlare del suo ordine del giorno, la felicità, sa bene quanto sia importante adottare un approccio interdisciplinare. Ha imparato da giovane, quando è stato mandato in Bolivia per curare l'iper-inflazione, e si è reso conto che la conoscenza dell'economia da sola non era abbastanza per curare i mali di un paese.

Sachs, che è direttore dell'Earth Institute della Columbia University, l'anno scorso ha tenuto una conferenza di un giorno alla quale hanno partecipato esperti di una vasta gamma di discipline, tra cui il neuroscienziato Richard Davidson, il monaco buddista Matthieu Ricard e Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva.

Il libro preferito del presidente della Banca Mondiale è il “Miracolo della Presenza Mentale” del maestro Zen, Thich Nhat Hanh, ed è probabile che i due uomini si incontreranno entro la fine dell'anno.

Quando ho intervistato Thich Nhat Hanh nel suo monastero francese di Plum Village qualche settimana fa, egli ha detto in generale delle persone: "Quando vedono la verità è troppo tardi per agire ... ma non vogliono svegliarsi, perché può farli soffrire, non possono affrontare la verità. Non è che non sanno cosa sta per accadere, solo che non vogliono pensarci...

"Vogliono darsi da fare per dimenticare. Non dobbiamo parlare in termini di ciò che dovrebbero fare e quello che non dovrebbero fare per il bene futuro. Dovremmo parlare con loro in un modo che tocchi il loro cuore, che li aiuti ad impegnarsi sulla via che li porterà alla vera felicità, la via dell'amore e della comprensione, il coraggio di lasciar andare. Quando avranno assaggiato un po' di pace e di amore, potranno svegliarsi".

Ciò che Davos ci ha mostrato è che, mentre la battaglia per l'accettazione del cambiamento climatico come realtà è stata finalmente vinta, a meno che non troviamo forme innovative per dissolvere la paura e la negazione dei popoli, siamo a rischio estremo di perdere la guerra.

venerdì 15 marzo 2013

Il petrolio di Mauro Annese

Avete mai visto del petrolio vero? Ovvero, vi è mai capitato di vedere anche solo qualche goccia del prezioso liquido?

Se non siete geologi petroliferi, è molto probabile che la risposta sia no. Anche per me, che me ne occupo ormai da anni, soltanto una volta ero riuscito a procurarmi un paio di boccette di roba nerastra; che poi però poi qualcuno mi ha chiesto in prestito e non mi ha più reso.

Così, c'è gente che conciona a lungo e con apparente competenza di risorse "convenzionali" e "non convenzionali", di "fracking", di "sabbie bituminose" e poi però ti accorgi che non ha la minima idea di cosa sta descrivendo. In effetti, è un gran disastro che quelli che parlano di petrolio in pubblico siano quasi sempre degli economisti, e quasi mai dei geologi.

Certo, uno può andare a leggersi i sacri testi di geologia del petrolio che spiegano come stanno le cose, ma molto, molto più in dettaglio di quanto la maggior parte di noi vogliano sapere. Se si cercano dei libri un tantino più divulgativi non siamo messi bene.

In inglese, ci sono ottimi testi di Colin Campbell e Kenneth Deffeyes, entrambi geologi petroliferi che si sono presi l'onere e l'onore di scrivere testi comprensibili anche ai non specialisti (specialmente Deffeyes è una miniera di informazioni pratiche su come si cerca, e si trova, il petrolio) . Ma in Italiano, non c'è quasi niente, a parte, come dicevo, testi scritti da persone con preparazione in economia (e che, di conseguenza, a volte contengono notevoli errori).

Per fortuna, rimedia Mauro Annese, producendo quello che è forse il primo libro divulgativo sulla geologia del petrolio scritto in Italiano. Annese è un geologo petrolifero "purosangue" e racconta la sua esperienza di una vita di lavoro in questo libro con grande dovizia di dettagli e di informazioni.

Certo, l'impostazione di Annese sull'argomento petrolio è tradizionale: non è un "picchista" e nemmeno ama le rinnovabili. Ma il libro merita di essere letto anche dai picchisti, come probabilmente i lettori di questo blog sono in maggioranza. Se non altro, per farsi un'idea dell'immensa complessità della faccenda petrolio.

Sapete, la questione del picco, come si è detto tante volte, ha poco a che vedere con l'esaurimento fisico del petrolio. E' più correlata a quello che Joseph  Tainter chiama "i ritorni decrescenti della complessità". Tainter vede la cosa in termini sociali e politici, ma il concetto vale in tanti campi diversi. Allora, a vedere la complessità dell'industria petrolifera moderna, ti viene veramente da pensare.

Tutta questa gigantesca e barocca costruzione ha costi enormi e richiede il lavoro di un numero incredibile di persone che hanno dedicato la loro vita a specializzarsi nelle varie sfaccettature della ricerca e della produzione petrolifera. Ma i ritorni economici tendono a decrescere per via dell'esaurimento, delle difficoltà crescenti, delle condizioni estreme delle regioni dove si estrae, e per tante altre cose; incluso i danni fatti dall'inquinamento prodotto dall'estrazione (ci ricordiamo il caso del Golfo del Messico nel 2010). E allora? E allora tutti questi fattori generano quello che alle volte chiamiamo "picco".




Il petrolio. Di Mauro Annese. Aracne editrice, 2013
 






mercoledì 13 marzo 2013

Davvero viviamo in tempi oscuri

Come parte di una piccola serie dedicata al ruolo del carbone nella storia d'Italia, ecco un post pubblicato nel 2007 sul sito di ASPO-Italia. Un post più recente sullo stesso argomento, lo trovate a questo link su "Effetto Cassandra"



Davvero viviamo in tempi oscuri
Molti anni fa, negli anni trenta, Bertolt Brecht scrisse un poema intitolato "A quelli che verranno" che cominciava con le parole "Davvero viviamo in tempi oscuri".

