Da “The Oil Crash”. Traduzione di MR
Questo di Turiel è un post molto importante che va letto insieme a quello di Gail Tverberg sullo stesso argomento. In sostanza, stiamo vedendo un momento epocale nella storia planetaria del petrolio: sebbene la produzione totale di liquidi riesca ancora a mantenersi costante o anche in leggero aumento, l'industria non ce la fa più a reggere i tremendi costi necessari. Siamo al "picco degli investimenti" - preludio dell'inevitabile declino (o collasso produttivo). E ora che facciamo? Beh, il primo passo è capire qual'è la verità. (U.B.)
di Antonio Turiel
Cari lettori,
l'inquietante articolo di Gail Tverberg sull'attuale tendenza delle grandi compagnie petrolifere a disinvestire nel cosiddetto upstream, cioè nell'esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti porta ad una riflessione profonda sul futuro immediato della nostra società. Nel momento più critico della crisi energetica, le compagnie petrolifere gettano la spugna. Non è una sorpresa. Quattro anni fa, su questo stesso blog, spiegavamo come alcune di queste compagnie stessero abbandonando l'investimento sull'upstream.
Il miraggio del fracking (soprattutto nella ricerca di petrolio leggero di roccia compatta, LTO nell'acronimo inglese) è stato l'ultimo tentativo di continuare in questo busisness. Come diceva recentemente un analista del mondo del petrolio, gli Stati Uniti avevano la necessità di cercare una risorsa da sfruttare perché non potevano permettersi il lusso di lasciare all'industria dell'estrazione degli idrocarburi più potente del mondo senza lavoro, visto che le conseguenze sociali ed economiche sarebbero inaccettabili. Così, si sono inventati il miracolo del fracking e con questa chimera hanno mantenuto l'illusione che si potesse continuare ad andare avanti sulla stessa strada per questi quattro anni; grazie alle sabbie bituminose del Canada, ai petroli ultrapesanti del Venezuela e al LTO, la produzione di petrolio si è potuta mantenere stabile intorno ai 76 milioni di barili al giorno (Mb/g) per tre anni e quella di tutti i liquidi del petrolio (che comprende i liquidi del gas naturale, PG nei grafici che seguono) intorno ai 90 Mb/g, come mostrano i seguenti grafici di un file di Burbuja.info:
Tuttavia, gli stessi grafici mostrano che il petrolio convenzionale, dopo un lungo plateau di produzione di poco più di 70 Mb/g di media all'anno iniziata verso il 2004 e con forti saliscendi che hanno seguito il ciclo economico, sembra aver già iniziato la sua inesorabile discesa. Niente di nuovo: il plateau produttivo risulta già dal rapporto del 2010 della IEA (che tende ad essere un po' più ottimista della EIA) e nel rapporto del 2012 si riconosce l'inizio del declino del petrolio convenzionale. Peggio ancora, come abbiamo già spiegato analizzando il rapporto del 2013 la IEA avverte che se non si producono gli investimenti in tempo, la produzione di petrolio può scendere rapidissimamente, creando problemi seri.
E qual è la reazione a questo avvertimento? Comincia ad essere evidente persino per il mondo degli affari il LTO da fracking sta arrivando alla sua fine e questa era l'ultima scommessa. Fine. Non c'è nient'altro; siamo realmente rimasti senza opzioni.
