lunedì 6 settembre 2021
La trappola della conoscenza
Un Post di Fabio Vomiero
Nonostante certa filosofia ingenua e una spiccata propensione umana alla retorica mitologica amino da sempre confezionare ed etichettare idee e concetti, dovrebbe invece essere chiaro come, in realtà, tutto il nostro armamentario lessicale, sintattico e cognitivo, si dimostri il più delle volte evidentemente insufficiente nell'esprimere l'estrema complessità intrinseca di molti fenomeni complessi.
Problema peraltro già noto da tempo presso le menti più perspicaci. Basti pensare per esempio, senza scomodare la solita fisica quantistica di Heisemberg o Schrӧdinger, alle frequenti riflessioni di Darwin sui possibili fraintendimenti che avrebbe potuto generare la difficile esplicazione della sua teoria, cosa che poi si è effettivamente verificata. Si pensi inoltre a concetti comunemente abusati come quelli di realtà, vita, mente, coscienza, scienza o conoscenza stessa, appunto: nonostante in letteratura si possa trovare certamente di tutto e di più, di fatto, non esistono mai delle definizioni univoche e universalmente accettate.
Del resto, anche l'osservazione attenta della nostra piccola esperienza quotidiana ci può dire molto in merito alla questione. Provate a mettere d'accordo uno scienziato e un sacerdote sulle prove dell'esistenza di Dio, o un filosofo "cartesiano" e un neuroscienziato sull'essenza del presunto dualismo mente-corpo, oppure ancora un certo politico di destra e uno di sinistra sulla convenienza socio-economica o meno del cosiddetto "liberismo". Ma provate anche soltanto a capire, tra la sterminata letteratura spesso discordante, se il caffè, le uova, i latticini o il cioccolato facciano bene o male, se sia meglio operare la vostra poliposi nasale o la vostra calcolosi oppure no, se la caccia nel ventunesimo secolo abbia ancora un senso, se la politica di Biden possa essere o meno corretta, o soltanto conoscere come siano andate veramente le cose in Libia e in Iraq prima, e adesso in Afghanistan.
Ebbene, il punto è che allora, nonostante molte menti dogmatiche continuino ancora a pensare ingenuamente il contrario, tutto questo ci dovrebbe invece suggerire quantomeno una certa prudenza nel considerare la valenza stessa di concetti assoluti come quelli di realtà, verità e conoscenza.
In effetti, se ci spostiamo provvidenzialmente dalle sfere appunto più dogmatiche e mitopoietiche, come quelle per esempio delle ottomila religioni e delle infinite filosofie diffuse nel mondo, all'unica vera possibilità di avvicinamento a forme di conoscenza perlomeno affidabili e condivise, rappresentate dalla scienza contemporanea (che non è più soltanto quella di Galileo e Newton), possiamo ritrovare moltissimi elementi teorici e sperimentali che supportano l'evidenza di come non si possa in alcun modo attribuire al concetto di conoscenza un significato completamente oggettivo e definitivo.
Primo fra tutti il fatto che ogni dato (scientifico) grezzo è generalmente muto se non viene integrato e contestualizzato all'interno di un costrutto teorico (teoria o modello) che, com'è noto, non è mai fisso e definitivo, ma cambia o si modifica costantemente nel tempo. Il problema è che ad essere in gioco non è soltanto l'estrema complessità dei fenomeni osservati che producono emergenza di nuova informazione e di nuovi comportamenti, ma anche la variabilità, i limiti e la complessità dell'osservatore che, a tutti gli effetti, diventa egli stesso elemento di ogni tipo di sistema indagato, condizionando, di fatto, la pluralità e la scelta delle descrizioni possibili.
E' chiaro che allora, a questo punto, la frontiera di ogni prospettiva di conoscenza non potrà che essere mobile e cambiare anche sensibilmente a seconda che l'elemento osservatore ragioni fondamentalmente da poeta, da sacerdote, da filosofo, da scienziato e ancora di più a seconda che questi osservatori siano più o meno bravi e preparati nell'analisi e nell'interpretazione sistemica.
Processi complessi che studiano altri processi complessi, sostanzialmente, il che implica che ogni descrizione del mondo non potrà che essere necessariamente centrata sulle "scelte sistemiche" sempre parziali e limitate dell'osservatore, sgomberando così il campo da quelle residue, ma ancora diffuse illusioni, di una logica completamente oggettivistica della conoscenza. In altre parole è come se di un infinito paesaggio di informazione noi non riuscissimo che a cogliere di volta in volta soltanto alcuni aspetti e non altri, un po' come quando in meccanica quantistica si fissano le condizioni sperimentali per estrarre dai sistemi certa informazione anzichè altra, mediante il collasso della funzione d'onda.
Ecco perchè il filosofo e il neuroscienziato di prima non si metteranno mai d'accordo e in fondo, nonostante tutti i proclami, non riusciremo mai a prevedere nel dettaglio l'evoluzione di molti sistemi complessi quali il clima, la tettonica, il folding proteico, il decorso o l'esito di malattie ed epidemie, le relazioni sociali, l'andamento della borsa, le crisi economiche, o soltanto immaginare quale potrà essere il nostro pensiero tra cinque minuti.
Ma qual è allora il senso di questa breve riflessione epistemica... Probabilmente quello di una semplice lezione di umiltà e di consapevolezza della precarietà della nostra conoscenza così come lo è peraltro la nostra stessa esistenza. Perchè esiste sempre uno scarto tra le nostre rappresentazioni e descrizioni del mondo, siano esse modelli o teorie, e il mondo stesso che ci chiama, ed è proprio grazie a questo scarto, più o meno ampio, che trova spazio il gioco della pluralità degli approcci possibili e delle visioni prospettiche, le quali possono poi generare ipotesi e teorie anche sostanzialmente, o soltanto apparentemente, incommensurabili tra di loro.
Il nostro rapporto con il mondo, infatti, non è mai neutro, perchè anche le nostre osservazioni empiriche sono sempre inevitabilmente cariche di una certa dose di background, pregiudizio, teoria e aspettativa, purtroppo, che poi è anche il motivo per cui siamo così diversi da una semplice macchina di Touring.
Insomma, potremmo dire che, sulla base di quanto abbiamo detto, tenderebbe ad emergere l'immagine di una conoscenza condannata ad essere soltanto parziale e dalla vocazione più che altro "costruttivista", da intendersi quindi come un raffinato processo relazionale tra osservatore e osservato a metà strada tra un "realismo" banale e tautologico e un "relativismo" ingenuo, che trascura invece l'importanza, la straordinarietà e l'affidabilità della conoscenza scientifica rispetto a tutte le altre forme di sapere.
Purtroppo, il caos culturale tipico della nostra epoca rappresenta un ambiente pericoloso e poco favorevole alla produzione e alla trasmissione di una conoscenza seria e concreta: proliferazione continua di miti e di luoghi comuni, formazione scolastica probabilmente inadeguata, informazione mediatica scadente, ipertecnologia che paralizza le menti, e una scienza che continua ad essere poco compresa e male interpretata oltre che dai soliti umanisti naif, anche da alcuni suoi stessi rappresentanti.
Serve perciò molto impegno, studio e applicazione se si vuole ambire a diventare delle persone intellettualmente libere, sagge e razionali, e rendere un po' meno ingombrante e pesante il fardello non solo della propria ignoranza, ma anche della propria stupidità... Una fatica che, comunque sia, varrebbe la pena di sostenere.