lunedì 3 settembre 2012

Una recensione de "La Terra Svuotata"



Col passare del tempo l'uomo ha iniziato a scavare fin nelle profondità del sottosuolo per procurarsi materiali sempre più raffinati

terra svuotata
"La Terra svuotata – Il futuro dell'uomo dopo l'esaurimento dei minerali ricostruisce tutta la storia dell'attività mineraria umana



Da "Il Cambiamento"

La terra svuotata. Il futuro umano dopo l'esaurimento dei minerali

"Abbiamo estratto come mai nelle ere precedenti, abbiamo letteralmente prosciugato il pianeta senza preoccuparci del futuro, estinto intere specie, mutato drasticamente l'ambiente e l'equilibrio del nostro ecosistema e siamo sommersi dai nostri rifiuti. Riusciremo ad affrontare le sfide di un imminente futuro in cui i combustibili finiranno?". Ugo Bardi nel suo libro La Terra svuotata ricostruisce la storia dell'attività mineraria umana, dall'età della pietra all'era del petrolio.

 

di Andrea Romeo - 10 Agosto 2012


“Per arrivare a gestire il nostro pianeta in modo sostenibile, quello che ci occorre piú di tutte è una cosa che non si esaurisce: la saggezza”


In questa frase è forse racchiuso tutto il senso di "La Terra svuotata – Il futuro dell'uomo dopo l'esaurimento dei minerali (Editore Riuniti) di Ugo Bardi, un affascinante viaggio che parte innanzitutto dagli inferi remoti della Terra per ripercorrere dunque la storia del genere umano attraverso il suo rapporto con le risorse del sottosuolo.

Ci raccontano di uomini che hanno forgiato spade invincibili, di grandi esploratori che si sono spinti in luoghi fantastici e distanti e di poeti che hanno decantato le belle amanti ornate di gemme preziose, ma queste storie non avrebbero mai preso vita senza le profonde miniere sotterranee ed il lavoro dei minatori che, dietro le quinte della storia, vivevano in quei profondi tunnel oscuri.

Esploriamo gli abissi come i pesci, tessiamo tele come i ragni, voliamo come gli uccelli, ma pochi riflettono sul fatto che tutte le attività umane, dall'agricoltura all'esplorazione dei mari e degli astri fino alla comunicazione via rete, non sarebbero mai state possibili senza l'utilizzo di strumenti e tecnologie che derivano e dipendono dalla lavorazione dei minerali. Fin dalla notte dei tempi l'uomo ha infatti raccolto pietre per usarle a proprio vantaggio: “fondamentalmente la nostra civiltà è una civiltà di minatori”.

Col passare del tempo l'umanità ha iniziato a scavare fin nelle profondità del sottosuolo per procurarsi materiali sempre più raffinati: nessuna attività ha richiesto tanta energia e fatica come quella dell'estrazione di materie prime. “Siamo partiti circa due milioni e mezzo di anni fa quando i nostri antenati hanno cominciato a raccogliere le pietre che gli servivano come strumenti da taglio e da percussione”: da allora non ci siamo più fermati.

I grandi imperi poggiano essenzialmente sulle loro materie prime, e sempre queste hanno permesso cambiamenti epocali nella storia della nostra civiltà. Dall'Impero romano all'Eldorado spagnolo, dall'Impero britannico del carbone e della rivoluzione industriale fino al recente Impero petrolifero e del nucleare americano, tutta la nostra storia ed il nostro destino sono intrecciati e connessi con quelli delle risorse che utilizziamo, e le guerre sono essenzialmente per e tra le materie prime.

“A Waterloo, nel 1816, il carbone inglese si scontrava contro quello francese. La vittoria andava a quello inglese, che era il piú abbondante. […] Nel 1914, il carbone inglese si scontrava con quello tedesco nella prima guerra mondiale. Era uno scontro quasi ad armi pari, ma il carbone inglese, pur in declino, era sempre piú abbondante di quello tedesco; che ne ebbe la peggio.”

Adesso ci troviamo davanti un bivio. Abbiamo estratto come mai nelle ere precedenti, abbiamo letteralmente prosciugato il pianeta senza preoccuparci del futuro, estinto intere specie, mutato drasticamente l'ambiente e l'equilibrio del nostro ecosistema e siamo sommersi dai nostri rifiuti. Riusciremo ad affrontare le sfide di un imminente futuro in cui i combustibili finiranno?

La rivoluzione industriale sarà stata solo una parentesi nella storia dell'umanità e quindi ritorneremo ad un nuovo medioevo o riusciremo ad orientare la nostra società verso un rapporto più sostenibile con il pianeta in tempi relativamente ragionevoli? Dovremo continuare a seguire il profitto esasperato o cominciare ad orientarci verso modelli economici alternativi e fonti di energia eco-sostenibili prima che i fossili si esauriscano o che il cambiamento climatico ci distrugga?

Secondo Ugo Bardi, “sulla risposta a queste domande si gioca la sopravvivenza di noi stessi e dei nostri figli, nonché dell’intera civiltà umana”.

domenica 2 settembre 2012

Smentito il Picco del Petrolio? Il Meccanismo della Negazione al Lavoro

Da Cassandra's Legacy. Traduzione di Massimiliano Rupalti.
La pubblicazione del rapporto dal titolo “Petrolio: la prossima rivoluzione”  di Leonardo Maugeri è diventata virale ed ha generato un'ondata di risposte tutte incentrate sul tema che “il picco del petrolio è stato smentito”. Potremmo assistere ad una ripetizione della campagna di negazione che, negli anni 90, ha gettato “I Limiti dello Sviluppo” nella pattumiera delle teorie scientifiche sbagliate.


Nel 1989, Ronald Bailey ha pubblicato un articolo su “Forbes” nel quale attaccava lo studio del 1972 “I Limiti dello Sviluppo” dicendo che: “I Limiti dello Sviluppo” hanno previsto che ai tassi di crescita del 1972 il mondo avrebbe terminato l'oro nel 1981, il mercurio nel 1985, lo zinco nel 1990, il petrolio nel 1992 e rame, piombo e gas naturale nel 1993”.

Nessuna simile affermazione era contenuta nel libro dei “Limiti”, tuttavia l'attacco di Bailey ha avuto un incredibile successo. E' diventato virale ed è stato ripetuto in continuazione da gente che non si è mai preoccupata di verificarne il contenuto. Alla fine ha generato la leggenda degli “errori del Club di Roma”, ancora viva e vegeta oggi, che sta alla base della diffusa opinione negativa sullo studio dei “Limiti” (questa storia è descritta qui, così come nel mio libro “I Limiti dello Sviluppo Rivisitati”).

La demolizione dei “Limiti” rimane oggi un esempio classico del meccanismo della negazione nella comunicazione scientifica, come descritto, per esempio, da Naomi Oreskes ed Eric Conway in “Mercanti di Dubbio”. Meccanismi analoghi hanno lavorato contro la scienza del clima, contro gli studi sugli effetti sulla salute del fumo, contro studi sull'inquinamento ed altro. Tuttavia, l'idea che siamo vicini al picco di produzione mondiale del petrolio (Picco del Petrolio) era rimasta finora immune da questo tipo di negazione. 

