venerdì 3 maggio 2019

The song peak


I miei ragazzi
 Ai miei ragazzi di terza media cerco di far capire cosa ci aspetta in termini di transizioni e utilizzi dei materiali, soprattutto in campo energetico. Uno dei concetti che essi imparano, in quest’ambito, è proprio quello del picco, declinato prima sul petrolio e, mano a mano, su altri importanti materie prime (uranio, metalli preziosi e via dicendo).
Mi sono interrogato se questa visione possa essere applicata in altri campi e, da bravo ingegnere dei sistemi, mi sono risposto che andamenti analoghi possono essere trovati in ogni campo in cui ci sia una ricerca condizionata da una dimensione fissa del serbatoio da cui si pesca (almeno nel termine della corrente vita della specie umana).
Fenomeni di questo tipo, purtroppo, non possono che condizionare anche aspettative e speranze delle generazioni: se negli anni ’50 c’era il sogno americano in tutto il suo splendore, adesso abbiamo spesso l’incubo distopico dell’apocalisse declinata in tutte le sue forme (invasioni, guerre globali, virus e simili amenità).
Pare che l’abbondanza relativa di risorse (estraibili e utilizzabili senza sforzi) sia in grado di influenzare i temi che il cinema ci propone, probabilmente anticipando tendenze già visibili.

E la musica?

Cosa c’è di più sottile e insieme corposo che definisce lo stato d’animo di un’epoca? Cosa meglio descrive il sentimento di un’epoca?
Prendiamo in considerazione la cosiddetta musica leggera dalla fine degli anni 40 del XX secolo ad oggi:


Essa si può sommariamente dividere in Rock e Pop e, in entrambi i casi, parte da vincoli non superabili che descrivono il “giacimento” di melodie e ritmica da cui è possibile attingere per creare una canzone. Ancora una volta il giacimento è una super-semplificazione di un fenomeno che porta, tra le migliaia di canzoni prodotte, quelle che fanno veramente successo e che verranno ricordate nel tempo.
La tesi è quindi che le migliori canzoni, quelle da ricordare, abbiano un andamento nel tempo simile a quello che descrive il comportamento di una risorsa mineraria finita: una crescita, un picco, un declino più o meno pronunciato. I migliori motivi saranno scoperti con andamento crescente (maggior impiego di risorse in termini di persone che si mettono a creare attratte dai guadagni, 1945-1965) fino alla saturazione e al declino (1965-oggi) a causa dei maggiori mezzi impiegati su un “serbatoio” di motivi migliori via via in esaurimento (pur in presenza di un numero maggiore di persone impiegate nella creazione con più mezzi).
Ho quindi pensato di analizzare con un po’ di numeri questa tesi, a partire dalla Top 500 Songs del Rolling Stone Magazine, che dovrebbe essere una lista delle migliori canzoni. Dal punto di vista metodologico ho considerato tre indici (lungo i lustri e i decenni), col seguente significato:

1.    Canzoni: numero secco di canzoni presenti in lista nel periodo. È un indice quantitativo della produzione nel periodo, in qualche modo proporzionale alla vastità del serbatoio e delle tecnologie di cattura (numero di persone, mezzi a disposizione)

2.    Valore: somma del valore delle canzoni nel periodo. Il valore è inteso come il complemento a 500 della posizione della canzone nella lista. La prima canzone ha valore 500, l’ultima ha valore 0. Si può considerare come una sorta di momentum della produzione nel periodo considerato.
3.    Valore specifico: Divisione del valore per le canzoni nel periodo. Si può intendere come una misura della qualità della produzione

Analisi su 5 anni

Con il periodo considerato a 5 anni si notano le seguenti cose:
1.    Esiste indubitabilmente un picco della produzione delle canzoni, centrato intorno al 1965
2.    La produzione scende molto ripidamente negli anni 70 e si azzera praticamente dagli anni 80 in poi.
3.    La tendenza è esaltata se consideriamo l’indice relativo al valore complessivo che pesa anche la qualità della canzone
4.    Esiste una costante diminuzione della qualità delle canzoni (valore specifico): sembra essere un trend costante e praticamente indiscutibile

Analisi su 10 anni

Vedere le cose sui decenni esalta le tendenze rendendole immediatamente visibili. Esiste un picco della produzione intorno agli anni 60, i decennio d’oro di questo tipo di musica. Esiste un preoccupante, costante decadimento della qualità musicale negli anni.

