sabato 15 agosto 2020

Ma perché ci vergogniamo di certe cose? Le strane usanze di una scimmia nuda


Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787 - 1793

 
Post di Bruno Sebastiani
 
Una delle caratteristiche che differenzia la nostra specie da ogni altra (animale e vegetale) è il sentimento di repulsione verso l’esibizione dell’atto sessuale e di tutto ciò che gli ruota attorno.
Non è certo la caratteristica principale, che rimane la superiorità intellettuale, ma approfondirne le motivazioni e i singoli aspetti ci può aiutare in quell’opera di conoscenza autentica di noi stessi che a mio avviso è ancora ben lontana dall’essere realizzata.
Secondo il racconto biblico ci saremmo vergognati della nostra nudità dopo il peccato originale, nel momento in cui il creatore ci rimproverò l’atto di disobbedienza compiuto.
Ma, pur dando credito a tale racconto, quale sarebbe la logica sottostante al medesimo? Va bene il faticare per coltivare la terra, va bene il soffrire per mettere al mondo i figli, ma perché vergognarsi della propria nudità?
O forse ci coprimmo per ripararci dal freddo e l’occultamento degli attributi sessuali fu solo una conseguenza di tale pratica?
Improbabile, dal momento che anche nei climi caldi l’essere umano è solito nascondere pene e vagina, e questo comportamento sembra essere correlato più al livello di “civiltà” raggiunto che non alle condizioni climatiche di un determinato luogo.
A ognuno di voi sarà capitato di vedere qualche documentario su popolazioni primitive che ostentano con noncuranza la propria nudità.
Poi, con l’arrivo della cosiddetta “civiltà”, insorge il pudore, il senso di vergogna della propria nudità, o, meglio, della nudità dei propri apparati genitali.
Altra osservazione di un certo rilievo. Gli organi sessuali sono intimamente congiunti a quelli preposti all’evacuazione dei residui organici ingeriti per alimentarci. Guarda caso, anche le funzioni di svuotamento della vescica e dell’intestino suscitano repulsione, sono da eseguire di nascosto, chiusi a chiave in un apposito locale. Persino il nome di tale locale e delle sue pertinenze provoca disgusto (cesso, latrina, cloaca, fogna, e così via).
Che ci sia qualche connessione tra i due tipi di ritegno (quello dell’esibizione dell’atto sessuale e quello del mostrarsi durante la defecazione)? Da dove nasce realmente questa negazione nei confronti di alcune parti del nostro corpo e delle loro funzioni?
Prendo tempo e aggiungo altra carne al fuoco.
Un aspetto del comportamento sociale di Homo sapiens che mi ha sempre lasciato perplesso è che l’operazione inversa di quella di cui tanto ci vergogniamo è invece lodata e glorificata.
Parlo dell’atto del cibarsi, della convivialità, del mangiare e bere in compagnia. Le belle tavolate numerose e rumorose sono sempre ben viste e danno un senso di allegria.
Ma l’ingurgitare cibo e tracannare liquidi non sono atti altrettanto funzionali alle nostre attività organiche quanto quelli di evacuarne i residui o di accoppiarsi?
Altra osservazione. Ognuna di queste attività ha subìto da parte dell’essere umano ampie modificazioni rispetto alle originali modalità di esecuzione.
Mangiamo seduti, tocchiamo il cibo con forchetta e coltello ed è buona educazione non poggiare i gomiti sulla tavola.
Evacuiamo pure seduti, su apposita “tazza”, non più accovacciati sulla nuda terra.
Ma soprattutto facciamo l’amore tutto l’anno e non più solo in determinate stagioni. Nascondiamo le nudità ma siamo sempre in calore. Curiamo il nostro aspetto come non mai, facciamo intravedere le nostre forme nascoste al fine di eccitare i potenziali partners. E poiché queste pratiche inducono piacere e preludono al piacere, abbiamo pensato bene di estendere le pratiche di corteggiamento / seduzione a tutti i mesi dell’anno. È anche questa una delle cause della sovrappopolazione del pianeta?
Come si vede le modifiche “culturali” da noi apportate alle funzioni espletate dal nostro organismo sono varie e tra loro contraddittorie. Intere scienze sono nate per spiegarne le motivazioni, prima tra tutte la psicanalisi, e io non intendo aggiungere nuove interpretazioni alle tante già formulate per spiegare queste modifiche artificiose.
Mi limiterò a una considerazione assai più semplice, basata unicamente sul buon senso e per tale motivo forse più attendibile di altre.
Faccio infatti sommessamente presente che tutte queste modifiche comportamentali sono gradualmente intervenute via via che l’essere umano ha accresciuto le dimensioni del suo encefalo (numero di neuroni, sinapsi, interconnessioni ecc.), da quando cioè è stato in grado di contravvenire ai comportamenti istintuali per lui previsti ed elaborati da madre natura.
Questo a livello di specie.
Stessa considerazione vale a livello di individuo. Nessuna vergogna nel bambino nei primi mesi / anni di vita a mostrarsi nudo o a farsi vedere mentre fa pipì o pupù. L’avversione a esibire certe funzioni insorge più avanti nell’età, quando il cervello si sviluppa e acquisisce il raziocinio.
Dunque ancora una volta dobbiamo prendere atto che tutti questi comportamenti “contro natura” sono intimamente connessi alla crescita abnorme subìta dal nostro cervello, la quale ci ha consentito di contravvenire agli istinti e di tenere atteggiamenti non previsti dall’iter evolutivo della vita.
Sicuramente la biosfera non subirà danni a causa del nostro andar vestiti o del fatto che ci accoppiamo di nascosto in camera da letto o che espletiamo i bisogni corporali in gabinetto. Il vero danno deriva dalle industrie che confezionano i nostri vestiti e da quelle che edificano le nostre case.
Ma anche il “comune senso del pudore” testimonia che siamo “animali anomali”. E poiché questo essere anomali si sta traducendo in essere devastatori del pianeta, ogni tassello della nostra anomalia va attentamente studiato.
Probabilmente si tratta di particolari privi di spiegazione logica, ma l’insieme di tante trasgressioni (in poche migliaia di anni) a regole maturate nel corso di un’evoluzione dipanatasi nel corso di centinaia di milioni di anni, non può lasciare indifferenti.
Dobbiamo prendere consapevolezza della nostra reale natura, che non è certo quella propostaci dagli spot pubblicitari o dai programmi televisivi che ammorbano le nostre case.
Sarebbe stato più auspicabile vivere nudi in sintonia con la natura o è meglio vivere vestiti in quello che diventerà un deserto senza alberi, tutto pietre e cemento?