Naturalmente continuerà la ripetizione assurda degli stessi meme, le stesse chimere (gli idrati di metano un giorno, gli scisti bituminosi un altro, il petrolio Artico o persino quello Antartico, i giacimenti pre-sale in Brasile, le sue controparti sull'altro lato dell'Atlantico... la stessa cosa che si va dicendo da un paio di decenni o più) mentre altri sognano che le rinnovabili ci tireranno fuori dalla buca (cosa poco verosimile alla luce dei problemi che abbiamo discusso nella serie di post “I limiti delle rinnovabili”), o con i reattori nucleari a fusione (che probabilmente non saranno mai fattibili, che sia per la via ITER o per confinamento inerziale – diffidate dei comunicati stampa falsificati!), o quelli di quarta generazione (sui quali si sperimenta da 70 anni senza che si siano risolti i problemi cruciali che li affliggono) o con l'uso del gas naturale per autotrazione (che richiederebbe un investimento ingente non per la motorizzazione, ma per la distribuzione, quando il picco del gas è a sua volta dietro l'angolo), o con qualsiasi altra distrazione che paresse avere a che fare con l'energia (che siano tecnologie per batterie, grafene, magnesio o concentratori di energia infrarossa). Il fatto è che le aziende petrolifere sono esauste, come si spiegava nel post precedente ed hanno cominciato un'aggressiva politica di disinvestimento (guardate, per esempio, questa presentazione della Shell che riassume i suoi risultati del 2013 e le sue strategie per il 2014) Nel post di Gail Tverberg si mostrava il grafico di Steve Kopits che sintetizza la previsione di diminuzione dell'investimento delle compagnie multinazionali:
Nel grafico sopra, la linea grigia orizzontale rappresenta l'investimento in beni di capitale delle compagnie petrolifere private che si prevedeva di recente, a ottobre dello scorso anno, appena sei mesi fa; la linea grigia che scende, rappresenta la revisione fatta questo stesso mese, la linea nera tratteggiata, la previsione attuale e la rossa punteggiata quella che indicano le ultime dichiarazioni delle compagnie multinazionali: una caduta totale di circa un 30% in un solo anno. Pensate che in realtà, per conservare lo status quo, l'investimento in beni comuni dovrebbe crescere col tempo, visto che le risorse che rimangono sono sempre peggiori e richiedono uno sforzo maggiore, così che una caduta di un 30% dell'investimento anticipa una caduta molto più grande della nuova produzione. E non dimenticate che i giacimenti attualmente in produzione diminuiscono già di un 6% all'anno (come riconosceva a novembre la stessa IEA). Qualche specialista di energia furbo si è precipitato a dire che qui non succede niente, che il disinvestimento è frutto di un ciclo di sovra-investimento. Questa interpretazione ha un errore fondamentale, come evidenziava l'altro giorno Juan Carlos Barba: quando si produce un eccesso di investimento in un'attività produttiva (perché gli investitori vedono un buon affare e lo fanno crescere troppo in fretta) la produzione sale molto, più di quello che in realtà chiede il mercato, pertanto alla fine il prezzo scende. In quel momento gli investitori escono dall'affare e crolla l'investimento finché la cosa non sis tabilizza. Tuttavia, quello che succede qui è che mentre l'investimento saliva e saliva, la produzione è caduta e il prezzo è rimasto stabile.
Pertanto, spiegazione volgare secondo la quale si tratta di un normale ciclo di sovra-investimento non sta in piedi. Non preoccupatevi: sicuramente i nostri analisti economici di punta troveranno una qualche spiegazione contorta per giustificare la loro visione aprioristica; Qualsiasi cosa pur di non accettare che il picco del petrolio è già qui, perché il picco del petrolio era questo in realtà, che semplicemente è questa la puzza che fa il picco del petrolio. Certamente stiamo parlando del disinvestimento delle compagnie private e queste coprono solo un terzo del mercato mondiale del petrolio, ma le compagnie nazionali che forniscono gli altri due terzi hanno bisogno delle multinazionali per rilanciare la propria produzione, visto che hanno perdite più che significative (per esempio la messicana Pemex o la norvegese Statoil, ma è un fenomeno generalizzato – pensate a questa curiosa notizia sull'Arabia Saudita). E la ricetta per uscire da questo pantano, la stessa che viene ripetuta insistentemente in tutti i paesi con problemi di produzione di petrolio, che sia il Messico, il Venezuela, il Brasile, l'Argentina, il Bahrein, la Libia, l'Iran o la Norvegia, è quella di aprire all'investimento straniero. Naturalmente, chi proverà a investire in questa pletora di nuove e dubbie opportunità? Gli investitori naturali sarebbero le grandi multinazionali del petrolio, ma proprio queste stanno scappando dai giacimenti di dubbia redditività e concentrandosi sui benefici e sul buttare i dividendi, nel continuare ad aumentare la propria redditività ad ogni costo, anche a costo di diminuire l propria dimensione. Peggio ancora, queste si stanno disfacendo dei loro beni più problematici. Tanti giacimenti in vendita da un lato insieme a tanti paesi che cercano l'investimento per le proprie estrazioni nazionali dall'altro formano un eccesso di offerta che proietta più dubbi sulla redditività e scaccia la maggior parte degli investitori. E' pertanto ovvio che i problemi delle multinazionali del petrolio vanno a causare una forte diminuzione nel petrolio su scala mondiale tanto nel settore privato quanto in quello pubblico.