Riflessione finale
Una considerazione: da decenni i giovani interpretano il senso della propria vita e della propria generazione grazie alla musica che ascoltano. Se quest’ultima si ripiega, per forzata mancanza di originalità, nei rifacimenti delle cover o in generi derivati… non si può condannare una generazione per mancanza di ideali. I giovani respirano quelle vibrazioni che furono felici negli anni 50, mature negli anni 70, collassate dagli anni 80 in poi.

PS l'immagine sulla composizione delle tendenze è presa da wikipedia, le altre immagini sono di originale composizione dell'autore


Pierluigi Germano



sabato 27 aprile 2019

Greta e dintorni

di Jacopo Simonetta

Greta aveva 15 anni quando cominciò il suo sciopero solitario; ne ha 16 adesso che è un personaggio famoso e conta molte migliaia di seguaci, soprattutto in Europa, USA e Canada (come al solito).

Qui vorrei accennare a due aspetti specifici di questa vicenda: l’attacco massiccio contro la ragazza e quanto c’è di vero in quel che dice.

L’attacco a Greta.

Non mi interessano le posizioni, scontate e spesso triviali, di soggetti come Feltri ed altri, sostenitori da sempre di un anti-ambientalismo fanatico.   Mi intriga di più l’attacco, ben più studiato e subdolo, portato anche da ambientalisti dichiarati, ivi compresi alcuni che, magari, hanno lavorato per anni proprio su questi temi.

Certo, è legittimo chiedersi chi aiuta Greta e perché, ma chi davvero è interessato a questo fa attenzione a informarsi senza collaborare alla “macchina del fango”.   Sulle motivazioni di chi, invece, usa la calunnia e l’illazione come armi contro la ragazza ed il suo nascente movimento si possono fare parecchie ipotesi.  In attesa di delucidazioni dai diretti interessati, ne avanzo due: gelosia e vecchiaia.

Gelosia, perché persone che per anni, magari per decenni, hanno tentato di portare alla ribalta il tema del GW e delle sue conseguenze (o altri temi correlati), potrebbero vedere di malocchio l’essere “sorpassati a destra” da una ragazzina apparentemente qualunque (ma che evidentemente “qualunque” non è).  E’ comprensibile, ma non fa onore a nessuno.

Poi ci sono coloro che, in quanto adulti o anziani, si sentono offesi dalle dichiarazioni decisamente esplicite della ragazza svedese.   “Voi adulti dite di amare i vostri figli, ma state distruggendo il loro futuro” è, in sintesi, uno dei principali messaggi di Greta e, penso, quello che ha fatto maggiormente breccia nel cuore e nella mente di tanti suoi coetanei o quasi.   Beh, ha ragione. 

A livello individuale ognuno ha le sue colpe ed i suoi meriti, ma a livello generazionale è esattamente quello che è accaduto e siamo noi “babyboomers” i principali responsabili perché è gente della nostra generazione che ha ricoperto quasi tutti i ruoli di rilievo negli ultimi 30 anni; cioè nel periodo in cui l’emergenza climatica è diventata una certezza ed è stato deciso di ignorarla.

Personalmente, alla metà anni ’60 facevo collette scuola per il neonato WWF-Italia e da allora non ho mai smesso di occuparmi di ambiente sia come professionista che come attivista, ma proprio per questo dico che se i ragazzi di oggi sono incazzati con la nostra classe di età, hanno semplicemente ragione.

Cosa c’è di vero in quel che dice?

Molto e poco allo stesso tempo.   Lei e quelli che la aiutano conoscono bene i dati ufficiali e le dichiarazioni finali di rapporti o congressi, e ne fanno un estratto utile al tipo di comunicazione che usa Greta.  Dunque, qualcosa di approssimativo,ma sostanzialmente corretto, come è giusto che sia in questo contesto.  Semmai sono proprio i rapporti ufficiali che lasciano i punti essenziali fra le righe, e di questo Greta & co non si possono accorgere.

Mi spiego e, per cominciare: di chi è la colpa del Global Warming?   Se si fa un calcolo dello storico: Europa, Stati Uniti e Russia, in ordine decrescente.   Se si guarda la situazione attuale: soprattutto Cina, USA con distacco; Russia, Europa, Giappone, India molto dietro.   Se invece si guarda il dato tendenziale, Cina e India sono in crescita esponenziale, mentre USA, UE, Russia e Giappone sono in  flessione.