Questo potrebbe cambiare con la pubblicazione del recente studio di Leonardo Maugeri dal titolo “Petrolio: la prossima rivoluzione” che ha generato un vero e proprio tsunami di post ed articoli tutti basati sul concetto che “il Picco del Petrolio è stato smentito”. Potremmo assistere ad un effetto “palla di neve” simile a quello causato dall'articolo del 1989 di Bailey che ha distrutto la credibilità de “I Limiti dello Sviluppo”. 

Per chiarire il mio punto di vista, lasciatemi dire che lo studio di Maugeri è serio. Di sicuro, può essere criticato (per esempio qui, qui e qui), ma è molto meglio del pezzo di pura calunnia di Bailey o di altri pezzi di propaganda indirizzatei, per esempio, alla scienza del clima. Ma questo ha poco a he vedere col meccanismo della negazione. Il problema è che gran parte della gente – compresi coloro che prendono le decisioni – non hanno tempo, inclinazione e competenza per andare in profondità in problemi come l'esaurimento delle risorse. Così, quando affrontano un problema complesso e ricco di sfumature, tendono a scegliere l'interpretazione che piace loro di più – è chiamato il “pregiudizio di conferma”. Ora, sicuramente le buone notizie sono meglio delle cattive e per molta gente uno studio apparentemente autorevole che dice che non stiamo finendo il petrolio è preferibile ad uno di oscurità e rovina tipico di gran parte degli studi sull'esaurimento. 

Il problema è che le tesi di Maugeri sono basate su ben poco: principalmente su una nuova valutazione delle riserve di petrolio che tengono conto delle cosiddette risorse “non convenzionali”. Di recente, la crescita in questo settore è stata rimarchevole, vero, ma tutto ciò che che questa “rivoluzione petrolifera” è riuscita a fare finora è evitare il declino che sarebbe avvenuto se ci fossimo affidati al solo petrolio convenzionale. Tuttavia, il fatto che non abbiamo visto un picco ben definito nella produzione del petrolio mondiale è sufficiente a dare peso all'idea di Maugeri. Paradossalmente, i numerosi tentativi di criticare lo studio potrebbero essere stati controproducenti, dandogli la visibilità che non merita. 

Un paio di decenni fa la gente ha cominciato a riferirsi allo studio dei “Limiti dello Sviluppo” come “all'errore del Club di Roma”. Assisteremo al Picco del Petrolio come “all'errore di ASPO”?. E' troppo presto per dirlo, ma possiamo escludere questa possibilità. Specialmente se i prezzi del petrolio dovessero collassare nel prossimo futuro – come hanno fatto nel 2008 – molta gente potrebbe prenderla come una vendetta della tesi di Maugeri. Non importa se il collasso dei prezzi causerà anche un declino della produzione – come lo stesso Maugeri dichiara chiaramente nel suo studio. Molta gente percepisce i problemi col petrolio solo in termini di prezzo, non di produzione. Se vedremo lo sviluppo di questo tipo di eventi, ci vorrà molto tempo e sforzo per porre rimedio alla percezione generale sul Picco del Petrolio, proprio come c'è voluto molto tempo e sforzo per combattere la percezione che lo studio dei “Limiti” fosse “sbagliato”. 

D'altra parte, il lavoro di Maugeri potrebbe venire semplicemente dimenticato quando sarà chiaro che la “rivoluzione petrolifera” che ha previsto non sta avvenendo. La comunicazione è un campo in cui la previsione è sempre molto difficile, anche di più che con la produzione di petrolio. La sola cosa che possiamo dire con certezza è che siamo sensibili alla diffusione virale di leggende. E' il modo in cui funziona la nostra mente, non si è evoluta per la pianificazione a lungo termine.  








sabato 1 settembre 2012

La tecnologia non è energia


Da The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Di Antonio Turiel

Cari lettori, 

ultimamente mia figlia si è affezionata alla serie di cartoni animati che si chiama “Phineas e Ferb” (in realtà l'unica che vede la televisione in casa è lei): Viene trasmesso da un canale famoso per l'intrattenimento dei bambini ed ha la virtù di avere degli ammiccamenti divertenti – senza il bisogno di essere piccanti o scabrosi – agli adulti che stanno di fianco ai bambini. Buona strategia, sicuro, perché così alla fine i genitori spingono i figli a vedere quelle serie che divertono anche loro. In fondo, l'argomento di questa serie è abbastanza semplice: nei sobborghi di New York, mentre i loro genitori sono fuori casa, due fratellastri occupano l'estate costruendo i più inverosimili e grandiosi gadget (delle montagne russe che attraversano la città, un razzo spaziale, …) mentre la loro sorella maggiore cerca invano di svelarlo alla madre – fallendo sempre perché le creazioni dei suoi fratelli, non importa quanto siano colossali, spariscono sempre, generalmente come risultato di una trama parallela che vede uno scienziato malvagio e la mascotte di famiglia (inverosimilmente, un ornitorinco) che è in realtà un agente segreto. La serie, naturalmente, è molto fantasiosa e la costruzione del giorno è una scusa per sviluppare una trama ingegnosa e divertente. Tuttavia, questa serie in particolare illustra, meglio di tante altre, il grave problema che la nostra società ha nella comprensione della natura.

Il sottinteso della serie è che due ragazzi dei sobborghi, ingegnosi e decisi, possono eseguire in tempo record qualsiasi progetto di cui venga loro voglia, non importa quanto sia smisurato. C'è, naturalmente, la questione dei soldi (l'azione comincia solitamente con lo scarico di vari camion e il tipico tormentone), ma si sottintende che i ragazzi, come frutto delle invenzioni precedenti, probabilmente disporranno di grandi fondi, anche se in realtà si parla poco di soldi in questa serie che, non dimentichiamolo, è per bambini. Naturalmente è una licenza per rendere più agile la narrazione di ogni episodio (che dura solo 12 minuti, così che capirete la premura). Tuttavia, è questo tipo di programma che serve a formare gli archetipi che configurano la narrativa della società ed è ciò che spiega perché ci troviamo così spesso con atteggiamenti fanatici di tecno-ottimismo. 

La ragione di fondo dell'impossibilità di fare quello che riescono a fare i due ragazzi americani in un giorno non è l'elevato costo economico del montaggio (la maggior parte della gente non lo saprebbe non tanto quantificare, quanto nemmeno intuire l'ordine di grandezza), ma il costo energetico della prodezza. Qui ci sono due dimensioni di cui tener conto. Da un lato quella materiale, quanto più acciaio, legno, viti, rivetti, vetro ecc sono richiesti, tanta più energia si dovrà consumare per trasportarli (qui non entriamo nel tema dell'energia che serve per l'estrazione e la lavorazione), metterli sul posto e fissarli. Ma c'è anche un'altra dimensione, quella temporale. E cioè che la quantità di energia necessaria aumenta nella misura in cui diminuisce il tempo richiesto per la costruzione. Qui, di nuovo, interviene il fattore entropia: Come abbiamo già spiegato nel post dedicato a questa grandezza fisica, nella misura in cui la temperatura di un sistema aumenta diventa più probabile che ci discostiamo dallo stato concreto al quale vogliamo convergere. Qui usiamo “temperatura” in senso lato, intendendo tanto agitazione termica quanto i movimenti meccanici che non vanno nella direzione della creazione o del mantenimento del sistema oggettivo (come le pallonate che deformavano la rete nello stesso post). La questione è che il lavoro di Phineas e Ferb non richiede solo una grande energia, ma anche una grande potenza (visto che devono concludere l'impegno entro una mattinata) e più potenza significa più entropia, pensate semplicemente che se aumentassimo il numero di camion che entrano ed escono, a parte che si ostacolerebbero fra loro, renderemmo sempre più probabile una loro collisione. 