La conseguenza più diretta di tutto questo a breve termine è che non ci sarà un quarto ciclo di investimento come si ipotizzava nel post del mio amico Antonio García-Olivares: siccome la società non può tollerare prezzi più alti, le compagnie non possono andare avanti nell'estrazione delle risorse più care. Pertanto, se non cambia la tendenza attuale di disinvestimento non ci sarà un plateau di produzione di petrolio fino al 2040 come diceva Antonio García-Olivares (per quanto sarebbe un male già quello), ma il declino della produzione di tutti i liquidi del petrolio (non solo il petrolio convenzionale) comincerà subito. Di fatto, se non si agisce rapidamente, la perdita di investimento che stanno già applicando le compagnie multinazionali ed i movimenti prevedibili che faranno quelle nazionali possono condurre ad un crollo della produzione di tutti i liquidi del petrolio fra i 5 e i 10 milioni di barili al giorno (fino ad un 11% di quello che si produce adesso) in un lasso di tempo inferiore ai due anni. Se un crollo così rapido di questa dimensione si materializza, gli effetti sull'economia possono essere devastanti e la capacità di adattamento dei diversi paesi dipenderà dalla loro capacità di mettere mano ad altre risorse.
Se tutto questo fosse poco, c'è un altro problema: la forte dipendenza dal petrolio dell'estrazione di altre risorse naturali, energetiche e non. Alcuni dei giacimenti più estremi di carbone, gas e uranio richiedono l'uso di un'ingente quantità di carburanti per spostare tutti i macchinari necessari. E siccome il carbone, il gas e l'uranio a buon mercato si stanno a loro volta esaurendo, il peso del combustibile sui costi di produzione sta salendo: pensate per esempio che proprio ora il costo del diesel usato nell'estrazione rappresenta il 10% del prezzo dell'uranio. E questo senza entrare nel merito dell'impatto sul settore agricolo, fortemente dipendente dal petrolio, che colpisce non solo la redditività nulla dei biocombustibili, ma l'alimentazione umana. Per quanto riguarda l'estrazione dei minerali in generale, i costi crescenti di produzione (riflesso del maggior consumo di combustibile nella misura in cui i filoni rimanenti hanno concentrazioni di minerale più povere) compromettono la fattibilità dello sfruttamento di molti minerali (come mostra questo articolo, le miniere d'oro potrebbero chiudere in sei mesi se non sale il prezzo).
Alicia Valero ha scritto una tesi estesa e dettagliata qualche anno fa che a volte cito in questo blog, la quale usa un'approssimazione interessante per affrontare il problema della scarsità di materie prime, che siano energetiche o meno. L'idea consiste nel calcolare l'exergia di qualsiasi materia, quantificata come la quantità di lavoro utile che rappresenta per la società. Questa approssimazione exergetica permette di trattare il picco del rame o dell'oro allo stesso modo che il picco del petrolio o del carbone. Essenzialmente, il nostro problema non è solo che l'energia utile che ci arriva dal petrolio e dall'uranio sta già diminuendo e che quelle del carbone e del gas sono dietro l'angolo, ma che inoltre l'exergia di molte materie prime fondamentali per la nostra società (che sia rame, neodimio, acciaio o cemento) sta già diminuendo o non è lontana dal farlo.
L'approssimazione economicistica che domina la visione della nostra società, tanto lontana dalla Termodinamica, vede solo i costi monetari e i cicli di investimento ed è incapace di riconoscere che i tetti di produzione si stanno abbassando. Credono semplicemente che con più investimenti si potrebbe ottenere un aumento della produzione, senza comprendere che un mucchio di banconote verdi non afferrano la pirite o un pezzo di carbone dal fondo di una miniera. Nel momento in cui la diminuzione della produzione sia evidentemente minore dei livelli attuali i guru di questo credo che chiamiamo Economia tireranno fuori qualche loro assurda teoria ad hoc, riedizioni della vecchia falsità del Peak Demand, e ci diranno che i gusti della società sono diventati più austeri e che abbiamo deciso di usare meno di tutto per coscienza ecologica o altri motivi, come se la penuria fosse una scelta. Niente di nuovo dai tempi di Esopo, insomma.
