sabato 8 febbraio 2020

Ulteriori riflessioni sulla Sostenibilità


Autore : Bohdi Paul Chefurka . 30-11-2019



La caratteristica fondamentale della sostenibilità non è quante persone possono essere supportate dal pianeta in un dato momento. Piuttosto, è il numero di umani che potrebbero vivere qui senza danneggiare irreparabilmente la biosfera da cui dipendiamo per sopravvivere.

Una specie sostenibile non danneggia mai irreparabilmente la biosfera. Questo è un impegno piuttosto importante.

Gli umani danneggiano la biosfera in molti modi.

Uno è spostando le risorse da una regione a un altra. Usurpiamo l'habitat e le risorse necessarie ad altre specie e le sequestriamo per uso umano. Le risorse ottenute in regioni non importanti per l'uomo vengono spostate ovunque gli umani ne abbiano bisogno, a spese delle specie indigene nel luogo originario.

Spostiamo anche le risorse nel tempo, rubando risorse dal passato e dal futuro e usandole nel presente. Un esempio di questo è l'utilizzo di energia da combustibili fossili per pompare l'acqua fuori dalle falde acquifere per l'agricoltura, in tal modo utilizzando le risorse storiche di combustibili fossili per ridurre le risorse idriche future, a favore delle colture odierne.

Usurpiamo l'habitat di altre specie semplicemente spostando gli umani in quel luogo, e nel processo rendendolo inospitale alla vita indigena (la vita indigena colpita non ha nemmeno bisogno di essere non umana …). Il sequestro di habitat e risorse per l'uso umano spesso va di pari passo.

L'insostenibilità della nostra specie in qualsiasi momento può essere approssimativamente misurata dal grado in cui abbiamo concentrato la distribuzione spaziale e temporale delle risorse nel qui e ora e dalla misura in cui gli esseri umani hanno sostituito la vita selvaggia di ogni sorta.

Al contrario, essere una presenza pienamente sostenibile richiederebbe di non fare danni al pianeta che non possano essere riparati da processi biofisici naturali in tempo reale.

Con tale comportamento così limitato, la specie umana potrebbe sopravvivere per molto tempo (forse decine di milioni di anni) insieme a tutte le altre specie sostenibili. Naturalmente, qualsiasi danno che non può essere riparato invoca il concetto di overshoot, che accorcerà il periodo di sopravvivenza della nostra specie di una certa quantità (sconosciuta, forse inconoscibile).

Dovrebbe essere ovvio a tutti qui che l'attuale stile di vita della nostra specie è "abbastanza insostenibile" secondo questi criteri.

È possibile riportare la nostre specie alla sostenibilità? Per rispondere a questa domanda è di aiuto avere un punto di riferimento. Quando è stata l'ultima volta che l'Homo sapiens si è qualificato come specie sostenibile usando questi criteri?

Secondo me, il momento deve essere posizionato almeno prima dell'invenzione dell'agricoltura, poiché è stata la tecnologia agricola a dare il via alla popolazione e alla crescita culturale che ci ha portato qui.

Prima dello sviluppo dell'agricoltura (tenendo distintamente fuori l'orticoltura praticata da molte società di cacciatori-raccoglitori), si stima che la popolazione umana globale fosse di circa 6 milioni di persone, con un tasso di crescita annuale intorno allo 0,02%

Una tale popolazione di 6 milioni di cacciatori-raccoglitori potrebbe forse essere considerata sostenibile, tranne un paio di avvertimenti.

Un avvertimento è la crescita della popolazione. Con un tasso di natalità netto in crescita non ci volle molto perché una popolazione di 6 milioni si trasformasse in 6 miliardi. Lo abbiamo gestito in poco più di 12.000 anni, con un tasso di crescita medio di un misero 0,06%. Il nostro attuale tasso di crescita è superiore all'1%, 50 volte superiore allo 0,02% di "Homo sustenibilis".

L'altro avvertimento è la crescita del consumo pro capite, nonché la crescita della tecnologia necessaria per sostenere sia la crescita della popolazione che i livelli di consumo.

Il consumo pro-capite può essere approssimato dal consumo di energia, poiché tutti i beni materiali richiedono energia per essere prodotti. Un cacciatore-raccoglitore consumava circa 150 watt in cibo e carburante. Un umano moderno usa più di venti volte tale importo. Questo uso di energia amplifica il danno arrecato alla biosfera dal numero crescente di umani.

Quindi, 6 milioni di esseri umani che vivono tutti come cacciatori-raccoglitori potrebbero essere considerati sostenibili. Ma solo se dovessero mantenere una popolazione permanentemente statica limitata a 6 milioni e un livello statico di consumo pro-capite limitato all'equivalente di 150 watt di energia consumata.

Secondo questa stima, rispetto ai nostri antenati che potremmo definire sostenibili, siamo già in superamento di un fattore di circa 25.000. Ed aumenta con ogni nuova bocca e ogni aumento del consumo di energia.

(Generatore di sarcasmo ON)

L'umanità potrebbe ovviamente tornare indietro verso la sostenibilità. Vai tranquillo. Tutto ciò che dovremmo fare è: ridurre la nostra popolazione di quasi 7,5 miliardi; fermare completamente la crescita della popolazione; ridurre il nostro consumo di energia e l'attività che supporta - diciamo del 90%); ed eliminare tutto lo sviluppo tecnologico che comporta un maggiore consumo di energia (ti sto guardando, William Stanley Jevons.)

(Sarcasmo OFF)

Che cosa? Non possiamo / non lo faremo? Lo so. Questo non è un esercizio di definizione degli obiettivi. È un esercizio per misurare la larghezza dell'Oceano Atlantico nel caso in cui fossimo intenzionati a provare a nuotare attraverso di esso.


sabato 1 febbraio 2020

Aurelio Peccei precursore del Cancrismo?