Così allora, aumentando la potenza dobbiamo consumare ancora più energia, che sia per compensare i danni che possa causare questo consumo o per stabilire più meccanismi di controllo e macchinari sofisticati per rendere più difficile questa dispersione, la crescita della quantità di energia necessaria per eseguire un compito in minor tempo va molto pià in fretta man mano che si accorcia il passo per eseguire l'opera: pensate, per esempio, alle montagne russe che montano nel primo episodio e che attraversano tutta la città. Anche dispiegando un esercito di uomini e di macchinari sarebbe impossibile, coi mezzi odierni, eseguire una tale prodezza, si potrebbe solo se praticamente ogni palmo dell'installazione fosse aggiudicato ad una squadra e questa lavorasse con un tale grado di precisione che la giunzione della sua parte coincidesse perfettamente con quella degli altri e, allo stesso tempo, le sue macchine non disturbassero quelle degli altri. 

E' ovvio che la seria non vuole e non deve essere così sottile, ma, come dicevo, illustra bene i mali della nostra società. Vediamo il giardino di Phineas e Ferb occupato da giganteschi cubi di combustibile che dovrebbero fornire tutte le macchine pesanti che dovrebbero operare. Non vediamo le decine di gru che dovrebbero usare per sollevare tutti quei pesi o le centinaia di escavatrici che servirebbero a spianare il terreno. Per il bene dello spettacolo si ovvia alla prosaica necessità dei mezzi materiali richiesti. 

L'energia è un fluido magico e invisibile che serve a muovere tutto, senza il quale niente funzionerebbe e, naturalmente, abbiamo talmente interiorizzato la sua disponibilità illimitata e a buon mercato che non ci rendiamo conto fino a che punto le nostre aspettative dipendono dal fatto che si mantenga questo stato di cose. Quando cominciamo a parlare di problemi dell'energia con qualcuno che è disinformato è comune che questi evochi la 'soluzione energetica' più di suo gusto, che sia il nucleare di fusione o fissione, o le energie rinnovabili nel loro insieme o nelle sue singole opzioni, o l'economia dell'idrogeno o i biocombustibili. Tale 'soluzione' è essenzialmente la promessa che un certo sviluppo di laboratorio, che secondo il tal quotidiano generalista è stato un successo, finirà per portarci all'Eldorado logico dell'energia senza limiti. Lasciando da parte la questione per la quale il consumo di energia semplicemente non può aumentare all'infinito in un pianeta finito, c'è la questione non meno importante che tutti questi esperimenti di laboratorio danno per scontata l'abbondanza energetica direttamente (per l'energia che consuma il processo di fabbricazione) o indirettamente (per l'abbondanza di determinate materie prime che in realtà sono sfruttabili solo grazie al petrolio a buon mercato – abbiamo già discusso il caso del neodimio come un ulteriore esempio della sottaciuta guerra per le terre rare). In qualche modo, gli autori riconoscono il basso rendimento energetico della propria soluzione (misurato attraverso il Ritorno Energetico sull'Investimento Energetico o EROEI), quando dicono che la loro tecnologia non è ancora redditizia, che è troppo cara (ricordiamo che il rendimento economico è sempre inferiore a quello energetico). Ovviamente, i coraggiosi ricercatori sperano che il progresso tecnologico abbatta i costi, ma qui di nuovo l'accento si pone sulla questione economica e non su quella energetica e così lo sviluppo tecnologico tende generalmente a diminuire l'EROEI, non ad aumentarlo. In definitiva, nemmeno i ricercatori che lavorano su questo tipo di problemi sono normalmente consapevoli di partire dalla premessa che l'energia è abbondante e conveniente, il che rende drammaticamente inutili le loro proposte rispetto al futuro che ci si presenta. 

Dobbiamo capire una cosa: la tecnologia non è un sostituto dell'energia. Con la tecnologia possiamo realizzare un miglior sfruttamento dell'energia, ma tale miglioramento ha dei limiti che si incontreranno piuttosto presto (abbiamo da poco discusso quelli delle macchine termiche ed  altri limiti simili affliggono gran parte delle tecnologie che sia nucleare, eolica o fotovoltaica, per fare tre esempi). Quando si constata questo problema, una delle risposte usuali è paragonare il progresso della tecnologia energetica con quello della tecnologia informatica: se in così poco tempo siamo potuti progredire così tanto a livello computazionale, perché non potremmo fare la stessa cosa con l'energia? Si tratta di un ulteriore caso di eccessiva estrapolazione e se si guardano bene le tecnologie energetiche, oggi sono di poco più sofisticate di quanto lo fossero un secolo fa. La generazione di elettricità negli impianti termici, indipendentemente dalla tecnologia, consiste nel far bollire l'acqua in un bollitore e col vapore che ne risulta far muovere una turbina e questo vale anche se il combustibile usato è quello nucleare (in una occasione, durante un discorso sulle reti energetiche del futuro, il Segretario di Stato per l'Energia degli Stati Uniti, Steve Chu, ha detto che se Thomas Alva Edison resuscitasse sarebbe in grado di riconoscere una centrale elettrica). Insomma, il discorso del progresso tecnologico inarrestabile basato sull'ingegno alla Phinaes e Ferb non ha valore in molti casi, in particolare in quelli delle tecnologie energetiche. In altri casi, l'ottimista di turno mette sul tavolo i numeri del rendimento di una determinata fonte di energia, assumendo così che è efficiente. Tuttavia, il calcolo del EROEI ingloba tutto il ciclo di vita della fonte in questione e l'inclusione di materiali rari che rendono più efficiente un aerogeneratore o una centrale nucleare può ottenere l'aumento dell'energia generata nell'operazione, ma a costo di consumare più energia di quanta ne guadagniamo semplicemente per produrre quel materia prima cruciale per la nuova tecnologia. Di nuovo, senza fare un calcolo del EROEI non è possibile sapere se la tecnologia risulta veramente redditizia in termini energetici. Tendiamo a pensare, per ultimo, che sia normale e facile avere lamiere d'acciaio e lingotti di alluminio, tanto cemento e cavi di rame a nostra volontà e così con tante materie prime industriali. Tuttavia, nel sempre più grande marasma economico nel quale stiamo precipitando, questi materiali si venderanno meno, si chiuderanno fabbriche, la produzione diminuirà e pertanto rincarerà, al punto che alcune nuove tecnologie proposte non saranno più convenienti. Senza un consumo su grande scala, molti dei nostri progetti di futuro non hanno semplicemente senso perché non beneficeranno più dell'economia di scala.

