giovedì 18 giugno 2020

La torre lego: una metafora per l'economia globale


Post di Federico Tabellini

Il grosso mattoncino lego che costituisce la base della torre presenta un dato numero e una data disposizione dei fori (non li abbiamo scelti noi, erano già così nella scatola, e al momento nel negozio di giocattoli non sono disponibili altre confezioni). Ne consegue che i mattoncini più piccoli che vi si andranno ad incastrare sopra, e che costituiranno l’edificio vero e proprio, combaceranno con la base nella misura in cui presentano un numero e una disposizione delle sporgenze compatibili con i fori di quest’ultima.
La stabilità dell’edificio, si dice, è funzione del grado di compatibilità dei mattoncini fra loro. Il mattoncino più importante è ovviamente quello posto più in basso. Qualora si forzasse l’inserimento di un mattoncino che non vi si adatti totalmente, tale forzatura potrebbe danneggiare, col tempo, i fori della base, fino al punto in cui anche i mattoncini che in precedenza vi avrebbero combaciato alla perfezione darebbero alla torre risultati sub-ottimali in termini di stabilità.
Dentro alla scatola un piccolo manualetto (di quelli che nessuno legge mai) riporta alcune definizioni utili al processo di costruzione e manutenzione della torre:
Economia neoclassica: l’idea che i mattoncini nella scatola siano scarsi ma le possibilità infinite.
Green economy: l’idea che fra le possibilità infinite dell’economia neoclassica vi sia quella di rendere infinitamente utilizzabili i mattoncini scarsi.
Consumismo: l’idea che i mattoncini siano infiniti e possano quindi essere sprecati. Paradossalmente, alla sua base vi è la convinzione che i mattoncini nella scatola siano scarsi ma le possibilità infinite.
Modernità: l’epoca storica in cui la torre raggiunse la sua altezza massima e si diffuse l’idea che in futuro potesse essere ancora più alta, e che l’altezza della torre fosse un bene a prescindere da qualsiasi altra considerazione.
Post-modernità: l’epoca storica in cui si iniziò a dedicare gran parte del tempo e dell’energia alla decorazione della torre, poiché la sua stabilità venne data erroneamente per scontata. Molti iniziarono a costruirsi una piccola torre personale, altri rimpiansero un’epoca senza torri. Le certezze si sgretolarono e tutti i mattoncini sembrarono divenire indistinguibili. Perciò iniziò la personalizzazione dei mattoncini e ognuno volle avere il suo pezzo unico.
Decrescita: l’idea che la torre non sia stabile perché troppo alta. La proposta di una nuova equazione: stabilità come funzione della compatibilità fra i mattoncini e del contenimento dell’altezza della torre.

Buen vivir: l'idea che una torre più bassa non sia necessariamente una torre peggiore.
Resilienza: la capacità dei fori della base di ritornare alla condizione originale a seguito dell’inserimento forzato di un mattoncino poco compatibile. Pare che questa capacità non sia inesauribile.
Politica contemporanea: l’idea che la torre debba crescere in altezza perché tutti possano godere di un bel panorama contrapposta all’idea che la torre debba crescere in altezza perché alcuni possano godere di un panorama meraviglioso.
Terzo mondo: il luogo dove sono stati prodotti molti dei mattoncini della torre.
Primo mondo: il luogo dove la torre ha raggiunto la sua altezza massima.
Società, definizione 1: la torre.
Società, definizione 2: l’insieme delle idee e delle pratiche, individuali e collettive, attraverso le quali sono svolte (tra le altre) le seguenti funzioni: costruire la torre; conservare la torre; vivere nella torre; coordinare i vari piani della torre.
Ecosistema: la base della torre.
Nell’ultima pagina del manuale una nota di avvertimento:
“Attenzione a non danneggiare eccessivamente la base: la sua riparazione richiede numerose tonnellate di polvere stellare, qualche miliardo di anni e una discreta dose di fortuna."

martedì 16 giugno 2020

Ma le mascherine servono veramente a qualcosa? Cosa ci dice la letteratura scientifica.




Serve a qualcosa la mascherina contro il coronavirus? Dipende dalle condizioni.: l'OMS dice che non c'è evidenza scientifica di un beneficio derivante dall'uso genaralizzato di mascherine da parte di "persone in buona salute nella comunità". Però possono essere utili in condizioni particolari, ma quando esattamente? Qui, vi racconto che cosa ho trovato in proposito sulla letteratura scientifica.


Come al solito, ogni problema discusso sui social diventa una questione di tifoseria calcistica, con due opinioni opposte e contrapposte. E' successo anche per le mascherine, dove ci si divide fra quelli che dicono "non servono a nulla" (tipo Vittorio Sgarbi) e quelli che invece sostengono, "se non le mettiamo, moriamo tutti" (non scherzo, me lo sono sentito dire in un commento!)

Allora, ho fatto una piccola ricerca sulla letteratura scientifica e, senza pretendere di sapere di medicina, mi sento di potervi raccontare i risultati che ho trovato.

Per cominciare, qual'è la strada principale per la trasmissione di questi virus? Su questo vi potete leggere un rapporto del CNR che fa il punto della faccenda. Per approfondire, vi potete leggere l'articolo di Shaman e altri che non è recentissimo (2010) ma mi è parso veramente illuminante a proposito della natura stagionale delle malattie respiratorie.

Da questi e altri articoli e documenti si può concludere che che il vettore principale dell'epidemia sono le "droplets" emesse da persone infette con la respirazione. Invece, i cosiddetti "fomiti", particelle che stanno su superfici solide e infettano per contatto, hanno un ruolo marginale. Ma, in effetti, sembra logico che malattie che colpiscono l'apparato respiratorio si trasmettono principalmente attraverso le vie respiratorie.

