sabato 9 marzo 2019

Un Romanzo di Climate fiction: I Gemelli del Cosmo



di Stefano Ceccarelli

Pubblicato su Stop Fonti Fossili! con il titolo: Il Cosmo, i suoi Gemelli ed io.


Gli occhi sbarrati nel cuore di una notte settembrina. L'incipit stampato nella mente. Il buio cosmico della camera da letto ribolle della spiritualità che ha plasmato i miei anni giovanili, senza la quale non sarei quello che sono. Un Dio troppo umano, un po’ filosofo in erba e un po’ scienziato pasticcione, nella Notte dei Tempi imbastisce un esperimento, dubitando forse persino di sé stesso. Due pianeti allo specchio, uguali ma diversi, scaraventati dal destino, o dal caso, o da coscienti volontà, verso due esiti opposti.
Nasce così I Gemelli del Cosmo. Come un sogno che non vuole saperne di dileguarsi al mattino, ma anzi ti strattona e si impone subito come un libro non ancora scritto, un libro che doveva essere scritto. Da allora, per sei mesi, ha occupato i fine settimana e i dopocena sul divano, come ingombrante architettura della mia esistenza parallela, quella dove l'apparente calma dell'oggi si tuffa in un futuro tutto da decifrare eppure in qualche modo già pennellato dall'incontro fra letteratura e scienza.
Pian piano l'idea prende forma e cristallizza in narrazione. Quando nascono Yosh e Laylah, i due protagonisti, è un po’ come se rinascessero i miei due figli, trapiantati da una psiche inquieta in un pianeta 'altro' che possa custodirli dalle retroazioni negative degli insulti inflitti alla Terra dalla mia generazione.
Due cose mi sono state subito chiare: doveva esserci un passato e un futuro, il primo ricostruito come farebbe un archeologo che si riproponga di riesumare l'intera storia dell'universo, e il secondo segnato da un confondente sfasamento spazio-temporale. E poi la Terra, identica a sé stessa nella Storia già scritta, fotografata nell'attualità del presente mentre proietta le sue lugubri ombre sul di là da venire, verosimile nel futuro (prossimo o remoto, poco importa) marchiato a fuoco dal fuoco del cambiamento climatico.
Di contraltare al mondo come potrà essere, ecco la Serra, il mondo che avremmo voluto che fosse, regno delle beltà perdute, Eden preservato dalla polluzione per deliberata scelta dei suoi abitanti. C'è una casella vuota nella tavola periodica serrestre, ed è un vuoto pesante, perché priva le genti dell'opulenza criminalmente sottratta ai posteri. Ma lo splendore dell'oro che ammalia e stordisce, mai visto sulla Serra, è rimpiazzato, moltiplicato per infinito, dalla luce delle nobili virtù di cui rifulgono i suoi custodi.
È improprio definire I Gemelli del Cosmo una science fiction. Non è quello che volevo scrivere, non ne sarei stato capace. La fantascienza è stata poco più che uno strumento narrativo per far avvicinare due mondi che desideravano parlarsi, confidarsi, interrogarsi reciprocamente su ciò che è stato e ciò che poteva essere. Terra e Serra dovevano ciascuno immedesimarsi nell'ucronia dell'altro, questa estasiata, quella inorridita.
Se la Terra è il pianeta che conosciamo, ci sarebbe molto da dire sulla Serra e sui serrestri. Regno dell'utopia certo, ma non solo. Una civiltà che mutua i nomi dei mesi dal calendario della Rivoluzione Francese è per sua natura dirompente, ma non verso il suo passato (ché non si avverte il bisogno di rivoluzioni se si cammina con passo cadenzato e si tiene alto il vessillo dell'altruismo), quanto rispetto al modo consueto con cui noi abbiamo imparato a interagire con i nostri simili, con il regno animale e con Madre Natura nella sua fragile interezza. I serrestri anelano i gemelli lontani, ma sono in qualche modo essi stessi gemelli nella condivisa esaltazione dell'armonia e nel ripudio delle divisioni. Ancora, la Serra è il paradiso delle “Y”, dell'alterità esotica e fascinosa, almeno per noi italiani che solo da poco abbiamo familiarizzato con questa stramba consonante aliena che suona come una vocale.
Ma soprattutto, come sottolineato dal Prof. Marcello Carlino nella sua pregevole Prefazione, la Serra è un pianeta-donna. Poteva forse essere altrimenti, in un mondo che rifugge la sopraffazione come la peste? Sicuramente no, specie dopo la venuta di Yesua, gemella del Cristo di questo angolo della Via Lattea, carismatica protagonista dell'evangelo sconosciuto ai terrestri.
Il Cosmo, fluido etereo in cui tutto scorre, assurge a vero palcoscenico delle vicende narrate, e si rivela essere l'impalpabile liquido amniotico che nutre i sogni dei due giovani eroi. La sua incommensurabilità sgomenta, estendendosi oltre i confini di tutto ciò che è nato dal Big Bang, fino a far intravedere altri universi retti da leggi fisiche sconosciute. Eppure, il prodigio dell'Amore incarnato nella vita intelligente spicca e primeggia anche in cotanta immensità, fino a che, sul momento di estinguersi in uno dei suoi due nidi perduti nello spazio, sprigiona il più inesprimibile, il più assoluto dei dolori.
Ma, come accade a ogni romanzo che voglia essere letto, non è il dolore a scrivere l'epilogo della storia; spetta dunque al lettore scoprire il doppio finale del libro, quello canonico, che si addice a una fiaba, o se preferite a un moderno feuilleton, e quello postumo, inopinatamente rivelato al narratore da un Ulisse viaggiante nel tempo.
Mi piaceva pensare, mentre il mio sogno settembrino coagulava e si faceva libro, che in fondo la storia dei Gemelli del Cosmo potrebbe persino essere vera, che una Serra come quella che ho descritto, che ci ama e ci cerca come il cieco cerca la luce, possa esistere davvero in qualche meandro del creato, o magari proprio a duecento anni luce dalla Terra. Quest'idea ha aleggiato per un po’ nella mia fantasia finendo con lo spegnersi pian piano, come accade con le suggestioni troppo fragili e incorporee. Finché, pochi mesi fa, quando il manoscritto era già pronto per essere impaginato, lo sguardo cade su un trafiletto che mi fa sobbalzare sulla sedia: “Ecco la stella gemella del Sole, si trova a 184 anni luce da noi”!
Lo stupore per quella incredibile coincidenza ha lasciato subito il posto ad una speranza inedita, dai contorni netti come una certezza: non possiamo non avere dei Gemelli nel Cosmo, perché non possiamo non avere diritto ad una seconda possibilità.