Questo significa che, se volessimo fare sul serio sulle emissioni, faremmo una convenzione a 6, lasciando perdere tutti gli altri che si dovrebbero occupare piuttosto di fermare la loro crescita demografica, la deforestazione, l’erosione ecc., mentre potrebbero aprire qualche centrale elettrica in più senza che muoia nessuno. Però non lo facciamo e si capisce bene anche perché.

Prendiamo ad esempio l’Europa che è il paese che ha maggiormente ridotto le sue emissioni:


Come si vede, negli anni ’90 e 2000 abbiamo ridotto principalmente spostando all'estero buona parte della nostra industria pesante e sostituendo alcune centrali a carbone con altre a metano. Poi siamo rimasti stazionari fino al 2008, quando abbiamo ripreso a ridurre, principalmente in conseguenza della crisi economica e dell’impoverimento delle classi medie e basse.  USA e Giappone presentano dinamiche simili e la Russia ha ridotto drasticamente le sue emissioni quando collassò l’Impero Sovietico. Il "disaccoppiamento" rimane in gran parte una leggenda basata più su trucchi contabili che sui fatti.

Vediamo ora consumi e fonti di energia primaria, ai tempi di Arrhenius ed ai tempi di Greta: la differenza sta nell'enorme crescita del carbone e nell'aggiunta di petrolio e gas. A tutt'oggi, solare ed eolico rappresentano una percentuale assolutamente trascurabile dei consumi energetici globali; molto, ma molto inferiore al legname che utilizziamo da prima ancora di essere veramente umani.

Ciò significa che incrementare le fonti davvero rinnovabili è certamente utile, ma l’unico modo per renderle una percentuale importante dei consumi globali sarebbe dimezzare (almeno) i consumi di carbone, petrolio e metano; che è esattamente quello che ci dicono bisognerebbe fare entro 10 o 20 anni per sperare di stabilizzare il clima entro il +2 C°.  Ma nessuno dice che l’unico modo per farlo è distruggere l’economia globale: un intervento da alcuni miliardi di morti perché tutte le filiere vitali di tutti i paesi del mondo sono fatte di capitalismo globalizzato.

E’ infatti molto vero che il capitalismo globale è esattamente ciò che sta distruggendo il Pianeta e che azzerare molto rapidamente  le emissioni probabilmente stabilizzerebbe (o quasi) il clima, ma significherebbe anche scatenare una situazione di tipo Venezuelano in tutti i paesi del mondo contemporaneamente.   Anche se lasciare che le cose procedano sul binario attuale apre scenari ancora peggiori, quale politico potrebbe proporre di farlo?   Chi potrebbe dire "saltiamo ora dal terzo piano, perché domani dovremo saltare dal quarto"?  E quanti sarebbero disposti a farlo?   Non coloro che ancora sognano una qualche variante di utopia eco-tecnologica, neo-primitivista o che, semplicemente, aspettano che "la scienza trovi la soluzione", trascurando il fatto che la scienza ha già da tempo trovato che la soluzione sarebbe stata fermare la crescita economica e demografica cinquanta anni or sono.

Come disse Curtis Moore (un membro del  “Committee on Environment and Public Works”) nell'ormai lontano 1986: il clima non è un problema politico perché non ha soluzioni politiche praticabili.

Alla fine, se qualcuno è da biasimare per la cattiva informazione, sono dunque gli scienziati, i governi e le grandi associazioni ben più di una cocciuta ragazza di 16 anni od i suoi genitori (che sono artisti e non climatologi).

Allora serve Greta?

Secondo me si; lei e gli altri movimenti nascenti come Extinction Rebellion.   Non potranno salvare la nostra civiltà, ma credo che fra i loro ranghi si formeranno i leader che dovranno guidare la gente attraverso “the mess” che gli lasciamo.  E credo che saranno più bravi di noi, perché nel mondo che viene gli incapaci non dureranno molto.

giovedì 25 aprile 2019

Il Passo Falso di Burioni: Ma chi è Questa Ragazzina con le Treccine che Straparla di Clima?





Un tweet decisamente poco azzeccato di Roberto Burioni. Se è vero che non c'è niente di male nell'avere spiegazioni da un climatologo esperto, è anche vero che queste spiegazioni esistono in grande abbondanza e Burioni ha certamente gli strumenti intellettuali per informarsi e per capire come funziona il cambiamento climatico. E in altri tweet sullo stesso argomento ha dato l'impressione di essere scettico sulla faccenda.