Lasciando da parte questo pensiero sociopatico e ignorante della realtà fisica, lo scenario che si profila per il nostro futuro immediato è quello della Grande Scarsità. Se non si agisce subito, la probabilità di sperimentare nei prossimi anni, persino nell'arco di non troppi mesi, una transizione fortemente non lineare è molto elevata. Il livello di stress del sistema ora è altissimo. In tutto il mondo stanno scoppiando conflitti in cui l'energia, anche senza essere sempre il fattore fondamentale, è uno dei fattori importanti. Ciò aumenta il rischio di un crollo repentino del flusso di energia e materiali; pensate, per esempio, cosa succederebbe se aumentassero le ostilità con la Russia, paese che si alterna con l'Arabia saudita al primo posto della produzione mondiale di petrolio e che fornisce il 26% del gas naturale e più del 40% del petrolio che si consuma in Europa. Pensate cosa succederebbe se l'instabilità attuale e crescente in Bahrein o in Yemen finissero per degenerare ion guerre civili e contagiassero un'Arabia Saudita in cui i costi di produzione crescono con l'invecchiare dei suoi giacimenti, compromettendo la sua stabilità di bilancio e la pace sociale. O se l'Iran, il Venezuela o l'Algeria finissero in una guerra civile. Oltre alla tragedia nei paesi disgraziati che soccombessero, vi immaginate dove finirà il benessere dell'occidente quando questi smettono di mandarci puntualmente il loro petrolio e il loro gas naturale?
Questo è un punto di non ritorno nella Storia dell'Umanità. Le contraddizioni del nostro sistema economico non possono essere ignorate ancora per molto, ma i nostri leader continuano a sognare l'uscita dalla crisi e al ritorno alla crescita economica. Ma in pochissimo tempo dovranno prendere misure d'urgenza per evitare che la società collassi. E' facile prevedere che nel momento in cui nostri governanti si rendono conto che il petrolio necessario sta smettendo di arrivare, a causa del disinvestimento delle grandi compagnie, gli Stati entrino nel capitale di queste imprese per prendersi in carico i progetti meno redditizi. Tale misura garantirà un flusso minimo di base per l'attività economica, ma sarà possibile a costo di mettere tasse molto superiori a quelle attuali, per cui questa ultima intenzione di mantenere lo status quo allargherà rapidamente la povertà e la miseria nella società. In aggiunta, dato il costo eccessivo che implicherà questo intervento per ogni paese, il commercio del petrolio soffrirà, poiché i paesi saranno riluttanti a condividere una materia tanto essenziale e che costa loro tanti sacrifici.
Ora guardatevi attorno. Su che risorse può contare il vostro paese? Quale sforzo sociale implicherà il loro sfruttamento autarchico? Come vi condizionerà la miseria che viene, che potenziale avete per resistere alla prossima onda?
Si può tratteggiare il caso della Spagna come un caso tipo. Se si conserva la modalità di reazione dimostrata durante questi primi anni di crisi energetica, nel prossimo decennio la Spagna si appoggerebbe al proprio carbone autoctono. Le centrali elettriche in attività sarebbero principalmente quelle idroelettriche, eoliche e termiche a carbone, le quali permetteranno di mantenere un livello di fornitura non molto inferiore all'attuale, anche se il consumo crollerebbe considerevolmente, per cui non ci si dovrebbero aspettare grandi cadute della rete durante i prossimi decenni. Il problema è, come abbiamo ripetuto tante volte, che l'elettricità è solo il 21% del consumo di energia finale nella Spagna di oggi. Per il resto degli usi energetici si convertirebbe il carbone nazionale in idrocarburo liquido usando il processo di Fisher-Tropsch anche se si perderebbe per strada il 50% della sua energia. Siccome la produzione sarebbe insufficiente a coprire la domanda attuale, si restringerebbe progressivamente il suo uso, che si concentrerebbe nell'agricoltura, nell'Esercito e nei servizi essenziali e si abbandonerebbe la mobilità privata, alla portata soltanto di più ricchi. Questo farebbe sprofondare la maggior parte dell'attività economica attuale del paese e condannerebbe una gran massa della popolazione alla povertà ed alla sopravvivenza nei limiti più miserabili della società. Un fenomeno che abbiamo già descritto qui: la Grande Esclusione. Col tempo, l'organizzazione sociale potrebbe diventare un nuovo feudalesimo.
Questo è inevitabile? No, perbacco. Non abbiamo motivo di seguire una strada così triste. Non è il nostro destino inesorabile finire schiavizzati, né molto meno, come non lo è nemmeno il collasso della società o l'estinzione della razza umana; sicuramente non deve finire in Apocalisse. Ma se non facciamo attenzione il nostro destino può essere davvero poco brillante. Possiamo ancora evitarlo. Per questo il primo passo è quello di riconoscere la verità, una verità dura che deve essere detta in faccia. E infine passare dall'idea all'azione. Ma alla svelta, non c'è più molto tempo..
Saluti.