sabato 2 marzo 2019

La rivolta dei Ciompi, ovvero dei Gilet Gialli.


Una cosa che mi incuriosisce molto è come mai la protesta francese non sia filtrata qui da noi. Forse perché abbiamo un governo che interpreta pienamente la volontà del popolo di lasciare affogare gli immigranti? Oppure forse perché il governo non ha ancora dato una ragione specifica per andare in piazza? Tutte e due le ipotesi mi sembrano ragionevoli, per quanto riguarda la seconda, comunque, non mi stupirei di vedere qui da noi i gilet gialli scendere in piazza contro gli ecobonus. Perlomeno a giudicare dai commenti che ricevo sul "Fatto Quotidiano" direi che gli italiani odiano le auto elettriche e l'energia rinnovabile ancora di più di quanto odiano gli immigranti. (UB)




Di Jacopo Simonetta
Articolo già apparso su Crisis what crisis? del 11/01/2019


La rivolta dei Gilet Gialli è animata da un insieme di rivendicazioni, alcune molto stupide ed altre molto giuste. Vi convergono soggetti eterogenei come pensionati poveri e giovani disoccupati, ma anche militanti fascisti e comunisti, casseur di professione e molto altro. Un'eterogeneità che prosegue una tradizione antica come le società complesse: la rivolta del popolino esasperato contro un’élite sorda alle sue esigenze.