Dopo di che, si tratta di stabilire come e in che condizioni si diffondono queste "droplets" e qui la faccenda si fa interessante. Risulta chiaro che le goccioline prodotte da starnuti o cose del genere, quelle visibili a occhio nudo, cadono a terra rapidamente -- fosse solo quello il problema, basterebbe mantenere le di distanze anche senza mascherina. Il problema sono quelle sotto il micron (milionesimo di metro). Si usa il termine di "aerosol" per una sospensione di queste particelle. Ne trovate una descrizione interessantissima a questo link.

In ambienti chiusi, queste particelle rimangono in sospensione a lungo e si diffondono anche a distanza di parecchi metri, rendendo inutile il distanziamento sociale. Non solo, ma la loro persistenza dipende dall'umidità assoluta dell'ambiente in cui si trovano. In ambienti secchi (una condizione tipica di ambienti chiusi), le goccioline evaporano parzialmente, diventano ancora più piccole e la loro persistenza aumenta. Il contrario succede per ambienti umidi.

Questo spiega come mai l'influenza è una malattia tipicamente stagionale, come spiegano bene Shaman e gli altri. In estate, l'umidità assoluta è più alta e quindi gli aerosol di nano particelle si diffondono meno bene. Aiuta che la gente tiene di più le finestre aperte, cosa che fa sparire rapidamente gli aerosol per ventilazione, come fanno vedere i ricercatori Giapponesi. Aiutano anche i raggi ultravioletti del sole, ma ovviamente solo all'aperto.

A questo punto, la domanda è se le mascherine bloccano l'emissione degli aerosol. La risposta è "in parte, si". Il problema qui è che ci sono talmente tanti tipi di mascherine che è difficile dire quali sono efficaci e quali no, e in che misura. Non ho trovato dati generali su questo punto, ma  qui trovate i risultati di un esperimento fatto usando un "damp cloth" (panno umido) che si rivela efficace. Però non è affatto detto che le mascherine ordinarie, quelle la gente porta in giro per la città, lo siano altrettanto. Diciamo che è ragionevole dire che le mascherine abbiano una certa efficacia, perlomeno in certe condizioni.

Ora possiamo riassumere la vicenda
  1. Il virus si trasmette principalmente come aerosol in ambienti chiusi e poco ventilati, in inverno. In queste condizioni, il distanziamento serve a poco.
  2. In questi ambienti, le mascherine possono avere una certa efficacia, ma sarebbe meglio evitare questo tipo di ambienti che sono comunque malsani. Come minimo, bisogna ventilare bene gli ambienti e cercare di tenerli umidi. Meglio ancora stare all'aperto il più possibile, esponendosi al sole.
  3. La mascherina non serve a niente all'aperto, in particolare in estate. Per non dire di quando andate in motorino!
  4. In condizioni dove non c'è affollamento e non c'è evidenza della presenza di persone infette, le mascherine non sono necessarie, in accordo con quello che dice OMS.  
Ci sono svariate altre deduzioni che si possono fare da questi dati. In particolare, io ne dedurrei che l'ambiente dove è più facile infettarsi è in casa propria, dove ci si trova spesso in ambienti poco ventilati e troppo secchi, specialmente in inverno. Dal che, si potrebbe dedurre che chiudere la gente in casa con lockdown potrebbe aver fatto più danni che altro, ma su questo per il momento non abbiamo dati a sufficienza per stabilire come stanno le cose. 


E questo è quello che ho trovato. Se ne sapete più di me o avete dati diversi, fatevi sentire sui commenti. Nella scienza, niente è mai scolpito nella roccia, si può e si deve cambiare idea sulla base di nuovi dati






lunedì 15 giugno 2020

La retorica del lavoro: più lavoriamo, più distruggiamo il pianeta


Per via di tutta la faccenda del coronavirus, questo interessante post di Bruno Sebastiani è rimasto in coda nella lista dei post e ora arriva un po' in ritardo rispetto alla data del 1 Maggio che ne era l'origine. Comunque, meglio tardi che mai e vale comunque la pena di leggerlo.