Un Post di Bruno Sebastiani

Nel dibattito a più voci raccontato da Ugo Bardi in un recente post (registrazione reperibile su Youtube), il biologo Enzo Pennetta attacca le tesi di Bardi e del Club di Roma di cui è esponente rammentando, con tono accusatorio, come tale Club sia stato fondato da Aurelio Peccei “il quale definiva l’umanità un cancro del pianeta” (parole testuali).
Avendo io dedicato al Cancrismo tre miei libri e decine di articoli, ho rizzato subito le antenne e sono andato alla ricerca dei riscontri di tale affermazione.
Dapprima ho trovato in rete (nel sito “bastabugie.it”!) un articolo di Antonio Gaspari dal titolo: “Club di Roma, ieri la bomba demografica, oggi i cambiamenti climatici, ma il nemico è sempre lo stesso: l'umanità”, sottotitolo “Un Club poco raccomandabile”.
Nel mio libro “Il Cancro del Pianeta” (Armando Editore, Roma 2017, pp. 180-181) mi ero già imbattuto nel Gaspari, cattolico intransigente e antiambientalista a tutto campo, il quale ebbe l’infelice idea di scrivere un libro su “Le bugie degli ambientalisti” prima dell’emanazione dell’enciclica “Laudato sì”, nella quale papa Francesco confermava tutte le preoccupazioni degli ambientalisti sullo stato di salute del pianeta.
Ma, tralasciando questo “incidente di percorso” del Gaspari, nell’articolo sopra citato egli accusa Peccei in base a due sue affermazioni:
Fu lui a coniare il termine ‘uomo cancro del pianeta’ e per questo venne spesso indicato come ‘profeta di sventure’. Nel suo libro ‘Cento pagine per l'avvenire’ Peccei ha scritto dell'umanità che ‘Si tratta di una proliferazione esponenziale che non si può definire che cancerosa....’ e in un intervista a la Repubblica del 31 dicembre 1980, il fondatore del Club di Roma sentenzia ‘Gli uomini continuano a vivere sul pianeta come i vermi sulla carogna: divorandola. Sanno che alla fine moriranno, ma continuano a divorarla’”.
Poi l’ira del Gaspari si estende a tutto il Club di Roma.
Senza pudore, nel report ‘The First Global Revolution’ del 1991 il club di Roma racconta: ‘Cercando un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l'inquinamento, la minaccia dell'effetto serra, della scarsità d'acqua, delle carestie potessero bastare... Ma nel definirli i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi per il male. Sono tutti pericoli causati dall'intervento umano... Il vero nemico, allora, è l'umanità stessa’
Per quanto riguarda la primogenitura del termine “uomo cancro del pianeta” credo che la questione sia aperta e attendo contributi da parte dei lettori. Per parte mia so che nel 1954 Alan Gregg ne parlò al meeting annuale dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) e Emile Cioran nel suo libro “L’inconveniente di essere nati” del 1973 scrisse: “Alberi massacrati. Sorgono case. Facce, facce dappertutto. L’uomo si estende. L’uomo è il cancro della terra.”
Il testo di Peccei è del 1981; ignoro se avesse ipotizzato la metafora incriminata in scritti o discorsi precedenti. Ma il problema non è la primogenitura della medesima, bensì in che contesto, con quali accezioni e in che termini Peccei ne abbia parlato.
Per approfondire la questione sono andato alla fonte, leggendo il libro citato (“Cento Pagine per l’Avvenire”, del 1981, ristampato nel 2018 da Giunti Editore) e uno precedente, “La qualità umana”, del 1976, ristampato nel 2014 da Lit Edizioni.
Non sono riuscito a rintracciare l’intervista del 31 dicembre 1980 su Repubblica, in quanto l’archivio digitale di questo giornale decorre dal 1984.
Dirò subito che debbo ringraziare Enzo Pennetta e Antonio Gaspari per avermi fatto scoprire la grande anima inquieta di Aurelio Peccei.
Essi certamente non hanno letto i suoi scritti, ché altrimenti si sarebbero resi conto dello spessore umano e culturale degli stessi e non li avrebbero liquidati spregiativamente come hanno fatto.
Ma iniziamo la disamina da quella che è stata l’accusa che mi ha indotto ad approfondire la questione, e cioè l’aver descritto l’uomo come cellula tumorale maligna della biosfera.
Effettivamente a pag. 66 della nuova edizione di “Cento Pagine per l’Avvenire” vi è un paragrafo dal titolo “Metastasi cancerosa della popolazione”. Al di là di questa definizione, che si riferisce al fenomeno della sovrappopolazione, a mio avviso vi sono altri punti in cui Peccei è stato maggiormente tentato da quella folgorazione intellettuale secondo cui la nostra specie, lungi dal costituire il punto più elevato del processo evolutivo, rappresenta un errore del medesimo.
È dunque in uno slancio di creatività eccezionale o in un momento di smarrimento che la Natura produce la sua ultima grande specie, quella cui abbiamo dato il nome di homo sapiens? È questi il suo capolavoro, o invece non è che un refuso sfuggito al controllo della selezione immediata, oppure ammesso con la condizionale nel grande flusso della vita?” (ivi, p. 56)
Come non ricordare su questo tema quanto ebbero a scrivere Goethe, Dostoevskij e Nietzsche?
Il piccolo dio del mondo (l’uomo, n.d.a.) […] vivrebbe un po’ meglio se tu (Dio, n.d.a.) non gli avessi dato il riflesso della luce celeste, ch’egli chiama ragione e usa soltanto per essere più bestia di ogni bestia.” (J.W. Goethe, Faust, Prima parte, Prologo in cielo)
“[…] aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Per i bisogni dell’uomo sarebbe d’avanzo una comune coscienza umana, ossia la metà, la quarta parte di quella che tocca a un uomo evoluto del nostro infelice diciannovesimo secolo […] sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia.” (F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, Milano, Rizzoli, 1975, p. 25)
Temo che gli animali vedano nell’uomo un essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano intelletto animale: vedano cioè in lui l’animale delirante, l’animale che ride, l’animale che piange, l’animale infelice.” (F. Nietzsche, La gaia Scienza, aforisma 224)
Pennetta e Gaspari intendono sbarazzarsi in modo sbrigativo e superficiale anche di questi tre colossi del pensiero? O di fronte alle loro affermazioni sono disposti a riconsiderare i propri giudizi? Ma non è questo l’argomento che intendo trattare.
Vorrei invece far notare che le frasi di Peccei sopra riportate terminano con un punto di domanda e sono seguite da una frase che, se non rappresenta una assoluzione con formula piena per il genere umano, ne è quantomeno una assoluzione con formula dubitativa:
Io propongo tuttavia di dare provvisoriamente un giudizio a favore dell’uomo, tenendo conto che un milione di anni è probabilmente un periodo troppo corto, in confronto ai cicli dell’evoluzione, per trarre conclusioni definitive.” (A. Peccei, Cento pagine per l’avvenire, cit. p. 56)
Più avanti Peccei torna a parlare della possibile nocività di Homo sapiens, ma sempre all’interno di frasi rette da verbi al condizionale e costruite in forma dubitativa.
Già ci siamo chiesti se l’Homo sapiens, rispetto al maestoso fluire dell’evoluzione, non rappresenti, tutto considerato, un fenomeno deviante; se non sia un capriccio della Natura, o un tentativo ambizioso andato male, un errore di fabbricazione che gli aggiustamenti che assicurano il rinnovarsi della vita si incaricheranno a tempo debito di eliminare o di rettificare in qualche modo.” (ivi, p. 66)
Le nostre capacità tecniche ci hanno forse posti su un piedistallo troppo alto? Siamo per caso una specie di geni […] O al contrario […] non ci siamo forse trasformati in mostri […] che finiranno per restare vittime del loro stesso malsano operare? Visto il caos formidabile che abbiamo creato, è difficile difendere la tesi del genio. La tesi opposta […] non si può invece escludere così facilmente. […] Questo carattere farebbe parte del suo codice genetico [che] lo condannerebbe quindi a continuare la sua epopea imperiale e sanguinosa […] l’uomo non avrebbe alcuna possibilità di sfuggire al giogo della sua intelligenza unica, che gli dei o il caso hanno tuttavia voluto cieca.” (ivi, pp. 80-81)