Per noi, quelli che sono venuti parecchi decenni dopo, i tempi oscuri di Brecht ci appaiono lontani in un certo senso, e in un certo senso fin troppo vicini. Torture, guerra, morte, devastazione, follia; è la sensazione di qualcosa che ci sta divorando dall'interno, come gli alieni dei film di fantascienza; oppure di qualcosa ce ci invade inesorabilmente come la nebbia del nulla del film "La storia infinita". Viviamo anche noi in tempi oscuri, forse addirittura più oscuri di quelli di Bertolt Brecht.

Il legame fra i nostri tempi e quelli degli anni trenta potrebbe essere assai più concreto di quanto non appaia dai vari sintomi esteriori. E' un legame che coinvolge le basi stesse della nostra civiltà, allora come oggi dipendente da oscure sostanze estratte dal cuore della terra. Il petrolio ai nostri tempi, il carbone ai tempi di Brecht.

Non molto tempo fa, ho scoperto quanto simile fosse la storia del carbone a quella del petrolio studiando l'andamento della produzione del carbone inglese. Quello che avevo scoperto leggendo le statistiche della "coal authority" erano i veri motivi della seconda guerra mondiale, cosa che ho descritto in un articolo sulla ASPO newsletter. Tutto mi è ritornato in mente con una piccola epifania di comprensione in questi giorni leggendo un vecchio libro trovato fra le carte di una zia, l "Almanacco della Donna Italiana" del 1941. E' una specie di messaggio in bottiglia arrivato da quei tempi ormai lontani che, tuttavia, sono uno specchio perfetto dei nostri.

Da questo almanacco, sembra che la vita di 66 anni fa non fosse molto diversa da quella di oggi. Ci sono articoli su cosa fare quando ci sono i muratori in casa, come allevare i figli; si parla di arte, di letteratura e di moda. Eppure, nel 1941, la guerra era diventata qualcosa che non si poteva più ignorare. Era una cosa che cominciava a mordere nella vita di tutti i giorni, specialmente dopo la dichiarazone di guerra all'Inghilterra e il disastro che era stato l'attacco alla Grecia nell'Ottobre 1940. Troviamo a pagina 203, dopo un articolo sulla pittura contemporanea e prima di uno sulla vendita a rate e su "come essere belle", un articolo intitolato "Anno XVIII." Qui, Ridolfo Mazzucconi, prolifico autore di testi patriottici del ventennio, spiega alle donne italiane le ragioni e l'andamento della guerra.

A distanza di quasi settanta anni dall'inizio della guerra, ci rimane ancora oggi misterioso come avvenne che l'11 Giugno 1940 l'Italia si risolse a dichiarare guerra a una nazione tradizionalmente alleata, l'Inghilterra, che in quel momento non minacciava minimamente l'Italia. In qualche modo, la cosa doveva avere una sua logica al di là della follia momentanea di un dittatore. Quello che leggiamo spesso nei libri di storia è che gli Italiani erano ancora offesi con gli alleati per come erano state spartite le spoglie della prima guerra mondiale nel 1919 a Versailles. Spiegazione che va indietro a vent'anni prima ed è un po' curiosa e inverosimile. Si può veramente fare una guerra per un litigio di vent'anni prima? Ancora più curioso è che Mazzucconi non nomina niente del genere; anzi menziona la "bella fratellanza" dell'Italia con l'Inghilterra degli anni 15-18.

Questo della "bella fratellanza" non è un concetto sbagliato. Inghilterra e Italia erano state veramente "sorelle" da quando l'Inghilterra aveva aiutato l'unificazione italiana al tempo di Garibaldi. Un po' era stato perché agli inglesi faceva comodo un contrappeso mediterraneo all'impero austro-ungarico, ma anche per una genuina simpatia per gli italiani e la rivoluzione italiana di quel tempo.

I rapporti stretti e amichevoli fra Inghilterra e Italia risalivano a ben prima. Risalivano all'inizio del secolo diciannovesimo, a quando l'Inghilterra aveva reso possibile la rivoluzione industriale italiana con le sue forniture di carbone. Erano state le carboniere inglesi a trasformare l'Italia da un insieme di staterelli agricoli a una nazione industriale. In un certo senso, nell'800 l'Italia era stata una colonia inglese, ma anche molto più di una colonia. Per gli Inglesi facoltosi, il viaggio in Italia da farsi in gioventù era diventato parte integrante della loro cultura; un viaggio alle origini della civiltà occidentale, della quale l'Italia manteneva ancora le vestigia. Lo si faceva ancora nel '900 e ci ricordiamo del bel libro di Forster "Camera con Vista" che descrive la vita degli Inglesi a Firenze nei primi anni del secolo. Qualche traccia di quelle abitudini rimane ancora ai nostri giorni.

Ma negli anni trenta del ventesimo secolo, le cose erano cambiate. Qualcosa si era rotto nel rapporto fra Italia e Inghilterra, fino ad allora idillico. Nel 1935, l'Italia invadeva l'Etiopia, sconvolgendo tutti gli equilibri locali e mondiali. Quale ventata di follia ha portato l'Italia a cercarsi un impero in un paese poverissimo che non aveva niente di utile per gli Italiani? Perché andarsi a mettere in diretto contrasto con l'Inghilterra, che era alleata dell'Etiopia? Comunque fosse, era il primo passo della strada che quattro anni dopo avrebbe portato a una follia ben peggiore: la dichiarazione di guerra all'inghilterra.

Forse era soltanto follia, o forse c'era un metodo in quella follia. E un certo metodo, c'era. Lo si trova descritto in poche righe del testo di Mazzucconi. Ecco l'epifania di cui parlavo (p. 205 dell' "Almanacco"):

(L'inghilterra ordinò) con provvedimento repentino la sospensione dell'inoltro di carbone tedesco a noi diretto via Rotterdam. In compenso, si offrì di sostituire la Germania nelle forniture di carbone: ma il servizio era subordinato a condizioni tali che accettarli sarebbe stato aggiogarsi al carro dell'interesse politico britannico e pregiudicare nel modo più grave la nostra preparazione bellica. Il governo fascista rispose con la dovuta bruscheria; e il carbone tedesco che non poteva più venire per mare trovò più comoda e breve la strada del Brennero.