In sintesi, pensiamo che la tecnologia ci salverà da qualsiasi ostacolo pur rimanendo le stesse limitazioni energetiche. A creare questa visione hanno contribuito molti economisti, che hanno sviluppato una bella teoria sull'utilizzo delle risorse che, ovviamente, non contempla limiti. Di fatto non smette di sorprendere che quando si discute sui limiti energetici del nostro futuro i primi che cominciano a parlarti di soluzioni tecnologiche meravigliose, non comprendendole, siano gli economisti. Tutto pur di non accettare che ci sono dei limiti, che non si vive di solo ingegno industriale, che l'economia non può crescere per sempre e che questa crisi non finirà mai. 

Saluti.

AMT














giovedì 30 agosto 2012

Il Picco dei Negazionisti

Di Richard Heinberg. 

Da Energy Bulletin. Traduzione di Massimiliano Rupalti


In questi giorni, non si legge altro che “Tristi notizie per i Discepoli del Picco del Petrolio”, secondo il Financial Post.
L'ultimo esempio:Leonardo Maugeri, un membro del Geopolitics of Energy Project al Belfer Center for Science and International Affairs della Kennedy School — e critico di lungo corso dell'analisi del Picco del Petrolio – ha appena pubblicato un nuovo rapporto, “Petrolio: La Prossima Rivoluzione”, nel quale prevede un netto aumento della capacità produzione mondiale di petrolio e il rischio di un collasso del prezzo del petrolio. Il suo rapporto ha innescato una valanga di articoli di stampa con titoli come “Nessun Picco del Petrolio in Vista”, “Il potenzale boom petrolifero statunitense scuote le politiche energetiche,” e “Il Picco del Petrolio Semplicemente non è più una Minaccia”.

Queste seguono a ruota una serie di altri articoli che propagandano un aumento di produzione di petrolio da depositi di scisti “tight” negli Stati Uniti – pezzi con titoli tipo “Il  Picco del Petrolio ha raggiunto il Picco?” e “ L'idea del Picco del Petrolio è Morta?” E quelli che a loro volta cavalcano l'onda del largamente festeggiato libro di Daniel Yergin "The Quest", che ha foraggiato una frenesia contro il Picco del Petrolio nei media lo scorso anno.

Il recente diluvio di trionfalismo cornucopiano ha provocato alcune risposte riflessive, comprese “L'idea di Picco del Petrolio ha... raggiunto il picco?” e “Il Picco del Petrolio è Morto?”, entrambi i quali vagliano le prove e concludono che la produzione mondiale di petrolio si comprende meglio se visto attraverso le lenti dei “picchisti” piuttosto che da quelle degli occhiali rosei dei detrattori del Picco del Petrolio.

Non c'è dubbio che i picchisti continueranno a produrre articoli riflessivi, ben ragionati e pieni di fatti che delucidano la precarietà delle forniture globali di energia. Tuttavia, il gran numero e la loro prominenza mediatica dei pezzi “Niente Picco del Petrolio” (sul Wall Street Journal e New York Times, persino su NPR – National Public Radio) sta avendo effetto. I siti picchisti hanno un declino del traffico in rete. E mentre ora molta più gente ha sentito parlare del Picco del Petrolio che non pochi anni fa, molti credono, sbagliando, che la sua assunzione fondamentale sia stata in qualche modo “smontata”.

Coloro fra noi che sono stati dietro a questa discussione per più di un decennio – dai giorni nei quali il geologo petrolifero Colin Campbell ha coniato la frase “Picco del Petrolio” e il “movimento” consisteva più che altro in discussioni quotidiane su un'oscura mailing list – hanno visto crescere la cosa come un fenomeno di specie, con libri, newsletter, siti web organizzazioni dedite sia all'analisi sia all'attivismo come cittadini. Evidentemente la crescente preoccupazione del pubblico circa l'inevitabile declino della produzione mondiale di petrolio ha infastidito qualche personaggio potente che ha annodato le proprie corde in cerca di un po' di dati favorevoli (declino dei prezzi del petrolio, crescita della produzione) per usarli come pretesto per un linciaggio pubblico. La mentalità cornucopiana è sicuramente diffusa fra i leader nell'industria del petrolio  (Rex Tillerson, Amministratore delegato di ExxonMobil, recentemente ha detto su cambiamento climatico e sicurezza energetica “Noi [esseri umani] abbiamo passato la nostra intera vita ad adattarci. Ci adatteremo... è un problema di ingegneria e ci sarà una soluzione ingegneristica”). Ma una simile incapacità di immaginare null'altro che finali felici è diffusa anche fra molti ambientalisti, come ho avuto modo di imparare lo scorso fine settimana all'Aspen Environment Forum, dove ho avuto un dibattito con Mark Lynas, autore di "Sei Gradi" e di "Le Specie di Dio". Mentre gli ambientalisti vengono spesso accusati di essere allarmisti, essi possono anche manifestare un tratto di tecno-ottimismo 'si può fare'. Stewart Brand (fondatore di Whole Earth Catalog), che è stato un altro relatore alla conferenza si è trasformato in un futurista pro-nucleare, pro geo-ingegneria e verde brillante. Jim Kunstler, anch'egli ad Aspen, ha riassunto il suo punto di vista sull'evento: “Il tecno-narcisismo scorreva come uno Slurpee fuso (una specie di granita). . . .

Nel corso del dibattito, Lynas più di una volta ha citato una litania sulle previsioni sbagliate dei pessimisti, a cominciare da Malthus. Analogamente, Daniel Yergin ha guadagnato punti dichiarando che le profezie di un picco di produzione di petrolio nel mondo sono state provate come sbagliate ad ogni piè sospinto per un secolo o più. E' strano che le previsioni sbagliate degli ottimisti abbiano un'attenzione pubblica così insignificante al confronto, dato che sono almeno altrettanto numerose. L'esempio più rilevante: intorno al 1998, quando la discussione odierna sul Picco del Petrolio era appena agli esordi, la Intenational Energy Agency (IEA), il Dipartimento Americano per l'Energia e l'USGS (United State Geological Survey) avevano fatto tutti previsioni dicendo che la prosduzione mondiale sarebbe cresciuta costantemente fino a raggiungere i 120 milioni di barili al giorno nel 2020, mentre i prezzi sarebbero rimasti ad un livello di 20$ al barile (in dollari del 1998) anche oltre quella data. Nel 2004, quando era già chiaro che quelle previsioni non avevano alcuna opportunità di realizzarsi, Daniel yergin ha dichiarato che i prezzi del petrolio sarebbero rimasti a 40$ al barile per i successivi 15 anni, né l'IEA, né la DOE né l'USGS né Daniel Yergin hanno previsto una situazione nella quale la produzione di petrolio greggio avrebbe raggiunto un plateau per 7 anni a cominciare dal 2005 o nella quale i prezzi sarebbero schizzati fino ai 147$ a barile come hanno fatto nel 2008. Sì, alcune delle previsioni sul Picco del Petrolio della produzione mondiale secondo le quali il declino sarebbe cominciato fra il 2005 e il 2008 erano premature, ma è ovvio che i picchisti abbiano avuto punti di vista più precisi e utili sui livelli dei prezzi e della fornitura del petrolio mondiale durante lo scorso decennio. Quindi è umanamente comprensibile perché il risentimento si sia consolidato fra gli Yergin ed i Maugeri del mondo.