Se permettete un commento da un "addetto ai lavori," quello di Burioni è un atteggiamento tipico dei professori universitari. E' una deformazione professionale. Il prof. Universitario è un iper-specialista nel suo campo, diciamo che si occupa dei granchi della Papuasia e su quello sa tutto e tutti i dettagli e non c'è nessuno che ne sappia altrettanto di lui (o anche lei, le prof. sono soggette alla stessa sindrome).

Ora, data questa situazione, può succedere, e succede, che a) il prof. si convinca che tutti quelli che non si intendono di granchi della Papuasia sono degli incompetenti, b) Il prof. ritenga che la sua competenza sui granchi della Papuasia lo renda automaticamente in grado di pontificare su argomenti vagamente connessi al suo campo, tipo i furetti siberiani o i pipistrelli del Madagascar e c)  (la cosa peggiore) che si ritenga in grado di pontificare anche su argomenti completamente non correlati al suo, come il cambiamento climatico.

Succede. Conosco personalmente professori di un certo valore nel loro specifico campo che si sono totalmente sp******ati, rovinandosi la reputazione di una vita, lanciandosi a criticare la scienza del clima senza averla studiata seriamente.

Burioni non arriva certamente a questo, ma con il suo commento da' prova di una certa supponenza, tipica (di nuovo) del prof. Universitario. Diciamo che tutti abbiamo dei difetti, diamo atto a Burioni dei suoi pregi e speriamo che capisca che qui ha fatto un discreto passo falso. Dagli errori si dovrebbe imparare, in teoria, a parte che una dote che i prof. Universitari dimenticano presto.



E comunque, troppo twittare fa male!!



(h/t Marco Ferrari)

martedì 23 aprile 2019

Distruggere il debito - Agonia del capitalismo 6 -

Articolo di Jacopo Simonetta

Sesto articolo di una serie di dieci. I precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo, quarto, quinto.   

 

Il debito.

Veniamo adesso ad un argomento cruciale per la sopravvivenza del capitalismo: il debito.  E’ cruciale perché oggi l’intero sistema si basa su di una crescita costante ed equilibrata di debito e PIL.

La parola magica qui è “equilibrata”, perché l’intera massa monetaria è formata da debito pubblico e privato che dovrà quindi essere restituito con l’interesse affinché si possano fare nuovi debiti e cosi' via, teoricamente all'infinito.

L’idea sottostante è che finché l’economia complessiva (reale e finanziaria) cresce in proporzione al debito, questo sarà ripagato ed il gioco potrà continuare per sempre.   E se per fare questo bisogna distruggere risorse ed ambiente, rendere tossiche l’aria e l’acqua, rendere ostile il clima, spazzare via civiltà e culture, sovvertire strutture sociali pazienza; tanto l’ingegno umano  troverà sempre il modo di rimediare.  Anzi, dal momento che la soluzione dei problemi creati dalla crescita richiede spesso grossi investimenti, i problemi stessi diventano motori di ulteriore crescita.  Evviva!

Un giochino che chiaramente funziona solo se non si tiene conto che gli uomini sono oggetti materiali, cosi’ come tutto ciò che usano, consumano e scartano;  Un “dettaglio” che li rende soggetti alle leggi della fisica, della chimica e dell’ecologia, assai più che alla magia dei modelli teorici.  

Comunque, è un fatto che non solo nelle economie sommergenti, ma anche in quelle emergenti il debito sta crescendo troppo rapidamente rispetto all'economia (o l’economia cresce troppo lentamente rispetto al debito, come si vuole).

Per essere più precisi: in tutto il mondo si vede chiaramente che il rapporto debito-PIL è entrato in una fase di ritorni decrescenti (v. immagine di apertura).  Significa che per ottenere un medesimo livello di crescita, è necessario un sempre maggiore incremento del debito.
Incuranti dei limiti fisici alla crescita, per parecchi anni l’aumento del debito è stato favorito da banche e governi, sperando che ciò rilanciasse la crescita, ma anche quando ha funzionato non è stato abbastanza ed ora tutte le economie nazionali del mondo si trovano alle prese con un debito sostanzialmente fuori controllo.  Che fare?

Distruggere il debito.

Non è certo la prima volta che degli stati si trovano sommersi da un debito impagabile e ci sono parecchi modi per uscire dalla stallo.  Vediamoli brevemente.