Questa faccenda del carbone fu una salutare crisi chiarificatrice dell'orizzonte politico. Il 9 e il 10 Marzo
(1940), Ribbetrop era a Roma e la visita diede luogo a un affermazione netta e precisa. L'asse era intatto, l'alleanza fra Italia e Germania continuava. Qualche giorno dopo, il 18, Mussolini e Hitler si incontravano per la prima volta al Brennero e allora anche i ciechi furono obbligati a vedere e i corti di mente a capire.

Queste poche righe descrivono tutto il dramma dell'entrata in guerra dell'Italia contro l'Inghilterra. Teniamo conto che l'Italia dell'epoca, come quella di oggi, non aveva carbone e che, a quel tempo, il carbone era altrettanto, e forse più, vitale di quanto lo è oggi il petrolio. Senza carbone, gli Italiani non potevano sopravvivere e lo dovevano avere o dall'Inghilterra o dalla Germania; gli unici due produttori in grado di fornirglielo. E con l'Inghilterra e la Germania in guerra fra loro, l'Italia doveva fare una scelta.

Ma questi pochi giorni del 1940, dove si decise la sorte dell'Italia, furono solo il punto culminante di una storia del carbone che era cominciata molto prima. Abbiamo detto che l'industria italiana era stata creata dal carbone inglese. Che cosa era successo che aveva rotto il legame fra Italia e Inghilterra? Che cosa aveva reso l'offerta inglese di carbone nel 1940 "inaccettabile"?

A quell'epoca, si poteva pensare che fosse la perfidia degli albionici la ragione per la quale non ci volevano fornire il carbone e, invero, Mazzucconi è autore di un testo del 1935 intitolato "La Perfida Albione". Oggi, invece, abbiamo uno strumento intellettuale che ci permette di riconoscere che cosa era successo. Un concetto semplice: il picco del carbone. La produzione inglese aveva "piccato", ovvero raggiunto il suo limite produttivo, nei primi anni 20.

Il picco ci è più noto per il petrolio, dopo che Marion King Hubbert negli anni 50 aveva previsto quello del petrolio negli Stati Uniti. Ma la teoria di Hubbert vale altrettanto bene per il carbone, come pure per tutte le risorse minerali. Il picco è il risultato della conbinazione di fattori economici e geologici; via via che si estrae una risorsa questa diventa più cara da estrarre. A lungo termine, il sistema economico del paese estrattore non riesce più a continuare a espandere l'estrazione, che comincia a declinare, Ecco qui il picco del carbone inglese (da ASPO).Il massimo produttivo del carbone inglese fu nel 1913, a quel tempo in Italia se ne importarono quasi 10 milioni di tonnellate. Dopo quella data, le importazioni di carbone inglese scesero intorno intorno alle sei milioni di tonnellate negli anni venti, per poi precipitare negli anni trenta. Allo stesso tempo, le importazioni italiane di carbone dalla Germania aumentavano (da Walter H. Voskuil Economic Geography, Vol. 18, No. 3. (Jul., 1942), pp. 247-258.).

A parte la "appropriata bruscheria" del governo fascista che Mazzucconi ci descrive, gli eventi del 1940 non fecero che sancire la situazione di fatto. L'Inghilterra semplicemente non poteva rifornire l'Italia di carbone; né allo stesso prezzo né alle stesse condizioni della Germania che non aveva ancora raggiunto il suo picco di produzione. La scelta di Mussolini fu basata molto di più sul carbone che sull'ideologia. In un certo senso era una scelta logica, anche se di una logica perversa.

Ma, al tempo di Ridolfo Mazzucconi il concetto di picco di produzione non esisteva. La caduta delle importazioni in Italia fu attribuita alla perfidia inglese, proprio come, più tardi, la grande crisi del petrolio degli anni settanta fu attribuita alla perfidia degli sceicchi. Per Mazzucconi la guerra era il risultato di una "lotta rivoluzionaria" dei popoli dell'Asse contro "il basso istinto di conservazione" delle grandi potenze, la Francia e l'Inghilterra. Sempre secondo Mazzucconi, lo scopo della guerra è, alla fin dei conti far si che "il color verdolino chiaro col quale vengono segnati per convenzione cartografica i territori italiani" prenda il posto di "molto viola francese e di troppo arancione britannico"-

Oggi, ci è facile prendere in giro Mazzucconi, la sua perfida albione e il suo verdolino italiano che rimpiazzava il viola francese e l'arancione britannico. Lui, come tutti a quell'epoca vedeva il futuro oscuramente, come in uno specchio. Il suo futuro per noi è passato e la gioia insensata con cui Mazzucconi ci racconta di come le città inglesi erano "successivamente e razionalmente" sottoposte ad "azioni distruttive di apocalittica intensità" ci appare per quello che era; totale follia. Si immaginava Mazzucconi o qualcuno in Italia che quelle azioni distruttive di apocalittica intensità sarebbero ritornate al mittente e con gli interessi? Eppure, il nostro futuro ci è altrettanto ignoto di quello che per Mazzucconi era il futuro nel 1940. Non solo altrettanto ignoto, ma altrettanto e, forse più, inquietante; specialmente riguardo alle "azioni distruttive di apocalittica intensità"

"Davvero, viviamo in tempi oscuri" diceva Bertolt Brecht. Oggi, l'oscuro potere del carbone di allora è stato rimpiazzato dall'oscuro potere del petrolio. Brecht, il futuro l'aveva visto bene; come sarà il nostro?

Veramente io vivo in tempi oscuri!
La parola sincera è follia. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
non ha ancora saputo
l’atroce notizia.

Che tempi sono questi, quando
un discorso sugli alberi è quasi un delitto,
perché evita di parlare delle troppe stragi?
E l’uomo che attraversa tranquillo la strada
potrà mai essere raggiunto dagli amici
che vivono nel pericolo?

È vero: io mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è solo un caso. Niente
di quello che faccio mi autorizza a sfamarmi.
Mi risparmiano per caso. (Basta che il vento giri
e sono perduto.)