Un post di Bruno Sebastiani


Il 1° maggio, in occasione della festa del lavoro, un membro del Gruppo Cancrismo di Facebook ha scritto questo post: “Buon 1° maggio a chi crede ancora nella giustizia e nella libertà e combatte la sopraffazione...” L’immagine mostrava un corteo di uomini e animali che sfilavano affiancati.
Io, in qualità di amministratore del Gruppo nonché di ideologo del Cancrismo, ho così commentato: “Per il Cancrismo il lavoro è lo strumento attraverso il quale abbiamo devastato il pianeta! Non vedo cosa ci sia da festeggiare!
L’estensore del post ha replicato che “il senso di questo post era un altro e c’è scritto chiaramente”.
A questo punto concedo al mio interlocutore il beneficio della buona fede, ma credo che l’occasione sia propizia per fare un po’ di chiarezza su tutto l’argomento.
Coloro che festeggiano il 1° maggio apprezzano lo spirito di questa festa, e cioè l’aspirazione alla giustizia sociale da conseguire con l’accesso a forme di lavoro equamente retribuite, prive di rischi, non degradanti né eccessivamente faticose.
In realtà anche i datori di lavoro, imprenditori, industriali, amministratori ecc. hanno buon diritto a celebrare questa festa, perché è proprio attraverso il lavoro (oltre che il capitale) che essi conseguono i loro obiettivi produttivi e quindi economici.
Il lavoro in definitiva costituisce uno dei miti fondanti della nostra società, tanto da essere stato inscritto nell’articolo 1 della Costituzione italiana (“L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e da essere citato tra i principali obiettivi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (Art. 3: “L'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato […] su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale […]”).
È un mito che è sempre andato di pari passo con quello del progresso tecnico e scientifico, ma che rischia, in un futuro ormai prossimo, di separarsi inesorabilmente da quest’ultimo: l’automazione dei processi produttivi rende infatti sempre più superfluo l’intervento dell’uomo, che, oltretutto, rappresenta uno degli elementi di costo maggiore di tali processi.
Sulla graduale espulsione dell’uomo dal mondo del lavoro e sulla sua progressiva sostituzione con dispositivi automatici e robot esiste un’ampia letteratura e ad essa rimando chi volesse approfondire l’argomento. In questi giorni sto leggendo “Homo Deus – Breve storia del futuro” di Yuval Noah Harari e anche in questo saggio ho trovato un’ampia descrizione di quella che sarà la società di domani, dominata dagli “algoritmi informatici” anziché da quelli “biologici” (alias “uomini”; vedasi il capitolo 9 dove il paragrafo titolato “La classe inutile” si apre con questa frase: “La più importante questione economica del XXI secolo potrebbe essere come impiegare tutti gli individui superflui.”)
Ma tralasciamo in questa sede il problema della disoccupazione prossima ventura e concentriamoci invece sul significato della retorica del lavoro tuttora imperante.
Iniziamo col dire che la glorificazione di questa attività tipica dell’essere umano è abbastanza recente. Nasce e si diffonde tra la metà e la fine del settecento con la prima Rivoluzione industriale e poi con la Rivoluzione francese.
Fino ad allora il lavoro manuale non aveva goduto di buona fama.
Per chi crede nei miti, la sua origine deriverebbe nientemeno che dalla maledizione divina conseguente al peccato originale, quando Dio scacciò Adamo dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo, a sua volta maledetto e destinato a produrre spine e cardi. Questa attività sarebbe stata dolorosa e Adamo avrebbe potuto mangiare il pane solo con il sudore del suo volto. La donna avrebbe partorito tra grandi sofferenze. Così il capitolo 3 della Genesi.
Fin qui il mito. Ma anche quando dalla preistoria si passò alla storia, la considerazione per il lavoro non crebbe gran che.
I Faraoni utilizzarono migliaia e migliaia di schiavi per edificare le piramidi e stessa sorte toccò a miriadi di cinesi (o loro schiavi) quando fu costruita la Grande Muraglia.
Le antiche società per caste collocavano la categoria dei lavoratori al punto più basso della organizzazione sociale.
Tra gli indù i “bramhani” o sacerdoti erano al vertice gerarchico delle caste, seguiti dagli “kshatriya” o guerrieri. Solo dopo di loro venivano i “vaishya”, agricoltori e mercanti e i “shudra”, servi addetti ai lavori manuali più umili.
In Occidente le caste erano forse meno rigide che in Oriente, ma fino al tardo Medio Evo, e anche dopo, il clero e l’aristocrazia si spartirono i primi posti della gerarchia sociale, lasciando alla nascente borghesia (gli abitanti delle città) e ai servi della gleba (i lavoratori della terra) le posizioni meno degne.
Con la Rivoluzione industriale le cose iniziarono a cambiare, ma con estrema gradualità. La classe lavoratrice “urbana” e “operaia” andò acquistando consistenza numerica, ma non ancora dignità e considerazione; i contadini rimasero per tutto l’Ottocento tristemente subordinati ai proprietari terrieri (si veda il bell’affresco della società contadina realizzato da Ermanno Olmi nel film “L’albero degli zoccoli”)
Ma i lavoratori acquisirono un poco alla volta coscienza della loro importanza per il sistema industriale e capitalistico. Si unirono in organizzazioni sindacali e dettero vita a vasti movimenti rivoluzionari. Uno di questi conquistò il potere in Russia e lo tenne per quasi tutto il Novecento, espandendo la sua influenza su buona parte del globo terracqueo.
A est e a ovest il mito del lavoro crebbe sempre più in diffusione e importanza.
Lo stesso simbolo prescelto dai partiti delle classi lavoratrici (la falce e il martello) rendeva assai bene l’idea del culto nutrito per questa attività umana.
D’altra parte analogo culto venne tributato al mito del lavoro da parte delle classi egemoni (politici, industriali, finanzieri), fino al punto, come abbiamo visto, di inserirlo in testa alle Costituzioni nazionali e sovranazionali.
Ma in ottica cancrista quale è il reale significato del lavoro? Quale il valore da attribuirgli?
Iniziamo a dire che il lavoro è l’attività mediante la quale l’essere umano trasforma la materia a proprio vantaggio.
Si manifesta originariamente nella cosiddetta “industria litica”, oltre 2 milioni di anni fa, come conseguenza delle accresciute capacità encefaliche dei nostri progenitori che da ominidi si trasformarono in “Homo habilis”.
Proprio l’abilità è una delle principali caratteristiche del lavoro, la capacità di trasformare la materia prima (pietre, minerali, legno, esseri viventi) in “altro da sé”, in qualcosa di diverso da ciò che sarebbe stata in natura in assenza dell’intervento umano.
La pietra divenne la punta di una lancia, il ramo si trasformò in un arco, la pelliccia degli animali fu usata per ripararsi dal freddo.
La pietra non fu più pietra, il ramo non fu più ramo e gli animali furono uccisi per il nostro comfort.
Da allora è trascorso un tempo immemorabile e il significato del lavoro dal punto di vista concettuale non è cambiato.
Si è però modificato enormemente da un punto di vista quantitativo e qualitativo.
I piccoli, insignificanti sfregi perpetrati ai danni di un’ecosfera ricca di foreste lussureggianti sono divenuti immani scempi su un corpo planetario esausto, sfruttato all’estremo limite.
Tutto ciò grazie al lavoro.
La responsabilità, naturalmente, è della mente che ha guidato la mano, non della mano in sé. Ma l’atto che ne è conseguito, l’atto lavorativo, è lo strumento attraverso il quale abbiamo distrutto l’equilibrio che regnava nel mondo della natura e attraverso il quale non siamo in grado di ricomporlo.
Come e perché festeggiamo dunque questo strumento di distruzione?
La spiegazione che io do è la seguente:
  • con il lavoro abbiamo edificato una società ultra-complessa e sovrappopolata, quella che nel mio nuovo libro ho definito “l’impero del cancro del pianeta”
  • pur se ci rendiamo conto dei guai combinati, la via del ritorno ci è preclusa
  • non resta pertanto che andare avanti sperando che il progresso tecnico / scientifico trovi rimedi all’esaurimento delle risorse, all’inquinamento, al riscaldamento globale ecc.
  • l’andare avanti implica nuovo lavoro, e ciò perpetua il mito di questa attività mediante la quale abbiamo devastato la biosfera.
La retorica del lavoro come valore fondante della società è destinato dunque ad accompagnarci ancora per un certo numero di anni, unitamente agli altri miti corresponsabili della distruzione dei tessuti sani di Gaia, il mito del progresso, della crescita economica, dell’aumento della produzione e dei consumi.
Poi, come abbiamo già accennato, qualcosa cambierà. Ma non intendo parlare di situazioni future che non si sa con esattezza come evolveranno.
Preferisco rivolgermi ai miei contemporanei e dire loro: non festeggiate il lavoro, rimpiangete piuttosto il mondo che il lavoro ha distrutto e continua a distruggere! L’attività che voi celebrate il 1° maggio è in tutto analoga a quella delle cellule tumorali nel corpo dell’ammalato di cancro!

