sabato 12 ottobre 2019

Il Prezzo per la Vita è la Morte. Come Mantenere i Servizi Ecosistemici.


Al netto di qualche ricercatore e di pochi professionisti, nessuno in fondo sa cosa siano i servizi ecosistemici e nemmeno gli interessa saperlo.   Eppure un sacco di gente (funzionari, professionisti, politici, sacerdoti ecc.) se ne occupano senza nemmeno saperlo, di solito per demolirli.     
Perfino per chi li studia è difficile parlarne.  Perché?

Una risposta parte, credo, dalla struttura del nostro sistema nervoso.   

Mi risulta che il nostro cervello riesca a processare circa 500 bit al secondo, mentre gli organi di senso ne inviano parecchie migliaia, che già sono una minima parte dell’informazione presente intorno a noi.   Per evitare un blocco per “overflow”, ci sono dunque dei filtri che selezionano le informazioni più urgenti prima che sia raggiunto il livello cosciente.   Una funzione questa presente in tutti gli animali e che evolve coi tempi della biologia, dunque centinaia di migliaia di anni.
Da sempre le informazioni più urgenti sono quelle che riguardano oggetti in movimento.  Per i nostri avi qualcosa che si muove era qualcosa che potevi mangiare, o qualcosa che ti poteva mangiare.   Per noi è magari un’auto che ci viene addosso, ma resta il fatto che prestare attenzione a ciò che si muove è generalmente interessante, spesso salubre.   Di qui la nostra attenzione agli animali assai più che alle piante ed alle piante più che alle pietre.  Di qui il successo degli youtuber, assai più che degli scrittori.   Il successo dei videogiochi, ecc.   

Siamo perfettamente adattati a individuare opportunità a minacce impellenti, quando si muovono, mentre siamo quasi del tutto disarmati quando le opportunità e le minacce vengono da qualcosa di scarsamente visibile, poco rumoroso e/o  molto lento.
Il problema sorge dal fatto che non sempre l’urgenza coincide con l’importanza e qui arriviamo ai servizi ecosistemici.   Non ci facciamo mai caso, addirittura ci viene difficile osservarli anche quando vogliamo, perché sono qualcosa che il nostro cervello automaticamente elimina dal flusso di bit come “rumore di fondo”.  Con ragione, perché sono li da sempre e, su scala globale, finora pressoché immutati.   Il guaio è però che non saranno lì per sempre e che non sono immutabili.  Non a caso, cominciamo ad accorgerci di essi adesso che hanno cominciato a venire meno.

Per fare un’analogia, le persone che vivono vicino ad una cascata o ad un’autostrada non odono il rumore dell’acqua o del traffico, ma si allertano immediatamente se per qualche ragione quel suono così abituale cambia o vien meno.  

I servizi ecosistemici sono così: ti accorgi di loro solo quando non ci sono più.  Ci succede un poco come a quelli che si accorgono della moglie solo quando se lei ne è andata; solo ma senza moglie si può vivere, senza servizi ecosistemici no.  E difatti, se andiamo a studiare le civiltà scomparse, troviamo che sempre, sottostante la crisi che le ha travolte, c’è stato un consistente venir meno dei servizi ecosistemici.

Dunque cosa sono?

Tutto ciò che ci mantiene in vita.  Per esempio energia, acqua, aria, cibo, clima non sono prodotti del nostro ingegno e del nostro lavoro, bensì del funzionamento degli ecosistemi di cui siamo parte.  Ingegno e lavoro contano, ovviamente, ma nella misura in cui riescono ad estrarre qualcosa di utile dal funzionamento della biosfera.  Vale a dire che i servizi ecosistemici sono il risultato complessivo di una miriade di costanti interazioni fra organismi viventi, rocce, acqua, aria ed astri celesti che conosciamo solo in modo molto parziale. 
Vediamone meglio alcuni:

Energia.  Quasi 8 miliardi di noi vivono su questo pianeta dissipando l’energia messaci a disposizione dagli ecosistemi.   Per le fonti fossili (petrolio, gas e carbone) si tratta del prodotto della fotosintesi in ere geologiche passate; biomassa e cibo sono invece prodotti della fotosintesi attuale.  La luce del Sole viene filtrata da un’atmosfera che è il risultato di miliardi di anni di fotosintesi e,  senza questi filtri, ben poco di vivente ci sarebbe sulle terre emerse.   Annualmente consumiamo l’energia fossile accumulatasi in molte centinaia di migliaia di anni di fotosintesi  del passato oltre a circa il 50% della biomassa prodotta dalla fotosintesi attuale.  A far data dall’ “Overshoot day” consumiamo anche quota parte del capitale di biosfera che ci fornisce quell'energia, riducendone quindi la produzione.  Un po’ come qualcuno che ogni anno spenda più di quel che guadagna, attingendo ad un capitale ereditato degli avi.

Acqua.  A scuola ci insegnano che l’acqua è una risorsa rinnovabile perché ricircola costantemente fra il mare e la terraferma.   Vero, ma allora come mai in quasi tutto il mondo la portata di fiumi e sorgenti diminuisce; le falde acquifere sono più o meno depresse ovunque?   Semplice: perché ne pompiamo in mare più di quanta non riesca a tornare indietro e, contemporaneamente, smantelliamo pezzo per pazzo il sistema che porta la pioggia nell'entroterra.   Il ciclo dell’acqua infatti funziona a condizione che vi siano degli ecosistemi funzionanti, in particolare foreste, laghi e paludi, altrimenti le precipitazioni diventano scarse ed irregolari.  

Il meccanismo è complesso e ancora non del tutto compreso, ma in sintesi, l’acqua che evapora dal mare ripiove in mare, salvo una percentuale che piove sulle zone costiere.  Se qui viene intercettata e trattenuta dalla vegetazione e dalle paludi, rievapora e piove più verso l’interno e così via.  Altrimenti se ne torna presto in mare e amen.

I fiumi rappresentano il “troppo pieno” di questo sistema, le falde acquifere sono invece le riserve che possono tamponare le fluttuazioni temporanee, a condizione di non venire prosciugate e/o inquinate. La tecnologia e l’energia fossile ci permettono di andare a pompare riserve sempre più profonde, dimenticate dal tempo, ma meglio ci riesce di fare questo, più alteriamo irreparabilmente il ciclo, spostando acqua dalla terraferma al mare, senza che possa poi tornare.

Certo, questo è solo uno schema e si applica in modo molto di verso a seconda delle regioni e delle stagioni, ma resta sempre valido il fatto che quando la portata dei fiumi diminuisce, significa che abbiamo già superato la soglia di pericolo.  L’unica cosa intelligente da fare sarebbe ridurre i consumi ed aumentare foreste e paludi.  La cosa più stupida è pompare di più e più in profondità, anche se può essere molto redditizio.

Aria.  La composizione dell’atmosfera ha alcune implicazioni su cui raramente si riflette. Rende possibile alle piante di fotosintetizzare ed a praticamente tutto ciò che vive di respirare, ma non solo.  Come abbiamo accennato, filtra i raggi cosmici, impedendo che le cellule vangano uccise ed assicura al Pianeta una temperatura media compatibile con la presenza di acqua allo stato liquido e di vita biologica.  Una composizione dell’atmosfera relativamente costante è un servizio eco-sistemico. 

Qualcuno comincia a rendersi conto che averla alterata anche di poco sta scatenando una specie di anteprima d’inferno in molte regioni.   Questa alterazione deriva solo in parte dalla combustione di biomassa fossile; per una parte consistente deriva da disboscamento e incendi, degrado dei suoli ecc.  
Su quali siano le rispettive percentuali non c’è accordo fra i ricercatori, ma che siano entrambe determinanti è assodato.   Quello su cui non si riflette abbastanza è che tutto ciò ha già scatenato una serie di retroazioni auto-rinforzanti di ulteriore riscaldamento e che solo ed esclusivamente il ripristino dei servizi ecosistemici potrebbe, forse, fermare prima che la maggior parte del pianeta diventi un deserto.  Quindi, abbiamo bisogno soprattutto di foreste e paludi.