venerdì 7 agosto 2020

Ritirata su tutti i fronti: epicedio per i ghiacciai (e non solo)

 

L'epicedio (in greco antico: ἐπικήδειον μέλος, epikédion mélos) è un tipo di componimento poetico scritto in morte di qualcuno, tipico della letteratura latina

Di Luciano Celi

Krzysztof Kieślowski – regista, sceneggiatore, scrittore e documentarista polacco, considerato uno dei più grandi registi della storia del cinema – diresse e produsse, tra il 1988 e il 1989, 10 brevi film (mediometraggi) di circa 55 minuti, indipendenti per trama l’uno dall’altro: il Decalogo. 

Il Decalogo mette in scena, attraverso storie di vita comuni, l’adesione e soprattutto l’infrangere i dieci comandamenti. Tema antico, anzi antichissimo, già specificatamente individuato da una breve parolina greca – hýbris – ed esemplificato piuttosto dettagliatamente anche nella sua letteratura e tragedia.
Il termine hýbris è spesso tradotto con “orgogliosa tracotanza” e davvero è antico quanto l’uomo: la cacciata dall’Eden ne è solo uno degli esempi perché il frutto proibito è quello della conoscenza. 

Kieślowski nel primo episodio – «Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all'infuori di me» – narra le vicende del protagonista, suo omonimo perché si chiama Krzysztof, che, fisico e professore universitario separato dalla moglie, deve crescere il figlio Paweł da solo. L’uomo è un grande appassionato di computer e pensa che tutta la vita possa essere descritta matematicamente attraverso l'uso dei calcolatori. Secondo lui non esiste una dimensione trascendente della realtà: non esiste nessun Dio e quando si muore il cervello smette semplicemente di funzionare. Credo che ormai molti siano di questa idea, ma non è qui il caso di divagare sulle credenze di ognuno e atteniamoci alla trama: un giorno il lago vicino a casa ghiaccia e Paweł esprime il desiderio di pattinare.

Il padre, allora, da bravo scienziato esegue una serie di calcoli al computer, che gli permettono di stabilire che il ghiaccio è in grado di reggere il suo peso. Per maggiore sicurezza esegue nuovamente i calcoli e va a verificarne l'esattezza con una prova empirica. Accade però che il ghiaccio si rompe. Il padre non lo sorvegliava (sicuro come era che il ghiaccio non si sarebbe rotto) e non sospetta di nulla nemmeno quando nota dei segnali premonitori (un camion dei pompieri che si dirige verso il lago, gli amici che non lo trovano, la lezione a cui è mancato, le persone che lo cercano per avvisarlo dell'accaduto e dell'inchiostro che si versa in un libro). Comincerà a capire che non tutto è prevedibile quando il calamaio con cui stava scrivendo si rompe senza essere stato toccato. Decide quindi di andare a vedere cosa stava succedendo al lago, vede il buco nel ghiaccio ed i soccorritori ma stenta ancora a crederci (apprende che alcuni ragazzi stavano giocando nelle vicinanze e va a cercare suo figlio). Il padre si arrende all'evidenza solo quando i soccorritori estraggono il corpo senza vita del bambino.1
Questo episodio, visto molti anni fa, mi è tornato alla mente leggendo un bel libro di Enrico Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020. Descrivendo le sorti dei ghiacci nel mondo – da quelli alpini a quelli polari – l’attenzione dell’autore si ferma sulla Siberia dove, notizia più volte descritta e riportata, il riscaldamento climatico procede a velocità più che doppia rispetto al resto del mondo. Questa regione è oggetto dell’attenzione di un documentarista russo, Viktor Kossakovsky, che nel suo Aquarela filma, tra le altre cose, il lago Baikal, la riserva (chiusa) d’acqua dolce più grande del mondo:
Le conseguenze del riscaldamento climatico sono espresse da trombe d’aria improvvise e allagamenti disastrosi, ma è la sequenza girata sulle acque scongelate del Lago Baikal in Siberia a togliere il fiato allo spettatore. Il Baikal è la nuova icona del clima terrestre. Campo largo: un’automobile avanza nell’imperturbabile silenzio della landa siberiana, puntando leggera verso un orizzonte di montagne; di colpo la superficie del lago si spacca e l’auto sprofonda. Campo stretto (invisibile): i passeggeri si dibattono dentro la loro trappola e i soccorritori si sporgono sull’acqua cercando di tirarli in salvo. Campo largo: la sequenza si ripete senza pietà, nuova automobile, nuovo sfondamento, nuovo bagno gelato; uno dopo l’altro i veicoli e i guidatori s’inabissano nelle crepe del disgelo. Auto viene, auto scompare: è la roulette russa.2 

Verrebbe da dire che mentre il Dio di Kieślowski è veterotestamentario e non perdona la umana hýbris, quello nella realtà è almeno un poco più misericordioso e fa trovare, almeno nelle scene descritte, qualche aiuto ai malcapitati.