AMT
Questo di Turiel è un post molto importante che va letto insieme a quello di Gail Tverberg sullo stesso argomento. In sostanza, stiamo vedendo un momento epocale nella storia planetaria del petrolio: sebbene la produzione totale di liquidi riesca ancora a mantenersi costante o anche in leggero aumento, l'industria non ce la fa più a reggere i tremendi costi necessari. Siamo al "picco degli investimenti" - preludio dell'inevitabile declino (o collasso produttivo). E ora che facciamo? Beh, il primo passo è capire qual'è la verità. (U.B.)
di Antonio Turiel
Cari lettori,
l'inquietante articolo di Gail Tverberg sull'attuale tendenza delle grandi compagnie petrolifere a disinvestire nel cosiddetto upstream, cioè nell'esplorazione e lo sviluppo di nuovi giacimenti porta ad una riflessione profonda sul futuro immediato della nostra società. Nel momento più critico della crisi energetica, le compagnie petrolifere gettano la spugna. Non è una sorpresa. Quattro anni fa, su questo stesso blog, spiegavamo come alcune di queste compagnie stessero abbandonando l'investimento sull'upstream.
Il miraggio del fracking (soprattutto nella ricerca di petrolio leggero di roccia compatta, LTO nell'acronimo inglese) è stato l'ultimo tentativo di continuare in questo busisness. Come diceva recentemente un analista del mondo del petrolio, gli Stati Uniti avevano la necessità di cercare una risorsa da sfruttare perché non potevano permettersi il lusso di lasciare all'industria dell'estrazione degli idrocarburi più potente del mondo senza lavoro, visto che le conseguenze sociali ed economiche sarebbero inaccettabili. Così, si sono inventati il miracolo del fracking e con questa chimera hanno mantenuto l'illusione che si potesse continuare ad andare avanti sulla stessa strada per questi quattro anni; grazie alle sabbie bituminose del Canada, ai petroli ultrapesanti del Venezuela e al LTO, la produzione di petrolio si è potuta mantenere stabile intorno ai 76 milioni di barili al giorno (Mb/g) per tre anni e quella di tutti i liquidi del petrolio (che comprende i liquidi del gas naturale, PG nei grafici che seguono) intorno ai 90 Mb/g, come mostrano i seguenti grafici di un file di Burbuja.info:
Tuttavia, gli stessi grafici mostrano che il petrolio convenzionale, dopo un lungo plateau di produzione di poco più di 70 Mb/g di media all'anno iniziata verso il 2004 e con forti saliscendi che hanno seguito il ciclo economico, sembra aver già iniziato la sua inesorabile discesa. Niente di nuovo: il plateau produttivo risulta già dal rapporto del 2010 della IEA (che tende ad essere un po' più ottimista della EIA) e nel rapporto del 2012 si riconosce l'inizio del declino del petrolio convenzionale. Peggio ancora, come abbiamo già spiegato analizzando il rapporto del 2013 la IEA avverte che se non si producono gli investimenti in tempo, la produzione di petrolio può scendere rapidissimamente, creando problemi seri.
E qual è la reazione a questo avvertimento? Comincia ad essere evidente persino per il mondo degli affari il LTO da fracking sta arrivando alla sua fine e questa era l'ultima scommessa. Fine. Non c'è nient'altro; siamo realmente rimasti senza opzioni.