Cibo.  In effetti, oggi la base alimentare dell’umanità è costituita da petrolio e gas naturale, ma per rendere digeribile questa roba abbiamo bisogno di trasformarla in tessuti vegetali o animali sfruttando dei servizi ecosistemici.   E troppo petrolio e gas stanno demolendo pezzo per pezzo gli ecosistemi che ci forniscono questo servizio.  Per non parlare dell’effetto definitivo rappresentato da quella coltre di cemento ed asfalto che siamo soliti chiamare “città”.

Clima.   Già molto tempo fa, gli storici si sono accorti che le società complesse, capaci di produrre quelle che chiamiamo “grandi civiltà”, sono sempre state vincolate ad aree caratterizzate da clima mite.   Il motivo è semplice e non c’entra con l’intelligenza umana, semmai con la stupidità.  Un clima temperato è infatti un presupposto per suoli non solo fertili, ma anche dotati di una forte resilienza allo sfruttamento agricolo, a sua volta presupposto per il sostentamento di elevate concentrazioni di persone e, quindi, per lo sviluppo di società complesse, in grado di produrre i capolavori di arte e di scienza che tanto ci affascinano.   Non a caso, man mano che i suoli sono stati erosi ed il clima è diventato più ostile, le “società avanzate” sono fiorite altrove, tendenzialmente più verso nord, laddove il clima era ancora compatibile con elevate densità di popolazione.

Proprio ora, per la prima volta nella storia, climi e suoli stanno diventando inadatti a sostentare una società numerosa e tecnologicamente avanzata in praticamente tutto il mondo contemporaneamente. Si, perché la tecnologia, tanto più è avanzata, quanto più ha bisogno di una base sociale numerosa, il che significa dare da mangiare e da bere alle tante formichine che concorrono a far funzionare una grande città.   Mangiare e bere che sono servizi ecosistemici che la città sistematicamente distrugge.

Sostituire i servizi ecosistemici

Si possono costruire depuratori per riciclare l’acqua, si possono sintetizzare fertilizzanti per produrre cibo su terreni esausti; plastiche e metalli possono sostituire il legno, anzi fare di meglio assai.  Si sono costruite macchine che possono produrre elettricità senza emissioni climalteranti e perfino macchine che pompano CO2 dall’atmosfera nelle viscere della Terra.  Certo, ma tutto ciò ha dei costi.   

Costi in primo luogo energetici, perché mentre la fotosintesi trasforma CO2 in biomassa usando la luce del sole, le nostre macchine sono alimentate comunque da combustibili fossili ed è quanto meno improbabile che si possa fare altrimenti.   Oggi, le fonti rinnovabili coprono infatti meno del 10% del consumo globale (5% idroelettrico, 3% eolico, 2% solare) ed esistono solo grazie ad un’industria potentissima che usa grandi quantità di materiali.   Incrementarne l’uso per sopperire ai consumi attuali comporterebbe l’estrazione ed il consumo di milioni di tonnellate di cemento, acciaio, rame eccetera, compresi parecchi minerali rari provenienti da immense miniere poste ai quattro angoli del mondo.   L’unico modo di ridurre sensibilmente le emissioni climalteranti sarebbe tagliare drasticamente i consumi finali, cioè liquidare buona parte dell’industria e tutte le grandi città, per poi fare i conti con la mostruosa sovrappopolazione che ottenebra il Pianeta e che continuiamo ad ignorare.
Costi finanziari.  Se a qualcuno sembra di dover correre sempre di più per ottenere sempre di meno non è pazzo.  Anzi è uno dei pochi che si è accorto di un fenomeno ben reale: in gergo si chiama “Sindrome della Regina Rossa”.  Ci sono diversi fattori concomitanti e sinergici alla base di questo fenomeno, ma i principali sono due:
Il primo è il degrado qualitativo delle risorse energetiche e minerarie che ci costringe a scavare, pompare, trasportare sempre di più per ottenere ciò che ci serve.  Detto in altri termini, lo sforzo di produzione cresce più rapidamente del prodotto.

Il secondo è il venire meno dei servizi ecosistemici, che ci costringe a ricorrere a succedanei tecnologici.  Macchine ed impianti però costano ed i soldi vengono prodotti dalle banche mediante l’accensione di debiti e che devono poi essere restituiti con l’interesse, altrimenti il sistema grippa ed il denaro scompare.   Per pagare gli interessi è necessario che l’economia cresca, solo che il degrado delle risorse ed il venir meno dei servizi ecosistemici si mangiano parte crescente della produttività, lasciando sempre meno per la crescita.

I servizi ecosistemici, invece, sono gratis.  Ma lo sono davvero?  Come disse giustamente Milton Friedman:  In Natura non esistono pasti gratis”.  E quale è allora il prezzo da pagare?  

Il prezzo è accettare di rimanere degli elementi marginali della Biosfera.   

Oggi però noi, i nostri simbionti e le nostre escrescenze di acciaio, vetro, catrame e cemento, copriamo circa il 50% circa delle terre emerse; il 100% se consideriamo che oramai qualunque angolo della Terra è sfruttato per qualcosa e/o inquinato da qualcosa: dalla troposfera agli abissi oceanici.

Teoricamente sarebbe possibile un “rientro”, ma oramai non “dolce”.   Bisognerebbe infatti che i ricchi accettassero di diventare poveri ed i poveri di restare tali, bisognerebbe anche che tutti accettassimo di fare al massimo due figli e di morire alla prima malattia seria che ci prende.  

Alla fine, il prezzo per la vita è la morte. Non possiamo non pagarlo, ma possiamo scegliere se andarcene tranquillamente, alla spicciolata, oppure se ardere l'intera Biosfera e noi stessi sulla pira.


sabato 5 ottobre 2019

La Mescolanza Artificiale delle Specie.


di Bruno Sebastiani

Il 29 novembre 2018 Fabio Balocco ha pubblicato un articolo nel suo blog su ilfattoquotidiano.it dal titolo “Specie invasive, la situazione è sfuggita di mano. Provare a limitarle è una battaglia persa.” (https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/11/29/specie-invasive-la-situazione-e-sfuggita-di-mano-provare-a-limitarle-e-una-battaglia-persa/4798512/).

Subito dopo averlo letto mi è capitato tra le mani il libro di Stefano Mancuso “L’incredibile viaggio delle piante”, pubblicato anch’esso nel novembre 2018 da Editori Laterza.  Si tratta di due interventi culturali assai diversi tra loro, ma entrambi sollevano il problema della mescolanza delle specie ad opera dell’uomo.

Secondo un esperto interpellato da Balocco: “la situazione è sfuggita di mano, pensare di uccidere esemplari delle specie invasive è, oltre che immorale, perfettamente inutile. È una battaglia persa.”

Il discorso di Mancuso è più ampio e ruota invece intorno al concetto che le piante hanno sempre viaggiato, via terra, via acqua e via aria. I semi, affidati al vento e agli animali, si diffondono anche a grande distanza dalle piante genitrici.

Nell’ultimo capitolo del suo libro il neurobiologo affronta però i problemi indotti dall’intervento umano, e qui il discorso cambia:

«Tutto è collegato in natura. Questa semplice legge che gli uomini non sembrano comprendere ha un corollario: l’estinzione di una specie, oltre ad essere un dramma in sé, ha conseguenze imprevedibili sul sistema di cui quella specie fa parte.»

Se una pianta riesce a riprodursi perchè i suoi semi vengono trasportati e dispersi da specie animali autoctone, con l’estinzione di quelle specie animali anche la sopravvivenza di quella pianta sarà seriamente compromessa.

A meno che l’uomo non la ritenga utile ai suoi fabbisogni alimentari o di altra natura, ed ecco allora che la mano del “padrone” interviene per salvare la specie dall’estinzione.

È il caso dell’avocado dal grande nocciolo. Si riproduceva grazie ai mega-mammiferi che vivevano un tempo in America. Questi erano in grado di mangiare il frutto intero e di rilasciare il seme pronto per la riproduzione. Con la loro estinzione «l’avocado si trovò, dall’oggi al domani, senza i suoi principali partner e con un seme enorme che non sarebbe stato facile piazzare a clienti di taglia più modesta.» (S. Mancuso, L’incredibile viaggio delle piante, p. 134) Trovò un alleato temporaneo nel giaguaro che gli consentì di sopravvivere, sebbene in un areale molto più ridotto, finché non fu scoperto dall’uomo che lo ritenne utile e prese a coltivarlo.