Questo libro, in generale, è molto bello: ricco di riferimenti che vanno dalla scienza alla letteratura, passando per un po’ di antropologia e storia, mi ha stupito perché in primo luogo ci ho letto una specie di “inconscia” descrizione di me stesso.

Il 20 agosto 2009 Chamonix era una città rovente. […] Era un mondo capovolto. Nella capitale dell’alpinismo i turisti cercavano refrigerio nei negozi con l’aria condizionata, dove maneggiavano ramponi e maglioni con le mani sudate, oppure sfogliavano i libri che raccontavano di neve, gelo e seracchi. Alle Aiguilles e ai ghiacciai preferivano le vecchie fotografie. Si era rotta la relazione logica tra i panorami delle pagine illustrate e gli stessi panorami inquadrati dalle finestre […]. Fuori il sole era talmente bollente che i turisti preferivano rifugiarsi tra gli scaffali del grande magazzino, e alla fine, sfogliando e sfogliando, trovavano più attraenti gli scenari patinati dei libri e delle cartoline dei fondali svaporati della montagna vera.3 

Non ero a Chamonix ma al bookshop del Forte di Bard, nella “bassa” valdostana; non era il 20 agosto 2009, ma il 29 luglio 2020 e questo libro, per il titolo e la bella confezione, mi è sembrata subito un’ottima evasione dal caldo e forse il suo acquisto è stato anche inconsciamente dettato dal percorso psicologico che l’autore stesso racconta in queste righe.

Certo in Val d’Ayas, poco sotto Brusson, la casa era fresca e abbiamo dormito con un piumino leggero la sera; in almeno una escursione nella quale ci siamo avventurati, abbiamo potuto godere della vista del massico del Monte Rosa, ancora innevato, ma tutto questo non è consolatorio perché le vicende e i fatti descritti nel libro sono, purtroppo, terribili e reali.

Lo è (stato) il “canto funebre” (epicedio) del ghiacciaio islandese lo scorso anno (qui si trova ancora la notizia), “replicato”, in Italia, da due iniziative simili: lo scioglimento del ghiacciaio dei Forni in alta Valtellina, che ha avuto, come dice Camanni, «un riverbero mediatico più da evento folcloristico che da allarme epocale» e ha portato in quota, alla capanna Branca, un’intera orchestra di “musicisti-montanari” devoti alla causa il 20 luglio 2019 e, due mesi dopo, alle sorgenti del Lys, davanti ai seracchi del Monte Rosa.

La targa per la scomparsa del ghiacciaio Ok.

Fino ad arrivare alla notizia, sempre riportata da Camanni, che il parroco di Fiesch, in Svizzera, non pregava più che il ghiacciaio lasciasse in pace i suoi fedeli. I montanari della Fieschertal – racconta Camanni – si erano rivolti formalmente a papa Benedetto XVI per avere il permesso di modificare il rito di Sant’Ignazio, perché la preghiera storica non aveva più senso. Una volta la processione invocava la ritirata del fiume gelato, adesso volevano pregare Dio che gli restituisse il loro ghiacciaio.
Sembrano notizie di folklore, ma è lo zeitgeist, lo spirito di un tempo che, pretendendo di fare a meno del rispetto dell’ecosistema in cui vive – senza scomodare Dio… – non può che intonare canti funebri.

1 Wikipedia, alla voce: «Decalogo 1».
2 Camanni, Il grande libro del ghiaccio, Laterza, Bari, 2020, p. 294.
3 Op. cit., p. 302.

Ma è vero che stiamo finendo il pesce? Si, se continuiamo a sovrasfruttare il mare.

Nel recente libro "Il Mare Svuotato," di Ugo Bardi e Ilaria Perissi, fra le tante cose proponiamo anche il "gioco della pesca alla balena."  E' un gioco didattico che illustra il sovrasfruttamento delle risorse. Nell'immagine, vediamo una sessione di prova del gioco. Ilaria, vestita di rosso, gioca il ruolo del mozzo Ishmael, Ugo Bardi, col cappello a tuba, prende la parte del capitano Ahab, Claudia, Gianluca, e Stefano sono altri membri dell'equipaggio. Questo è un gioco, ma purtroppo il sovrasfruttamento delle risorse ittiche avviene per davvero, come potete leggere nell'articolo qui di seguito

 

(riprodotto dal "Fatto Quotidiano" con leggere modifiche)

Il WWF ha recentemente comunicato che a Luglio c’è stato il “Fish Dependence Day,” ovvero, “il limite oltre il quale i consumatori europei terminano virtualmente il consumo di pesce pescato nei mari della regione.” Detto così, ha l’aria di una cosa preoccupante, ma non è che sia chiarissimo cosa sta succedendo. Allora vediamo di spiegare.