“Mangia e bevi” mi dicono “e sii contento di esistere”.
Ma come posso mangiare e bere, quando
quel che mangio lo strappo a chi ha fame
e il mio bicchiere d’acqua manca a chi ha più sete di me?
Eppure mangio e bevo




/

(da A quelli che verranno di Bertolt Brecht, 1938)

martedì 12 marzo 2013

Il picco del carbone in Gran Bretagna


Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Questo è un testo che ho pubblicato nel 2007 nel n° 73 della newsletter di ASPO. Ho pensato che fosse appropriato riprodurlo qui perché in un post recente ho menzionato la questione della politica italiana e delle importazioni di carbone dalla Gran Bretagna prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. E' un soggetto che avevo già toccato in questo vecchio studio. Quindi, eccolo, in generale ancora valido dopo diversi anni.


L'ANTENATO DEL PICCO DEL PETROLIO: IL PICCO DELLA PRODUZIONE BRITANNICA DI CARBONE NEGLI ANNI 20.
di Ugo Bardi - ASPO Newsletter n. 73


Figura 1. Produzione del carbone britannico dal 1815 al 2004. I dati dal 1815 al 1860 provengono da Cook e Stevenson, 1996. I dati dal 1860 al 1946 provengono da Kirby, 1977. I dati dal 1947 ai giorni nostri sono dell'Autorità Britannica per il Carbone (accesso del 2006). I dati della produzione sono misurati con una funzione Gaussiana che approssima la curva di Hubbert. 


Ci troviamo a pochi anni dal picco del petrolio, il momento in cui la produzione mondiale di petrolio inizierà un declino irreversibile. Cosa dovremmo aspettarci al picco e dopo? La storia non è una guida diretta, visto che non ci sono casi nel passato di una importante merce globale, come il petrolio, che abbia raggiunto il proprio picco.

Tuttavia, ci sono stati picchi regionali che hanno avuto effetti globali. Il caso più conosciuto è quello della produzione statunitense di petrolio che ha raggiunto il picco nel 1970 e che ha portato la prima grande crisi petrolifera negli anni seguenti. Ma quello non è stato il primo caso di una grande risorsa che ha raggiunto il picco per poi declinare. C'è stato un altro grande picco circa mezzo secolo prima: il Picco del Carbone in Gran Bretagna negli anni 20.

Il passato geologico ha lasciato alla Gran Bretagna una dote in carbone senza eguali in altre regioni europee. Lo sfruttamento è iniziato nel Medio evo e, già all'inizio del 18° secolo, l'industria del carbone ha cominciato una crescita esponenziale. Il carbone ha alimentato la rivoluzione industriale britannica ed era anche collegato al potere politico, permettendo alla Gran Bretagna di costruire il primo, e al momento unico, vero impero mondiale della storia.

L'importanza del carbone e difficile da sovrastimare. Durante il periodo di espansione dell'industria, un minatore britannico poteva produrre 250 tonnellate di carbone all'anno (Kirby 1977). Anche tenendo conto che circa il 20% doveva essere usato per estrarre più carbone, la produttività di un minatore di carbone, in termini energetici, era di cento volte più grande di quella di un lavoratore agricolo. Al culmine del proprio impero, la Gran Bretagna impegava più di un milione di minatori (Kirby 1977). Era la superpotenza del tempo, sfidata soltanto da altri stati produttori di carbone. Nella Prima Guerra Mondiale, il carbone britannico ha combattuto contro quello tedesco: ha vinto quello britannico.

Ma il carbone non poteva durare per sempre, anche per la ben dotata Gran Bretagna. Già a metà del 19° secolo, William Stanley Jevons aveva previsto, nel suo "La Questione del Carbone" (1856), che l'esaurimento avrebbe reso un giorno il carbone britannico troppo costoso per l'industria britannica. Jevons non espresse esplicitamente il concetto di "Picco del Carbone" ma, in senso qualitativo, la sua analisi era simile a quella di Marion King Hubbert per la produzione di petrolio negli Stati Uniti (Hubbert, 1956). E Jevons aveva ragione: il picco del carbone britannico è arrivato nel 1913, con 287 milioni di tonnellate. L'industria del carbone britannico ha lottato per mantenere la produzione ma non è riuscita più a raggiungere quel livello. Lo sforzo nell'industria è anche mostrato dai due scioperi generali dei minatori del 1921 e del 1926 che hanno causato un temporaneo crollo della produzione. La tendenza alla diminuzione è divenuta evidente negli anni 30 e non poteva essere fermata. La produzione britannica ha seguito una classica curva a campana in buon accordo col modello di Hubbert, con una distribuzione che da un picco nel 1923, solo 10 anni dopo il massimo effettivo. Oggi, la produzione di carbone in Gran Bretagna è meno di un decimo di quanto fosse al suo picco.

Il picco del carbone britannico è stato un punto di svolta nella storia. Mai prima di allora una grande regione produttrice di energia aveva iniziato a declinare. Ci sono analogie impressionanti fra il Picco del carbone britannico nel 1923 e il Picco del Petrolio americano del 1970. In entrambi i casi questi paesi stavano producendo al picco circa il 20% del totale mondiale. In entrambi i casi, le conseguenze mondiali sono state importanti. Prima del picco, la Gran Bretagna esportava circa il 25% della propria produzione interna e questa quantità era cresciuta esponenzialmente con la produzione. Dopo il picco, le esportazioni hanno iniziato a declinare causando una scarsità di carbone nel mercato mondiale. Nel caso degli Stati Uniti, le esportazioni di petrolio non erano importanti prima del picco. Ma, dopo il picco, le importazioni di petrolio statunitensi sono salite rapidamente, portando a loro volta ad una scarsità nel mercato mondiale.

Le scarsità di petrolio negli anni 70 hanno fatto salire i picchi dei prezzi causando la Grande Crisi Petrolifera. Un picco simile ha avuto luogo negli anni 20 per il carbone  (Governo Australiano, 2006) anche se è stato meno pronunciato. Molto probabilmente, il picco del carbone è stato meno brusco perché il controllo dei prezzi messo in atto durante la guerra è stato solo leggermente allentato negli anni 20. I prezzi del carbone si sono mantenuti alti negli anni 20, ma sono crollati col crollo del mercato nel 1929.