Frasi pesanti come macigni, frammiste a tante altre che denotano l’eccezionale irrequietudine intellettuale di Aurelio Peccei.
Ma sempre seguite da una nota di speranza.
Pur riconoscendo che questa tesi ha dei punti validi, io sono portato a dare una risposta meno pessimista a questi interrogativi cruciali sulla natura e sul destino dell’uomo. La condizione umana è grave, ma può essere migliorata – a certe condizioni.” (ivi, p. 81
È un apprendistato difficile quello che ci aspetta […] reso ancor più arduo dal fatto che il tempo gioca inesorabilmente contro di noi. Ma da qui a dire che l’essere umano è modellato geneticamente in modo tale da non poter cambiare e che di conseguenza si condanna da solo, il passo è grande. L’uomo può salvarsi; sta a noi trovare il modo.” (ivi, p. 82)
E anche seguite dalla consapevolezza delle difficoltà che ci aspettano:
“[…] l’umanità dovrà compiere uno sforzo supremo, eroico, lottare psicologicamente contro se stessa.” (ivi, p. 177)
Di questi sforzi supremi, eroici, tutta la vita di Aurelio Peccei è costellata. Già mentre ricopriva importanti incarichi in primarie aziende (dalla Fiat alla Olivetti, di cui fu amministratore delegato) contribuì alla nascita di associazioni, fondazioni, organizzazioni tutte rivolte ad accrescere nell’umanità la consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale di direzione. Leggendo i libri citati ci si può rendere conto di quanto vasta e multiforme sia stata l’opera di Peccei in tal senso. “La Qualità Umana”, in particolare, è una sorta di autobiografia.
Al termine della sua attività lavorativa “ufficiale” poté dedicarsi a tempo pieno a questa missione, il cui esito principale fu la nascita del Club di Roma, con la pubblicazione del primo storico rapporto su “I Limiti dello Sviluppo” e di quelli editi negli anni successivi.
In questa enorme mole di attività si può peraltro intravvedere il dilemma che per tutta la vita deve aver assillato l’animo di questo grande uomo.
Egli fu dirigente industriale, apprezzò la serietà e l’efficienza delle più qualificate imprese private, soprattutto se poste a confronto con l’inefficienza di tanta amministrazione pubblica. Deprecò il fatto che il governo del mondo fosse frantumato in un numero eccessivo di nazioni ed auspicò un nuovo ordine mondiale basato su autorità sovranazionali in grado di aiutare il genere umano a superare le difficoltà economiche e produttive sempre più diffuse.
Avrebbe voluto che amministratori dotati di un’efficienza di tipo “privatistico” governassero il pianeta in modo da sanare tutte le storture esistenti. A pag. 187 di “Cento Pagine per l’Avvenire” fornisce una serie di esempi: la conservazione dell’ambiente; la sradicazione della fame e della malnutrizione, la realizzazione di valide politiche multinazionali dell’energia e di pianificazioni planetarie intersettoriali.
Ma certamente non gli sfuggiva il fatto che questi interventi migliorativi della condizione umana avrebbero comportato, se realizzati, un aumento dei consumi e una ulteriore erosione delle risorse già abbondantemente saccheggiate.
Per tale motivo pose vigorosamente l’accento sulla necessità di ridurre drasticamente la pressione demografica, tema ampiamente ripreso nel Rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.
Auspicò una riconciliazione dell’essere umano con l’ambiente: “A mio giudizio il vero fine dell’avventura umana è di arrivare a creare un mondo in cui le migliori qualità umane possano svilupparsi appieno, in un clima di comprensione reciproca e di simbiosi con la Natura.” (ivi, p. 210, da notare l’uso costante della N maiuscola per il sostantivo natura).
Accanto a questo encomiabile auspicio considerò sempre centrale il ruolo dell’uomo nella biosfera, e quindi rimase saldamente antropocentrico.
L’uomo deve cambiare per poter rimanere al centro della ribalta: “Un modo di pensare fondamentalmente nuovo è indispensabile. Per salvare l’uomo, esso deve trasformarlo, metterlo in condizione di far fronte agli imperativi del nostro tempo […] solo un nuovo umanesimo può compiere il quasi miracolo della rinascita spirituale dell’uomo.” (ivi, pp. 218-219)
Se l’uomo può trasformarsi -pur con difficoltà- in senso positivo, non può essere assimilato a una cellula maligna della biosfera, e Peccei non può essere ascritto alla schiera dei precursori del Cancrismo.
Cionondimeno egli prese attentamente in considerazione l’idea del nostro intelletto come causa dello squilibrio del mondo naturale. I brani qui riportati sono del 1981, e gli anni ’80 dello scorso secolo sono indicati in più di un passaggio come decisivi ai fini del cambiamento di rotta.
Sarebbe interessante sapere se Peccei a quarant’anni di distanza avrebbe mutato la sua opinione sulle possibilità di trasformazione dell’essere umano, tenuto conto che in tale lasso di tempo nessuna modifica migliorativa è intervenuta, ma anzi la distruzione della Natura è ampiamente proseguita.
Ciò ovviamente non si potrà mai sapere, essendo il nostro autore morto nel 1984.
Ma un interessante parallelo può essere fatto con quanto dichiarato nel 2012 alla rivista Format da Dennis Meadows, il coordinatore del Gruppo di Lavoro del MIT che redasse nel 1972 -su incarico del Club di Roma- il rapporto su “I Limiti dello Sviluppo”.
Ecco alcuni passi di quella intervista dal titolo significativo: “Non possiamo più fare niente”:
MEADOWS: Supponiamo di avere il cancro e che questo cancro causi febbre, mal di testa ed altri dolori. Non sono questi il problema reale, è il cancro il problema! Comunque, proviamo a curarne i sintomi. Nessuno spera di sconfiggere il cancro con quelle cure. I fenomeni come il cambiamento climatico o le carestie sono semplicemente sintomi della malattia di questo pianeta, il che ci riporta inevitabilmente alla fine della crescita.
FORMAT: Il cancro come metafora della crescita incontrollata?
MEADOWS: Sì. Le cellule sane ad un certo punto smettono di crescere. Le cellule cancerose proliferano finché non uccidono l’organismo. La popolazione e la crescita economica si comportano nello stesso modo.”
Anche Peccei si sarebbe convertito ad una siffatta teoria? La sua vicinanza con Meadows è fuori discussione e in questi ultimi quarant’anni non si è realizzata alcuna delle aspettative “salvifiche” ipotizzate dal Club di Roma. L’Impero dell’uomo (termine più volte usato da Peccei) sta sprofondando sempre più in basso (a questo tema è dedicato il mio libro di prossima pubblicazione “L’Impero del Cancro del Pianeta”).
L’avventura umana di Peccei mi ricorda quella di un altro grande visionario, il già citato Alan Gregg (1890 – 1957). Costui operò nella Fondazione Rockefeller con incarichi di grande responsabilità, fino a ricoprirne la carica di vice-presidente. Nel corso della sua vita portò aiuti a tutte le popolazioni bisognose, salvo poi, in tarda età, ipotizzare che l’essere umano devasti la biosfera come le cellule tumorali distruggono i tessuti sani dell’ammalato di cancro. E, in occasione del convegno su “I problemi della popolazione” tenutosi a Berkeley, in California, il 28 dicembre 1954, ebbe anche a dire: “Le crescite cancerose richiedono nutrimento; ma, per quanto ne so, non sono mai state curate dandoglielo”, smentendo così il senso di tutta l’attività da lui svolta nel corso della sua vita. (Il testo completo della relazione è consultabile nel blog de Il Cancro del Pianeta).
Peccei non fece mai una simile ritrattazione e continuò sempre a coltivare la speranza del cambiamento. Rimane il dubbio di come avrebbe potuto evolvere il suo pensiero alla luce di quanto accaduto (o meglio di quanto non accaduto) nei decenni successivi alla sua morte.