giovedì 11 giugno 2020

Una nuova speranza? Come evitare di andare in overshoot






Guest post di Jacopo Simonetta



Ci sono due cose che sono indispensabili agli umani per affrontare le difficoltà: avere una speranza e poter vedere un senso in ciò che accade, di conseguenza in ciò che si fa.

Viceversa, ostinarsi a vivere nelle proprie illusioni è esattamente ciò che può trasformare una crisi in una trappola mortale.

In fondo è esattamente questo che ci ha portati nella situazione attuale: ostinarci a credere che una qualunque combinazione di arrangiamenti tecnologici, politici, economici e culturali avrebbe potuto garantire ad un numero indefinito di persone di vivere un’eccellente e lunga vita, mentre la “Natura” prosperava tutto intorno a noi.

Eppure sappiamo molto bene da almeno 50 anni che non può essere così e anche perché. Sapevamo anche, approssimativamente, quando il collasso della nostra civiltà sarebbe cominciato e perché, ma i nostri sogni erano troppo più belli e quasi solo di questi si è parlato e tuttora si parla nei vari “Earth Summit”, COP x, y, z, eccetera. Questa, alla fin fine, è la causa del loro completo fallimento.

Ora che il temuto "Picco di tutto" è passato ed il conseguente collasso sistemico è cominciato (durerà a lungo, non mettetevi fretta), esiste ancora spazio per la speranza?

Secondo me si, ma solo a condizione di trovare un senso a ciò che accade e che accadrà e stavolta lo dobbiamo trovare nella realtà dei fatti e non nei sogni. La pandemia in corso può essere un buon punto di partenza.

Il Covid-19 ha infatti sparso il panico a tutti i livelli ed in praticamente tutti i paesi, ma non è tanto il virus di per sé a rappresentare un pericolo per l’umanità, mentre lo sono eccome il panico con le sue conseguenze economiche e politiche. In pratica, una malattia che probabilmente ucciderà alcune centinaia di migliaia, forse qualche milione di persone nel mondo, ha già innescato processi che rischiano di portarne alla tomba decine di milioni nel breve termine, forse miliardi nel giro di alcuni decenni. Come è stato possibile?

E’ accaduto perché alla fine del XVIII secolo una combinazione di eventi unica nella storia ha reso temporaneamente possibile una crescita economica, tecnologica e demografica che in due secoli ha surclassato di parecchi ordini di grandezza quella verificatasi nei 50.000 anni precedenti (cioè da quando è approssimativamente cominciata la diffusione planetaria della nostra specie).

Il risultato è stato esattamente quello a suo tempo previsto: il degrado delle risorse e dell’ambiente hanno condotto lo sviluppo economico in un vicolo cieco in cui siamo ora contemporaneamente minacciati dal collasso economico e da quello ecosistemico.

In estrema sintesi, una qualunque economia funziona come una pompa che aspira risorse dall'ambiente, ci fa qualcosa che poi riscarica nell'ambiente stesso. Maggiore è l’energia che possiamo applicare alla pompa, maggiore è la quantità di beni e servizi che si possono produrre, dunque maggiore è la popolazione che può vivere e maggiore è il livello tecnologico che si raggiunge. Questo, a sua volta, consente di aumentare i flussi di energia e di materia, dunque la produzione di beni e servizi che, alla fine, diventano comunque rifiuti e via di seguito.

Finché il sistema economico è piccolo rispetto alla Biosfera, il gioco funziona, ma via via che l’economia cresce, la qualità delle risorse si degrada e la disponibilità di servizi ecosistemici si riduce, mentre la popolazione aumenta.