Il “Fish Dependence Day” è stato proposto nel 2010 da una fondazione chiamata “NEF” (New Economic Foundation). L’idea è abbastanza semplice: si misura la quantità di pesce pescato in “acque europee”, incluso l’acquacoltura, e la si rapporta al consumo di pesce in Europa. Ne viene fuori che il totale del pesce pescato nei mari Europei (o allevato in Europa) potrebbe soddisfare il consumo soltanto fino a una certa data, ovvero fino ai primi di Luglio – da allora in poi, possiamo considerare che mangiamo tutto pesce importato o pescato in acque internazionali. Per l’Italia, la data fatidica è ancora prima, ai primi di Aprile. E, come vi potete aspettare, la data si sposta all’indietro ogni anno. Il tempo in cui l’Europa produceva abbastanza pesce per il suo consumo interno è ormai remoto, parecchi decenni nel passato e la “forbice” fra consumi e produzione continua ad aumentare.

Ma è veramente un problema se produciamo meno pesce di quello che consumiamo? Che cosa ci impedisce di importarlo? E perché non potremmo semplicemente pescare di più? Ma le cose non sono così semplici. Il Fish Dependence Day è un indicazione di un profondo squilibrio in tutta la questione della pesca a livello mondiale.

Su questo argomento, io e la mia collaboratrice Ilaria Perissi abbiamo scritto un libro intero (“Il Mare Svuotato”, Editori Riuniti 2020), dove trovate descritto come stiamo letteralmente “svuotando il mare” di pesce. E’ per via del “sovrasfruttamento,” ovvero consumare una risorsa naturale a un ritmo superiore a quello con cui si riforma. Succede anche con i conti in banca: se uno preleva più di quanto non deposita, alla fine non rimane più niente. (A Firenze, diciamo, “Leva e non metti fa la spia”).

Questo è quello che sta succedendo col mare. Semplicemente, si sta pescando troppo ovunque e il risultato è che gli stock di pesce si stanno riducendo e tendono a collassare. Avete fatto caso a come sia diventato comune essere punti da una medusa mentre fate il bagno in mare? Ma se avete più di 50 anni, vi ricordate che, quando eravate bambini, il problema delle meduse era molto meno importante. Ma perché tante meduse, oggi? Semplice: i pesci si nutrono di meduse, ma con meno pesci in mare, le meduse hanno potuto riprodursi in tranquillità.

Ma come è possibile che siamo arrivati a questo punto? Governi, scienziati, le agenzie che si occupano di pesca, non avrebbero potuto evitare quello che è successo? In teoria si, ma i politici sono esseri umani e sono sensibili ai ritorni economici che vengono dall’industria della pesca. Il risultato è stato che, spesso, le risorse ittiche sono state sovrastimate, come pure le quote allocate ai pescatori. E’ il caso ben noto, per esempio, della distruzione del merluzzo di Terranova negli anni 1990. Per non parlare degli effetti disastrosi della pesca illegale, dell’inquinamento chimico, della plastica in mare, del riscaldamento globale, e molte altre cose.

E allora? Vuol dire che non dobbiamo mangiare più pesce? No, il pesce è un alimento importante che è stato parte della dieta umana fin dai nostri remoti antenati. Vuol dire però che dobbiamo gestire molto meglio le risorse marine. Già possiamo fare qualcosa di utile mangiando pesce locale, evitando pesce esotico e costoso che viene da lontano. Soprattutto, non dobbiamo dare retta a quelli che ci parlano dell’”Economia Blu” come se fosse un miracolo che risolverà tutti i problemi del mare in modo anche sostenibile. Il mondo reale non ammette miracoli e la crescita economica a tutti i costi non è una cosa buona. Il mare ha ancora grandi risorse, ma dobbiamo lasciarlo un po’ in pace se vogliamo che si riprenda dai danni che ha subito negli ultimi decenni. 



sabato 1 agosto 2020

Siamo virus o cellule cancerogene?