Naturalmente continuerà la ripetizione assurda degli stessi meme, le stesse chimere (gli idrati di metano un giorno, gli scisti bituminosi un altro, il petrolio Artico o persino quello Antartico, i giacimenti pre-sale in Brasile, le sue controparti sull'altro lato dell'Atlantico... la stessa cosa che si va dicendo da un paio di decenni o più) mentre altri sognano che le rinnovabili ci tireranno fuori dalla buca (cosa poco verosimile alla luce dei problemi che abbiamo discusso nella serie di post “I limiti delle rinnovabili”), o con i reattori nucleari a fusione (che probabilmente non saranno mai fattibili, che sia per la via ITER o per confinamento inerziale – diffidate dei comunicati stampa falsificati!), o quelli di quarta generazione (sui quali si sperimenta da 70 anni senza che si siano risolti i problemi cruciali che li affliggono) o con l'uso del gas naturale per autotrazione (che richiederebbe un investimento ingente non per la motorizzazione, ma per la distribuzione, quando il picco del gas è a sua volta dietro l'angolo), o con qualsiasi altra distrazione che paresse avere a che fare con l'energia (che siano tecnologie per batterie, grafene, magnesio o concentratori di energia infrarossa). Il fatto è che le aziende petrolifere sono esauste, come si spiegava nel post precedente ed hanno cominciato un'aggressiva politica di disinvestimento (guardate, per esempio, questa presentazione della Shell che riassume i suoi risultati del 2013 e le sue strategie per il 2014) Nel post di Gail Tverberg si mostrava il grafico di Steve Kopits che sintetizza la previsione di diminuzione dell'investimento delle compagnie multinazionali:
Nel grafico sopra, la linea grigia orizzontale rappresenta l'investimento in beni di capitale delle compagnie petrolifere private che si prevedeva di recente, a ottobre dello scorso anno, appena sei mesi fa; la linea grigia che scende, rappresenta la revisione fatta questo stesso mese, la linea nera tratteggiata, la previsione attuale e la rossa punteggiata quella che indicano le ultime dichiarazioni delle compagnie multinazionali: una caduta totale di circa un 30% in un solo anno. Pensate che in realtà, per conservare lo status quo, l'investimento in beni comuni dovrebbe crescere col tempo, visto che le risorse che rimangono sono sempre peggiori e richiedono uno sforzo maggiore, così che una caduta di un 30% dell'investimento anticipa una caduta molto più grande della nuova produzione. E non dimenticate che i giacimenti attualmente in produzione diminuiscono già di un 6% all'anno (come riconosceva a novembre la stessa IEA). Qualche specialista di energia furbo si è precipitato a dire che qui non succede niente, che il disinvestimento è frutto di un ciclo di sovra-investimento. Questa interpretazione ha un errore fondamentale, come evidenziava l'altro giorno Juan Carlos Barba: quando si produce un eccesso di investimento in un'attività produttiva (perché gli investitori vedono un buon affare e lo fanno crescere troppo in fretta) la produzione sale molto, più di quello che in realtà chiede il mercato, pertanto alla fine il prezzo scende. In quel momento gli investitori escono dall'affare e crolla l'investimento finché la cosa non sis tabilizza. Tuttavia, quello che succede qui è che mentre l'investimento saliva e saliva, la produzione è caduta e il prezzo è rimasto stabile.
Pertanto, spiegazione volgare secondo la quale si tratta di un normale ciclo di sovra-investimento non sta in piedi. Non preoccupatevi: sicuramente i nostri analisti economici di punta troveranno una qualche spiegazione contorta per giustificare la loro visione aprioristica; Qualsiasi cosa pur di non accettare che il picco del petrolio è già qui, perché il picco del petrolio era questo in realtà, che semplicemente è questa la puzza che fa il picco del petrolio. Certamente stiamo parlando del disinvestimento delle compagnie private e queste coprono solo un terzo del mercato mondiale del petrolio, ma le compagnie nazionali che forniscono gli altri due terzi hanno bisogno delle multinazionali per rilanciare la propria produzione, visto che hanno perdite più che significative (per esempio la messicana Pemex o la norvegese Statoil, ma è un fenomeno generalizzato – pensate a questa curiosa notizia sull'Arabia Saudita). E la ricetta per uscire da questo pantano, la stessa che viene ripetuta insistentemente in tutti i paesi con problemi di produzione di petrolio, che sia il Messico, il Venezuela, il Brasile, l'Argentina, il Bahrein, la Libia, l'Iran o la Norvegia, è quella di aprire all'investimento straniero. Naturalmente, chi proverà a investire in questa pletora di nuove e dubbie opportunità? Gli investitori naturali sarebbero le grandi multinazionali del petrolio, ma proprio queste stanno scappando dai giacimenti di dubbia redditività e concentrandosi sui benefici e sul buttare i dividendi, nel continuare ad aumentare la propria redditività ad ogni costo, anche a costo di diminuire l propria dimensione. Peggio ancora, queste si stanno disfacendo dei loro beni più problematici. Tanti giacimenti in vendita da un lato insieme a tanti paesi che cercano l'investimento per le proprie estrazioni nazionali dall'altro formano un eccesso di offerta che proietta più dubbi sulla redditività e scaccia la maggior parte degli investitori. E' pertanto ovvio che i problemi delle multinazionali del petrolio vanno a causare una forte diminuzione nel petrolio su scala mondiale tanto nel settore privato quanto in quello pubblico.