E così, uno zampillo di nuova produzione da depositi scistosi di “tight” ora serve da pretesto per dicharare vittoria. I picchisti avrebbero dovuto vederlo arrivare, dopotutto; gli alti prezzi del petrolio, infatti, innescano aumenti delle riserve e della produzione da risorse di qualità inferiore. Infatti, alcuni dei migliori analisti lo hanno visto arrivare. Ricordo Jeremy Gilbert, ex ingegnere petrolifero della BP, che parlava del potenziale della nuova tecnologia di produzione ad una conferenza dell'Association for the Study of Peak Oil (ASPO) un paio di anni fa. “Dei giacimenti che stiamo attualmente inseguendo ne eravamo a conoscenza da lungo tempo, in molti casi”, notava, “ma erano troppo complessi, troppo fratturati, troppo difficili da produrre. Ora la nostra tecnologia e comprensione [sono] migliori, il che è buono, perché questi giacimenti difficili è tutto ciò che ci resta”.

Il dibattito sul Picco del Petrolio non è un evento sportivo. Ciò che conta non è quale parte vince, ma quale realtà abbiamo di fronte. Vedremo il proseguimento di un plateau nella produzione globale di petrolio greggio? Quanto a lungo durerà? Quanto sarà grande in percentuale il contributo alla produzione di “tutti i liquidi” totali di sabbie bituminose, scisto ed altri non convenzionali? Quale sarà l'impatto climatico visto che il petrolio mondiale arriva da forniture sempre più derivate da risorse di qualità inferiore? E quale sarà l'impatto economico?

Noi del Post Carbon Institute speriamo di risolvere alcuni dei problemi relativi al petrolio non convenzionale in un rapporto (in uscita a settembre) di David Hughes, un seguito del suo rapporto del 2011 verifica sullo stato della produzione di gas di scisti negli Stati Uniti. Ma le più grandi domande ambientali ed economiche continueranno senza dubbio a generare incertezze per un po'.

Tuttavia, ci sono poche osservazioni che un analista energetico serio non possa contestare. I costi dell'esplorazione e della produzione petrolifera sono saliti alle stelle (la Bernstein Research stima che quest'anno l'industria abbia bisogno di prezzi nella gamma dei 100$ al barile per giustificare nuovi progetti). I giacimenti petroliferi super giganti che costituiscono ancora il 60% della produzione di greggio mondiale sono vecchi e quindi il modesto contributo di quelli non convenzionali, che ci si aspetta che siano sia cari che lenti da mettere in produzione, devono spingere contro una marea di esaurimento e declino. E' solo questione di quando il declino della produzione complessiva comincia, non se. Intanto, alcuni dei combustibili conteggiati dalla IEA nella categoria “tutti i liquidi” (etanolo, liquidi del gas naturale) hanno un'energia significativamente inferiore per unità di volume che non il petrolio greggio convenzionale. Così, un aumento in barili giornalieri di “tutti i liquidi” non necessariamente significa un aumento della quantità di energia consegnata alla società. Inoltre, tutti i combustibili liquidi non convenzionali (compresi i biocombustibili, sabbie bituminose, petrolio “duro”) offrono un basso ritorno energetico sull'energia investita per produrli (EROEI). Quindi, anche se il numero di barili di combustibili liquidi consegnati al mercato sta ancora gradualmente aumentando, la quantità di energia utile netta resa disponibile dalle industrie del petrolio e dei biocombustibili, se vengono conteggiati i costi per produrla, è probabilmente già in declino. E questo è quasi certamente vero negli Stati Uniti – la locandina promozionale per la produzione di petrolio non convenzionale. Infine, le quantità di greggio disponibili per l'esportazione stanno rapidamente declinando via via che i paesi produttori ne usano di più per il proprio consumo – lasciandone ogni anni di meno per i paesi importatori come Stati Uniti, Europa e Cina (questo tasso di declino è molto più alto che non il tasso di crescita relativamente inferiore della produzione mondiale di “tutti i liquidi”).

Intanto, l'impennata dei prezzi del petrolio ed il crollo dei rendimenti energetici reali dai combustibili liquidi hanno già lasciato una carneficina al loro passaggio, mentre un sistema finanziario globale arroccato su un monte di debito è stato affrontato colpo su colpo dal fallimento dell'economia reale nell'espandersi come ci si aspettava. Risulta che la produzione industriale ed il commercio globale dipendano dall'energia, non solo dal credito e dalla fiducia. In giugno si sono visti prezzi del petrolio più deboli, ma questo era dovuto ad un'erosione accelerata della forza economica mondiale (che porta all'aspettativa di una caduta della domanda di petrolio), non alla moderazione dei prezzi di produzione del petrolio o all'aumento della produzione sostanziale.

Come molti picchisti hanno continuato a dire, sapremo per certo quando la produzione globale di petrolio raggiungerà il picco (in termini di tasso di produzione in barili al giorno) solo quando possiamo vedere un declino costante nello specchietto retrovisore. Ma allora, sarà troppo tardi per la società per prepararsi agli impatti economici del picco del petrolio. Quindi, il “movimento” del Picco del Petrolio – non come esercizio di analisi, ma come sforzo per avvisare il mondo e prevenire la catastrofe – è destinato al fallimento? Forse. Ma per lo stesso motivo per cui lo è gran parte del movimento ambientalista, se non tutto. Non cambiamo sostanzialmente il nostro comportamento collettivo finché la crisi non ci arriva addosso.

Ma anche se non possiamo evitare una crisi, possiamo preparare una parte della popolazione alle sue conseguenze. Possiamo costruire la resilienza della comunità. Possiamo seminare le conversazioni pubbliche con l'informazione che minano l'inevitabile, riflessivo sforzo di incolpare il disfacimento economico con facili capri espiatori. Inoltre, il futuro sarà migliore se proteggiamo almeno qualche specie, qualche habitat, qualche zona selvaggia, un po' d'acqua e un po' di suolo prima del crollo dell'economia causato dall'energia, di modo da avere una base ecologica per l'attuale esistenza in assenza di macchine, aerei, iPads e di combustibile abbondante ed economico.

In breve, le cose andranno meglio per noi se resistiamo alla negazione piuttosto che se ci impegniamo in essa.

martedì 28 agosto 2012

Il futuro digitale (II)

Da The Oil Crash. Traduzione di Mssimiliano Rupalti


Immagine da http://debok.myweb.usf.edu




Dal blog di Antonio Turiel

Cari lettori,
prosegue la mia fatica nella capitale del Regno (Madrid) e ho poco tempo libero. Ma fortunatamente abbiamo un nuovo contributo, in questo caso di Carlos de Castro, che amabilmente ha accettato di scrivere un post che amplia quello precedente. Devo dire che è un onore ospitare su questo blog un'opinione tanto documentata come quella di Carlos. Vi lascio con lui.