Di Bruno Sebastiani

In una intervista pubblicata su Le Monde il 20 maggio scorso, Philippe Descola, antropologo francese allievo di Claude Lévi-Strauss e insegnante al Collège de France, ha dichiarato «Nous sommes devenus des virus pour la planète» (qui la traduzione in italiano dell’intervista).
Questa affermazione ricorda da vicino il monologo dell’agente Smith dinanzi a Morpheus nel film Matrix: “[…] ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate […] C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus.
Mentre il discorso dell’agente Smith rientra nel copione di un film di fantascienza, le argomentazioni di Philippe Descola poggiano su serie basi scientifiche.
Evidentemente la consapevolezza della nocività della nostra specie per la biosfera comincia a farsi strada anche in qualche ambiente accademico e ciò è motivo di soddisfazione per me che da anni vado costruendo la teoria secondo cui l’essere umano è “il cancro del pianeta” (il “Cancrismo”).
Sia una definizione (uomo = virus) sia l’altra (uomo = cellula tumorale) rappresentano delle metafore che hanno lo scopo di scuotere la coscienza di tutti i candidi “progressisti” che continuano a predicare la crescita del prodotto interno lordo, della produzione, dei consumi ecc.
Ma, senza scendere troppo nei dettagli della mia teoria piuttosto che in quelli di altre, vorrei soffermarmi sul motivo per cui a mio avviso è più corretto paragonare i nostri simili a cellule maligne di un organismo vivente, anziché a virus.
Il motivo è tecnico e illustrarlo può essere utile per comprendere le basi della mia teoria e il reale significato del cosiddetto “progresso” di cui tanto ci vantiamo.
Mentre i virus sono entità a sé stanti con caratteristiche di parassiti e vengono ospitati all'interno delle unità di base degli organismi viventi, le cellule cancerogene sono cellule ex sane all’interno delle quali si sono verificate, casualmente o a seguito di contatto prolungato con sostanze pericolose (fumo, amianto, inquinamenti di vario genere, ecc.) gravi alterazioni del patrimonio genetico.
Il processo che innesca la malattia è definito “carcinogenesi” e i suoi effetti infausti si possono riassumere in quattro principali manifestazioni:
  • crescita rapida e incontrollata delle cellule malate
  •  invasione e distruzione dei tessuti sani adiacenti
  •  de-differenziazione tra i vari tipi di cellule
  •  migrazione in altri siti del corpo (metastasi)
Queste condizioni che contraddistinguono le varie fasi della malattia si attagliano perfettamente a quanto realizzato da Homo sapiens ai danni della biosfera e questo è il motivo per cui ho preferito paragonare la nostra nocività a quella del tumore maligno, anziché a quella dei virus.
In un articolo che scrissi tempo addietro scesi più nei dettagli di questa analogia.
Ma il motivo che più di ogni altro mi ha indotto a paragonare il nostro processo evolutivo a quello della carcinogenesi (e poi al decorso della malattia tumorale) risiede nell’evidente parallelismo tra la genesi dei tumori e il nostro percorso di “ominazione”.
I primi, secondo la teoria più accreditata, sarebbero originati dalla mutazione del materiale genetico di cellule normali, le quali, a causa dell’alterazione subìta, rigettano l'equilibrio tra proliferazione e morte cellulare programmata (apoptosi), dando inizio a una divisione cellulare incontrollata e alla formazione del tumore.
Qui il discorso si fa tecnico. Senza scendere troppo nei dettagli, mi limiterò a dire che anche a un certo punto della nostra evoluzione intervennero delle modifiche nel nostro patrimonio genetico e ciò consentì l’aumento della massa cerebrale e con esso lo sviluppo dell’intelligenza, ovvero della facoltà di contravvenire agli istinti / leggi di natura e di creare la realtà “artificiale”.
Da qui la proliferazione indiscriminata della nostra specie, la distruzione delle cellule circonvicine, la de-differenziazione di quelle malate e la metastatizzazione in ogni angolo del pianeta.
Nel sito https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/ ho riportato alcuni studi scientifici pubblicati da vari biologi sulle alterazioni genetiche responsabili dell’abnorme aumento della nostra massa encefalica.
Poiché questi studi sono piuttosto ostici per i non addetti ai lavori, ho riportato anche un paio di articoli che descrivono quanto accaduto con linguaggio più accessibile.
Il primo, pubblicato sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2015, è di Edoardo Boncinelli, insigne scienziato che ha la rara capacità di esporre anche gli argomenti più complessi in modo facilmente comprensibile.
Il secondo, uscito il 21 agosto 2018 su Wired è di Viola Rita, una delle più promettenti giovani giornaliste scientifiche italiane. Quest’ultimo articolo ha anche il merito di dichiarare già nel titolo che “Il cervello dell’uomo è così grande a causa di un “errore” genetico”.
Infine, sempre a sostegno della tesi che il nostro processo di crescita cerebrale è addebitabile a una o più alterazioni di alcuni geni, mi corre l’obbligo di citare il testo di Pietro Buffa “I geni manipolati di Adamo”.
Pur non condividendo la tesi di fondo del libro (e cioè che saremmo stati geneticamente modificati da alcuni esseri alieni non meglio precisati …), nel capitolo 5, titolato “Dentro il genoma”, vi è il paragrafo “I geni dell’ominazione” che spiega per filo e per segno come poterono verificarsi le alterazioni di cui stiamo parlando.
Alcuni particolari geni […] rimasti immutati durante l’evoluzione dei vertebrati, hanno invece subìto nell’uomo sostanziali cambiamenti […]”
Segue il dettaglio di questi geni (HAR1, HARE5, ARHGAPIIB) e una interessante digressione su come i geni possano mutare, ovvero subire alterazioni.
Le mutazioni spontanee sono eventi del tutto casuali perché sono il risultato di una complessa catena di cause ed effetti che, di fatto, è impossibile ricostruire secondo un modello deterministico. Si tratta di errori di copiatura inseriti durante la replicazione del DNA e dovuti, secondo recenti indagini, a “tremiti quantistici” che normalmente interessano le basi nucleotidiche. Per alcuni microsecondi una base può risultare instabile rispetto alle altre, un tempo brevissimo ma sufficiente perché l’apparato di replicazione del DNA la scambi per un’altra, commettendo un errore di trascrizione”.
Pietro Buffa è un biologo molecolare e il suo linguaggio, seppur adattato a una platea di lettori non specialisti, è abbastanza tecnico (la letteratura scientifica più approfondita sull’argomento è indicata in nota: Isaac J. Kimsey e altri, Visualizing transient Watson–Crick-like mispairs in DNA andRNA duplexes, pubblicato su Nature l’ 11 marzo 2015)
Per quello che interessa a noi è sufficiente aver compreso come in natura, tra i miliardi e miliardi di geni esistenti, sussiste la possibilità di errori casuali, e tali errori possono condurre alle modifiche più varie.
L’evoluzione si occupa poi di mantenere quelle vantaggiose e di respingere le svantaggiose. Ma ciò che è vantaggioso per una specie è svantaggioso per un’altra (salvo casi particolari). La natura, madre imparziale, agisce per l’equilibrio complessivo della biosfera e tende a controbilanciare le spinte eccessivamente espansionistiche, da qualunque parte provengano. Sennonché i tempi di reazione della natura sono ben diversi da quelli dell’uomo, e noi oggi ci troviamo nel bel mezzo di un colossale squilibrio acquisito a nostro vantaggio, in virtù di quelle mutazioni genetiche avvenute nel nostro cervello e stiamo soltanto cominciando a intravvedere i tragici esiti dello sbilanciamento provocato.
La similitudine con ciò che accade nel corpo dell’ammalato di cancro mi pare evidente.
L’organismo del malato soffre, ma chi è in grado di dire se le cellule tumorali soffrano anch’esse o se, invece, cantino vittoria per le quantità sempre maggiori di terreno conquistato?

mercoledì 29 luglio 2020

Un olobionte felice è un olobionte che si prende cura del proprio microbioma


Un olobionte chiaramente infelice impegnato nello sterminio del suo microbioma. Una cattiva idea.