Se una tendenza alla crescita eccessiva si trova in tutte le economie, il capitalismo ha fatto di questa il suo fondamento. Il sistema capitalista è infatti strutturato su una ridondanza di retroazioni positive, senza alcun freno al suo interno. Anzi, con efficaci sistemi per ritardare l’effetto frenante del degrado ambientale e della sovrappopolazione. I principali di questi sistemi sono lo sviluppo tecnologico, il debito e la globalizzazione. Il loro effetto combinato è stato amalgamare tutte le economie del mondo in un’unica mega-macchina spaventosamente efficace nell'estrarre risorse dalla Terra e produrre beni o servizi di ogni sorta, ma che funziona solo se riesce a mantenere un costante tasso di crescita dei flussi di merci, persone e denaro attraverso l’intero Pianeta. E' sufficiente che il tasso di crescita rallenti ed il sistema va in affanno. Se l'economia si contrae in misura significativa, come sta accadendo, entra in una crisi strutturale dai risultati del tutto imprevedibili perché le stesse retroazioni che auto-alimentano la crescita, possono auto-alimentare la decrescita. Detto in termini fisici, ciò che mantiene funzionale la rete economica globale è un tasso costante di aumento nella dissipazione di energia. Cosa che, alla fine, è la causa prima ed ultima del degrado del Pianeta con tutte le conseguenze del caso.

Nel nostro caso, abbiamo il problema ulteriore che la produzione industriale, anche di cibo, è efficiente solo entro una ristretta variazione dei flussi; se questi si riducono eccessivamente, la produzione si ferma del tutto. In pratica, possiamo produrre molto o nulla, non siamo attrezzati per il "poco" e questo rischia di rimbalzarci di colpo da una crisi di sovrapproduzione ad una di carenza.

Già molte società del passato hanno degradato il proprio ambiente fino a provocarne il collasso, ma finora il fenomeno era rimasto delimitato a specifiche regioni. L’energia dei combustibili fossili, e soprattutto del petrolio, ha invece permesso alla nostra civiltà di crescere fino a minare la struttura portante della Biosfera a livello planetario, scatenando fenomeni come la catastrofe climatica, l’estinzione di massa, l’alterazione di tutti i cicli bio-geo-chimici e molto altro ancora.

Tecnicamente, questa situazione si definisce “overshoot”. Un termine che in ecologia indica quando una determinata popolazione supera la “capacità di carico” del territorio in cui vive (solitamente indicata con “K”). Cioè quando la popolazione supera la capacità del territorio di sostentarla a tempo indeterminato. In pratica, lo possiamo considerare un sinonimo di “sovrappopolazione” perché, con buona approssimazione, se c’è sovrappopolazione, c’è degrado dell’ambiente e, di solito, viceversa.

Tuttavia, l’impatto delle popolazioni umane (solitamente indicato con “I”) non dipende solo dalla loro consistenza, bensì da una combinazione di fattori demografici, economici e tecnologici. Per poter parlare di sovrappopolazione, occorre poi tener conto anche dei fattori ambientali e di come questi variano in rapporto alla nostra presenza.

In pratica, siamo in overshoot ogni volta che I supera K:

I > K

Una condizione che non può durare a lungo perché, quali che ne siano le cause, quando una popolazione supera la capacità di carico, il suo habitat comincia a degradarsi, costringendo la popolazione stessa, prima o poi, a diminuire. E “prima o poi” è esattamente il punto su cui focalizzare l’attenzione perché “rientrare nei ranghi” è inevitabile, ma le cose possono andare molto diversamente a seconda di quanto tempo ci si impiega.

Se, infatti, il declino di “I” è più rapido del degrado del suo ambiente, si potrà tornare ad un relativo equilibrio abbastanza presto e ad un livello demografico elevato. Se, invece, il declino di “I” è più lento di quello di "K", lo stato di sovrappopolamento perdura a lungo e l’equilibrio non sarà raggiunto che più tardi e più in basso. Tanto più tardi e tanto più in basso quanto più a lungo la popolazione rimane in overshoot.




Figura 1 Se gli impatti diminuiscono più rapidamente della capacità di carico la popolazione si salva, altrimenti si estingue.

Questi due semplici grafici illustrano ad un tempo il senso di ciò che accade e quale deve essere la strategia per uscirne il prima ed il meglio possibile.

La diminuzione di “I” dipende infatti da una combinazione di declino demografico, riduzione dei consumi e della tecnologia. Tutto ciò comporta certamente sofferenze e morti, ma lungi da essere la malattia, è invece metà della medicina.

L’altra metà della cura è sostenere “K”, il che vuol dire, in sintesi, conservare/ripristinare il funzionamento degli ecosistemi e proteggere la biodiversità.
All'interno di questa meta-strategia rientrano infinite combinazioni di provvedimenti in tutti i campi che dovrebbero essere modulati in base alle molteplici situazioni locali, ma in ogni caso abbiamo una “pietra di paragone”:

Tutto ciò che contribuisce a ridurre I e/o a sostenere K ci avvicina ad una possibile salvezza; tutto il resto ce ne allontana.

Per esempio, su I si può agire riducendo i redditi eccessivi, la mobilità intercontinentale, i consumi di energia e di risorse primarie o la natalità; oppure abbandonando determinate tecnologie, per citare solo alcune azioni possibili che non sono però valide ovunque nella stessa misura. Per fare un esempio banale, in alcuni paesi è più urgente ridurre i consumi, mentre in altri la natalità.

Contemporaneamente, su K si può agire proteggendo boschi e paludi, o ampliando i parchi nazionali, rinaturalizzando porzioni di territorio (rewilding), fermando il consumo di suolo, eccetera. La rapidità con cui abbiamo visto piccoli, ma interessanti miglioramenti nonappena la quarantena ci ha costretti a ridurre temporaneamente il nostro impatto sostiene la speranza. Certo, la strategia non può essere quella di tenere metà dell’umanità agli arresti, ma abbiamo visto che la Biosfera non ha ancora esaurito la sua resilienza e questa è la migliore notizia che fosse possibile avere.