Saluti.
AMT

Le TIC (Tecnologie di Informazione e Comunicazione): alcuni limiti e proposte

Energia.

L'energia (principalmente elettrica) che consumano le TIC  si attesta intorno al 10% dell'energia elettrica totale se si tiene conto del consumo energetico che richiede la fabbricazione dei dispositivi e dell'infrastruttura, che si prendono circa la metà di questi consumi. Solo i “ data centers” che sostengono internet contano già più del 1% di questa elettricità.



Questo, che ci può sembrare sostenibile, in realtà ci da una traccia di quando si fermerà la crescita. Il numero di computer che si connettono a internet decuplica ora circa ogni 5 anni, altre cose lo stanno facendo in meno tempo (per esempio i cellulari). Il traffico di internet decuplica circa ogni due anni. E' difficile stimare ogni quanto tempo il consumo energetico si moltiplica per 10, perché per ogni bit trasmesso consumiamo sempre meno energia. Direi che le nostre necessità energetiche per le TIC decuplicano in un lasso di tempo maggiore di 2 anni e minore di 10. Se decuplicano nei prossimi anni ogni 5 anni, significherebbe che nel 2022, circa il 40% dell'elettricità che produciamo ora si dovrebbe produrre per alimetare l'industria delle TIC entro 10 anni. E' possibile ciò?

La crescita del settore elettrico a livello mondiale è stata del 3% all'anno negli ultimi decenni ed ha risentito della sventura della crisi del 2008-9 con una decrescita (per la prima volta in molti decenni) del 1,5% nel 2009. In uno scenario BAU dovrebbe crescere del 5% all'anno per soddisfare la domanda “naturale” più la domanda delle TIC. Non sono a conoscenza di nessuna agenzia internazionale che preveda una crescita tanto rapida dell'elettricità, fondamentalmente perché si sono solite limitarsi a progettare il passato recente, quando le TIC, le auto elettriche ed altre tecnologie emergenti consumatrici di elettricità partono da una percentuale di consumo basso ora e che lo stesso BAU prevede che sfruttino. In scenari diversi dal Bau (di decrescita o di collasso), semplicemente le TIC non richiederanno tanto della domanda e pertanto smetterebbero di tendere al raddoppio in questo stesso decennio.

Materiali.

Alimentare le TIC richiede materiali. Molti e diversi. Oggi usiamo gran parte della tavola periodica nei nostri gadget elettronici. Negli anni 90 del secolo scorso, nella composizione di un circuito elettronico si usavano circa 15 elementi della tavola periodica, mentre ora ne usiamo 60. Se scartiamo alcuni gas nobili ed elementi radioattivi, le TIC stanno usando già praticamente tutta la tavola periodica, siamo giunti al picco della diversità possibile. Questo, che alcuni vedono come prova delle robustezza visto che diversificando sembriamo più resilienti, ha generato generato anche un aumento della diversità dei problemi. L'Indio, fondamentale oggi per tutti i nostri schermi e touch screen LCD, dovrà essere sostituito prima di quanto pensiamo. L'Indio è anche richiesto da altri settori energetici, come quello fotovoltaico, e risulta essere scarso. Le attuali tendenze triplicherebbero la produzione attuale per soddisfare le nuove industrie in uno scenario BAU, ma possiamo aspettarci il picco di produzione delle riserve seguendo la teoria di Hubbert (comprese quelle economiche), e dato il consumo attuale per 25 anni, entro il 2015 e se ricicleremo abbastanza lo potremmo ritardare al 2020. A partire da quel momento ci saranno meno produzione e meno schermi con questa tecnologia. Anche se l'Indio è il più critico, abbiamo anche l'Argento, il Germanio, il Gallio, il Tantalio... per tutti questi è richiesto almeno il raddoppio della produzione attuale per tutti gli usi, solo per soddisfare la domanda ulteriore prevista per le TIC da qui a 20 anni. E per molti di questi è previsto il picco di produzione molto a breve anche solo proiettando l'attuale domanda e senza tenere conto del forte incremento che avranno le TIC.


Elemento
R/P anni (2011)
% dedicata alle TIC nel 2011
Ag
20
4%
Au
20
4%
Zn
20-40
4%
Cr
20
2%
Ta
20-40
60%
Cd
30
2%
Co
75
8%


(R: Riserve; P: produzione)

La tabella è stata elaborata a partire dai dati di riserve e produzione del USGS (United States Geological Survey). La percentuale dedicata alle TIC suppone che i 400 milioni di personal computer venduti ogni anno abbiano nel complesso lo stesso contenuto di minerali dei 15 milioni di cellulari che si vendono ogni anno (Gatner.com). La massa di ogni minerale proviene da uno studio del USGS  (“Recycled Cell Phones—A Treasure Trove of Valuable Metals”). Esistono forze contrastanti; da un lato la sostituzione dei materiali critici libera pressione, e il riciclaggio anche, e le riserve cresceranno quando la scarsità porterà all'aumento del prezzo, ma, dall'altra parte, Riserve/Produzione è un quoziente ingannevole come sa il “piccopetrolista”. Il picco di questi materiali arriverà prima che lo indichi la relazione R/P. Nessuno si aspetta che l'argento, l'oro e la gran parte degli elementi dei quali la proporzione usata per le TIC non è alta, aumenteranno molto di più della produzione. Pertanto, un 2, 4 o 8% non produce molta pressione su questi minerali adesso, ma se le TIC raddoppiano o triplicano tenderebbero ad anticipare il picco di produzione di qualche anno. Inoltre, c'è la diminuzione della concentrazione del minerale nelle miniere. Come accade col petrolio, spenderemo sempre più energia per estrarre e produrre quei minerali, per cui la domanda energetica delle TIC tenderà a crescere da questo lato. 

In conclusione: un'elettronica con materiali più comuni ed elevati tassi di riciclaggio sarà quindi un imperativo in tempi molto brevi. Tanto brevi che dubito che la capacità di adattamento dell'industria possa essere tanto rapida (le stanno crescendo molti dei 60 nani tutti insieme). La scarsità di energia e materiali del BAU verrà di nuovo alimentata dalle TIC e, se cade il BAU, le TIC diventeranno un problema sociale ed economico (un'elettronica del 1990 nel 2020? Agli adolescenti di oggi provocherebbe una crisi di nervi).

Informazione.

Cosa accadrà all'informazione immagazzinata se non proseguiamo nel BAU?
Nella transizione di civiltà che avremo in questo secolo, cosa lasceremo alla civiltà che segue? Bisogna pianificarlo adesso. Io in un'isola deserta non mi porterei tre e-book, sceglierei tre libri cartacei. Se lo scenario di collasso non è ancora scartabile, allora bisogna cominciare a pensare a cosa lasciamo alle future generazioni che valga la pena. Che sistemi “informatici” sarabbero adeguati e non dipendenti da una elevata tecnologia e da un alto consumo energetico e di materie prime?

I militari nordamericani hanno TIC robuste, flessibili, non dipendenti dall'elettricità di rete, nelle loro missioni di guerra. Queste potrebbero essere parte della tecnologia del futuro (anche se non importa loro l'energia spesa in anticipo che è carissima). In uno scenario di transizione più dolce, si dovrà risparmiare molta energia e molte materie prime. La legge di Moore è una beffa in buona misura per questo testo che, scritto su Microsoft Word, può contenere venti volte più informazioni (e più materiali ed energia) di un .txt.