Salvo poi progettare – ai nostri giorni - di modificarlo per renderlo apirene (senza semi), come già accaduto a banane, uva, pomodori ecc. «Una volta privata delle possibilità di produrre semi una pianta non è più un essere vivente, ma un semplice mezzo di produzione, in mano all’industria alimentare che decide come, quando e dove riprodurla.» (ibidem, p. 136)

Ma la storia del colonialismo e dell’avanzamento metastatico del genere umano offre esempi di danni ben più gravi causati dall’introduzione di specie straniere in ambienti vergini ed incontaminati.

Nel mio recente libro “Il Cancro del Pianeta Consapevole” (Armando Editore, pp. 61 - 62) ho riportato il caso della diffusione dei conigli nel continente australiano. Qui nel 1859 un contadino introdusse alcuni di questi animali come selvaggina. Essendo nuovi di quell’ecosistema, poterono riprodursi in assenza di predatori e lo fecero in quantità spropositata, secondo la loro ben nota predisposizione all’accoppiamento.

In meno di un secolo, nel 1950, avevano raggiunto circa i 500 milioni di esemplari. Per limitarne la crescita si pensò di ricorrere alla “guerra batteriologica” (altri sistemi non avevano dato risultati apprezzabili). Dal Brasile fu introdotto il virus della mixomatosi, una malattia che colpisce i conigli e che si manifesta con lesioni cutanee, edemi, rigonfiamenti agli occhi e alla base delle orecchie, alle narici e agli organi genitali. A causa di tali gonfiori, l'animale non può vedere e nutrirsi e la morte sopraggiunge dopo pochi giorni.

Nonostante questa scelta crudele, che inizialmente comportò un tasso di mortalità di oltre il 99 % «… la guerra batteriologica contro i conigli produsse solo una tregua temporanea: la piccola parte della popolazione che era naturalmente immune alla malattia poté continuare a riprodursi e sette anni dopo il tasso di mortalità era calato a meno del 25 %.» (Clive Ponting, Storia verde del mondo, Torino, S.E.I., p. 191).

Altri squilibri all’habitat che si ripercuotono su flora e fauna sono indotti dalle dissennate campagne di disinfestazione promosse dall’uomo (famoso il grido di allarme lanciato da Rachel Carson in “Primavera Silenziosa”).

Un esempio. Negli anni ’50 del secolo scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di “irrorare” il Borneo con il DDT per sconfiggere la malaria. Effettivamente tale malattia scomparve, ma oltre alla zanzara anofele furono colpiti anche tutti gli altri insetti. La maggioranza scomparve, ma qualcuno uscì indenne. Tra questi una particolare specie di bruco, il “bruco mangia paglia”, che, non trovando più in natura dei competitori o predatori (sterminati dal DDT) si moltiplicò rapidamente e, per cibarsi, iniziò a mangiare i tetti di paglia delle povere case del Borneo.

Poi iniziarono a morire le lucertole che si cibavano degli insetti contaminati, e anche i gatti (o perché si cibavano di lucertole o perché si leccavano il pelo contaminato da DDT). Mancando l’azione di contrasto dei felini, aumentò a dismisura la diffusione dei topi, i quali, in condizioni di sovraffollamento trasmettono pericolose malattie.

Per cercare di frenare tale diffusione nuovi gatti vennero immessi nell’ecosistema con un sistema a dir poco “originale”: furono paracadutati nel corso della cosiddetta operazione “Cat Drop” (la notizia ha dell’inverosimile, circola in rete, ma anche se le modalità per cercare di porre rimedio fossero state altre, rimane comunque la gravità dello squilibrio artificiale compiuto, della ferita inferta a quell’ecosistema).

Pare infine che dopo le campagne di disinfestazione con il DDT le popolazioni del Borneo siano state colpite da epidemie infettive che hanno causato più vittime della malaria. Come noto, poi il DDT fu vietato in quanto riconosciuto cancerogeno.

Un caso di invasione di specie aliena a noi più vicino, che io stesso ho potuto sperimentare dal vivo e che non è affatto superato, è quello delle cimici asiatiche. Alla fine della scorsa estate si sono affacciate alla Liguria in gran quantità e da allora infestano case e campi. I primi esemplari sembra che siano apparsi in Italia nel 2012, e, in mancanza di antagonisti naturali, nel giro di sette anni si sono moltiplicate all’inverosimile. Al culmine dell’invasione alcuni muri esterni della mia casa e di tutte le altre nella mia zona e non solo apparivano ricoperti quasi completamente da questi insetti ed ora temiamo il loro risveglio nella stagione calda.

Sono solo alcuni esempi dei disastri provocati dall’uomo quando si intromette nei delicati congegni che regolano il mondo della natura, importando od esportando piante o animali da un paese all’altro.

Tutti gli squilibri nel “lungo periodo” si ricompongono, grazie agli “anticorpi” che la biosfera mette in campo. Ma noi viviamo nel “breve periodo” e stiamo rovinando i pochi attimi che ci è concesso di vivere su questo pianeta per il folle desiderio di rimodellarlo a nostro piacimento e vantaggio.


sabato 28 settembre 2019

Una domanda capziosa: come tener conto del progresso tecnologico?

Un Post di Jacopo Simonetta




Sabato 21 Settembre scorso, presso le Officine Garibaldi in Pisa si è tenuto un convegno sulla crisi climatica ed ambientale in corso, organizzata dall’Associazione “Esperia”.  Non molta gente, ma interessata, tanto che in parecchi si sono attardati fin oltre l’ora di pranzo per discutere.

Vorrei qui tornare su una delle domande fatte perché ha riproposto uno dei miti fondanti della nostra civiltà, nonché uno dei principali ostacoli da superare se vogliamo affrontare la situazione in modo costruttivo.

La domanda è stata circa questa: “Nei vostri modelli previsionali, con quale algoritmo è integrata la variabile del progresso tecnologico?” 

Sul momento la risposta più sintetica ed esaustiva la ha data Luca Pardi (uno dei relatori) con queste parole: “Nella cultura odierna il progresso tecnologico ha preso il posto della Divina Provvidenza”.   

Non avendo la capacità di sintesi di Pardi, vorrei qui dilungarmi un poco sull’argomento, non per dire qualcosa di nuovo, ma per cercare di riassumere cose dibattute e risapute a beneficio, forse, dei giovani che si affacciano ora a questi temi e che si troveranno spesso a rispondere a domande simili.

Prima una piccola osservazione: la domanda era evidentemente capziosa, non mirava cioè ad avere una risposta, bensì a screditare l’avversario.  Mi sento di affermarlo perché ad averla posta è stato un universitario che deve (o dovrebbe) sapere che un sistema della complessità della Terra non è modellizzabile.  Quindi non esiste e non può esistere un “modello predittivo”.   Già vediamo quotidianamente le lacune dei modelli che cercano di simulare l’evoluzione del clima (che è solo uno degli elementi in gioco); per non parlare del puntuale fallimento di quasi tutti modelli economici.  

In realtà si lavora su indicatori, modelli parziali e dati empirici da cui si possono estrapolare delle tendenze evolutive che consentono di delineare degli scenari più o meno probabili.  Ma soprattutto conosciamo bene le leggi fondamentali dell’energia e della materia, le quali non ci dicono cosa succederà, ma ci dicono con assoluta certezza cosa NON succederà.   Ecco perché possiamo tranquillamente affermare che un salvataggio in extremis della civiltà industriale per via tecnologica è quanto meno estremamente improbabile.

Ma come essere così categorici?   Abbiamo appena detto che il sistema Terra non è modellizzabile ed è fuor di dubbio che lo straordinario miglioramento di strumenti e processi è esattamente ciò che oggi consente di vivere ad un numero di persone superiore alla somma di tutte le generazioni precedenti messe insieme, da quanto H. sapiens esiste; oltretutto con un livello ed una durata di vita mediamente assai superiori che in passato. 