La conseguenza più diretta di tutto questo a breve termine è che non ci sarà un quarto ciclo di investimento come si ipotizzava nel post del mio amico Antonio García-Olivares: siccome la società non può tollerare prezzi più alti, le compagnie non possono andare avanti nell'estrazione delle risorse più care. Pertanto, se non cambia la tendenza attuale di disinvestimento non ci sarà un plateau di produzione di petrolio fino al 2040 come diceva Antonio García-Olivares (per quanto sarebbe un male già quello), ma il declino della produzione di tutti i liquidi del petrolio (non solo il petrolio convenzionale) comincerà subito. Di fatto, se non si agisce rapidamente, la perdita di investimento che stanno già applicando le compagnie multinazionali ed i movimenti prevedibili che faranno quelle nazionali possono condurre ad un crollo della produzione di tutti i liquidi del petrolio fra i 5 e i 10 milioni di barili al giorno (fino ad un 11% di quello che si produce adesso) in un lasso di tempo inferiore ai due anni. Se un crollo così rapido di questa dimensione si materializza, gli effetti sull'economia possono essere devastanti e la capacità di adattamento dei diversi paesi dipenderà dalla loro capacità di mettere mano ad altre risorse.
Se tutto questo fosse poco, c'è un altro problema: la forte dipendenza dal petrolio dell'estrazione di altre risorse naturali, energetiche e non. Alcuni dei giacimenti più estremi di carbone, gas e uranio richiedono l'uso di un'ingente quantità di carburanti per spostare tutti i macchinari necessari. E siccome il carbone, il gas e l'uranio a buon mercato si stanno a loro volta esaurendo, il peso del combustibile sui costi di produzione sta salendo: pensate per esempio che proprio ora il costo del diesel usato nell'estrazione rappresenta il 10% del prezzo dell'uranio. E questo senza entrare nel merito dell'impatto sul settore agricolo, fortemente dipendente dal petrolio, che colpisce non solo la redditività nulla dei biocombustibili, ma l'alimentazione umana. Per quanto riguarda l'estrazione dei minerali in generale, i costi crescenti di produzione (riflesso del maggior consumo di combustibile nella misura in cui i filoni rimanenti hanno concentrazioni di minerale più povere) compromettono la fattibilità dello sfruttamento di molti minerali (come mostra questo articolo, le miniere d'oro potrebbero chiudere in sei mesi se non sale il prezzo).
Alicia Valero ha scritto una tesi estesa e dettagliata qualche anno fa che a volte cito in questo blog, la quale usa un'approssimazione interessante per affrontare il problema della scarsità di materie prime, che siano energetiche o meno. L'idea consiste nel calcolare l'exergia di qualsiasi materia, quantificata come la quantità di lavoro utile che rappresenta per la società. Questa approssimazione exergetica permette di trattare il picco del rame o dell'oro allo stesso modo che il picco del petrolio o del carbone. Essenzialmente, il nostro problema non è solo che l'energia utile che ci arriva dal petrolio e dall'uranio sta già diminuendo e che quelle del carbone e del gas sono dietro l'angolo, ma che inoltre l'exergia di molte materie prime fondamentali per la nostra società (che sia rame, neodimio, acciaio o cemento) sta già diminuendo o non è lontana dal farlo.
L'approssimazione economicistica che domina la visione della nostra società, tanto lontana dalla Termodinamica, vede solo i costi monetari e i cicli di investimento ed è incapace di riconoscere che i tetti di produzione si stanno abbassando. Credono semplicemente che con più investimenti si potrebbe ottenere un aumento della produzione, senza comprendere che un mucchio di banconote verdi non afferrano la pirite o un pezzo di carbone dal fondo di una miniera. Nel momento in cui la diminuzione della produzione sia evidentemente minore dei livelli attuali i guru di questo credo che chiamiamo Economia tireranno fuori qualche loro assurda teoria ad hoc, riedizioni della vecchia falsità del Peak Demand, e ci diranno che i gusti della società sono diventati più austeri e che abbiamo deciso di usare meno di tutto per coscienza ecologica o altri motivi, come se la penuria fosse una scelta. Niente di nuovo dai tempi di Esopo, insomma.