In estrema sintesi, la sostenibilità non è una scelta, bensì un'ineluttabile destino. La scelta è come arrivarci, ma i nostri gradi di libertà diminuiscono col tempo. Oramai le occasioni per evitare la fine della nostra civiltà le abbiamo lasciate passare, accecati dei nostri sogni; ora possiamo in una qualche misura governare il collasso, oppure continuare a bruciare tutto quello che ci rimane, sperando di riportare indietro le lancette della storia. Ci adatteremo comunque, ma lo possiamo fare in modo stupido, subendo i colpi del Fato senza capire; oppure attivamente, accettando l’inevitabile e cercando di portare la barca fuori dalla tempesta il prima possibile.

lunedì 8 giugno 2020

Giornata Mondiale degli Oceani: Un post di Ilaria Perissi sul nuovo libro "Il Mare Svuotato"

Il nuovo libro di Ugo Bardi e Ilaria Perissi è ricco di informazioni e di dettagli poco noti sul mare e sulla pesca. Qui, Ilaria ce ne descrive una curiosità trattata nel libro: cos'ha a che fare la pesca con la scollatura femminile?


Guest post di Ilaria Perissi


In occasione della odierna Giornata Mondiale degli Oceani🐳 potrebbe interessarvi sapere che la moda del #decolleté femminile potrebbe avere a che fare con la storia della pesca e non per ragioni frivole...bensì per la cura delle malattie ossee come #osteoporosi e #rachitismo.

Queste malattie si manifestano sia in età adulta che in età pediatrica quando la nostra dieta non contiene abbastanza #vitaminaD e non ci esponiamo a sufficienza alla #LucedelSole: per questa ragione sono storicamente più ricorrenti nei paesi nordici, ma ...non da sempre!

Infatti, solo da quando il nord Europa cominciò ad essere più urbanizzato dall'arrivo di persone che lasciarono le coste meridionali in concomitanza con il declino delle Impero Romano (V secolo d.C.), il pesce, ricco in Vitamina D (formula chimica nella foto), che rappresentava l'elemento fondamentale della dieta degli europei del Nord, non era più sufficiente a sfamare la crescente popolazione e la dieta fu integrata principalmente con cereali. Già che in questi paesi l'irraggiamento solare -che serve per attivare vitamina D nel processo di calcificazione ossea- non era molto, se in più la vitamina D cominciava a scarseggiare, l'aumento delle suddette malattie ossee fu la conseguenza.

Il rimedio era allora "scoprirsi" di più, ma non che questo venne fatto coscientemente: nessuno aveva la minima idea di cosa fosse la vitamina D e che ruolo avesse nel metabolismo umano. È probabile che, semplicemente, la #moda, che variava a quell’epoca così come varia oggi, abbia fatto si che le donne che scoprivano un po’ di più il collo e le spalle, presentavano una salute e una forma migliore e così il loro stile è stato imitato dalle altre.

Ma come mai proprio spalle e collo? Perchè non le gambe o le braccia? ....eh eh...per l'intera storia vi invito a leggere Il Mare Svuotato di Ugo Bardi e Ilaria, lo trovate su Amazon e in Libreria! https://www.amazon.it/mare-svuotato-Ilaria-Perissi/dp/8835981387

Da una idea di Ugo Bardi!


domenica 7 giugno 2020

Ma il Lockdown ha veramente ritardato la diffusione dell'epidemia? Il dilemma dell'Azteco




Scena: L'interno del tempio in cima alla grande piramide di Tenochtitlán

Personaggi: L'Arciprete (Maestro) e il giovane sacerdote (Apprendista)


___________________________________________________________________

Apprendista: Maestro, dove sei? (cammina in giro, guardando). Maestro?

Arciprete: Uh...? Apprendista, sei tu?

Oh... eccoti qui, Maestro. Sono io. Sì. Mi dispiace disturbare la tua preghiera, ma...

Hmmmm... Stavo facendo un pisolino. Che succede?

Maestro. Ho bisogno di consiglio.

Ah...?

Maestro, il tempo del sacrificio di oggi sta arrivando.

Si', certo, lo so... Lo so. Dobbiamo iniziare a prepararci. Devo avere il mio coltello di ossidiana da qualche parte.... Per le zanne di XipeTotec, si sta già facendo buio. Dobbiamo prepararci. . .

Maestro, volevo dire una cosa.


Ah...? Si, apprendista, abbiamo ancora un po ' di tempo. Ma dove Xochiquetzal è il mio coltello di ossidiana.....

Maestro, ho un problema....

Oh, si', eccolo qui. Buon vecchio coltello... Così tanti cuori che ho ha strappato via! Ma cosa stavi dicendo, Apprendista?

Maestro, stavo pensando a qualcosa.

Hmmmm.... Ora ho bisogno della mia maschera di Mictlantecuhtli, dovrebbe essere in giro. E a cosa stavi pensando?

Maestro, diciamo sempre che se non sacrifichiamo una persona ogni giorno al dio del sole Huitzilopochtli, il sole non sorgerà il giorno dopo.

Eh... Sì.... questo è il punto del rituale del sacrificio umano, ovviamente. L'hai studiato al seminario, giusto? Ma dove diavolo è quella maschera....

Maestro, ma come facciamo a saperlo?

A sapere cosa?

Che il sole non sorgerà domani se non facciamo il sacrificio.

Apprendista, tu sei un ragazzo intelligente. Sai che il dio Huitzilopochtli apprezza i nostri sacrifici. E questo è dimostrato dal fatto che il sole sorge ogni mattina. A cosa stavi pensando, per il grande Xochiquetzal?