martedì 28 gennaio 2020

Come Smentire la Scienza del Clima


Karl Popper e la falsificazione delle teorie scientifiche.

Cosa c'entra una cernia con la scienza del clima? Un po' è perché io e la collega Perissi stiamo lavorando al nostro nuovo libro sull'"Economia Blu" e quindi abbiamo i pesci per la testa. Ma, in realtà, c'è un nesso. Leggete qui di seguito e tutto vi sarà rivelato.


Karl Popper è un filosofo che si occupa di epistemologia e le sue idee hanno a che vedere con molte cose nella scienza, anche con i cambiamenti climatici. In sostanza, Popper dice che le teorie scientifiche si possono falsificare ma mai veramente "provare". Alle volte questa idea va sotto il nome di "principio del cigno nero". Uno può ragionevolmente sostenere che tutti i cigni sono bianchi, ma questa idea è soggetta a essere smentita se per caso qualcuno trova che da qualche parte c'è un cigno nero, o magari anche solo grigio. Insomma, una teoria può essere bella ed elegante quanto si vuole, ma basta un singolo fatterello, magari brutto e sgraziato, per smentirla.

Ora, se ci pensate bene, molto dell'impegno dei nemici della scienza del clima ha una base popperiana anche se, probabilmente, molti di loro non se ne sono resi conto (e nemmeno sanno chi è Popper). Quasi nessuno della scalcagnata banda dei denigratori si pone come obbiettivo di creare una teoria alternativa all'interpretazione corrente del cambiamento climatico (*). No, loro cercano il "cigno nero", il "fatterello bruttino" che invalida tutta la struttura. Gli esempi classici sono gli elefanti di Annibale, il vino in Inghilterra nel Medio Evo, la "terra verde" che sarebbe stata la Groenlandia al tempo dei vichinghi e cose del genere. Il ragionamento è che la scienza del clima prevede che sia il consumo di combustibili fossili a causare il riscaldamento globale, ma allora come sta che c'erano dei periodi caldi anche quando non si bruciavano combustibili fossili?

Questi sarebbero, appunto, "fatterelli bruttini" che dovrebbero invalidare la teoria del cambiamento climatico antropogenico, ma in realtà sono solo storie fantasiose senza base nei fatti. E anche se fossero veri, non invaliderebbero niente perché la scienza del clima NON dice che soltanto i fossili fanno cambiare il clima.

Ci sono anche  esempi un tantino più seri di fatterelli in contrasto con le teorie correnti. Uno è quello della "hot spot troposferica" che i modelli prevedevano e che fino ad alcuni anni fa non si trovava nei dati sperimentali. Se le cose restavano così, sarebbe stato necessario rivedere i modelli, ma ora la hot spot si vede, quindi questa storia non invalida più niente.

Più in generale, possiamo dire che Popper non ha torto, ma le sue idee vanno viste un po' in prospettiva. Diciamo che ci sono due tipi di teorie scientifiche, le "teorie-avannotto" e le "teorie-cernia." (vi dicevo che c'entrava la cernia in questo post!). Gli avannotti sono teorie appena nate, oppure non ancora cresciute, che nuotano indifese nel gran mare della scienza. Sono facilmente divorate dal primo squaletto che passa di lì. Le cernie, invece, sono dei bestioni grossi e cattivi che non si fanno mangiare facilmente neanche da uno squalo tigre. E tendono a divorare gli avannotti come se fossero grissini.

Le teorie-avannotto sono quelle che si falsificano facilmente con il metodo popperiano. Per esempio, arriva uno che ti dice che i cambiamenti climatici sono causati dalle variazioni nell'attività solare (c'è pieno di questi qui, lì fuori). Bene: mettiamo insieme in un bel diagramma l'attività solare e la temperatura terrestre, come vedete qui sotto.


Vedete? L'accordo è pessimo. Il fatterello distrugge la teoria, l'avannotto è divorato dalla cernia. Non era nemmeno una teoria: era solo una proposta di correlazione che poi, alla fine, non esiste.

Viceversa, pensate a una teoria bene assodata come la legge di gravitazione universale di Newton: non è una teoria-avannotto, è una teoria-cernia. Come la vorreste falsificare? Forse trovando un albero dove le mele cadono dai rami verso l'alto? Buona fortuna, chissà che non ne trovate qualcuno agli antipodi, dove notoriamente la gente sta a testa in giù.

E' anche vero che la teoria di Newton è soltanto un'approssimazione, una teoria migliore è la relatività generale di Einstein. Ma qui sta la differenza: la teoria di Einstein NON invalida la teoria di Newton. La integra descrivendo quello che succede in condizioni estreme, per esempio se vi trovate a essere risucchiati da un buco nero. Però, a meno che non vi capiti spesso di avere a che fare con dei buchi neri, la versione di Newton della legge di gravità vi basta e vi avanza.

La scienza del clima non è così assodata come la teoria della gravitazione universale, ma è comunque un bestione che non è facile da ingoiare per un pescetto appena nato. Il concetto di riscaldamento globale causato dai gas serra ha resistito a molteplici tentativi di falsificazione quando ancora era una bestiolina un po' delicata, al tempo in cui fu proposto, oltre un secolo fa. Adesso è parte di un intero edificio scientifico basato su almeno 50 anni di studi, esperimenti, e modelli. Allora, come vorreste demolire la scienza del clima? Dimostrando che i gas serra non assorbono nell'infrarosso? Buona fortuna: è una cosa nota da più di un secolo.

Questo vuol dire che la scienza del clima è "scienza accertata" e non cambierà più? Assolutamente no. Vuol dire solo che ha passato la barriera popperiana della falsificazione. A questo punto, la si può modificare, integrare, perfezionare, tutto quello che volete, ma certe cose rimangono accertate -- proprio come è accertato che le mele cadono dagli alberi. Non ci sono dubbi sul fatto che il CO2 sia un gas che riscalda la Terra, ma c'è ancora molto da discutere -- e se ne discute --  su quanto esattamente la riscaldi e in quale frazione rispetto ad altri fattori che alterano il clima: altri gas, l'albedo, le nuvole, eccetera. Andando avanti con gli studi si arriva a quantificare meglio il problema che abbiamo davanti, ma la sua natura di fondo non cambia.
 
Insomma, la scienza non è un sistema formale di aquisizione di conoscenza, è molto di più un sistema euristico che va avanti cercando di fare il meglio possibile. La scienza del clima non è una scienza esatta ed elegante come, per esempio, la termodinamica classica. E' una scienza complicata con tante incertezze. Ma è una scienza che va avanti, con quelli che ci studiano sopra che cercano di fare del loro meglio. Lo fanno nonostante gli sbalestrati che continuano a tirar fuori i Vichinghi e gli elefanti di Annibale.



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(*)Nota: che io sappia esiste solo un modello che si può definire "serio" che cerca di costruire una teoria alternativa a quella che vede il riscaldamento corrente il risultato dell'aumento di concentrazione dei gas serra (ce n'è anche uno non serio, quello di Scafetta, ma un modello che non si basa su principi fisici non serve a niente). Il modello è quello della "cosmoclimatologia" di Henrik Svensmark, basato sulla correlazione del clima con l'intensità dell'irradiazione solare.