Lasciando da parte questo pensiero sociopatico e ignorante della realtà fisica, lo scenario che si profila per il nostro futuro immediato è quello della Grande Scarsità. Se non si agisce subito, la probabilità di sperimentare nei prossimi anni, persino nell'arco di non troppi mesi, una transizione fortemente non lineare è molto elevata. Il livello di stress del sistema ora è altissimo. In tutto il mondo stanno scoppiando conflitti in cui l'energia, anche senza essere sempre il fattore fondamentale, è uno dei fattori importanti. Ciò aumenta il rischio di un crollo repentino del flusso di energia e materiali; pensate, per esempio, cosa succederebbe se aumentassero le ostilità con la Russia, paese che si alterna con l'Arabia saudita al primo posto della produzione mondiale di petrolio e che fornisce il 26% del gas naturale e più del 40% del petrolio che si consuma in Europa. Pensate cosa succederebbe se l'instabilità attuale e crescente in Bahrein o in Yemen finissero per degenerare ion guerre civili e contagiassero un'Arabia Saudita in cui i costi di produzione crescono con l'invecchiare dei suoi giacimenti, compromettendo la sua stabilità di bilancio e la pace sociale. O se l'Iran, il Venezuela o l'Algeria finissero in una guerra civile. Oltre alla tragedia nei paesi disgraziati che soccombessero, vi immaginate dove finirà il benessere dell'occidente quando questi smettono di mandarci puntualmente il loro petrolio e il loro gas naturale?
Questo è un punto di non ritorno nella Storia dell'Umanità. Le contraddizioni del nostro sistema economico non possono essere ignorate ancora per molto, ma i nostri leader continuano a sognare l'uscita dalla crisi e al ritorno alla crescita economica. Ma in pochissimo tempo dovranno prendere misure d'urgenza per evitare che la società collassi. E' facile prevedere che nel momento in cui nostri governanti si rendono conto che il petrolio necessario sta smettendo di arrivare, a causa del disinvestimento delle grandi compagnie, gli Stati entrino nel capitale di queste imprese per prendersi in carico i progetti meno redditizi. Tale misura garantirà un flusso minimo di base per l'attività economica, ma sarà possibile a costo di mettere tasse molto superiori a quelle attuali, per cui questa ultima intenzione di mantenere lo status quo allargherà rapidamente la povertà e la miseria nella società. In aggiunta, dato il costo eccessivo che implicherà questo intervento per ogni paese, il commercio del petrolio soffrirà, poiché i paesi saranno riluttanti a condividere una materia tanto essenziale e che costa loro tanti sacrifici.
Ora guardatevi attorno. Su che risorse può contare il vostro paese? Quale sforzo sociale implicherà il loro sfruttamento autarchico? Come vi condizionerà la miseria che viene, che potenziale avete per resistere alla prossima onda?
Si può tratteggiare il caso della Spagna come un caso tipo. Se si conserva la modalità di reazione dimostrata durante questi primi anni di crisi energetica, nel prossimo decennio la Spagna si appoggerebbe al proprio carbone autoctono. Le centrali elettriche in attività sarebbero principalmente quelle idroelettriche, eoliche e termiche a carbone, le quali permetteranno di mantenere un livello di fornitura non molto inferiore all'attuale, anche se il consumo crollerebbe considerevolmente, per cui non ci si dovrebbero aspettare grandi cadute della rete durante i prossimi decenni. Il problema è, come abbiamo ripetuto tante volte, che l'elettricità è solo il 21% del consumo di energia finale nella Spagna di oggi. Per il resto degli usi energetici si convertirebbe il carbone nazionale in idrocarburo liquido usando il processo di Fisher-Tropsch anche se si perderebbe per strada il 50% della sua energia. Siccome la produzione sarebbe insufficiente a coprire la domanda attuale, si restringerebbe progressivamente il suo uso, che si concentrerebbe nell'agricoltura, nell'Esercito e nei servizi essenziali e si abbandonerebbe la mobilità privata, alla portata soltanto di più ricchi. Questo farebbe sprofondare la maggior parte dell'attività economica attuale del paese e condannerebbe una gran massa della popolazione alla povertà ed alla sopravvivenza nei limiti più miserabili della società. Un fenomeno che abbiamo già descritto qui: la Grande Esclusione. Col tempo, l'organizzazione sociale potrebbe diventare un nuovo feudalesimo.
Questo è inevitabile? No, perbacco. Non abbiamo motivo di seguire una strada così triste. Non è il nostro destino inesorabile finire schiavizzati, né molto meno, come non lo è nemmeno il collasso della società o l'estinzione della razza umana; sicuramente non deve finire in Apocalisse. Ma se non facciamo attenzione il nostro destino può essere davvero poco brillante. Possiamo ancora evitarlo. Per questo il primo passo è quello di riconoscere la verità, una verità dura che deve essere detta in faccia. E infine passare dall'idea all'azione. Ma alla svelta, non c'è più molto tempo..
Saluti.
AMT