Molte regioni dell'Europa dipendevano dal carbone britannico, quindi la mancanza di carbone si è sentita ovunque. Diversi eventi che hanno seguito il picco del carbone britannico possono essere ricondotti alla riduzione della disponibilità di energia: il declino dell'Impero Britannico, la Grande Depressione degli anni 30, così come il sollevamento generale dell'Europa negli anni 20 e 30. I giornali italiani degli anni 20 e 30 sono pieni di insulti contro la Gran Bretagna perché non mandava il carbone all'Italia, carbone che gli italiani si sentivano in diritto di avere. Ciò riflette il tipo di atteggiamento che i paesi occidentali hanno adottato contro i produttori di petrolio del Medio Oriente negli anni 70. Ma, se il carbone britannico era in diminuzione negli anni 30, il carbone tedesco era ancora in aumento, il suo picco sarebbe arrivato solo negli anni 40. La Germania non ha mai prodotto tanta antracite, cioè la qualità migliore, quanto la Gran Bretagna, ma negli anni 30 aveva il vantaggio di poter ancora aumentare la produzione, mentre quello della Gran Bretagna stava declinando.

Negli anni 30, l'Italia ha abbandonato il suo tradizionale alleato, la Gran Bretagna, per la Germania, perché solo la Germania poteva fornire il carbone di cui aveva bisogno l'industria italiana ad un prezzo che gli italiani si potevano permettere. Solo più tardi si sarebbero resi conto che il prezzo del carbone tedesco sarebbe stato molto più alto di quanto sembrasse. Nel 1950, dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, i problemi causati dal picco del carbone britannico sono stati risolti, per un po', passando al petrolio. Analogamente, dopo il trambusto della crisi petrolifera degli anni 70, i problemi causati dal picco del petrolio statunitense sono stati risolti, per un po', passando ad altre regioni produttive. In entrambi i casi, né il pubblico, né i politici, né gli economisti hanno visto le relazioni fra gli eventi politici ed economici del tempo, che erano legati al picco di petrolio e carbone.

Negli anni 30, sono stati scritti interi libri sul carbone (Neuman 1934), ma l'esaurimento mondiale difficilmente veniva citato. Nel 1977, Kirby ha scritto più di 200 pagine sulla storia dell'industria britannica del carbone durante il periodo del picco senza mai menzionare la questione dell'esaurimento. Apparentemente, non si riusciva ad afferrare il perché, mentre c'era ancora carbone da estrarre, la produzione declinava. Non capivano che non è la disponibilità fisica quella che conta, ma il costo di estrazione che aumenta col progressivo esaurimento. Era un concetto che Jevons aveva già capito circa un secolo prima, ma che non era sopravvissuto nell'economia dominante. Il caso del picco del petrolio statunitense è stato simile; il picco è stato generalmente ignorato dagli economisti, anche se Marion King Hubbert lo aveva previsto correttamente. Tutto ciò che è avvenuto dopo è stato attribuito a cause politiche. Entrambi i picchi sono stati dimenticati presto.

Oggi, è la produzione globale di petrolio che sta giungendo al picco. E' una cose che vediamo tutti, ma non è politicamente corretto dirlo. Il picco è un evento momentaneo, ma  accenna ad una realtà che gran parte della gente preferisce ignorare: il fatto che le risorse minerali sono finite. Possiamo ignorare anche il picco globale, proprio come gran parte della gente ha ignorato il picco del carbone britannico degli anni 20 e il picco del petrolio americano del 1970. Tuttavia, non saremo in grado di ignorarne gli effetti.

Bibliografia

Governo Australiano, Ministero del Tesoro, accesso del 2006
www.treasury.gov.au/documents/1042/HTML/docshell.asp?URL=02_Resource_commodities.asp

Autorità per il Carbone, accesso del 2006 www.coalminingreports.co.uk

Cook, C e Stevenson, J. 1996. The Longman Handbook of Modern British History, 1714-1995. Longman Terza edizione. Londra e New York: DOE 1993, DOE/EIA-0572 rapporto.

Hubbert, M.K. (1956). Energia nucleare e i combustibili fossili. Presentato prima dell'Incontro di Primavera del Southern District, Istituto Americano del Petrolio, Plaza Hotel, San Antonio, Texas, 7-8-9 marzo 1956

Kirby, M. W., 1977 The British Coalmining Industry, 1870-1946, The Macmillan Press Ltd, Londra e Birmingham.

Neuman A.M. 1934 Economic Organization of the British Coal Industry; Routledge ed..


domenica 10 marzo 2013

Il problema con la scienza del clima

Al punto in cui siamo arrivati, il problema della scienza del clima non è più tanto studiare l'atmosfera terrestre, ma studiare i meccanismi che rendono così difficile alla maggior parte degli esseri umani di capire la scienza del clima. La scienza del clima è veramente un campo interdisciplinare!

Qui di seguito, un filmato che illustra di un tentativo interessante in questo senso. Gli autori, Joe Brewer e Laszlo Karafiath, hanno usato il concetto di "meme" e hanno cercato di raccogliere tutte le forme ("memi") che il concetto di cambiamento climatico può prendere. Hanno trovato che, al momento, non esiste nessun meme efficace che possa diffondere il concetto di cambiamento climatico oltre il circa 5% della popolazione.

Vale la pena anche di leggere il loro rapporto a
http://www.slideshare.net/lazlomemes/global-warming-is-a-virus

(sottotitoli in italiano di Max Rupalti)


mercoledì 6 marzo 2013

Perché l'Italia?