Oggi, il modello di Svensmark non se lo fila più nessuno. Non che fosse sballato in partenza, ma non era veramente un modello: rimane allo stadio di una proposta basata su una correlazione che si è rivelata molto debole. Ma il vero problema è che non è stato possibile trovare dei parametri del modello che lo mettano in grado di spiegare il rapido riscaldamento della Terra degli ultimi 30 anni circa. Ovvero, era anche questa una teoria-avannotto demolita da un fatterello bruttino. Non che questo abbia convinto i proponenti -- per gli esseri umani, cambiare idea sembra essere la cosa più difficile dell'universo e lo stesso Svensmark, invece di prendere atto che i dati non convalidavano la sua teoria, ha detto che la teoria era giusta e che erano i dati a essere sbagliati. Poi ha cominciato ad andare ai convegni sponsorizzati dallo Heartland institure (quelli che sponsorizzano anche il nostro Franco Battaglia). Non so se nell'epistemologia popperiana si tenga conto di quando uno scienziato va fuori di testa, ma in ogni caso non direi che quando succede non butta bene per il modello che quello scienziato ha proposto.





sabato 25 gennaio 2020

Il "Dilemma Ostetrico"


Un Post di Bruno Sebastiani

Il parto nella specie umana è un evento assai più traumatico di quanto sia negli altri animali, compresi quelli a noi più simili, scimpanzè o gorilla, le cui femmine partoriscono senza aiuti e con relative poche difficoltà.

Perché questa differenza, che implica per la nostra specie dolore e necessità di assistenza al parto?

Lasciamo per un attimo in sospeso la risposta a questa domanda in quanto le difficoltà alla nascita non sono l’unico elemento che ci differenzia dagli altri animali.

Una delle caratteristiche proprie della nostra specie è infatti la non autosufficienza alla vita autonoma dei giovani nati. Essi dipendono per anni dalle cure parentali, contrariamente a quanto accade nella generalità del regno animale.

Gli inglesi hanno inventato il termine “altriciality” per significare la necessità biologica di nutrire e prendersi cura dei giovani per una lunga durata.

A noi occorre ben un anno e anche più per imparare a camminare e circa due per mangiare con le nostre mani. Ciò dipende dal fatto che il nostro cervello alla nascita ha solo il 30 % delle dimensioni di quello adulto, contro percentuali ben più alte del restante regno animale.

Perché questa differenza a nostro “svantaggio”? Qui entra in gioco il cosiddetto “dilemma ostetrico” ovverosia il compromesso biologico impostoci da due opposte pressioni sviluppatesi nel corso del nostro processo evolutivo: da una parte la riduzione delle dimensioni del canale del parto nel bacino umano conseguente alla adozione della locomozione bipede e dall’altra la comparsa di crani sempre più grandi parallelamente alla crescita del volume della neocorteccia, comparsa che avrebbe richiesto una più ampia area pelvica per consentire il passaggio dei nascituri.

Cosa si è inventata la Natura per risolvere questo dilemma? Quale il compromesso? Possiamo riassumerlo in tre punti:

1 – fissazione della durata della gestazione per la nostra specie a 266 giorni, tempo limite per consentire il passaggio della testa dei nascituri dal canale del parto. Il fatto stesso che tale durata sia un tempo limite spiega le difficoltà e i dolori connessi all’evento. Una durata maggiore avrebbe reso impossibile il passaggio di calotte craniche ulteriormente accresciute;

2 – conformazione “malleabile” del cranio dei neonati tramite suture delle “ossa piatte” della calotta in tessuto fibroso non ancora ossificato e quindi flessibili ("zone molli" o fontanelle). Ciò permette alle ossa frontali di scivolare una sull’altra durante la compressione del parto e, dopo la nascita, di accogliere il volume crescente della corteccia frontale per circa due anni, allorquando si fondono completamente nella sutura metopica in coincidenza con il rallentamento dell’espansione cerebrale;

3 – affidamento dello sviluppo incompleto del bambino (conseguente alla necessità di dover transitare “anzitempo” dal canale del parto), alle cure parentali, ovvero alle ben note attenzioni che ogni mamma e ogni papà della nostra specie rivolgono ai loro figli nei primi anni di vita.

Un corollario al punto 1 è che le difficoltà al passaggio dal canale del parto sono state in passato all’origine dell’alto tasso di mortalità dei nascituri, tasso drasticamente ridotto con l’introduzione del taglio cesareo, attualmente praticato in un’elevata percentuale di casi.

Altra precisazione da fare è che, secondo studi recenti, la nascita “precoce” avverrebbe perché dopo quasi nove mesi le esigenze metaboliche del feto rischiano di superare le capacità della madre di soddisfare il proprio fabbisogno energetico e quello del bambino. Questa precisazione nulla toglie al fatto che per risolvere il problema la Natura abbia dovuto scendere a compromessi con se stessa.


* * *

Se questo è il “dilemma ostetrico” (espressione coniata nel 1960 dal bio - antropologo americano Sherwood L. Washburn), come interpretarlo alla luce della teoria evoluzionista e in particolare all’interpretazione che vede nello sviluppo del cervello umano una infausta anomalia (leggi Cancrismo)?

Indubbiamente il fatto che la Natura si sia trovata di fronte a un “dilemma” e lo abbia dovuto risolvere facendo ricorso ad un “compromesso biologico” (nascita anticipata contro affidamento del neonato alle cure dei genitori) sta a significare che nel corso della nostra evoluzione si sono verificati degli eventi contrastanti con l’armonia che regnava nel mondo animale.

È ben noto che i rivolgimenti della biosfera sono stati infiniti e di grande rilievo. Ma nel periodo in cui ci siamo affacciati alla vita come uomini (staccandoci gradualmente dalle scimmie antropomorfe) nella foresta regnava un equilibrio che consentiva a tutte le specie di vivere e sopravvivere nel rispetto delle leggi di natura.

Poi alcune mutazioni consentirono alla nostra specie di sviluppare un cervello molto più “potente” di tutti gli altri, tanto potente da consentirci di contravvenire alle leggi che avevano fino ad allora regolato la convivenza tra le specie.

Tanto potente da dover accrescere le dimensioni del cranio destinato ad ospitarlo e da dover abbreviare la nostra gestazione per consentire a questa testa più ampia di transitare dal canale del parto. Con la conseguente precocità alla vita di cui abbiamo parlato.

Anche il “dilemma ostetrico” si spiega così alla luce della teoria cancrista: lo sviluppo del nostro cervello (della nostra intelligenza e di tutto ciò che ne consegue) ha rappresentato un fatto abnorme nel panorama dell’evoluzione, un fatto destinato a stravolgere l’equilibrio della biosfera sino ai tragici esiti attuali.

Un fatto tutto interno alla Natura (nulla che conosciamo la travalica) ma un fatto negativo per l’armonia del Tutto, come capita quando il cammino evolutivo imbocca vie senza sbocco.

L’analogia più calzante che viene alla mente in proposito è quella con le neoplasie maligne che conducono alla distruzione l’organismo che le ospita.