Quando si pensa a quello di cui era capace di fare la ZX Spectrum e lo confrontassimo con un computer attuale, semplicemente non che facciamo migliaia o milioni di volte più cose e più veloci. Gli informatici del futuro dovranno essere efficienti in termini di consumo di energia-materia prima-memoria come loro priorità maggiore e maneggiare meno in termini di prestazioni visive-economiche-quantitative di informazione

Qualcuno dovrebbe cominciare a preoccuparsi di cose, come e dove andiamo a mettre la “memoria” per le generazioni future. Il BAU (e le sue Scuole di Informatica e Telecomunicazione) non si preoccupa di questo perché presume passeremo dai Tera agli Zeta in un progresso infinito. Sarebbe un peccato che, ancora una volta, bruci la biblioteca di Alessandria, perché allora prederemmo 500 anni di cultura e tecnologia ci costerà altri 500 anni per poter essere recuperata.























Il Futuro Digitale

Da The Oil Crash. Traduzione di Massimiliano Rupalti


Immagine da http://www.tallerdecomputocancun.com/

Di Antonio Turiel


Cari lettori,

un paio di mesi fa un lettore del blog, professore molto impegnato nell'installazione delle Tecnologie di Informazione e Comunicazione (TIC) mi chiedeva per e-mail circa la possibilità che i sogni tecno-ottimisti di un futuro dominato da queste tecnologie possa un giorno vedere la luce. Risulta che da uno o due anni in Spagna il grande dibattito nelle aule fosse per l'installazione di lavagne digitali e delle nuove Tecnologie di Comunicazione, Solo un anno più tardi, la cruda realtà della crisi ha cancellato dalla mappa la prospettiva di marcia trionfante verso il nuovo Eldorado tecnologico e le proteste dei docenti, sempre più ridotta di numero e di efficacia, riempiono le strade un giorno sì e l'altro pure. Ma molti di coloro che allora hanno comprato questa propaganda credono che il sogno ipertecnologico sia ancora raggiungibile ed anche che un giorno le lezioni saranno online e non di presenza fisica – fra le altre cose perché non hanno capito che questa crisi non finirà mai.

Alla fine, questo lettore chiedeva una mia opinione sulle TIC. La verità è che e avesse saputo dove ci troviamo mentre avanziamo verso la Grande Esclusione, non sarebbe difficile supporre cosa avverrà alle TIC, che si ridurrebbero, se possibile, ad essere un prodotto per una minoranza di ricchi. Tuttavia, tale analisi è troppo banale per meritare un post specifico, così credo che sia più interessante adottare qui un altro punto di vista, anche se non è quello che può accadere con più probabilità. Supponiamo per un momento che avessimo un attacco collettivo di buon senso e ci sedessimo a pianificare in modo sereno e ragionevole la transizione a un mondo dove la quantità di energia disponibile sarà molto inferiore a quella attuale. Quale potrebbe essere il ruolo delle TIC durante la transizione ed eventualmente nello stato successivo? Qual è la dimensione ragionevole che può avere l'attuale elettronica di consumo?

L'argomento è abbastanza complesso e non posso fare una valutazione esaustiva della stessa, ma si possono indicare alcuni dati che ci permettono di immaginare come potrebbe essere, dove si riferisce ai limiti fisici, questo futuro. 

La fine della legge di Moore: dagli anni 70 del decennio passato si è osservato che la quantità di transistor che si poteva integrare in un chip decuplicava ogni 18 mesi circa: è la cosiddetta Legge di Moore. Ciò ha fatto sì che ogni 18 mesi, più o meno, uscissero CPU il doppio più veloci e che i chip di memoria e le capacità dei dischi seguissero dei ritmi analoghi. Tuttavia, la densità dei transistor era talmente alta che gli effetti quantici dovevano cominciare a manifestarsi, ponendo in breve fine a questa regola empirica. E anche se qualcuno pretende, come col picco del petrolio, che lo scarto della legge di Moore non sia importante o che la stagnazione attualmente osservata si debba alla paralisisi di varie fabbriche giapponesi a causa del terremoto e dello tsunami dello scorso anno, la realtà è che la Legge di Moore non è più quello che era, e che per compensare l'evidente incapacità di aumentare la miniaturizzazione dei circuiti integrati si ricorre a mettere sempre più microprocessori nei computer... ma senza tecniche adeguate di Calcolo Parallelo (che non sono per niente facili da attuare) è certo che buona parte di questa capacità extra di calcolo non si sfrutti e i nostri computer non sono, in pratica, sempre più potenti. La fine della Legge di Moore ha implicazioni anche in materia energetica, visto che un suo corollario è che nella misura in cui l'integrazione dei transistor avanzava, la quantità di energia e tempo necessari per fare un calcolo diminuiva. Ora non è più il caso e questi computer con nuclei multipli consumano come vari computer connessi fra loro, come di fatto sono. Per cui, il consumo di energia da parte del sistema informatico, che non è mai diminuito per la sua crescente proliferazione – una specie di paradosso di Jevons informatico – ora cresce a velocità doppia. Pertanto, non è il caso di aspettarsi molte migliorie, in quanto all'efficienza energetica dei nostri sistemi.

Consumo energetico di Internet: Uno studio dell'Università della California di Berkeley delllo scorso anno calcola il consumo di energia di internet (inteso non solo come rete fisica, ma tutti i dispositivi ad essa collegato e conteggiando l'energia di fabbricazione dei diversi apparati) fra l'1 e il 2% di tutta l'energia (attenzione, non solo elettrica, di tutta l'energia) che si consuma sul pianeta. La cifra è impressionante, perché, essendo realisti, a lungo termine l'essere umano potrà conservare una frazione di tutta l'energia che consuma adesso, forse il 10% e se si gioca bene le sue carte, per cui quello che consuma internet su questa scala avrebbe un grande peso. Si deve inoltre pensare che la maggiore domanda di internet si ha nei paesi più ricchi che sono anche quelli che in questo momento consumano più energia e quelli ai quali costerà di più mantenere tali livelli di consumo. Tutto indica che internet dovrà ridursi probabilmente di una o due ordini di grandezza, per cui molti dei servizi di streaming di oggigiorno saranno semplicemente impossibili. E questo senza parlare del 'cloud computing', che sta ancora in fasce e che non supererà ma la condizione di esperimento su piccola scala, a causa degli innumerevoli requisiti in termini di capacità di computazione, che alla fine sarebbero richiesti anche in energia.