Di Ugo Bardi
Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR



Un ritratto del mio trisnonno Ferdinando Bardi (1822-?). Ha combattuto con Garibaldi nella guerra per l'unificazione italiana del 1860 ed è stato premiato con le medaglie che vedete in questo dipinto. Spero solo che il mio antenato non abbia ammazzato troppa gente per meritarsi quelle medaglie ma, a parte questo, mi sono chiesto cosa lo abbia spinto a combattere in quella guerra. E' stato forse perché era pagato? Perché era in cerca di avventura? O è stato, davvero, nel nome “dell'Italia”? E, in quel caso, cosa avrebbe pensato se avesse immaginato l'attuale situazione italiana?



In questo post, rivisito rapidamente la storia dell'unificazione italiana sulla base del concetto che tutto ciò che esiste ha una ragione di esistere e che, quindi, alcuni degli eventi politici recenti in Italia, dalla tenuta di Berlusconi all'ascesa del movimento “5 stelle” abbiano le proprie radici nella storia antica. Mi scuso per la brevità di questo testo su un tema che richiederebbe un'analisi molto più approfondita. Ma spero che possa essere preso almeno come punto di partenza per apprendere di più su questa materia.


1. Perché L'Italia?

A scuola, agli italiani viene raccontata la versione standard degli eventi che hanno portato l'Italia a diventare uno stato unificato nel 1861. Questa versione dice che gli italiani hanno combattuto duramente e con passione per l'ideale di un paese unito. Dopo alcuni tentativi falliti, alla fine, un migliaio di volontari coraggiosi hanno seguito il generale Garibaldi nella lotta contro l'arretrato e dittatoriale Regno di Napoli. Con l'aiuto di molti patrioti napoletani, l'esercito di Garibaldi ha trionfato e questo ha portato all'unificazione dell'Italia in un unico stato governato dal saggio Re del Piemonte. Poco dopo, l'esercito italiano ha trionfato anche contro gruppi di banditi che hanno provato senza successo a resistere al processo di unificazione nel Sud Italia.

Tuttavia, esiste una versione diversa degli stessi eventi che sembra stia diventando più popolare in Italia in tempi recenti (chiamiamola la versione “revisionista”). Questa dice che il prosperoso e civilizzato Regno di Napoli è stato pugnalato alla schiena da una banda di mercenari guidati da un avventuriero di nome Giuseppe Garibaldi e pagati con l'oro del re del Piemonte. Con l'astuzia e il tradimento, Garibaldi è riuscito a sopraffare la resistenza disperata dell'esercito napoletano e a spodestare il Re di Napoli dal suo legittimo trono. In seguito, molti coraggiosi combattenti per la libertà napoletani hanno cercato di ristabilire il loro legittimo re, ma sono stati sterminati senza pietà dalle truppe piemontesi.

Queste, naturalmente, sono delle descrizioni estreme di un dibattito in corso sull'unificazione dell'Italia. Ma queste visioni illustrano almeno una delle molte caratteristiche affascinanti della storia: quanto facilmente proiettiamo i nostri sentimenti moderni sulle persone e gli eventi del passato. Qui, le versioni sia ufficiale sia revisionista, vedono l'unificazione dell'Italia alla luce di sentimenti che erano probabilmente lontani dal pensiero di quelli che hanno realmente vissuto l'evento. Ma i limiti di entrambe le visioni non è tanto nel forzare quegli antichi eventi in schemi moderni, ma nella loro tendenza a vedere la storia in una prospettiva puramente italiana.

La percezione della storia, più che storia in sé, forma i pensieri e le azioni. Così, se vogliamo capire gli eventi italiani, come l'ascesa e la persistenza del Sig. Berlusconi come primo ministro e leader, dovremmo provare a capire cosa ha portato l'Italia a diventare ciò che è oggi: uno stato unificato. E' stata, per molti aspetti, una conseguenza inevitabile delle tendenze del tempo, ma non esattamente per le ragioni che ci raccontano a scuola, né per quelle che a volte possiamo leggere in termini di versione revisionista. La politica internazionale ha giocato un ruolo fondamentale nell'unificazione, come la ricerca moderna sta iniziando a mostrare (1).


2. L'onda nera del carbone

A partire dal 17° secolo, l'Europa ha iniziato ad essere travolta da un'onda nera. Era un'onda di carbone, una fonte di energia economica e abbondante mai vista prima nella storia. Col carbone, è arrivata la rivoluzione industriale e con essa la crescita economica e il potere militare. Ma l'onda nera non è arrivata dappertutto allo stesso momento. A causa di eventi geologici remoti, il carbone si trovava principalmente nel Nord Europa. Quindi la rivoluzione industriale è iniziata nel sud della Gran Bretagna e nel nord della Francia.

Avere miniere di carbone non era strettamente necessario ad una regione per industrializzarsi: la fonte nera di energia poteva sempre essere importata. Il carbone era caro da trasportare via terra, ma poteva essere trasportato facilmente sull'acqua. Così, il bisogno di trasportare carbone era una delle ragioni principali che hanno portato allo sviluppo della rete europea di canali navigabili che hanno cominciato ad essere comuni nel 19° secolo. Ma nelle zone calde e aride, c'erano grossi problemi per costruire vie d'acqua navigabili. Niente canali significava niente carbone e niente carbone significava niente rivoluzione industriale. E questo, a sua volta, significava essere lasciati indietro nel fenomenale sviluppo economico creato dalla disponibilità di carbone. Delle regioni mediterranee, solo il nord Italia e la Catalogna hanno potuto costruire dei canali navigabili. Il resto è stato escluso dalla rivoluzione industriale.

Questo squilibrio di potere economico è stato il fattore chiave che ha generato l'unificazione italiana. Il Regno del Piemonte (ufficialmente il “Regno di Sardegna”) nell'Italia nord occidentale, aveva accesso a una rete di canali e, nel 19° secolo, è diventato una potenza militare ed industriale nella penisola italiana, mentre gran parte degli altri stati, specialmente al sud, erano rimasti economie agricole. Questo squilibrio di potere non era in sé sufficiente a creare l'unificazione italiana, ma una serie di circostanze esterne lo ha reso possibile e forse inevitabile.