Ecco dunque che il “dilemma ostetrico” aggiunge un ulteriore tassello a quella teoria che sto cercando di illustrare con i miei libri e con i miei scritti.



lunedì 20 gennaio 2020

Cambiamento Climatico: Ma chi può capirlo veramente?




Lo stile che va sotto il nome di "rant" in inglese consiste nell'esprimere le proprie idee in modo aggressivo e con totale sicurezza. Diciamo che, in un tipico rant, è come se l'autore ti si piantasse davanti a gambe divaricate e con le mani sui fianchi, dicendoti a muso duro, "ora ti tratto come ti meriti."

E' un modo di scrivere e di parlare che può avere una sua resa, specialmente in politica, e può essere anche piacevole da leggere, ma l'autore deve stare attento a quello che dice, che la figura di color marrone e sempre dietro l'angolo.

Fra i tanti che usano il rant come metodo di espressione, uno è Uriel Fanelli, attualmente sul blog keinpfusch.net. Devo dire che mi trovo più spesso in disaccordo con lui che in accordo, ma devo anche dire che alle volte non solo scrive bene, ma ha anche ragione. In un post recente intitolato, "il bigottismo verde" ha completamente azzeccato alcune cose. La principale è che il cambiamento climatico è una cosa complicata che non è veramente capita né dai sostenitori né dai negatori.

Ed è vero. E il bello che continuiamo a credere che se ne possa "dibattere." Ma la verità non viene fuori da persone che discutono animatamente di cose di cui sanno poco o nulla. E' il malefico effetto della perniciosa idea che "uno vale uno."

Quindi, che possiamo fare? Mah? Forse niente: gli incompetenti rimarranno convinti di non esserlo.

Vi passo Fanelli qui di seguito. Vale la pena di leggere questo pezzetto che, fra le altre cose, confuta molto bene le castronerie di Carlo Rubbia sugli elefanti di Annibale. Il resto del post di Fanelli è più discutibile, ma anche quello vale la pena di leggerlo.



https://keinpfusch.net/il-bigottismo-verde/
Quando si dice che dietro alla constatazione del riscaldamento globale c'e' la scienza, si intende una montagna di pubblicazioni a riguardo, che puntano tutte (circa) alle stesse conclusioni, (diciamo che a seconda dei modelli esiste uno spettro di conclusioni, tutte concordi a meno di fare previsioni diverse del futuro), ma quello che bisogna ricordare e' che nei modelli di evoluzione del clima c'e' una gigantesca interdisciplinarita'.

Significa che la "scienza del riscaldamento globale" contiene paper di geofisica, fisica dell'alta atmosfera, fisica dei proxy solari, geofisica e vulcanologia, biologia, ecologia, geologia marina, chimica degli oceani, biologia degli oceani, botanica, eccetera, eccetera, eccetera.

Questo significa due cose: non esiste UNO scienziato che conosca questa scienza. Tutti ne conosceranno una frazione, ma per rispondere adeguatamente ad ogni critica occorrono interi team di scienziati. Diciamo che se volete davvero avere nella stanza un ente che capisca davvero del riscaldamento globale avete bisogno di una sessantina di specialisti, ad occhio e croce.

Al contrario, questo vale anche per la confutazione: per contestare la scienza del global warming non basta UNO studioso. Innanzitutto perche' non puo' essere competente in tutto lo spettro, e secondo perche' vista la mole di papers a riguardo in una sola vita NON PUO' AVERLI LETTI TUTTI. Quindi, se mi mandate un link con "il celebre scienziato X dice che", vi rido in faccia. Anche se avesse ragione, avrebbe confutato si e no l'uno per diecimila delle prove scientifiche portate, il che significa che non avrebbe dimostrato proprio NULLA.

Detto questo la seconda domanda e': a questo punto cosa posso capirne io? La risposta sincera e' che ho capito alcuni papers (pochi), ho capito circa le conclusioni di altri papers, ho capito il topic di altri, ma la stragrande maggioranza non e' in nessun campo che io conosca e peraltro non avrei il tempo di leggere tutto.

Diciamo che "di questa scienza ho letto qualcosa, decisamente poco".

Adesso andiamo al bigottismo verde. Pur avendo (come chiunque altro) compreso solo una piccola parte di questa scienza, quando ascolto uno di questi verdi che parlano sono certo di una cosa: loro non ne hanno MAI letta NEMMENO una pagina.