Impatto del silicio nei microchip: i chip di microelettronica si fabbricano col silicio, che è uno dei minerali più abbondanti sulla crosta terrestre (la comune sabbia è fondamentalmente ossido di silicio). Tuttavia, le cialde di silicio con le quali si fabbricano devono avere una purezza di silicio estrema, del 99,9999%, il che richiede stanze speciali in condizioni di pulizia eccezionale (stanze bianche), il che obbliga ad una grande spesa energetica, che è tanto più grande quanto è meno puro il materiale di partenza. E' per quello che per produrre silicio puro si è soliti esigere minerali speciali, non la semplice sabbia di una spiaggia, e il quarzo di grande purezza è uno dei preferiti, ma questo è un materiale abbastanza più scarso della sabbia (potete consultare un riassunto abbastanza buono sulla produzione di silicio in rete, sul sito Connexions, in un articolo dal titolo “Semiconductor grade silicon”). Quando la produzione di questi minerali speciali comincia a diminuire (per l'esaurimento dei giacimenti e per l'aumento dell'energia richiesta per lo sfruttamento di quelli rimanenti) la produzione dei microchip di silicio ne risentirà, rendendoli più cari. L'effetto di rincaro sarà fortemente non lineare, visto che ci sono tre fattori che contribuiscono all'aumento dei prezzi: primo, la crescente scarsità dei materiali que richiedono meno energia per essere purificati, il che porterà ad usarne altri con un maggior costo energetico; secondo, il rincaro intrinseco dell'energia in un mondo con minore disponibilità della stessa, il che in un processo come questo, che ne richiede molta, è determinante; e terzo, all'aumentare del prezzo la domanda cadrà, anche, appesantita dal resto dei problemi di degrado sociale, per cui la produzione di chip non potrà sfruttare più di tanto dei benefici dell'economia di scala ed il prezzo schizzerà ancora di più per questo effetto. Una politica di riciclaggio intelligente potrebbe mitigare questi effetti, ma per queste sarebbe necessario cambiare i piani attuali che non facilitano l'estrazione facile delle cialde (wafer) di silicio usate.

Difficoltà di accedere alle terre rare: abbiamo già discusso qui, due anni fa, i problemi di accesso alle terre rare, materiali che, nonostante la loro abbondanza sulla crosta terrestre, si presentano in depositi con una concentrazione non sfruttabile economicamente, il che comporta forti limitazioni nella loro produzione e che, in combinzaione a certi movimenti del mercato, hanno fatto sì che la Cina sia giunta a controllare il 97% della produzione di questi materiali. Molte terre rare, come detto a suo tempo nel post, sono di un'importanza capitale nei dispositivi ad alta tecnologia che usiamo oggigiorno, dai colori degli schermi LCD ai materiali per drogare le proprietà semiconduttrici del silicio o e che servono per servono per affinare la frequenza di lavoro dei chip, aumentarne la miniaturizzazione e diminuirne il consumo. Terre rare a parte, ci sono altri metalli che hanno usi importanti nei nostri sofisticati dispositivi e che stanno cominciando a scarseggiare come oro e argento (sui quali spero di fare un post quest'estate) e, a breve, anche il rame.

Declino del capitale disponibile, collasso della complessità: il grande problema che quasi nessuno sembra in grado di vedere, è che la nostra società industriale è essenzialmente instabile. E' progettata per produrre una gran quantità di merci, distribuirle rapidamente e consumarle allo stesso ritmo. Ma siamo in una situazione in cui la produzione di nuove merci richiede quantità crescenti di capitale e sta arrivando ad un punto in cui i conti economici non tornano (in fondo, a causa del declino della redditività energetica) e la redditività non è sufficiente a mantenere il macchinario in funzione. I flussi di capitale diminuiscono e così anche il capitale disponibile. Il problema è che quanto più ci addentriamo in questo sentiero di perdita e distruzione di capitale verso una crescita già ora impossibile, più difficile è finanziare nuove imprese. E arriva un momento in cui non potremo neanche mantenere le strutture esistenti, perché la società non si autofinanzia, non produce sufficienti risorse per mantenere tutte le infrastrutture (è di nuovo il problema dell'EROEI decerscente: con meno energia netta si possono mantenere meno infrastrutture). Come abbiamo detto da poco, i problemi delle risorse vengono visti abitualmente come problemi intrinsecamente economici e non collegati all'energia, per cui non vien riconosciuto che la decadenza economica che stiamo vivendo non può cambiare internamente perché è limitata da fattori esterni (la mancanza di materie prime). 

Senza renderci conto, a poco a poco stiamo perdendo la capacità di fare le cose più complesse in primis (quelle che richiedono più capitale umano, nel senso di specializzazione, e di risorse) e progressivamente stiamo perdendo anche la capacità di fare le cose più semplici, fondamentali e necessarie. Essenzialmente, si produce una riduzione forzata della complessità della società (ciò che secondo Joseph Tainter – vedi anche qui, ndT. - è la causa del collaso della società). Non è necessario percorrere questo sentiero, almeno non fino alla fine, anche se disgraziatamente è ciò che stiamo facendo. E nel contesto della discussione di oggi, la perdita di complessità fa sì che le apparecchiature informatiche e ad alta tecnologia siano le prime a cadere. Un giorno chiudono le fabbriche di certi microchip disperse su tutto il pianeta finché non rimarranno che due o tre siti che possono fornire, a causa della loro grande dimensione, tutto il mondo. Poi, la diminuzione delle vendite fa chiudere tutte le fabbriche tranne una. Poi, questa fabbrica si vede obbligata a fare cambiamenti, aggiustamenti, a causa del crollo della domanda causata da una esclusione sociale crescente e dalla caduta del consumo di massa. Alla fine, si producono chip più semplici, più economici, meno funzionali, ma con una redditività maggiore adattata ai sempre meno apparecchi con elettronica digitale... Insisto, non è per forza il futuro, ma al momento è la direzione nella quale stiamo camminando. 

Alla fine, in uno scenario che assumesse anche le tinte più luminose, per noi sarebbe di scarsità e sarebbe naturale ripensare la scala sulla quale vogliamo usare l'informatica. Non dobbiamo rinunciare ad avere dei computer, di fatto sarebbe molto conveniente che non perdessimo questa tecnologia data la sua incredibile utilità nella gestione di un'infinità di sistemi complessi che per noi sono vitali. Tuttavia, quello che risulta abbastanza discutibile è se questi computer debbano essere personali. Il grande vizio della società industriale è quello di fomentare il consumo per accrescere il beneficio anche quando questo presuppone uno spreco ingiustificabile.  Mi risulta difficile capire perché in ogni casa debbano esserci due, tre, quattro o più dispositivi in grado di connettersi a internet e tutti con un'enorme capacità di elaborazione. Sì, è divertente, ma non necessario e in realtà non ce lo possiamo permettere per ciò che ho spiegato prima. Ciò implica anche che internet dovrebbe avere una dimensione più ridotta e meglio adattata alla circolazione di vera informazione (e non a tanto rumore, come ora). Dobbiamo ripensare il nostro concetto di proprietà ed evolvere verso quello di condivisione delle risorse che non si possono generalizzare per la loro scarsità, per il loro costo energetico e per il loro impatto ambientale, ma che conviene che siano accessibili a tutti, come lo sono le TIC. E' un diverso modello di proprietà, ma probabilmente non ci resta alternativa e sicuramente può essere ugualmente soddisfacente si viene gestito adeguatamente e senza abusi. Purtroppo, la cultura umana, soprattutto in Occidente, deve evolversi ancora molto per imparare a condividere senza abusare...

Saluti.
AMT