3. Geopolitica mediterranea nel 19° secolo.

Prima della rivoluzione industriale, il Mar Mediterraneo era stato in gran parte un lago turco e, in parte minore, un entroterra dell'Impero Spagnolo. Ma Turchia e Spagna non potevano agganciarsi alla rivoluzione industriale: non avevano né sufficiente carbone né canali navigabili. Col 19° secolo, l'ascesa delle potenze industriali europee ha creato un vuoto di potere in rapido sviluppo nell'area mediterranea. Gran Bretagna, Francia, Austria e Russia guardavano a sud con l'idea di incorporarsi un pezzo dell'Impero Turco in declino (formalmente, “Impero Ottomano”).

Napoleone dette inizio ai fuochi d'artificio con l'invasione dell'Egitto nel 1798. Quel tentativo fallì, ma era soltanto un rimandare i piani francesi. Nel 1830, la Francia invadeva l'Algeria. Gli algerini opponevano una strenua resistenza ma, senza aiuto dall'Impero Ottomano in disfacimento, non potevano che essere sopraffatti dalla superiore potenza di fuoco e dal numero degli invasori. Stavolta era chiaro che la Francia era in Nord Africa per restarci.

La caduta dell'Algeria cambiava alla base i giochi di potere nel Mediterraneo. Ora, cosa avrebbe impedito ai francesi di prendersi per sé un piccolo impero mediterraneo? Avrebbe potuto includere il Nord Africa dal Marocco all'Egitto e, perché no, anche il regno di Napoli, un'altra regione non industrializzata che avrebbe potuto opporre ben poca resistenza. Nessuna delle altre potenze mondiali era nella posizione di fermare la Francia; o perlomeno non facilmente. La Russia era troppo lontana, l'Austria era imbottigliata nell'Adriatico del nord e i britannici erano pesantemente impegnati in Medio oriente.

Non c'è voluto molto sforzo ai diplomatici britannici per vedere che c'era una soluzione per fermare l'espansione francese che non richiedeva un intervento militare diretto. Ciò che serviva era una forte Italia unificata. Come stato, l'Italia sarebbe rimasta troppo debole per sfidare le potenze mondiali, ma sarebbe stata abbastanza forte da impedire un'invasione francese e per resistere ai tentativi francesi di dominare ciò che i governi italiani avrebbero visto come la sfera di influenza del paese in Nord Africa. Così, l'interesse britannico all'unificazione italiana è diventato una forza motrice nella politica italiana.

Questo non è stato il solo fattore in gioco a metà del 19° secolo nei giochi di potere del Mediterraneo. I piani britannici erano perfettamente coerenti con quelli del Piemonte, che puntava ad espellere l'Austria dal Nord Italia e di espandersi al sud nella penisola. Anche fuori dal Piemonte, gli italiani ricordavano molto bene i tempi, un paio di secoli prima, quando il territorio italiano era stato poco più di un campo di battaglia per potenze straniere che combattevano per la supremazia. Molti in Italia capivano che solo uno stato italiano unificato poteva mettere insieme sufficiente forza militare per mantenere l'Italia indipendente dal dominio straniero.

E c'erano anche ragioni economiche. Gli italiani potevano capire senza problemi che che solo un paese unificato poteva sbarazzarsi di arcaici confini e pedaggi, costruire una infrastruttura di trasporto snella e creare una singola valuta per facilitare il commercio. Anche qui, uno stato unificato era generalmente visto come l'unico modo per l'Italia di combattere la minaccia della dominazione straniera.


4. L'unificazione dell'Italia

Gli interessi convergenti di Gran Bretagna, Piemonte e di diversi movimenti di idee in Italia hanno portato all'unificazione dell'Italia nel 1861. E' stato il risultato di una serie di campagne militari di successo ed del trionfo delle diplomazie coordinate di Piemonte e Gran Bretagna. Delle potenze mondiali che potevano opporsi all'unificazione, l'Austria è stata sconfitta e la Francia era placata con un po' di terra (Savoia e Nizza) che valeva molto meno dei guadagni ottenuti dal Piemonte. Gli altri stati italiani non sono riusciti ad opporre una resistenza significativa; sono stati pacificamente integrati nel nuovo stato o sono stati spazzati via. Questo è stato il destino del “Regno delle due Sicilie” (conosciuto anche come “Regno di Napoli”). Non era né la dittatura arretrata né la terra prospera e civilizzata descritte oggi dalle diverse visioni della storia. Semplicemente, non si era industrializzato ed era economicamente troppo debole per sopravvivere da solo.

Per alcuni anni, dopo l'unificazione, è rimasta una resistenza ostinata nelle regioni interne di quello che era stato il Regno di Napoli, ma è stata repressa senza pietà. Poi, lo stato italiano da poco creato è risultato sorprendentemente resiliente. Naturalmente, l'Italia non è mai stata sufficientemente potente da competere con le grandi potenze, ma ha giocato il ruolo che ci si aspettava nel Mar Mediterraneo. L'Italia ha fermato i tentativi francesi di espansione in Tunisia e, nel 1911, l'Italia si è presa un pezzo di terra in Nord Africa sconfiggendo l'Impero Ottomano e annettendosi la regione che oggi chiamiamo Libia. Questo ha creato uno stato cuscinetto fra le sfere di influenza della Francia e della Gran Bretagna in Nord Africa.

Per lungo tempo, l'alleanza fra Gran Bretagna e Italia è rimasta forte, Così tanto che veniva chiamata dagli italiani “Bella Fratellanza”. L'Italia è rimasta una buona cliente del carbone britannico e meta preferita per i turisti britannici e per gli espatriati. Ma le cose sarebbero cambiate con la fine della Grande Guerra.


5. Il declino del carbone (e dell'Italia)

Finché l'Italia poteva importare carbone dall'Inghilterra, la sua economia ha prosperato e l'alleanza con la Gran Bretagna è rimasta forte. Ma con la fine della Prima Guerra Mondiale, le miniere in Inghilterra hanno iniziato ad avere problemi ad aumentare la produzione e persino a mantenerla ai vecchi livelli. La Gran Bretagna stava attraversando il proprio ”picco del carbone”. In Italia questo evento è stato percepito come un tradimento e gli italiani proprio non potevano capire perché la Gran Bretagna non volesse dar loro il carbone di cui avevano bisogno. Il risultato è stata una sfiducia generalizzata che è stata trasformata in odio contro la “Perfida Albione”, come la stampa italiana ha cominciato a chiamare la Gran Bretagna negli anni '30.