L’austerità consiste nel contenere al massimo le spese e, contemporaneamente, cercare di aumentare le entrate con ogni mezzo.  Cosa che, nel caso dei governi, significa tagliare i servizi ed aumentare le tasse.   In alcuni casi ha funzionato.   Per esempio, l’Inghilterra del XIX secolo riuscì in questo modo a ripagare l’enorme (per allora) debito contratto durante le guerre napoleoniche.   Ma la cosa richiese circa un secolo e fu possibile grazie al fatto che, in quello stesso periodo, l’Inghilterra era la maggiore potenza coloniale del mondo e la sua economia cresceva comunque, malgrado un livello di povertà estremo per la maggior parte della sua popolazione.  Per farsi un’idea, niente di meglio che leggere i romanzi di Dickens.

In un contesto di stagnazione o, peggio, di recessione, l’austerità non fa che accrescere le difficoltà delle persone, senza risolvere la situazione debitoria.  In altre parole, l’austerità è un eccellente strumento preventivo se usato per rallentare la crescita (oltre che per ridurre il debito) nei periodi economicamente favorevoli, in modo da alleviare la situazione nei seguenti, immancabili, periodi sfavorevoli.  Se, invece, la si usa crisi economica durante, può aggravare anche di molto la situazione (Grecia e Italia docunt).

La ricusazione significa che il debitore dichiara che non pagherà determinate somme, appellandosi ad una qualche motivazione legale, oppure mediante un accordo con i creditori o ancora con un'azione di forza.   Ad esempio è stato parzialmente fatto per la Grecia (il cosiddetto “haircut”).  Inutile dire che ciò è possibile solo in casi molto particolari e parziali.  Nel caso degli stati, quando la cosa è trascurabile dal punto di vista dei creditori; oppure se questi hanno una contropartita politica di altro genere.  Comunque, bisogna che chi ricusa il debito sia in una posizione di forza nei confronti del creditore o, perlomeno, è necessario sia in grado di concordare con i creditori una strategia di interesse comune poiché, se la ricusazione favorisce chi riduce il proprio debito, danneggia chi vede invece svanire il proprio credito.

La bancarotta significa che il debitore non paga perché non può.  Nel caso di privati, i creditori si rivalgono sui beni del debitore, finché ce ne sono.   Nel caso degli stati, significa che i servizi pubblici, gli stipendi, le pensioni e molto altro svaniscono nel nulla, per poi eventualmente riapparire sotto differenti spoglie, ma comunque drasticamente ridimensionati.  Per i cittadini dello stato in questione si tratta comunque di stringere molto la cintura, ma non solo.  Il rischio sistemico è che la bancarotta di un soggetto importante può provocare effetti a catena imprevedibili.   Il caso di Lehman Brothers è solo il più recente e conosciuto.  La bancarotta di uno stato economicamente importante potrebbe scaraventare nel caos la finanza mondiale.

La crescita è considerata la panacea di tutti i mali.  Se, infatti, l’economia cresce più rapidamente del debito, questo sarà ripagato senza problemi e con grande soddisfazione di tutti.   Solo che se ci sono dei problemi, tipo la progressiva riduzione della produttività dell’energia o l’incremento delle esternalità negative (inquinamento, sanità, bonifiche, ecc.), la crescita economica reale sarà limitata o addirittura negativa (anche a fronte di un PIL positivo).   Cioè la crescita, anche quando ci fosse davvero, non può pagare un debito in territorio di “ritorni decrescenti” (v. sopra).  In altre parole, il keynesismo ha funzionato nel contesto in cui lavorava Keynes.  Nel contesto attuale, almeno in moti casi, no.   Anzi si traduce in un ulteriore accelerazione del debito.

La privatizzazione consiste nella vendita a privati del patrimonio pubblico.   Una cosa che ha senso solo in misura molto limitata.  Abbiamo infatti visto che il patrimonio netto degli stati (perlomeno di quelli occidentali su cui si hanno dati affidabili) è circa zero in quanto il valore del debito pubblico equivale grosso modo al valore del patrimonio pubblico.  Ciò significa che, teoricamente, gli stati potrebbero azzerare il debito vendendo strade, caserme, palazzi ed uffici governativi, navi da guerra, scuole, gendarmerie, ecc.   Ma a parte il fatto che per alcuni di questi “asset” non sarebbe facile trovare compratori, una simile operazione comporterebbe che invece di pagare un interesse sul debito, gli stati dovrebbero pagare degli affitti per continuare ad usare le infrastrutture e le attrezzature essenziali al loro funzionamento.   Non un grande affare.