L'epidemia di biofobia sta ancora imperversando in tutto il mondo, con persone che si lavano continuamente le mani con sostanze velenose convinte di fare qualcosa di buono, o costrette dalla legge a farlo.

Non è una buona idea, Il microbioma cutaneo è prezioso per noi, tra l'altro è la prima vera barriera contro le infezioni. Alcune persone stanno riconoscendo il problema, come è descritto in un recente articolo su " The Guardian "

Ecco un estratto:
Anche se non hai ancora letto a proposito del nostro microbioma - i trilioni di microbi che conducono vite simbiotiche con gli umani, colonizzando la nostra pelle e il nostro intestino - potresti aver notato scritte un po' vaghe come "delicato sui microbiomi" stampato su bottiglie di gel doccia. Questo perché i microbiologi - e le ditte - stanno imparando sempre di più sulla complessa relazione che abbiamo con i nostri germi. Questi includono i loro ruoli da protagonista nello sviluppo del nostro sistema immunitario, proteggendoci dagli agenti patogeni (creando sostanze antimicrobiche e competendo con loro per spazio e risorse) e diminuendo la probabilità di condizioni autoimmuni come l'eczema. Quindi, c'è una crescente consapevolezza che rimuoverli, insieme agli oli naturali di cui si nutrono, o bagnarli con prodotti antibatterici, potrebbe non essere l'idea migliore dopo tutto.
Prenditi cura del tuo microbioma e sii un olobionte felice!




(scappellata: Miguel Martinez -- tradotto dal blog "The Proud Holobionts")

venerdì 24 luglio 2020

La adattabilità del genere umano


Osservo in questi giorni il nuovo look degli spot pubblicitari che passano in TV. Oltre al rinnovato green-washing di cui mi sono già occupato (articolo “Il Green business che ci aspetta”) vedo un grande sfoggio di mascherine e di slogan inneggianti alla ripartenza dell’Italia. In pieno lockdown il ritornello era “io resto a casa”, ora è tornata la speranza e, con l’invito a mantenere il distanziamento sociale, si assiste a spot che mostrano ogni genere di attività lavorativa in corso di riapertura.
Fin qui nulla di strano. In fondo la pubblicità e la televisione rispecchiano i comportamenti della società, esattamente come i comportamenti della società sono influenzati dalla pubblicità e dalla televisione, similmente al classico girotondo del cane che si morde la coda.
Ma l’osservazione di questo stato di cose può offrire lo spunto per considerazioni di più ampio respiro.
Così come stiamo superando una pandemia che ci ha costretti all’isolamento sociale per tre lunghi mesi, in passato l’umanità ha superato crisi ben più micidiali.
Ricorderò solo alcune delle emergenze più gravi che hanno afflitto i nostri antenati:
  • le glaciazioni. L’ultima, Wurm, interessò il pianeta tra 110.000 e 12.000 anni fa. Nel periodo che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo la Terra fu caratterizzata da un clima freddo denominato PEG, piccola era glaciale
  • le pandemie. Andando a ritroso nel tempo, il genere umano è stato afflitto dal virus dell’Hiv/Aids (tra i 25 e 35 milioni di morti), dall’influenza Spagnola (tra i 40 e i 50 milioni di morti), dal Vaiolo (oltre 50 milioni di morti), dalla Peste e dal Colera (oltre 200 milioni di morti), solo per citare le malattie più letali
  • le guerre. Inutile qui fare il riassunto degli eventi e del numero di morti di cui è pieno ogni manuale di storia.
Ebbene, nonostante tutti questi eventi catastrofici e i tanti altri che per brevità ho omesso di annoverare, la popolazione umana ha continuato a crescere a dismisura, raggiungendo il ritmo parossistico di riproduzione che ben conosciamo.
Che interpretazione dare a questa realtà? Una e una sola: l’abnorme evoluzione patìta dal nostro encefalo (conseguenza di alterazioni casuali intervenute ai danni di alcuni geni) ci ha messi in grado di superare gli ostacoli che la natura ha posizionato via via sul nostro cammino, consentendoci di proseguire lungo il nostro folle itinerario distruttivo anziché fermarci, come sarebbe accaduto in assenza di quella abnorme evoluzione.
Scienza, tecnica, industriosità e lavoro sono riusciti nell’intento di farci sopravvivere a ogni disastro naturale e artificiale. Non solo. Ci hanno consentito di dilagare in ogni angolo del pianeta.
L’autoriflessione, altra peculiarità del genere umano derivata da quella abnorme evoluzione, ci consente inoltre di modificare le nostre piccole abitudini quotidiane in modo da adattarci ad ogni nuova consuetudine impostaci dalle circostanze esterne.
Per la verità questa è una caratteristica che abbiamo in comune anche con gli altri animali. Basti pensare a come questi ultimi si siano adattati per secoli a vivere nelle gabbie degli zoo, a esibirsi nei circhi o a lottare nelle arene.
È dunque l’istinto a sospingere ogni essere vivente a modificare il proprio stile di vita, pur di sopravvivere in ogni nuova situazione imposta dal destino.
Ma in noi questa adattabilità è mediata dalla autoriflessione, che ci induce a comprendere e condividere le nuove realtà in cui veniamo a trovarci e, quindi, a viverle più coscientemente.
Il nuovo look degli spot televisivi cui accennavo in apertura è la riprova più evidente di questa realtà.
La “plasticità” del nostro cervello, e quindi del nostro corpo, ci consentirà di affrontare prove ben più impegnative di Covid19. Mi riferisco ai disastri ecologici e alla distruzione dell’ambiente naturale che stiamo compiendo. Il collasso non avverrà di colpo e la lunga agonia che attende i nostri pronipoti sarà assai graduale.
Ad ogni effetto negativo per l’uomo causato dagli squilibri nella biosfera, verranno poste in atto contromisure che controbilanceranno per un certo periodo l’effetto di cui trattasi. Ma poi queste contromisure comporteranno a loro volta nuovi squilibri che causeranno nuovi effetti negativi, in una catena di azioni e reazioni sempre più stringente.
E nel corso di questa lotta disperata per la sopravvivenza, a ogni tappa l’essere umano modificherà i suoi comportamenti per adattarsi alle nuove situazioni.
Altro che isolamento e distanziamento sociale! Bisognerà cambiare le abitudini alimentari (finché ci sarà cibo), modificare il modo di viaggiare (torneranno in auge i cavalli?), vestirsi diversamente e imparare a coltivare parchi e giardini.
Non amo avventurarmi nel campo della fantascienza, ma qualche volta le immagini terrificanti del futuro che ci aspetta possono essere utili per indurci a tirare i freni di un veicolo che sta correndo a folle velocità.
Le mascherine e i nuovi slogan degli spot televisivi ci facciano riflettere su come potrà essere il nostro domani.