Anzi, si può affermare che è proprio grazie allo sviluppo della tecnologia che la nostra specie esiste; se i nostri remoti antenati non avessero imparato prima a scheggiare sassi e poi a fare il fuoco oggi sulla Terra non ci sarebbe niente di simile a noi.  Dunque perché pensare che la tecnologia non potrà risolvere i problemi del presente e del futuro, come a fatto con quelli del passato?

Perché il progresso tecnologico non è una variabile indipendente, frutto esclusivamente dell’ingegno umano, bensì  il prodotto di un contesto che lo rende possibile e lo alimenta.  In particolare, dipende dalla disponibilità di energia e di servizi eco-sistemici.  Dissipare energia è infatti ciò che consente l’elaborazione, l’accumulo e la conservazione di informazione (sia sotto forma di bit che di pagine, di arte e di costruzioni, di computer e telefoni, di denaro e quant’altro).  I gli ecosistemi naturali compensano l’aumento di entropia che inevitabilmente deriva da questa dissipazione, evitando che la Vita si dissolva nel caos.  

In altre parole, da un lato il progresso tecnologico, da cui ci si aspetta una riduzione dei consumi energetici, è frutto di un aumento dei medesimi; dall’altro, la tecnologia ha consentito alla nostra nicchia ecologica di occupare oramai oltre la metà della Biosfera, minando alla base i processi di riduzione dell’entropia che solo la Biosfera e nessuna tecnologia, neppure teorica, potrà mai realizzare.   E di questo possiamo essere scientificamente del tutto certi dal momento che la temperatura media del pianeta aumenta e la biodiversità diminuisce.

Ma l’efficienza energetica?  La dematerializzazione?  Il disaccoppiamento?   Anche senza andare a spolverare le venerande ossa di Mr. Jevons e di Mr. Watt, abbiamo tutti visto come l’efficienza dei motori a scoppio sia migliorata enormemente nei 50 anni scorsi, mentre i consumi di carburante e l’inquinamento relativo crescevano in modo iper-esponenziale.   I computer di 20 anni fa pesavano 4-5 volte tanto quelli odierni ed avevano prestazioni oggi risibili; nel frattempo i consumi di elettricità e materie prime per costruirli e farli funzionare sono esplosi mentre la percentuale di riciclo è caduta assai vicina a zero, proprio perché oramai in ogni esemplare c’è troppo poco materiale perché valga la pena di recuperarlo. Intanto il numero di queste macchine è cresciuto tanto che le miniere sono ormai diventate dei mostri che devastano intere regioni e popoli.  Perfino il consumo di carta negli uffici è aumentato, anziché diminuire come annunciato, mentre Internet assorbe oramai qualcosa come il 5% circa dei consumi elettrici mondiali, un altro dato in crescita esponenziale.  

Quanto al disaccoppiamento fra PIL e consumi/emissioni, se andiamo a vedere i dati reali, troviamo che è stato verificato solo in pochissimi casi ed anche in questi è stato solo temporaneo e/o relativo (vale a dire c’è stato un aumento del PIL superiore a quello dei consumi/emissioni che, però, sono comunque aumentati).    Ma per essere utile a qualcosa, il disaccoppiamento dovrebbe essere permanente, generale e assoluto (cioè dovremmo avere un aumento o una stabilizzazione del Pil a fronte di una diminuzione dei consumi).   Soprattutto, il disaccoppiamento dovrebbe essere sufficiente.   L’IPCC, che finora si è sempre dimostrato molto prudente nelle sue stime, valuta che per sperare di contenere il riscaldamento al di sotto dei 2 C° di media globale i paesi “ricchi” dovrebbero ridurre le loro emissioni di qualcosa come il 5% annuo, mentre gli altri paesi le dovrebbero stabilizzare ai livelli attuali o poco più.   Al di fuori dei romanzi, non esistono tecnologie che possono fare questo e probabilmente non potrebbero neppure esistere.

Ma, si potrebbe obbiettare, l’Intelligenza Artificiale, il computer quantistico, i robot e le altre meraviglie della tecnologia prossima ventura?  Proprio perché è roba che funziona, nella misura in cui uscirà dai laboratori per entrare nella società, aumenterà i consumi.   Del resto, è esattamente questa la promessa di questi oggetti: mettere chi ne disporrà in condizione di fare cose finora impossibili.  Il che, tradotto in termini scientifici, significa estendere ulteriormente la già obesa nicchia ecologica umana, riducendo quindi lo spazio ecologico a disposizione di tutte le altre specie (e degli umani che non ne disporranno).  Cioè esattamente il contrario ciò che bisogna fare.

Insomma, i processi e gli strumenti sono migliorati e continuano a migliorare ed è fuor di dubbio che a scala locale possono mitigare ed anche risolvere molti problemi, ma a livello macro è proprio questo miglioramento che spinge la crescita dei consumi, della popolazione e, di conserva, anche dell’entropia. 

Bene, ma se non abbiamo dei modelli previsionali affidabili, che senso ha fare un’affermazione del genere?

Le ragioni sono molte e molte sono già state trattate su queste e su altre pagine.  Mi limiterò quindi a ricordare alcuni punti essenziali.

1. La crescita della popolazione, della tecnologia e dell’economia sono tre fattori strettamente correlati e largamente sinergici (anche se in modo complesso ed in parte tuttora discusso) e tutti e tre dipendono dalla quantità di energia che è possibile dissipare.  La qualità termodinamica delle fonti di energia disponibile sta diminuendo e continuerà a farlo, mentre la tecnosfera invecchia e la complessità dei sottosistemi socio-economici cresce.  Questo significa che la quantità di energia necessaria per estrarre e distribuire energia (anche rinnovabile), per manutenzionare la tecnosfera e per far funzionare le società sta aumentando e continuerà a farlo, lasciando sempre meno energia netta a disposizione dell’economia e della ricerca scientifica, anche se i consumi globali continueranno a crescere.  La tecnologia può mitigare tutto ciò, ma non impedirlo.

2. Il clima sta rapidamente peggiorando e continuerà a farlo comunque, generando sempre maggiori costi economici e sociali, ma soprattutto devastando quel che resta degli ecosistemi semi-naturali (ecosistemi del tutto naturali non esistono già più) riducendo ulteriormente i servizi ecosistemici.

3. I servizi eco-sistemici sono quelli che assicurano gratuitamente che il Pianeta rimanga abitabile e dipendono dall’integrità degli ecosistemi.  Stiamo distruggendo Biosfera ad un ritmo molto più rapido di quanto non stiamo incrementando le emissioni, anche nei paesi con emissioni di CO2 infinitesimali, sia totali che pro-capite.  Fra peggioramento del clima e perdita di servizi ecosistemici vi è una stretta sinergia dal momento che un clima relativamente temperato è proprio il principale fra questi “servizi.”

4. Già in parecchi paesi anche importanti la combinazione di sovrappopolazione e peggioramento delle condizioni di vita ha portato o sta portando al collasso totale o parziale delle società e degli stati, con quel che ne consegue in termini di morte e distruzione.

Ognuno di questi 4 fatti, da solo, sarebbe probabilmente sufficiente a far tramontare il sogno di una “rivoluzione tecnologica” capace di salvare lupi, capre e cavoli.  Ma non solo sono contemporanei, sono anche sinergici.

Insomma, la tecnologia risolve “problemi”, cioè trova soluzioni tecniche per fare cose che prima non si potevano fare.  Ma noi non abbiamo un “problema”, siamo piuttosto in una “brutta situazione” da cui non possiamo uscire facendo qualcosa che prima non potevamo fare, semmai il contrario. 

Il guaio è che ciò comporterebbe di pagare un conto salato in termini di benessere, di convinzioni, scelte etiche e modelli mentali, oltre che di vite.  Un conto che nessuno vuole pagare. 

La tecnologia ci aiuta moltissimo a rimandare il "redde rationem", ma a costo di far lievitare gli interessi passivi.  E su questo non c’è tecnologia che tenga: più tardi pagheremo il conto, più salato sarà; più difficile sarà ricominciare per chi sopravvivrà alla fase acuta. 

Anche di questo possiamo essere ragionevolmente certi, anche se non possiamo assolutamente prevedere quando, come e dove colpiranno le calamità.  