L’imposta straordinaria sul patrimonio (alias Patrimoniale) consiste nell'imporre un prelievo massiccio sui patrimoni privati.  Piketty valuta che, complessivamente in Europa, un prelievo del 15% dei patrimoni privati sarebbe sufficiente ad azzerare il debito degli stati, liberando ingenti risorse pubbliche per investimenti e/o ridurre la tasse sul reddito.    Apparentemente fattibile, specie se la misura fosse ben studiata nel dettaglio, gradualizzandola nel tempo ed articolandola per scaglioni con quote di imposizione fortemente progressive cosi’ da proteggere i piccoli risparmiatori e torchiare i super-capitalisti.  Del resto, provvedimenti del genere si sono già visti in casi di emergenza.  La tassa straordinaria sui patrimoni imposta dal primo governo De Gaule nel 1945 raggiunse il 25% per lo scaglione più alto.   USA ed Inghilterra, durante la II Guerra Mondiale, arrivarono a tassare per il 90% l'aliquota massima dei redditi.

Dunque perché non si fa?  Lo stesso Piketty, strenuo sostenitore di questo tipo di misura, ammette che non è cosi’ facile come sembra.   Intanto i grandi e grandissimi capitalisti sono persone ben addentro alle stanze del potere, dove hanno ampio margine per influenzare le decisioni politiche.  Ne è buona prova attuale il fatto che un provvedimento che mira a ridurre il carico fiscale per i redditi alti ed altissimi (la cosiddetta “flat tax”) viene oggi portato avanti dalla Lega che si autodefinisce un partito “populista”.

Un secondo motivo per cui sarebbe oggi molto più difficile attuare un simile provvedimento, è che i grossi capitali finanziari mutano in continuazione di natura e localizzazione, cosicché è praticamente impossibile tracciarli con sicurezza.  Ma non basta: anche i capitalisti possono spostarsi con estrema facilità nei paesi che gli offrono le condizioni migliori.  Per citare un solo esempio, Gérard Depardieu ha potuto eludere il fisco e la legge francesi diventando cittadino russo in pochi giorni, laddove un comune mortale non avrebbe avuto scappatoia alcuna.

Un provvedimento di questo genere, oggi, potrebbe essere efficace solo se concordato e coordinato dai tutti gli stati principali. Diversamente, sarebbe un'ulteriore "stangata" alla classe media, come già avvenuto con le patrimoniali che si sono succedute nei decenni scorsi.

L’inflazione è da molti considerata l’ultima e più efficace delle medicine, ampiamente usata da tutti gli stati durante il XX secolo.   Se il denaro perde di valore ad un tasso superiore a quello dell’interesse, il debito gradualmente diminuirà fino a diventare insignificante; cosi da permettere  l’accensione di nuovi debiti a tassi maggiori che, però, saranno a loro volta surclassati dall'inflazione.   E’ sostanzialmente cosi’ che tutti i paesi europei si sono sbarazzati degli immensi debiti conseguenti la II Guerra Mondiale e la ricostruzione.   Ed è la strategia che da un paio di anni ha avviato la BCE, su pressante insistenza di parecchi stati dell’UE (fra cui l’Italia).   Ma anche questa medaglia ha un rovescio: assieme ai debiti svaporano i risparmi, gli stipendi e le pensioni, tranne per coloro che sono in grado di fare investimenti molto redditizi, o di ottenere aumenti frequenti e consistenti.

Nel periodo del “miracolo economico” postbellico, la combinazione di una forte crescita economica e di agguerrite organizzazioni sindacali fece si che la maggior parte delle persone non ebbero a soffrire dell’elevata inflazione (al netto di qualche vecchio possidente).  Viceversa, il contesto di stagnazione (o recessione) in cui vivono e vivranno la maggior parte degli occidentali (e poi anche degli altri) fa si che l’inflazione oggi non sia che un sistema molto efficace per pompare soldi dalle tasche dei cittadini, al netto di coloro che possono contare su stipendi molto elevati e/o di patrimoni molto importanti.

Insomma, come dicevano sia Keynes che Lenin,  l’inflazione è il modo più efficace con cui uno stato può appropriarsi della ricchezza dei cittadini senza che questi si possano difendere.
In altre parole, l’inflazione tende a favorire chi ha molti debiti (a partire dallo stato), chi dispone di grandi patrimoni finanziari e chi è in grado di accrescere rapidamente le proprie entrate, mentre danneggia tutti gli altri e soprattutto le “formichine”.