mercoledì 22 luglio 2020

A cosa servono i modelli? Pillole di ottimismo di Sara Gandini e Ugo Bardi



 
Questo post è il risultato di una collaborazione con Sara Gandini, direttrice dell’unità "Molecular and Pharmaco-Epidemiology" presso il dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO). E' un grande onore per me avere la possibilità di collaborare con una persona di tale livello scientifico. E' anche un grande piacere notare come Sara trovi il tempo e la voglia di dedicarsi alla divulgazione scientifica, cosa che tutti gli scienziati dovrebbero fare ma che, purtroppo, molti ancora considerano al di sotto della loro dignità professionale. (e poi non si lamentino se qualcuno protesta).
 
Dal sito Facebook Pillole di Ottimismo

Covid, i modelli predittivi servono? Ecco cosa è andato storto.

 Di Ugo Bardi e Sara Gandini.

Molte decisioni prese per fronteggiare l’epidemia di Covid-19 sono state basate su modelli predittivi. Questi modelli sono stati criticati per non aver preso in considerazione una serie di variabili che avrebbero migliorato le previsioni, ma anche per non avere tenuto in conto il benessere della comunità nel suo complesso, non solo la salute dei singoli, ma anche il benessere sociale ed economico della società intera. Che cosa è andato storto? È mancata l’intelligenza collettiva che arriva dal coinvolgimento di tutta la comunità scientifica e i politici hanno preferito affidarsi ad una ‘epidemiologia difensiva’ basata sullo scenario peggiore, alle volte a spese del reale benessere della popolazione.
 


Molto tempo fa, i nostri antenati aruspici cercavano di prevedere il futuro esaminando il fegato di una pecora. C’erano poi varie sibille, profetesse e pitonesse che facevano del loro meglio basandosi sulle stelle, le foglie degli alberi, il volo degli uccelli, o chissà che altro. Oggi, tendiamo a non dare molta retta a questo tipo di approccio alle previsioni però, pur con tutto il rispetto per la scienza moderna, va detto che la previsione del futuro rimane una cosa molto difficile e che, certe volte, la scienza non sembra fare molto meglio dell’antica pitonessa di Delfi.

Questo è vero soprattutto considerando come si tende a usare modelli per descrivere quei sistemi che chiamiamo “complessi” che hanno come caratteristica principale quella di sorprenderti sempre. Per questi sistemi, non c’è un’equazione semplice che li descriva, come c’è invece per esempio, per il moto dei corpi celesti nello spazio. Immaginatevi cercare un’equazione che descriva, per esempio, il vostro gatto. Non facile, di certo! Tuttavia, non è che il comportamento di un gatto sia del tutto imprevedibile. Provate ad agitare la scatola dei croccantini e sapete benissimo cosa succede. Si tratta di capire che non bisogna avere la pretesa di fare previsioni quantitative a lungo termine quando sappiamo bene che tutto può cambiare alla svelta.