Personalmente, ho sempre trovato spassoso che proprio fra i cultori della scienza e della tecnica si trovino tante persone che, pur competenti e colte, nel loro intimo pensano in termini magici che avrebbero fatto sorridere Agrippa di Nettesheim.


mercoledì 25 settembre 2019

Lunacomplottismo come un effetto del caldo estivo



Questa mi era rimasta in coda da questa estate, quando mi era arrivata come risposta a un mio post sul "Fatto Quotidiano". E' carina per cui ve la passo. Potrebbe, in effetti, essere uno scherzo, ma mi sa che sia proprio vera! Insomma, un effetto del caldo estivo.(U.B.)


corporation@email.com
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Infatti il primo pagliaccio è lei

Lei dice di scrivere nel suo blog del FQ di esaurimento delle risorse e del cambiamento climatico ma scivola fuori tema su altri argomenti non di sua competenza e critica Ivo Mej di fare il pagliaccio per l'articolo sul falso allunaggio.

https://www.ilfattoquotidiano.it/…/lunacomplottist…/5318741/

Lei dovrebbe sapere che un velivolo a tutt'oggi non è in grado di raggiungere una velocità di 40000 km l'ora quando il più veloce prodotto è il Lockheed sr 71 che ha stabilito il record di quasi 4000 km l'ora.

Anche quando si possa eventualmente confermare che lo Shuttle raggiungeva i 27000 km ma nel 69 non era in attivo, per cui andare sulla luna a piedi sarebbe indicato dire con ironia della sorte visto che il razzo e il lem e il resto non erano in grado di raggiungere la suddetta velocità come oteva essere fattibile?

Altresi lei grande esperto di materia mi dirà che il comburente era parte di un ultima ritrovata risorsa degna di nota volta a rendere fattibile la missione lunare...

Ribadisco nuovamente i missili militari raggiungono in pochi selcondi picchi di velocitàtra Mach 2 e i Mach 5 (ossia 2.400 - 6.000 km/h). Nello spazio la velocità dei razzi aumenta, perché lì non c'è attrito (lo SpaceShuttle, per esempio, vola a Mach 23, ossia la bellezza di 27.000 km/h).

Per conoscenza i primi ad andare nello spazio furono i Russi e sempre loro furono i primi a raggiungere l'altezza record su jet militare di 37 km, e piu di cosi non si potè superare eventualmente i 10 km mai confermati dai primati americani di cui lei ovviamente è un fan sfegatato.

A questo punto bisogna tenere in considerazione la fascia di Van Hallen, se lei crede ai globottisti americani della Nasa deve anche credere alle medesime fascie dato che loro stessi grandi scienziati come lei affermano l'esistenza di questo grave problema da girarrosto.

Per cui come fa a dire che Ivo Mej è un pagliaccio?

Lei non si sente in equal modo un pagliaccio? Ancora più grave il fatto di essere docente di università?

Per caso è anche ebreo di religione?

Sto inoltrando questa mail ad altri professionisti del settore fra cui Giulietto Chiesa, Claudio Messora, Maurizio Blondet, e molti altri chissà che non aprano un confronto sulla sua pagliacciata e il suo diritto di rendersi ridicolo sul FQ.

Saluti e ariveder le stelle.

Shalom!

Luca Marino

venerdì 20 settembre 2019

Il Caso e la Colpa: Una Risposta a Igor Giussani





di Bruno Sebastiani


Igor Giussani il 9 settembre 2019 ha dedicato un lucido e ben argomentato articolo al cancrismo (vedi http://www.decrescita.com/news/cancro-del-pianeta/).

A testimonianza del suo interessamento di vecchia data per questa teoria, nel rispondere ad un mio commento ha confessato che era “da un anno o più che quest’articolo bolliva in pentola”.

Ma l’interessamento di Giussani era ambivalente: da un lato respingeva istintivamente la premessa e le conclusioni della teoria, da un altro si sentiva “attanagliato dal dubbio che il rigetto per le tesi de Il cancro del pianeta fosse dettato essenzialmente dall’incapacità di accettarne le conclusioni dure e sconfortanti”.

Poi, all’improvviso, il dissolvimento del dubbio. “Ogni timore è stato spazzato via nel momento in cui, ragionando a mente fredda, mi sono accorto della curiosa somiglianza tra la strategia argomentativa di Sebastiani e quella che, sulla carta, dovrebbe rappresentare la sua perfetta nemesi (sic), ossia la mitologia umanista-progressista. A quel punto mi si sono drizzate le antenne perché, se questa è falsa e fuorviante (come abbiamo spesso ripetuto e dimostrato), non può essere riabilitata solo affibbiandole un giudizio opposto, degradandola cioè da ‘buona’ a ‘cattiva’ ma lasciandone inalterati i contenuti fondamentali. Ecco alcune singolari analogie tra i due pensieri: popoli, classi sociali, culture, individui, ecc. spariscono nel calderone dell’etichetta onnicomprensiva ‘umanità’; la narrazione di tale umanità, dall’età della pietra ai giorni nostri, si basa sul presupposto che essa abbia immancabilmente adottato la forma mentis della cultura occidentale-industriale …”

Premesso che non si capisce come una “mitologia” (quella “umanista-progressista”) possa essere riabilitata degradandola da ‘buona’ a ‘cattiva’, il resto del ragionamento di Giussani coglie nel segno: il progressismo ha vinto su tutta la linea e il cancrismo ne prende atto.

L’umanità ha immancabilmente adottato la forma mentis della cultura “occidentale-industriale”: come negarlo? Questo è un punto fondamentale. Certamente nel corso dei secoli vari popoli si sono dimostrati più rispettosi di altri nei confronti della natura, ma questi sono stati sempre sconfitti da noi “occidentali” e brutalmente sottomessi, fino a quando i pronipoti degli sconfitti si sono adeguati anch’essi alla forma mentis della cultura “occidentale – industriale”.

E i popoli che non sono stati sottomessi con la forza si sono adeguati spontaneamente al “nuovo ordine mondiale” rinnegando poco alla volta usi e costumi che avevano ereditato da antiche tradizioni. La Cina moderna mi pare l’esempio più calzante al riguardo, ma il continente asiatico offre molte altre palesi dimostrazioni. E che dire dello sgretolamento del muro di Berlino e del dissolvimento dell’impero sovietico in assenza (fortunatamente) di un conflitto bellico planetario?

Pensare che il corso della storia possa mutare seguendo l’esempio di qualche sparuta e sperduta popolazione (gli abitanti di Tikopia?) che si è ostinata a rifiutare i vantaggi materiali procurati dal progresso o “cercando di esaltare la fecondità naturale” è una pia illusione.

Nel mio blog https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/, passato attentamente in rassegna da Igor Giussani, vi sono due sezioni che tendono ad avvalorare l’ineluttabilità del cammino intrapreso dall’uomo. La prima ha per titolo “Le Grandi Metastasi”, la seconda “Il Villaggio Globale”.

Rimando i lettori a quelle sezioni per prendere atto di come, dalle strade consolari dell’antica Roma alle grandi esplorazioni geografiche e soprattutto al vergognoso capitolo del colonialismo, nel corso degli ultimi duemila anni il modello “occidentale” si sia diffuso in ogni angolo del pianeta, al punto da tendere ad uniformare il contesto urbano (dove vive oramai la maggioranza della popolazione mondiale).

Stiamo andando anche verso l’omologazione linguistica, del modo di vestire, di parlare, di mangiare ecc. Su questo tema si veda il mio articolo su Effetto Cassandra https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/2018/11/10/la-de-differenziazione-ovvero-lomologazione-globale-delle-cellule/.

Dei sette grattacieli più alti al mondo (compresa la erigenda Jeddah Tower, destinata a superare il chilometro di altezza) tre sono in Cina, due in Arabia Saudita, uno a Dubai ed uno a Taiwan (vedasi la sezione “Torri di Babele” di https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/). Il mio interesse per questi edifici nasce dal fatto che li ritengo la punta dell’iceberg della malattia che sta ricoprendo con asfalto e cemento il bel manto verde che una volta rivestiva il pianeta.

Il riconoscimento da parte del cancrismo di questa realtà così evidente ed incontrovertibile fa sorgere in Giussani “il sospetto che l’umanità-cancro possa servire da pretesto per qualche autoritarismo sedicente ecologico, che adduca la scusa di salvare il pianeta dalle ‘metastasi’”.