domenica 12 gennaio 2020

Riflessioni sul Cancrismo



Un Post di Bruno Sebastiani


L’8 ottobre 2019 sul blog “Nuova Eden – alla ricerca del paradiso perduto” è apparso un saggio dal titolo “Riflessioni sul Cancrismo”. Ho riportato nel mio blog l’intero scritto, consistente in cinque fitte pagine di formato A4.
Vorrei approfittare dello spazio offertomi da Effetto Cassandra per rispondere alle critiche e agli argomenti dell’anonimo estensore dello studio (so solo che si chiama Alessandro e che è l’amministratore di Nuova Eden).
Gran parte delle critiche non sono indirizzate alla teoria cancrista in quanto tale ma al comportamento e alle affermazioni di alcuni suoi “seguaci” (se così si possono definire gli aderenti ad un Gruppo di Facebook …), e non le prenderò quindi in considerazione.
Ma anche per quanto riguarda la conoscenza della teoria in questione ci si trova subito davanti alla disarmante premessa “che non ho avuto modo di leggere il libro “Il Cancro del Pianeta”, né l’altro suo seguito”, da cui consegue che “in questo post […] non parlerò del libro, che io non ho letto, ma parlerò di ciò che ho avuto modo di capire e di conoscere attraverso l’autore stesso e le altre persone che hanno velocemente aderito a questa teoria. La riflessione che voglio fare (e le conseguenti critiche) dunque, hanno a che vedere più che altro con l’atteggiamento di chi aderisce al Cancrismo, con il suo punto di vista e con ciò che ho appreso interagendo con i sostenitori di tale teoria e leggendo articoli e scritti reperibili in rete.”
Mi sentirei più a mio agio se Alessandro avesse letto i miei libri, ma poiché alcune “critiche” riflettono effettivamente dei punti controversi della teoria, sono lieto di cogliere questa occasione per cercare di fugare dubbi e perplessità.
Non mi soffermerò sul punto 1 (l’accusa di “misantropia”), sia perché io non odio il genere umano, ma anzi lo amo, sia perché Alessandro stesso afferma che l’accusa non è rivolta alla teoria, ma a “buona parte dei sostenitori”, e dei sentimenti di costoro ovviamente non mi ritengo in alcun modo responsabile.
Al punto 2 troviamo l’accusa di “meccanicismo” o, se preferite, di “materialismo”. In sostanza Alessandro dice: i dati a sostegno della teoria sono certi ed acclarati, ma non si tiene conto di ogni altra “cosa che non sia evidente o dimostrabile”. Non per niente il paragrafo è titolato “La ragione da sola non basta” ed accusa la teoria di non tenere in adeguato conto la “spiritualità”. Quando Alessandro leggerà “Il Cancro del Pianeta Consapevole” si renderà conto che tutto l’ottavo capitolo (“Chi si è parzialmente opposto alla diffusione del male”, da pag. 101 a pag. 204) è dedicato in particolar modo a tutti i movimenti ascetici, religiosi e spirituali che dal lontano Oriente, all’Africa e all’Europa hanno cercato invano di limitare i danni causati dal progresso materiale. Quanto all’affermazione che “la spiritualità … erroneamente viene accostata alla religione o al bisogno di astrazione”, osservo che è da ritenersi corretta ai giorni nostri, ma che dall’antichità fino a poco prima dell’Età moderna i due termini (religione e spiritualità) potevano tranquillamente considerarsi sinonimi, pur con vari distinguo.
Il punto 3 è “uno dei punti focali dell’analisi fatta dal Cancrismo", e cioè "che la comparsa dell’uomo sulla Terra non sia altro che un 'caso', un brutto scherzo dell’evoluzione, un ‘esperimento finito male’”. Per Alessandro le cose non sono andate così. Il paragrafo ha come titolo la famosa locuzione di Einstein, secondo il quale “Dio non gioca a dadi con l’Universo”. Qui non è la mia teoria a dover scuotere i convincimenti di Alessandro, ma quella di autori ben più autorevoli. Mi riferisco in particolare a Jacques Monod e al suo basilare libro “Il caso e la necessità”, dove è specificato che [Le alterazioni nel DNA] sono accidentali, avvengono a caso. E poiché esse rappresentano la sola fonte possibile di modificazione del testo genetico, a sua volta unico depositario delle strutture ereditarie dell'organismo, ne consegue necessariamente che soltanto il caso è all'origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell'evoluzione: oggi questa nozione centrale della Biologia non è più un'ipotesi fra le molte possibili o perlomeno concepibili, ma è la sola concepibile in quanto è l'unica compatibile con la realtà quale ce la mostrano l'osservazione e l'esperienza. Nulla lascia supporre (o sperare) che si dovranno, o anche solo potranno, rivedere le nostre idee in proposito.” (J. Monod, Il caso e la necessità, Oscar Mondadori, 2017, p. 111)
Subito dopo, Monod soggiunge: “Fra tutti i concetti di natura scientifica, quello del caso distrugge più degli altri ogni antropocentrismo ed è il più intuitivamente inaccettabile da parte di quegli esseri profondamente teleonomici che siamo noi.” (ibidem)
La vita nasce dal caso, “soltanto il caso è all'origine di ogni creazione nella biosfera”, ce lo dice la Biologia, che ci dice anche tante altre cose.
In particolare, se l’uomo in quanto “primate” è anch’egli frutto del caso, nel senso che si è evoluto in centinaia di milioni di anni da quelle prime combinazioni casuali che hanno dato origine alla vita, la sua specie è stata oggetto in tempi molto più recenti di un avvenimento del tutto casuale che lo ha trasformato in Homo sapiens: il suo encefalo ha subìto una abnorme evoluzione come conseguenza di una mutazione genetica. Il biologo molecolare Pietro Buffa così descrive la possibilità di un tale accadimento: “Le mutazioni spontanee sono eventi del tutto casuali perché sono il risultato di una complessa catena di cause ed effetti che, di fatto, è impossibile ricostruire secondo un modello deterministico. Si tratta di errori di copiatura inseriti durante la replicazione del DNA e dovuti, secondo recenti indagini, a ‘tremiti quantistici’ che normalmente interessano le basi nucleotidiche. Per alcuni microsecondi una base può risultare instabile rispetto alle altre, un tempo brevissimo ma sufficiente perché l’apparato di replicazione del DNA la scambi per un’altra, commettendo un errore di trascrizione.” (P. Buffa, I Geni Manipolati di Adamo, Uno Editori, 2015, p. 93)
Studi scientifici riportati anche nel blog de Il Cancro del Pianeta confermano l’ipotesi che lo sviluppo del nostro cervello e dell’intelligenza umana siano conseguenti a mutazioni intervenute in uno o più geni (vedi “Quel gene che ha fatto la differenza tra noi e le scimmie” e “Il cervello dell’uomo è così grande a causa di un ‘errore’ genetico”).
La Biologia tende a ristabilire l’oggettività degli accadimenti, il Cancrismo tende ad attribuire loro il corretto significato in rapporto all’armonia che avrebbe continuato a regnare nella biosfera in assenza di quelle imprevedibili mutazioni genetiche, del tutto analoghe a quelle che sono alla base della carcinogenesi.
Il punto 4 e il punto 5 sono tra loro intimamente connessi. “Il cervello non può essere né buono né malvagio, esso è soltanto uno strumento come un altro” e “Il libero arbitrìo esiste ed ogni essere vivente può applicarlo o meno”.
Il discorso qui rischia di divenire assai complesso. Potremmo risalire alla polemica tra Erasmo da Rotterdam (“De libero arbitrio”) e Martin Lutero (“De servo arbitrio”), ma mi limiterò a questa semplice osservazione: se effettivamente fossimo stati liberi di optare per la salvaguardia della “omeostasi” tra tutte le cellule di Gaia (il mantenimento cioè dell’equilibrio tra le varie componenti della Natura), perché non l’abbiamo fatto? Perché abbiamo brutalmente distrutto questo equilibrio a nostro scandaloso vantaggio e continuiamo a farlo senza alcun segno di ravvedimento?
Secondo la mia teoria ciò è addebitabile al micidiale “combinato disposto” di due elementi.
1 – La neocorteccia, ovvero la parte del nostro encefalo frutto di abnorme evoluzione, è venuta a posizionarsi al di sopra di precedenti “strati” di cervello, ben meno potenti quanto a “capacità elaborativa”, ma nei quali erano (e sono) radicati dalla notte dei tempi i nostri istinti più ancestrali, quello di sopravvivenza individuale e della specie, istinti sviluppatisi per garantire la conservazione delle nostre vite a fianco di quelle di tutti gli altri animali, i quali, a loro volta, sono mossi da analoghi istinti.
2 – Questi istinti spingono ogni essere vivente a utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per il raggiungimento del proprio scopo conservativo / espansivo. Lo scontro con gli istinti altrui stabilisce spazi e modalità per la reciproca convivenza. Laddove i mezzi a disposizione di una specie diventano prevalenti, questi garantiscono a quella specie il successo nei confronti delle altre.
È ciò che è accaduto a noi. Siamo divenuti bipedi, abbiamo iniziato ad usare gli arti superiori per produrre strumenti taglienti, abbiamo addomesticato il fuoco, abbiamo sviluppato un linguaggio simbolico che ci ha consentito di coordinare al meglio le nostre attività di caccia, insomma abbiamo sbaragliato ogni avversario nella lotta per la vita, e non potevamo fare diversamente, in quanto sospinti da quegli incoercibili istinti primordiali.
Vorrei concludere le mie osservazioni sullo studio di Nuova Eden con una postilla finale.
Alessandro, l’amministratore di quel sito, aveva pubblicato un post dal titolo “L’uomo, il cancro del Pianeta” nel 2013, ben due anni prima dell’uscita del mio primo libro sul Cancrismo. In tale post aveva mostrato una sincera attrazione nei confronti della teoria, frenata però dalla speranza / illusione di una possibile regressione spontanea della malattia (dovuta essenzialmente ai comportamenti degli “uomini di buona volontà”).
Non è l’unico intellettuale a sentirsi attratto dalla teoria cancrista, ma al tempo stesso a respingerla per paura della sua “radicalità”. Esemplare in tal senso il carteggio intercorso tra me e Igor Giussani, riportato per intero nel mio blog.
Il Cancrismo effettivamente è duro da accettare in quanto sconfessa ogni convincimento antropocentrico di cui ci siamo nutriti sin dalla nascita. Ma una volta accettato è in grado di mostrare al nostro intelletto i guai procurati alla Natura e come quest’ultima sarebbe bella se solo avessimo rispettato gli equilibri stabilitisi in centinaia di milioni di anni.