Un buon esempio della difficoltà che abbiamo nel prevedere il futuro si è visto con i modelli epidemiologici applicati alla pandemia di coronavirus, che sono risultati spesso troppo ottimisti o troppo pessimisti. Tanto per fare un paio di esempi, il modello di IHME (Institute for Health Metrics and Evaluation) in Aprile, prevedeva meno di 20.000 vittime dell’epidemia in Italia mentre, a oggi, il numero reale è stato di 35.000. Al contrario, Greco riporta come “Il modello [dell’Imperial College di Londra] prevedeva in Italia oltre mezzo milione di morti per Covid-19 se non si fosse preso alcun provvedimento, e “soltanto” 283 mila decessi applicando, come di fatto è stato fatto, “il più rigido lockdown.” Per fare un altro esempio, per la Svezia il modello di IHME era arrivato a prevedere quasi 20.000 morti in Aprile, mentre il numero reale si è assestato a poco oltre 5000.
Sulla base di questi e altri risultati Guido Silvestri è arrivato al punto di proporre che bisognerebbe promettere che tali modelli non saranno più usati per prendere decisioni politiche. Si riferiva ai modelli che sono stati usati per prevedere l’andamento di COVID-19 in Italia con la “riapertura” e che non hanno tenuto sufficientemente conto di fattori come “la stagionalità dei coronavirus, la migliorata capacità di gestire COVID-19 dal punto di vista medico/epidemiologico, e la herd immunity, a cui potrebbero contribuire la cross-reactivity con altri coronavirus umani”. Altrettanto critico è stato l’epidemiologo Donato Greco su Scienza in Rete dove ha descritto il fallimento del modello dell’Imperial College che è stato alla base delle decisioni politiche che sono state prese in Italia e in altri paesi. Donato Greco sottolinea l’importanza di prendere decisioni che riguardano il benessere della comunità tenendo conto non solo della salute dei singoli, ma anche del benessere sociale ed economico della società intera.

Mentre con il coronavirus i modelli hanno semplicemente “dato i numeri.” Se volete la nostra opinione, che su dati e modelli ci traffichiamo da un pezzo, questi modelli non hanno aiutato perché dipendono da dati e assunzioni in larga parte non verificabili, da una parte hanno tenuto fuori dal quadro aspetti importanti, come ad esempio le enormi differenze geografiche che si osservano anche per la mortalità da influenza stagionale, dall’altra hanno inserito troppi parametri che rendono difficile interpretare i modelli. E il risultato è un po’ quello che succede quando uno va a vedere un museo tipo il Louvre a Parigi. Dopo che hai visto centinaia di quadri e sculture, non capisci più nemmeno cosa stai vedendo.

Ora, non è che i modelli non siano utili per prevedere il futuro, ma vanno capiti. Vi ricordate quando il ministro Francesco Boccia chiedeva alla comunità scientifica “certezze inconfutabili” sull’epidemia? Evidentemente, pensava che gli scienziati potessero vedere il futuro nel fegato di qualche pecora e venirsene fuori spiattellando il volere degli Dei, ma non funziona così. Il ministro non aveva capito nulla di come funzionano i modelli. Ma non era solo un problema del ministro. Succede spesso che, invece di usare i modelli come fonte di informazione e comprensione della realtà, i politici li strumentalizzano per supportare programmi di “epidemiologia difensiva” che soffre dello stesso problema della “medicina difensiva,” ovvero la volontà di agire principalmente con lo scopo difendersi da possibili rischi giuridici, alle volte a spese del reale benessere del paziente. Così l'epidemiologia difensiva segue la strategia di adottare lo scenario peggiore come se fosse esente da rischi. Ma ogni scelta comporta effetti sulle persone che sono non meno importanti e non meno drammatici dell’impatto diretto del virus. Questo problema è descritto in una recente “Pillola di Ottimismo.”

I modellisti dovrebbero quindi sottrarsi al gioco di presentare le proiezioni ottenute dai modelli come se fossero certezze in modo tale che ai politici non sia più consentito scaricare la responsabilità sui modelli o sugli scienziati stessi. Al contrario i ricercatori dovrebbero mettere in chiaro le ipotesi da cui si parte, e le misure di precisione, quindi di variabilità delle stime che si fanno, inclusi i limiti intrinsechi in ogni lavoro. In particolare, una grave limitazione dei modelli epidemiologici è stata quella di non tentare di quantificare gli effetti collaterali dei rimedi proposti sulla base dei risultati delle simulazioni: danni alla salute causati dal lockdown, dal trascurare altre forme di malattie, dalla depressione causata dall’isolamento delle persone anziane e molti altri effetti. Questo problema non è stato capito né dai politici né dal pubblico

Su questo punto, è uscito recentemente su Nature un articolo interessante che presenta un manifesto per le migliori pratiche per la modellazione matematica responsabile: Cinque semplici principi per aiutare la società a richiedere la qualità di cui ha bisogno dalla modellistica:
-attenzione alle assunzioni
-attenzione all’arroganza
-attenzione al contesto
-attenzione alle conseguenze
-attenzione a tutti gli aspetti sconosciuti
-attenzione a usare i modelli per porre domande non per dare risposte

Nelle conclusioni gli autori spiegano che questo testo non auspica la fine della modellistica quantitativa, né modelli apolitici, ma una divulgazione completa, schietta e responsabile. Soprattutto bisogna fare in modo che i modelli siano discussi all’interno della comunità scientifica in modo che si crei una intelligenza collettiva che includa come scrive Donato Greco “l’incertezza, i rischi, gli effetti collaterali, quindi l’assunzione di responsabilità pesanti”. Per questo, quanto più ricca è “l’Intelligence” più appropriate saranno le scelte che questa emergenza richiede.

Alla fine dei conti, ricordiamoci che se è vero che il futuro non si può prevedere, è anche vero che per il futuro si può sempre essere preparati.

https://covid19.healthdata.org/italy
https://www.scienzainrete.it/…/scar…/donato-greco/2020-05-11
http://maddmaths.simai.eu/comu…/risposta-di-guido-silvestri/
https://www.ilfattoquotidiano.it/…/coronavirus-il-…/5769710/
https://www.facebook.com/pillolediottimismo/posts/143815370692276
https://www.nature.com/articles/d41586-020-01812-9