E qui si apre il capitolo del difficile futuro che ci aspetta. Come ho già precisato in altra sede, l’insieme di queste spinte “progressiste” prefigura la nascita dell’Impero del Cancro del Pianeta, argomento al quale ho dedicato un libro di imminente pubblicazione. E Giussani nel suo articolo riporta la mia frase in cui preciso che l’argomento principale sarà “la complessità dell’organizzazione sociale che abbiamo creato e l’ineluttabilità del suo continuo progresso sino alla crisi finale”.

Che il cammino dell’umanità vada in questa direzione è sotto gli occhi di tutti. Tra le “cellule – uomo” e le “cellule – macchine” si sta creando una rete sinaptica mondiale la cui gestione richiederà un controllo sempre più pressante e centralizzato.

Se ne è accorto anche il regnante pontefice che nella sua Lettera enciclica “Laudato sì” ha precisato come sia “indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate … dotate del potere di sanzionare”. Non solo: “… per il governo dell’economia mondiale; per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell’ambiente e per regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale” (par. 175).

Ma un conto è prendere atto della realtà e della direzione di marcia del futuro, un altro conto è auspicarla ed approvarla. Papa Francesco forse auspica ed approva. Io, molto più modestamente, ritengo inevitabile l’accentramento dei poteri, ma condanno radicalmente la direzione di marcia del progresso tecno-scientifico che ci ha condotto in questo vicolo cieco. Credo che nessuna “condanna” possa essere più assoluta di quella contenuta nella dottrina cancrista: tu, uomo, ti sei trasformato in cellula maligna e stai proliferando in modo indiscriminato nel corpo dell’organismo che ti ospita, distruggendo tutte le cellule sane che incontri sul tuo cammino. Più espliciti di così!

Sennonchè Giussani, che ben conosce i danni da noi causati alla biosfera, non ritiene che sia giusto accusare di questi delitti l’intera umanità, perché “l’etichetta ‘uomo’ raggruppa indistintamente gli industriali che causano tale scempio, i politici che lo avallano, i comitati cittadini che lo combattono, le tante persone che usufruiscono di derivati del petrolio per lo più obbligate dalle circostanze e le altrettanto o più numerose che ne fanno scarsissimo uso: tutti bollati quali cellule maligne, malgrado i diversi gradi di responsabilità compromissione e nonostante gli individui maggiormente collusi siano poche decine. … La devastazione è logica conseguenza della ragione umana-cancro? Allora siamo tutti colpevoli, ma, si sa, tutti colpevoli = nessun colpevole.”

Effettivamente i concetti di colpa e di condanna ci riportano a quelle categorie morali secondo le quali si è andata strutturando la nostra ragione man mano che il numero dei neuroni e delle connessioni sinaptiche andavano crescendo. Ed anch’io mi ritrovo ad usarle, contro il mio stesso intendimento.

Proviamo a ragionare in altri termini.

L’evoluzione del nostro cervello, che io ho definito “abnorme” e che ci ha consentito di rompere l’equilibrio della natura, è conseguente a modifiche genetiche intervenute nella notte dei tempi all’interno della scatola cranica di alcune scimmie antropomorfe.

Tra i tanti studi in materia si veda anche quello della italiana Marta Florio (e altri) che ho riportato nel blog de Il Cancro del Pianeta (https://ilcancrodelpianeta.files.wordpress.com/2019/09/human-specific-gene-arhgap11b.pdf).

Non è corretto quindi parlare di colpa.

È stato il caso a dar vita alla neo-corteccia e a tutto ciò che ne consegue.

Per usare la metafora di un autore che mi è caro (Arthur Koestler), abbiamo ricevuto “the unsolicited gift”, il regalo non richiesto.

E, una volta ricevutolo, non potevamo restituirlo al mittente: aveva modificato per sempre la struttura del nostro cervello. Abbinato al preesistente istinto di sopravvivenza della specie, non poteva che mettere in moto la macchina della cosiddetta “civiltà” e del cosiddetto “progresso”.

È stato un caso, non una colpa.

Il libero arbitrio non esiste. È un’invenzione dialettica per far credere ai nostri simili che avremmo potuto restare buoni, saggi e in armonia con la natura se solo lo avessimo voluto, e che potremo farlo in futuro se lo vorremo.

I tentativi di innestare la retromarcia ai quali assisteremo prossimamente non saranno conseguenti a ravvedimenti virtuosi indotti dal libero arbitrio: saranno semplicemente azioni estreme atte a ritardare la catastrofe. Se fosse per la mente dell’uomo resteremmo per sempre sul trono di re del mondo a goderci i nostri privilegi ai danni di tutti gli altri esseri viventi. Ma la natura sta per presentarci il conto e non riusciremo nel poco tempo che ci resta a disposizione a ricostituire un equilibrio che ha richiesto milioni di anni per formarsi.

Il che non significa che i tentativi di innestare la retromarcia non vadano fatti e che non si debba cercare di ritardare il più possibile la catastrofe.

Significa che per farlo nel modo più efficace è bene guardare in faccia la realtà senza cercare alibi morali o scappatoie ideologiche: lo scempio non è stato causato da poche decine di industriali o di politici corrotti, né dagli scienziati e dai tecnici che lo hanno reso possibile, né dai militari o dai poliziotti che lo hanno difeso ed imposto.

La causa risiede nella nostra testa.

Come ho scritto in un recente post (in attesa di pubblicazione su Effetto Cassandra) è l’uomo il vero responsabile dello scempio (la “sesta estinzione di massa”), non Trump o Bolsonaro o qualche altro capo di stato privo di scrupoli.

Certo, esistono cellule maligne più aggressive ed altre meno. Come accostare un San Francesco a un Henry Ford o a un Elon Musk? Ma teniamo conto che i seguaci di San Francesco, quelli che si ispiravano alla sua predicazione di povertà e di amore per la natura, si sono gradualmente trasformati in frati missionari e sono andati in giro per il mondo a portare il pensiero occidentale (la cosiddetta “civiltà”) a milioni di poveri indigeni inconsapevoli, sino a trasformarli in altrettante cellule maligne che ora concorrono a devastare il pianeta in modo assai più violento di quanto non facevano i loro progenitori prima dell’incontro con i missionari.

Caro Igor, il tuo il rigetto per le tesi de Il cancro del pianeta è dettato dal non voler accettare conclusioni tanto dure e sconfortanti! La teoria è davvero spaventosa. Ma, una volta condivisa, non ci si deve lasciar prendere dallo sconforto. Si deve utilizzarla come un grimaldello per scardinare il convincimento che la nostra superiorità intellettuale ci dia diritto a esercitare un brutale predominio su tutti gli altri esseri viventi ed anche sulla stessa struttura fisica del pianeta sul quale ci siamo trovati a nascere.

sabato 14 settembre 2019

Il Potere della Biosfera: Anastassia Makarieva parla della "pompa biotica" a Firenze




https://www.bioticregulation.ru/

Tutto comincia con l'idea di un secolo e mezzo fa, quella dell'"evoluzione per selezione naturale" di Charles Darwin. Era un' "idea pericolosa" secondo Daniel Dennett, ma non c'era niente di pericoloso nel darwinismo, a meno di non capirlo male. E lo sappiamo come è stato capito male dai vari suprematisti, razzisti, bianco-superioristi, eccetera. Ma l'idea di Darwin era semplice e ovvia: la biosfera non è statica, ma si adatta ai cambiamenti dell'ecosistema. Tutto qui. Non c'è nessuna specie nella biosfera che sia superiore ad altre specie, non c'è nessun movimento collettivo verso un qualche tipo di "progresso" -- niente del genere. Tutto cambia per mantenere la biosfera viva.

Fra le altre cose, quello di Darwin è stato il primo tentativo di capire il funzionamento dei sistemi complessi -- fra i quali uno dei più complessi è l'ecosistema. Curiosamente, il cervello umano, esso stesso un sistema complesso, si trova spesso in difficoltà a capire i sistemi complessi, ci deve essere qualche ragione profonda ma non entriamo in questo argomento.