Se non bastasse, l’esperienza recente di economie fino a poco tempo fa forti, come il Venezuela, ci insegna che l’inflazione è un attrezzo scivoloso che facilmente sfugge di mano, col risultato di distruggere la moneta e l'economia.

Conclusioni 6

Il debito pubblico e privato stanno schiacciando le economie del mondo, sia pure con situazioni molto diverse a seconda dei paesi.   Ci sono molti modi per sbarazzarsene, ma tutti hanno un punto in comune: i super ricchi se la cavano, mentre la gente normale si fa molto male.  Finché il debito permane e cresce, si soffre perché bisogna pagarlo (direttamente od indirettamente); quando cessa, invece si soffre perché svaniscono anche buona parte dei risparmi, degli stipendi e delle pensioni.  Amen.

Unica, parziale, eccezione potrebbe essere rappresentata da un forte aumento delle imposte sui redditi e sui patrimoni molto elevati.  Ma, come giustamente osserva lo stesso Piketty, un simile provvedimento sarebbe possibile ed efficace solamente a due condizioni:

La prima è che la manovra fosse concordata ed attuata in modo unitario perlomeno in tutta l’Europa.  

Vale a dire che, fra le altre cose, presuppone un livello di integrazione transnazionale molto più elevato dell’attuale.  “Solo l’integrazione politica europea permetterebbe di tentare una regolazione efficace del capitalismo patrimoniale globalizzato del secolo che si apre” (Piketty 2013, p 945).  Una prospettiva alquanto remota che, paradossalmente, proprio molti partiti e movimenti di protesta popolare si affannano a rendere più lontana, anziché più prossima.

La seconda è che, conti alla mano, per fornire un gettito quantitativamente efficace, la tassa dovrebbe necessariamente intaccare sensibilmente anche i patrimoni della classe media, risparmiando solo i pesci molto piccoli.  In altre parole, un provvedimento requisitorio solo nei confronti dei miliardari o dei multi-milionari avrebbe un effetto politico importante, ma un effetto sul debito statale marginale.  Lo stesso Piketty stima che la tassa sul patrimonio che caldeggia, dovrebbe incidere su tutti i patrimoni sia pure con una forte progressività.   Una misura che potrebbe avere conseguenze più serie del previsto sul sistema e rivelarsi controproducente in un’ottica di resilienza complessiva della società.  Ci torneremo.


sabato 13 aprile 2019

Morte ecologica e indifferenza umana



Di Federico Tabellini

Scriveva Seneca che la morte, quella vera, è un processo vissuto giorno per giorno, e che per disgrazia gli uomini se ne occupano solo quando i suoi effetti giungono a compimento. Quando l’ultima proverbiale goccia fa traboccare il vaso e l’acqua bagna il pavimento, inzuppandoci le scarpe. Allora sì, notiamo il vaso e l’acqua. Fino ad allora però, e per meglio dire fino ad ora, sono state le piccole morti a dominare i nostri pensieri.

La differenza fra le piccole morti e la vera morte risiede in tre fattori: prossimità spaziale, prossimità temporale e rapidità d’esecuzione. Il vicino scandalizza più del lontano, l’oggi più del domani, l’evento più del processo. È la natura umana. Siamo programmati biologicamente per prestare più attenzione agli eventi contingenti, al dramma imminente, alla tragedia che possiamo toccare con mano. Piangiamo l’albero in fiamme in giardino mentre la foresta all’orizzonte è divorata lentamente dai parassiti.

Il sistema mediatico e la politica, anziché supplire a tale debolezza umana, ne amplificano gli effetti come gigantesche casse di risonanza. I media di massa si concentrano sugli eventi perché questi hanno un pubblico più ampio. Vendono di più. E allora ecco l’alluvione in prima pagina: ventiquattro feriti e tre morti. Facebook è in lutto. La sistematica accumulazione di plastica negli oceani che rischia di compromettere per sempre interi ecosistemi? Quindicesima pagina, dopo lo sport. E ancora: in prima serata speciale sul terremoto, sedici morti e centinaia di feriti. Alle due di notte, mentre dormiamo, va in onda un documentario sulla sesta estinzione di massa: niente meteoriti questa volta, solo scimmie rosa dall’inappagabile appetenza.