Pensando che, beh, e se per una volta saltassimo?

Saltassimo cosa?

Il sacrificio, maestro.

Saltare il sacrificio? Sei fuori di testa, apprendista?

No, Maestro, dicevo, abbiamo mai mancato uno dei sacrifici serali?

Apprendista, lo sai che abbiamo sempre sacrificato almeno un prigioniero al dio del sole ogni sera. E che il sole è sempre sorto la mattina dopo.

E ' quello che intendo dire, Maestro. Potremmo saltare il sacrificio per una volta.

Uh.....?

Il fatto è che mi sono sempre chiesto perchè non abbiamo mai provato.

Hmm......

Voglio dire, certo, so che se non facciamo il sacrificio, il sole non sorgerà domani mattina. E la gente sarà terrorizzata. Ma poi faremo dei nuovi sacrifici e il sole ritornerà. La gente ne sarebbe felice, credo.

Ah... ecco la mia maschera Mictlantecuhtli. Ne avevo bisogno.

Maestro, cosa pensa della mia idea?

Apprendista, dammi retta.

Sì, Maestro?

Apprendista, lo sai che il fatto che il sole sorge ogni mattina è la prova che i sacrifici funzionano.

Sì, Maestro, lo so. Ma, a dire il vero, ho pensato che, forse, potremmo fare un test. . .

Apprendista, ho sempre detto che eri un bravo ragazzo. Ora, supponiamo di non fare il sacrificio stasera. Immagina che il sole sorga comunque domani mattina.

Maestro, questo non può essere. Il dio del sole sarebbe terribilmente arrabbiato e. . . .

Immaginatelo, idiota!

Ah.... Beh, si, mi posso immaginare. Ma Maestro, me l'hai insegnato tu che. . .

Lascia perdere quello che ti ho insegnato, cretino matricolato che non sei altro. Sai benissimo cosa succederebbe. La gente di Tenochtitlán scalerebbe questa stupida piramide, poi ci strapperebbero il cuore dal petto a tutti quanti noi e se li mangerebbero arrosto. Come facciamo noi con le vittime del sacrificio. E questo non sarebbe bene, per niente bene. Capito, brutto imbecille?

Si, si, giusto, Maestro, ma sono sicuro che il dio Huitzilopochtl non farebbe sorgere il sole se non facciamo il sacrificio. Di certo.

Certo, Apprendista, certo. Ma ora, ho una buona idea. Vado a organizzare il sacrificio per stasera. Tu resta qui finchè' non torno. 

Maestro, ma dovrei aiutare con i preparativi...

Resta qui, ho detto.

Si, Maestro, ma perché....?

Resta qui e aspetta, Apprendista. E grazie per esserti offerto volontario per il sacrificio di stasera.