mercoledì 8 gennaio 2020

Riscrivendo la storia di Gilgamesh: I Gemelli del Cosmo di Stefano Ceccarelli

di Ugo Bardi




Versione in italiano del post "Rewriting the Story of Gilgamesh: The Cosmic Twins by Stefano Ceccarelli" pubblicato sul blog Chimeras

Questa nota riguarda un recente romanzo dell’autore italiano Stefano Ceccarelli intitolato I Gemelli del Cosmo (Altromondo Editore, 2019). Prima di tutto, diciamo che si tratta di roba profonda, di quelle affascinanti. E’ stato Jorge Luis Borges a dire che tutti i singoli libri sono solo pagine di un grande libro che tutto il genere umano sta scrivendo. Personalmente, aggiungerei che non tutti i libri scritti al giorno d’oggi meritano di essere aggiunti a quel grande libro, ma certi lo fanno, e questo è uno di essi.

Allora, partiamo dall’inizio e, se stiamo discutendo di un unico, gigantesco libro, potremmo decidere di dare uno sguardo alle pagine iniziali per cercare di comprendere cosa è scritto verso la fine. Così, potremmo iniziare con l’Epopea di Gilgamesh, forse il primo romanzo mai scritto. Ma come si lega la storia di Gilgamesh con quella scritta da Ceccarelli? Tutte le buone storie riguardano la ricerca di qualcosa – è stato uno scrittore di fantascienza, Samuel Delany, a dire che non riusciva a pensare di scrivere nient’altro che una nuova versione della ricerca del Sacro Graal. Così, è questo il punto da cui partire.
Ma cos’è esattamente il Sacro Graal? Cosa stanno cercando i nuovi personaggi? E perché quando poi finalmente lo trovano il romanzo termina, o forse scoprono che ciò che hanno trovato è una delusione? Forse c’è qualcosa di profondo in questo. Tutto questo cercare non è rivolto a qualcosa in particolare, ma piuttosto ha a che fare con il modo in cui l’universo funziona. L’universo non è un blob uniforme: è stato creato all’inizio di tutto separando la luce dalle tenebre e Dio stesso vide che questa era una cosa buona. Se ci pensate, la luce non sarebbe ciò che è se non esistesse il buio. Forse la luce è attivamente alla ricerca del buio e forse il buio sta ossessivamente aspettando la luce per fondersi con essa e trasformarsi a sua volta in luce, mentre forse la stessa luce va estinguendosi per diventare tenebra dopo aver speso sé stessa diffondendosi ovunque. E’ l’eterno principio dello Yin e dello Yang, che girano intorno l’un l’altro cercandosi sempre vicendevolmente senza che l’uno si fonda mai del tutto con l’altro.



E allora, che cosa cerca Gilgamesh nella sua saga? La vita eterna, leggiamo. Ma non è questa la vera ragione. La ragione per cui Gilgamesh viaggia, lotta, si dibatte, soffre e va avanti è qualcosa che neanche lo stesso Gilgamesh comprende. Forse possiamo trovarla in alcuni dettagli della saga. Gilgamesh ha un amico nella storia, Enkidu, ma entrambi sono personaggi Yang. Entrambi stanno cercando una controparte, dei personaggi Yin, che forse possiamo trovare nelle due donne menzionate nella storia. Non sono così ben note come i due personaggi principali maschili, ma hanno comunque i loro nomi menzionati per esteso: Shamhat, la sacra prostituta, e Siduri, l’ostessa. Sono ritenuti personaggi minori ma, si badi bene, sono fra i primissimi personaggi femminili di cui conosciamo il nome nella storia della letteratura – vale a dire, personaggi femminili diversi dalle dee. In realtà, queste due donne sono anche lor parte di qualcosa della più elevata sfera delle cose, ma è sempre così nell’universo.
Così, forse possiamo leggere la saga di Gilgamesh come una ricerca da parte del principale personaggio maschile, cioè lo stesso Gilgamesh, della sua controparte femminile. Egli ha solo una rapida visione di lei quando incontra Siduri in una taverna, per poi proseguire nella sua infruttuosa ricerca senza neanche sospettare che ciò che stava cercando era stato così vicino a lui per un po’. Lo stesso accade per Enkidu, che incontra brevemente Shamhat nella foresta, viene sedotto da lei, ma da allora non la incontrerà più. Del resto, è questa la ricerca mitica in tutte le sue manifestazioni letterarie. L’oggetto della ricerca non è mai del tutto afferrato, e se lo è, svanisce mentre l'eroe lo afferra.


Passiamo ora ai Gemelli del Cosmo di Ceccarelli. La storia narra di una coppia di pianeti gemelli, di cui uno è la nostra Terra e l’altro il suo gemello, chiamato Serra, nome che quindi lo distingue dalla Terra da una sola lettera. In realtà, chiamarli “gemelli” è improprio. Essi sono diversi e, per una stranezza della creazione, la Serra non ha nella sua crosta quantità estraibili dell’elemento che noi chiamiamo “oro”. Ma non è questo il punto importante. Terra e Serra sono due pianeti diversi, con Serra che è decisamente femminile in opposizione alla più aggressiva, mascolina Terra. Fra le varie caratteristiche di Serra, una è quella di aver avuto un messia donna, Yesua Krista, la controparte Yin del messia Yang terrestre Gesù Cristo. Un pianeta maschio e uno femmina, due metà che si cercano vicendevolmente, con Krista che non muore sulla croce sulla più gentile Serra, mentre la disponibilità di oro ha corrotto i cuori degli uomini sulla Terra.



Quindi il racconto va avanti descrivendo come gli abitanti della Serra intraprendono la ricerca della Terra. Alla fine, una coppia di serrestri, Yosh e Laylah, riescono a raggiungere la Terra sfruttando uno strano vortice spaziale. Arrivano lì e trovano un pianeta morto, devastato dal riscaldamento globale e dall’inquinamento. E alla fine tornano a casa a mani vuote, proprio come Gilgamesh, incapaci di completare la loro ricerca.
Questa è la storia: il problema è che la fine del racconto non soddisfa le aspettative, con la narrazione che rallenta man mano che va avanti, come un vecchio giocattolo a molla. Non importa: come tutti i buoni romanzi, anche questo ha dei difetti, è inevitabile. Ma, come tutti i buoni romanzi, è una metafora che non si può realmente comprendere in termini razionali. Si deve percepire. E se ci riesci, diventa qualcosa di profondo. Estremamente profondo. Ci dice in che modo stiamo disperatamente cercando qualcosa che non sappiamo descrivere, ma che sappiamo essere lì. E’ la nostra controparte Yin che ci manca per divenire una civilizzazione realmente armoniosa. I serrestri non riescono a trovarla. Gilgamesh non è riuscito a trovarla. Forse neanche noi riusciremo, ma chi lo sa? Forse, come sempre, il cammino è la destinazione.