Ma mica è colpa nostra se la morte vera è lenta e banale, noiosa, senza dinamismo. Mica è colpa dei media se a guardarla in faccia non possiamo trattenere uno sbadiglio. C'è anche chi ci prova, a renderla più interessante. Il metodo più efficace è trasformarla in un evento: fotografarla in un istante drammatico, quando è più fotogenica, e presentarla come 'news'. Le istantanee più belle le abbiamo viste tutti: la Giornata Mondiale della Terra, l’ultimo infruttuoso vertice internazionale per contrastare il cambiamento climatico, Greta Thunberg. I più politicamente attivi fra noi si sono spinti oltre per invertire il declino: hanno condiviso la notizia su Facebook. Purtroppo i loro indomiti sforzi non hanno ancora cambiato il mondo.

E poi ci sono le moderne democrazie da palcoscenico[1], che funzionano pressoché allo stesso modo. Quel che conta, anche qui, è l’audience. I politici che avanzano soluzioni settoriali e di breve periodo a problemi contingenti – le piccole morti – vengono premiati alle urne. Quelli che propongono soluzioni sistemiche a contrasto del declino del sistema Terra – la vera morte – sono accolti da un silenzio scrosciante. La necessaria complessità di tali soluzioni, del resto, è difficile da spiegare a un elettorato concentrato sul qui e ora. Non si può condensare in un’intervista in tv, in un tweet o in un post su facebook. Non aiuta il fatto che tali soluzioni richiedano, per dare i propri frutti, tempi ben più lunghi di quelli di un singolo mandato elettorale. Proporre e implementare soluzioni di lungo periodo semplicemente non paga a livello politico.

Ma quelle soluzioni salverebbero miliardi di vite nei secoli a venire! E allora? Gli uomini e le donne del futuro non possono votare per i politici del presente. Quindi avanti con le trovate ad effetto, a prova di sbadiglio: preservare la biodiversità nelle aree montane? Inutile, al massimo ti guadagni il plauso di qualche associazione animalista. Piuttosto salva un cane da una zona alluvionata e twitta una foto con lui. Diventa anche tu un eroe nazionale.

E niente, così muore il mondo, sapete? Non freddato in una guerra, ma un pezzettino alla volta, lontano dai riflettori. Mentre noi scimmie rosa saltiamo da un evento all’altro, come zanzare attorno a un albero di natale. Imprigionati nel contingente. Assorbiti dai nostri piccoli problemi, oppure in fuga dallo stress, a cercare un rifugio nell’intrattenimento e nei consumi. Le scarpe belle asciutte. Per qualche anno ancora.

[1] Il concetto di 'democrazia da palcoscenico' e i suoi profondi effetti sulle agende politiche degli stati sono esplorati nel mio libro 'Il Secolo Decisivo: storia futura di un'utopia possibile'.


sabato 6 aprile 2019

La Domanda di Enheduanna: che cos'è la violenza? Un commento a un libro di Osvaldo Duilio Rossi





Ci domandiamo che cos'è la violenza dal tempo (4300 anni fa) in cui la sacerdotessa Sumera Enheduanna scriveva un'appassionata preghiera alla Dea Inanna per chiederle giustizia dopo essere stata cacciata dal suo tempio da una ribellione armata. E da allora non sembra che abbiamo trovato una risposta. 

Ci riprova Osvaldo Rossi con questo suo libro del 2018. Veramente un bel libro, una ricerca approfondita, un trattamento dettagliato, una serie di riferimenti storici e di interpretazioni spesso originali e interessanti. Diciamo che il limite dello studio, come di tutti gli studi sociologici, è che è qualitativo. E' una serie di considerazioni supportate e derivate da studi precedenti, ma non c'è dietro un modello quantitativo di cosa sia esattamente la violenza.

Su questo, vi segnalo uno studio recente fatto insieme ai miei collaboratori che sembra portare evidenza sul fatto che la violenza è in qualche modo innata nella società umana. Questo è in accordo in linea generale con le tesi di Rossi, ma ci arriva a partire dai dati quantitativi disponibili.

Chissà, forse un giorno avremo una teoria quantitativa della violenza umana e non ci limiteremo a osservarla e deprecarla. Se ci sarà mai una teoria del genere, sarà probabilmente basata sulla teoria dei network che, incidentalmente, è alla base del nostro studio.

Ma per questo ci vorrà ancora un bel po' di lavoro e, per il momento, non solo siamo lontani, ma non stiamo andando nemmeno nella giusta direzione. Che impatto può avere un libro di taglio accademico, come quello di Rossi, in una società dove la massima virtù civica sembra si sia evoluta a ritenere che sia cosa buona che un gruppo di poveracci su una nave in mezzo al mare affoghi il prima possibile?