_____________________________________________


giovedì 4 giugno 2020

L'impero del cancro del pianeta: il nuovo libro di Bruno Sebastiani

 L'impero del cancro del pianeta


Chi di voi, osservando dal finestrino di un aereo le case, le strade, i capannoni e i campi coltivati sottostanti, non ha avuto l’impressione di trovarsi in presenza di un melanoma, di un vero e proprio tumore maligno ai danni del corpo del pianeta?
In gergo “cancrista” questa si chiama la “prova dell’aeroplano” e ne hanno parlato, tra gli altri, Lewis Mumford e Konrad Lorenz.
Questa raffigurazione terrificante è la conferma visiva di come ormai l’intero globo terracqueo sia diventato un immenso, sconfinato impero dell’essere umano, ovvero del cancro del pianeta.
Ad esso è dedicato il mio nuovo libro, intitolato per l’appunto “L’impero del cancro del pianeta” (Mimesis editore) e sottotitolato “L’organizzazione della società ai tempi dell’ecocidio”.
Per la presentazione dei libri precedenti vedere Il cancro del pianeta e Il cancro del pianeta consapevole.
Ho cercato con questo saggio di scendere metaforicamente dall’aeroplano e di calarmi dentro alla realtà della malattia per vedere come le cellule neoplastiche si sono organizzate al fine di sostenere il loro esorbitante aumento numerico.
Si sa che il cancro è originato da una o più cellule che subiscono un’alterazione genetica tale da rifiutare il meccanismo omeostatico che blocca la proliferazione delle cellule quando il loro numero diventa eccessivo. Venendo meno questo freno, la popolazione delle cellule alterate straborda ovunque, come è accaduto alla nostra specie.
Ogni cellula va nutrita e se il loro numero è elevatissimo, occorre trovare elevatissime quantità di cibo. È il problema con il quale da decenni convive drammaticamente il genere umano, senza che gran parte di esso si renda conto dei problemi e dei drammi che si celano dietro agli scaffali pieni dei supermercati.
Ho cercato di affrontare questa realtà con l’aiuto di altri autori che prima di me l’hanno indagata con grande competenza. Tra questi Raj Patel, Lester R. Brown, Philip Lymbery e Stefano Liberti. Arricchito dai dati, dalle notizie e dai pareri di costoro e di altri autori, ho avuto una ulteriore conferma che quanto accaduto negli ultimi decenni si inquadra perfettamente nell’ottica della teoria cancrista.
Il compito che mi sono assunto, infatti, non è di effettuare una nuova indagine in aggiunta a quelle già esistenti, ma di mostrare all’uomo contemporaneo come i fatti e i processi sociali che si svolgono sotto ai suoi occhi altro non sono che tasselli di un comportamento tipicamente cancerogeno.
Molti autori hanno descritto i mali che affliggono il mondo per cause antropiche, ma poi non sono giunti a trarre le conclusioni più coerenti.
Un nome su tutti, quello di Aurelio Peccei. Il fondatore del Club di Roma nel suo saggio “Cento pagine per l’avvenire” (Giunti Editore, Firenze 2018) scrive:
È […] in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie […] homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione […]? (pag. 56)
Un […] comportamento aberrante della nostra specie la rende gravemente colpevole davanti al tribunale della vita. Si tratta della sua proliferazione esponenziale, che non si può definire che cancerosa.” (pag. 66)
Siamo per caso una specie di geni, destinati in fin dei conti a trionfare su tutto? O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri, magari mostri geniali, che finiranno per restar vittime del loro stesso malsano operare?” (pag. 80)
Questi dubbi e questi atti di accusa non si concretizzano però in una coerente teoria cancrista, ma si stemperano in un atto di fede che sinceramente non condivido:
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (pag. 81)
Questa affermazione fa capire come Peccei, nonostante le sue intuizioni sulla nocività del genere umano, sia sempre rimasto sostanzialmente antropocentrico.
La sua preoccupazione non è per la gravità delle condizioni della biosfera, ma per quella del genere umano.
Per un ulteriore approfondimento del pensiero del fondatore del Club di Roma vedere “Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?
È come se un medico si preoccupasse dello stato di salute del tumore anziché di quello dell’ammalato.
Credo che questa metafora renda bene l’idea della inversione di prospettiva operata dalla teoria cancrista: non è del genere umano che ci dobbiamo preoccupare ma della biosfera nel suo complesso, anche perché noi comunque della biosfera facciamo parte e se le sue condizioni di salute migliorassero pure noi ne beneficeremmo.
Ma, al punto in cui siamo, questa opzione non è realistica, al contrario tutto sembra indicare che la strada intrapresa vada esattamente in direzione opposta.
Questo è l’oggetto del mio saggio: vedere come la società si sia strutturata per far fronte alle esigenze alimentari ed energetiche di una popolazione mondiale in costante aumento e, soprattutto, come questa organizzazione non consenta inversioni di rotta, pena l’impossibilità di garantire cibo e energia ai miliardi di uomini e donne che abitano il pianeta.
L’agricoltura intensiva, gli allevamenti concentrazionari e l’acquacoltura sono altrettanti capitoli de “L’impero del cancro del pianeta” dove vengono analizzati origini, sviluppo e prospettive dei sistemi più efficaci per produrre cibo. A guardarli da vicino, questi sistemi non possono che suscitare orrore, ma in un altro capitolo del libro spiego come il pensare di sostituirli con la cosiddetta “agroecologia” sia pura utopia.
È una ulteriore riprova che la via imboccata non ha alternative e non può essere percorsa a ritroso. Anche se la crescita della massa tumorale che noi rappresentiamo per la biosfera un giorno dovesse arrestarsi per mancanza di risorse, ciò avverrebbe al limite di ciò che il Pianeta può offrire in termini di terra coltivabile e di animali macellabili, dopo aver distrutto tutte le cellule sane vegetali e animali esistenti.
Ciò significherebbe comunque il collasso della biosfera, la morte dell’ammalato di cancro.
Il discorso è ancora più drammatico se si pensa alla situazione di quello che ho chiamato il “cibo per le macchine”, ovvero l’energia necessaria a far funzionare i miliardi e miliardi di apparati, dispositivi, congegni e altre attrezzature artificiali realizzate dall’uomo nell’illusione di rendere più comoda la sua vita a tempo indeterminato.
Un apposito capitolo del libro è dedicato a tale realtà e alla disperata ricerca di quelle inesauribili fonti di energia pulita che dovrebbero risolvere ogni nostro problema, ma che appaiono ancora ben lontane dal poter sostituire i combustibili fossili.
A tal proposito il Cancrismo ritiene però che, anche se queste fonti di energia pulita e rinnovabile si rendessero disponibili e fossero in grado di soddisfare le esigenze di tutte le macchine del mondo, la salute della biosfera non ne trarrebbe beneficio.
L’uomo - cancro del pianeta ne approfitterebbe infatti per dilatare a dismisura i suoi consumi ai danni di ogni altra residua realtà sana della biosfera, e con questo suo comportamento non farebbe che affrettare i tempi del collasso.
Non si tratta di pessimismo né di visione cupa della vita. È solo oggettivo realismo che trova la sua spiegazione nella metafora che assimila l’essere umano a una cellula tumorale e l’intera umanità alla massa neoplastica che divora lentamente l’organismo dell’ammalato di cancro.
Pochi pensatori, e non tra i più famosi, hanno sin qui avuto il coraggio di esplicitare una teoria così radicale, e io, giunto al termine della mia “trilogia” su “Il cancro del pianeta”, ho avvertito il desiderio di curiosare in rete per vedere chi mi avesse preceduto nel denunciare il comportamento cancerogeno di Homo sapiens.
È nata così la corposa Appendice su “I precursori del cancrismo” posta in calce al volume. Si tratta del primo documento che riunisce personaggi provenienti da esperienze diverse ma uniti nella visione cancrista dell’essere umano.
Di ognuno ho analizzato i punti di contatto e quelli di divergenza rispetto alla teoria sviluppata nei miei tre saggi.
Ma un elemento su tutti accomuna gli autori presi in considerazione: nessuno di essi ha mai sistematizzato le proprie intuizioni in uno o più lavori storico - dottrinali di ampio respiro, tali cioè da configurare la nascita di una teoria o corrente filosofica sulla nocività dell’essere umano per la biosfera.
Con questo mio nuovo libro e con i due precedenti mi auguro di essere riuscito a colmare almeno in parte questa lacuna nella storia del pensiero, in attesa che altri riprendano questo tema per svilupparlo e diffonderlo in modo ancor più autorevole.