Ma gli insulti contro i perfidi inglesi non potevano essere trasformati in carbone. L'Italia stava diventando come una bestia affamata chiusa in gabbia: è impazzita. Secondo il vecchio detto “gli Dei prima fanno impazzire coloro che vogliono distruggere”, negli anni '30, il governo italiano si è comportato come se il suo scopo dichiarato fosse quello di distruggere il paese. Una serie di guerre hanno portato alla bancarotta un'economia già in difficoltà e l'invasione dell'Etiopia nel 1936 è stata una campagna enormemente costosa che ha portato pochi guadagni o nessuno all'Italia, a parte il dubbio onore per il Re d'Italia di ottenere il titolo di “Imperatore d'Etiopia”. Il governo ha completato il lavoro con la Seconda Guerra Mondiale, dove un'Italia impreparata è stata completamente sconfitta e distrutta.

Dopo la fine della guerra, l'Italia è riuscita a ricostruire la propria economia basandosi sul petrolio greggio. Ma la crisi petrolifera che è iniziata negli anni 70 è stata per molti versi la ripetizione della crisi del carbone degli anni 20. Senza petrolio a buon mercato, l'industria italiana non poteva semplicemente sopravvivere e questa, probabilmente, è una delle ragioni della vena di follia che pervade la politica italiana ai giorni nostri. Fortunatamente, stavolta l'Italia non può reagire alla crisi diventando aggressiva, com'è accaduto negli anni 30.


6. Perché l'Italia nel 21° secolo?

La ragione per cui strutture politiche grandi e complesse, come gli stati nazionali, esistono , è perché danno benefici che giustificano i loro costi. Ma tutti i sistemi politici sono soggetti a ciò che Joseph Tainter chiama il “ritorno decrescente della complessità”. Con il declino delle risorse che hanno creato il sistema, la complessità cessa di essere un vantaggio e diventa un fardello. Il risultato normalmente è quella rapida diminuzione di complessità che chiamiamo “collasso”.

L'Italia come stato unificato è un sistema politico complesso che è stato creato a causa di ragioni strategiche ed economiche al tempo della sua creazione. Un governo centralizzato ha prodotto vantaggi in termini di difesa territoriale e di integrazione economica che hanno giustificato il suo costo. Ma le cose sono cambiate profondamente in entrambe le aree.

Per prima cosa, nell'era delle superpotenze l'Italia non può mantenere un potere militare autonomo. Oggi, il sistema militare italiano è completamente incorporato nella NATO. In termini di politica estera, l'Italia è parte dell'Unione Europea e possiamo dire ragionevolmente che l'Italia non ha più una politica estera indipendente.

Poi, con la crescita dell'Unione Europea  la nascita dell'Euro, il governo italiano ha perso la possibilità di una politica monetaria indipendente e con questa la propria capacità di intervenire nell'economia nazionale. Essendo poi parte del WTO (World Trada Organization), il governo italiano ha ulteriori limiti su quanto può fare in termini economici.

Ciò che è rimasto al governo centrale italiano è la capacità di esigere tasse e, infatti, gran parte dell'attuale dibattito politico in Italia è su chi dovrebbe pagare le tasse, quante, e per cosa queste tasse dovrebbero essere usate. Naturalmente, c'è un accordo generale sul fatto che le tasse dovrebbero essere usate per servizi come la polizia, le scuole, le strade, la giustizia, gli ospedali e cose del genere. Ma lo stato italiano è una struttura costosa e sbilanciata. Nonostante il declino del PIL nazionale, le tasse continuano ad aumentare ed oggi gli introiti delle tasse in Italia si mangiano quasi il 45% del PIL (negli Stati Uniti è meno del 30%) ad un costo per i cittadini italiani di circa 500 miliardi di euro (circa 650 milioni di dollari) all'anno. Ciononostante, la qualità dei servizi pubblici è percepita come in declino e agli italiani si chiede sempre più spesso di pagare per servizi che una volta erano gratuiti. A questo punto, è legittimo chiedersi se questi servizi non possano essere forniti a costi inferiori (e possibilmente con migliore qualità) dai governi regionali; senza il fardello di un sistema di stato centralizzato.

Come è normale per tutti i governi, quello italiano non sa come tagliare i costi e riformare sé stesso. Continua a chiedere sempre più soldi ai cittadini mentre sogna mega progetti incredibilmente costosi, come il ponte sullo Stretto di Messina, la TAV Torino-Lione e molti altri. Allo stesso tempo, il governo è stato incapace di impegnarsi anche in semplici gesti come la riduzione dei privilegi dei membri del parlamento. Questo non avrebbe cambiato molto nel bilancio dello stato, ma avrebbe almeno mandato un segnale agli italiani che i sacrifici sarebbero stati condivisi. Non c'è da meravigliarsi che i cittadini italiani siano arrabbiati e confusi e che reagiscano con schemi di voto, alle elezioni nazionali, che sembrano confusi agli stranieri (ed anche agli italiani). Eventi come l'ascesa del Movimento "5 Stelle" di Grillo sono il risultato di questi sentimenti e del bisogno di una redistribuzione dei sacrifici che la difficile situazione economica impone.

Vedremo il collasso dell'Italia come stato centralizzato per dare spazio ai governi regionali? Questo non sembra essere nell'orizzonte politico al momento, ma non può essere nemmeno escluso, come dimostra la diffusione della visione “revisionista” dell'unificazione italiana. Quello che possiamo dire con certezza è che la crisi economica italiana sta diventando più profonda e che ci aspettano grandi cambiamenti.

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1. Le note sul ruolo della Gran Bretagna nell'unificazione italiana sono basate principalmente sul libro di Eugenio di Rienzo “Il Regno delle due Sicilie e le Potenze Europee” -Rubbettino 2012