Piuttosto, i concetti proposti da Darwin si sono anche loro evoluti -- ovvero adattati -- alle conoscenze che via via si sono accumulate su come funziona l'ecosfera. E stiamo cominciando a capire che l'idea di Darwin - la biosfera si adatta ai cambiamenti -- è troppo semplice. Non è così che funzionano i sistemi complessi. Funzionano attraverso quei meccanismi che chiamiamo feedback, dove ogni elemento del sistema ne influenza altri.

Qui, il passo in avanti è arrivato da James Lovelock e Lynn Margulis con il loro concetto di Gaia. un nome che descrive il fatto che la biosfera si adatta ai cambiamenti dell'ecosistema e allo stesso tempo genera cambiamenti nell'ecosistema. L'adattamento è reciproco e biunivoco. Feedback, in sostanza.

Il concetto di Gaia è sotto certi aspetti ancora più pericoloso di quello dell'evoluzione Darwiniana, al solito se lo capisci al contrario. Lo si può usare come una facile scusa per dire che qualsiasi cosa di orribile facciamo all'ecosistema, tanto ci pensa mamma Gaia a rimettere tutto a posto. Eh, si, magari...  Ma, più che altro, sembra che l'idea sia totalmente aliena al dibattito corrente dove gli opinion leader sono del tutto incapaci di capire il concetto di autoregolazione dell'ecosistema (ovvero, Gaia). Il dibattito viene spezzettato in idee incoerenti e parzialmente (o totalmente) incompatibili l'una con l'altra. Un buon esempio è quello che si sta facendo in Toscana dichiarando l'emergenza climatica e allo stesso tempo promuovendo la costruzione di un nuovo aeroporto internazionale a Firenze. Proprio, non ce la facciamo. (Non gne a famo, usando un altro dialetto).

Ma se riuscite a capirle, queste idee sono potentissime. Se mai riusciremo a renderle parte della cultura corrente ci offrono la possibilità di manovrare l'azione umana all'interno della biosfera e dell'ecosfera, come minimo limitando i danni, se possibile in armonia reciproca. Al momento sembra totalmente impossibile, ma tutto cambia e chi non si adatta sparisce -- come ci ha insegnato Darwin per primo.

Veniamo ora al lavoro di Gorshkov, Makarieva, e altri, che nel corso di alcuni decenni hanno sviluppato il concetto che chiamano "regolazione biotica" -- è un concetto molto simile a quello proposto a suo tempo da Lovelock e Margulis, anche se Makarieva e Gorshkov ci tengono a far notare che non è la stessa cosa: certe volte (ma erroneamente) Gaia viene capita come un "superorganismo," una forma di vita biologica. Non lo è ma non entriamo in questo argomento.

Il concetto di biotic regulation è una profonda sintesi di come funziona la biosfera che enfatizza il potere di regolazione sull'ecosistema, tale da mantenere le condizioni planetari nei limiti che consentono alla vita biologica di sopravvivere. Da questo concetto arriva l'idea che lo squilibrio ecosistemico che chiamiamo "cambiamento climatico" è causato soltanto in parte dalle emissioni di CO2. Un altro fattore importante (forse anche più importante) è la deforestazione in corso.  

Questa è, ovviamente, una posizione controversa -- per non dire eretica. Giusto la settimana scorsa leggevo un commento di un climatologo italiano che diceva esplicitamente "La crisi climatica NON è causata dalla mancanza di alberi." Questa sembrerebbe essere tuttora l'opinione prevalente fra i climatologi in occidente, nonostante esistano studi (vedi per esempio questo articolo su Science del 2016) che dimostrano esattamente il contrario. Le foreste raffreddano la Terra non solo sequestrando carbonio in forma di biomassa, ma per un effetto biodinamico correlato all'evapotraspirazione. Ovvero, l'acqua evapora a bassa quota provocando raffreddamento. Restituisce il calore quando condensa in forma di nuvole, ma le emissioni in quota si disperdono più facilmente verso lo spazio perché il gas serra principale, l'acqua, esiste in concentrazioni molto ridotte.

Qui, si innesta il concetto sviluppato da Gorshkov e Makarieva nel 2012, quello della pompa biotica, ovvero che le foreste agiscono come "sistemi di pompaggio planetari" che portano l'acqua dall'atmosfera sopra gli oceani fino a migliaia di chilometri all'interno dei continenti. Il meccanismo proposto da Gorshkov e Makarieva è controverso, ma evidentemente ci deve essere per forza qualche cosa che porta l'acqua all'interno dei continenti.

Ora, tutto dipende da fattori quantitativi ancora poco noti. Ma se è vero che il clima è legato in modo importante alle foreste, e di conseguenza alla pompa biotica, deforestando, come sta succedendo in Amazzonia, stiamo distruggendo uno dei meccanismi fondamentali di autoregolazione dell'ecosistema terrestre. In altre parole, non è sufficiente tagliare le emissioni di CO2 da combustibili fossili, ma occorre anche ricostituire le foreste in una forma integra: altri tipi di piantagione non hanno lo stesso effetto.

Questo argomento preoccupa alcuni ricercatori russi che hanno prodotto un documento (completamente ignorato in Occidente) in cui raccomandano la cura e il mantenimento degli ecosistemi naturali, in particolare le foreste, come il modo principale per combattere la degradazione climatica e generalizzata dell'ecosistema terrestre dove prendono una posizione simile a quella del recente articolo di Franzen in the New Yorker, "what if we stopped pretending?" ovvero che non riusciremo a fermare l'uso dei combustibili fossili in tempo utile. I ricercatori russi sostengono invece che:

Nell'attuale situazione, è necessario un approccio complesso ai problemi climatici - quello non limitato ai tentativi di contenere le emissioni antropogeniche di anidride carbonica come una transizione verso fonti di energia rinnovabile, la rimozione dell'anidride carbonica già accumulata dall'atmosfera con mezzi tecnologici ecc. L'approccio complesso deve includere il ripristino e la protezione dei sistemi naturali come misura principale, poiché il loro degrado può portare a un collasso climatico indipendentemente dal fatto che la combustione di combustibili fossili continui o meno. Qualsiasi soluzione strategica considerevole richiederà enormi risorse all'umanità. Pertanto, tali soluzioni dovrebbero essere reciprocamente coerenti, altrimenti la situazione climatica si aggraverà (ad esempio, aumentare la produzione di biocarburanti può portare a un'intensificazione della deforestazione).

Qui c'è un problema ovvio. In questo momento, qualsiasi cosa arrivi dalla Russia viene considerata come propaganda, se non direttamente roba contaminata dal Novichok. Quindi, la prima reazione, a pelle, è di tipo ideologico: siccome ci hanno raccontato che la Russia è poco più di una stazione di servizio mascherata da stato, ne consegue che questo documento è solo un trucco per mantenere i profitti degli oligarchi petroliferi russi e del loro grande capo, l'arcicattivo Vladimir Putin.

Siamo sicuri però che non abbiano invece ragione loro? Ovvero che non è solo un problema di CO2 ma anche di altri fattori? Non è che abbiamo bisogno di un cambiamento radicale di strategia invece di insistere con le "soluzioni" proposte fino ad ora, tipo la carbon tax? Di questo, ne parliamo con Anastassia Makarieva a Firenze il 17 Settembre. E vediamo se riusciamo a capirci: ne va della sopravvivenza di un intero ecosistema planetario.





sabato 7 settembre 2019

Emergenza climatica, e poi?


di Jacopo Simonetta

Sull’onda delle proteste di piazza, un numero crescente di governi e di amministrazioni sta formalmente dichiarando la stato di “Emergenza Climatica”.  Bene, ma poi?

“Stato di Emergenza” significa che la collettività deve affrontare un pericolo troppo grande e immediato per potersi permettere di continuare a funzionare secondo le proprie consuetudini.  I normali processi decisionali ed i diritti individuali sono quindi ridotti o sospesi per permettere ad un autorità investita di poteri straordinari di prendere decisioni anche estreme senza doverle passare al vaglio degli organi istituzionali e dell’apprezzamento popolare.  Un po’ come quando nella Roma repubblicana si nominava un “dictator” che per un massimo di 6 mesi decideva il da farsi senza dover rendere conto a nessuno; nemmeno ai consoli ed ai senatori che lo avevano nominato.

Nel nostro caso, vorrebbe quindi significare che governi ed amministrazioni nominano dei commissari che dall’oggi al domani impongono provvedimenti atti a limitare il peggioramento del clima ed a ridurre le emissioni di CO2 e dintorni.  Ma non sta accadendo, anzi.   Molte delle amministrazioni che hanno formalizzato la dichiarazione di “Emergenza Climatica” stanno poi lavorando attivamente non per mitigare, ma per peggiorare il più rapidamente possibile la situazione.  Per esempio, l’ amministrazione regionale toscana sta alacremente smantellando le aree protette, sviluppando l’industria del cippato e delle cave, vuole ampliare l’aeroporto di Firenze e molto altro ancora.   In effetti, è nocivo al clima ogni sindaco che abbatta alberature invece di piantarne, che permetta di estendere la superficie urbanizzata invece di ridurla e via di seguito.

Dunque, se vogliamo evitare che l’intera faccenda si risolva in un nuovo giro di “greenwashing” analogo a quelli che, nei decenni scorsi, hanno svuotato di significato tutti gli slogan e le proposte degli ambientalisti, bisogna essere pronti a fare richieste precise agli amministratori ed a sbugiardarli pubblicamente se non le ottemperano.   Ma quali richieste si possono fare che siano ad un tempo utili e realistiche?

Ogni comune ed ogni regione ha le proprie peculiarità e priorità, ma in linea del tutto generale, suggerisco di puntare soprattutto alla salvaguardia di ciò che resta della Biosfera.   Non è una questione di “benaltrismo”, tutto è collegato ed importante, ma ci sono almeno 3 ragioni per cui il focus sulla biosfera è secondo me utile:

1 - La trama e l’ordito della Vita sono i cosiddetti “cicli bio-geo-chimici”, cioè i flussi dei vari elementi attraverso aria, acque, suoli, rocce ed organismi viventi, con questi ultimi che, in buona sostanza, svolgono il ruolo principale nel controllo di questi flussi.  Il Global Warming, per esempio, deriva sostanzialmente da un’alterazione nei cicli del carbonio e dell’acqua.   Proteggere/restaurare la Biosfera avrebbe quindi effetti indiretti e parziali, ma sicuri sul clima.  Di più:  tutte le forme di inquinamento sono, parimenti, modifiche della circolazione di elementi e molecole e,  sula Terra, esiste un unico processo in grado di ridurre la crescente entropia del pianeta: si chiama “fotosintesi”.  La Biosfera è insomma ciò che garantisce che sul pianeta vi siano condizioni compatibili con la vita.  E la biosfera è esattamente quella cosa che stiamo sistematicamente distruggendo in molti e immaginifici modi.

2 – Interventi di salvaguardia della Biosfera sono possibili a qualunque scala, dal balcone di casa propria agli accordi internazionali ed ad ogni livello è possibile registrare un miglioramento, magari minimo, ma apprezzabile.  Già smettere di fare danni (tipo demolire alberature, costruire a vanvera, tagliare boschi e manutenzionare fossi con criteri vecchi di 100 anni) sarebbe un miglioramento. Ogni singola amministrazione e governo, per quanto piccolo, può quindi fare la sua parte senza aspettare che Trump, Xi Jinping o altri “pezzi da 90” facciano la loro.  Certo parliamo di gocce nel mare, ma lo studio del passato ci insegna che molte specie, fra cui forse anche la nostra, sono sopravvissute ad immani catastrofi grazie a piccole popolazioni fortunosamente scampate in qualche posto.

3 – Sul piano politico, interventi di tutela o ripristino della biosfera possono essere relativamente
facili da far accettare alla popolazione e possono dare risultati parziali, ma visibili, anche in tempi brevi.   Per esempio la realizzazione di un’area protetta o di uno stagno sono poco costosi, sicuramente efficaci e immediatamente visibili.   Altri provvedimenti, come ad esempio un drastico cambio di rotta nelle pratiche agricole e nelle sistemazioni fondiarie,sarebbero più impegnativi, ma sempre meno di quelli che potrebbero riuscire a flettere la curva delle emissioni antropogeniche di CO2, metano, eccetera.

Dunque dovremmo abbandonare l’idea di ridurre le emissioni di CO2 e dintorni?  No, ma bisogna essere realistici su ciò che si può effettivamente ottenere dalle amministrazioni e dai governi.

Per essere minimamente efficaci, dei provvedimenti di riduzione delle emissioni dovrebbero comprendere, tanto per cominciare, il razionamento di carne, acqua, combustibili e molti altri generi di prima necessità, la sospensione di quasi tutti i cantieri pubblici in atto o previsti, la drastica riduzione dell’illuminazione pubblica e dei trasporti, eccetera.   Tutti provvedimenti che susciterebbero violente proteste che dovrebbero essere represse senza troppe discussioni perché, per l’appunto, siamo in emergenza e la sopravvivenza stessa dello stato, oltre che di molti cittadini, è in forse. (Già sento echeggiare “ecofascista” in lontananza, ne riparleremo).

Ovvio che non accadrà, al massimo vedremo qualche operazione di facciata e qualche  nuova tassa tesa non già a ridurre le emissioni, bensì  a tappare temporaneamente qualche buco negli stracciati bilanci pubblici.  Vedo almeno 4 ragioni per aspettarmi questo:

1 – I movimenti che chiedono provvedimenti drastici e rapidi in materia di clima sono una nicchia molto minoritaria, assurta agli onori della stampa solo in Occidente; nel resto del mondo sono assenti o politicamente insignificanti.  La netta maggioranza della popolazione mondiale rivuole la pacchia che aveva o vuole la pacchia che non ha mai avuto.

2-  Mentre azioni dirette sulla biosfera possono essere efficaci anche a livello locale, azioni dirette sulle emissioni climalteranti possono dare risultati solo se hanno effetti globali e, grosso modo, il 40% delle emissioni antropogeniche sono prodotte da due paesi: Cina e USA.  Circa un altro terzo collettivamente da UE (considerata nel suo insieme), Russia, India e Giappone.   Il rimanente dagli altri cento e passa paesi del mondo.  Questo significa che solo se USA e Cina si impegnassero a fondo sarebbe efficace anche un impegno da parte nostra, assieme a russi, indiani e giapponesi.  Tutti gli altri paesi potrebbero invece fare quel che gli pare o quasi (da questo specifico punto di vista). Dunque, sapremo che qualcosa si muove sul serio il giorno in cui smetteremo di perdere tempo con le “COP 21”, “22”, ecc, per fare degli accordi operativi fra 10 governi.

3 – Nessun paese ridurrà volontariamente le proprie emissioni perché ciò implicherebbe ridurre la propria dissipazione di energia, cioè rallentare il progresso tecnologico, indebolire l’industria, perdere posizioni nella scala geopolitica.   E’ una faccenda molto complicata che ci porterebbe ampiamente fuori tema, ma è un fatto che l’accumulo di ricchezza, potere ed informazione richiede di dissipare quantità crescenti di energia.

4 - Azioni di riduzione delle emissioni abbastanza incisive e rapide da avere un possibile effetto climatico provocherebbero una drastica riduzione degli standard di vita occidentali e non solo, oltre ad una crisi economica globale dagli incerti sviluppi a fronte di un risultato che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe un peggioramento meno sensibile di quello che altrimenti avremmo di qui a 30 anni.  Non ci sarebbe nessun successo visibile per un comune cittadino sia per effetto dell’inerzia del sistema Terra, sia per le retroazioni positive che oramai abbiamo scatenato (esalazioni dallo scioglimento del permafrost, incremento delle siccità e degli incendi, riduzione dell’albedo sui poli, ecc.).

In pratica, solo la crisi economica del 2008 ha portato ad una lieve e temporanea flessione delle emissioni e solo una eventuale e molto più severa crisi ventura le potrebbe ridurre in misura maggiore.  Aspettando con timore e trepidazione che ciò accada, occupiamoci quindi di salvare il salvabile della Biosfera perché il futuro del Pianeta, con o senza di noi dipende da cosa sopravvivrà all’estinzione di massa in corso.