Ogni rivolta ha una panoplia di cause e di effetti specifici. La rivolta dei Ciompi era molto diversa da quella di Masaniello e le “Jaqueries” avevano ben poco in comune con la Rivoluzione Francese. Eppure, mi pare che si possano individuare degli elementi in comune che riassumerei così:

  • Assenza di un’ideologia di riferimento. Semmai l’ideologizzazione avviene in seguito, progressivamente, secondo lo sviluppo degli eventi e dei gruppi organizzati che riescono ad imporsi alla massa. Quando emerge un’ideologia, la struttura del movimento cambia, così come buona parte dei suoi aderenti
  • Assenza di una leadership. Anche i capi emergono gradualmente dalla massa e si impongono come rappresentanti e capitani, ma solo in corso d’opera e se la rivolta dura abbastanza a lungo.
  • Tentativo più o meno riuscito di strumentalizzazione da parte di organizzazioni politiche e/o personaggi di spicco pre-esistenti.
  • Una serie di cause inconsce, tutte derivanti dagli stress sociali ed economici connessi con quel fenomeno complesso e dinamico che possiamo chiamare “sovrappopolazione”.
  • Una serie di cause molto coscienti, economiche e sociali, esacerbate dall'incapacità della classe dirigente ad affrontarle e gestirle.
  • Un elemento scatenante futile, che fa da detonatore di tensioni profonde, accumulate nel tempo.
  • Un fiasco finale. Di solito questo genere di rivolte spontanee si esaurisce per stanchezza; oppure viene repressa. In qualche caso storico, rivolte spontanee hanno portato a riforme politiche drastiche, quanto effimere. Qualche volta hanno invece scatenato dei terremoti politici di portata storica, ma senza migliorare le condizioni economiche e sociali dei ribelli. Semmai il contrario.

Dunque le rivolte sono inutili? No, perché nel bene e nel male rappresentano delle valvole di sfogo di tensioni divenute insostenibili. La classe dirigente che non ha saputo prevenirle o gestirle può uscirne vittoriosa o sconfitta. In questo caso, si verifica una sua sostituzione più o meno completa, ma le cause che hanno portato alla rivolta alla fine rimangono uguali, o peggiorano. Tranne, in qualche caso, la pressione demografica che può risultare alleggerita da un netto aumento della mortalità e/o dell'emigrazione, ma è difficile ritenerlo un successo.

Se si può azzardare una regola storica su questo genere di rivolte (non di tutte le rivolte) direi che è questa: “La ribellione inizia per esasperazione e termina per rassegnazione”. Talvolta per disperazione.

Anche a questo proposito, basta dare un’occhiata alla letteratura di 50 anni fa in materia di economia, ambiente e popolazione, per vedere che quello che sta succedendo è esattamente quello che, all'epoca, ci si aspettava che sarebbe successo. Le società complesse funzionano infatti bene finché usufruiscono di un flusso di bassa entropia crescente e si trovano immerse in un ambiente stabile. Quando queste condizioni vengono meno, le società entrano in crisi e cominciano a disgregarsi: un processo che continua finché non viene ritrovato un nuovo, temporaneo, equilibrio del sistema umano in rapporto al sistema naturale di cui fa parte.

Un processo frequente nella storia, ma che oggi, per la prima volta, riguarda l’intera umanità contemporaneamente.

La rivolta dei GG sarà utile se aiuterà qualcuno a capire che occorre attrezzarsi per rallentare e gestire la decrescita facendosi il meno male possibile, anziché continuare a vagheggiare un impossibile ritorno della crescita economica.




domenica 24 febbraio 2019

Fischiettando sulla via del declino

 
Di Federico Tabellini
 

Nel 2018 è uscito un nuovo episodio di Star Wars, il principe Harry si è sposato, la Francia ha vinto i mondiali di calcio. Tutti lo sanno, tutti ne parlano. Sono senza dubbio le notizie più importanti dell’anno. 
L’IPCC ha rilasciato il suo Special Report on Global Warming, annunciando che ‘cambiamenti rapidi, profondi e senza precedenti in tutti gli aspetti della società’ sono necessari per assicurare che l’aumento della temperatura globale non superi i 1,5 gradi Celsius. Alcuni amici mi hanno riferito di averlo sentito in TV, fra l'ultimo singolo di Katy Perry e il nuovo maglione del ministro dell’interno. Non ricordano bene. La solita solfa del clima, dicono.

Comunque il matrimonio del principe Harry nella cappella di St. George in Inghilterra è stato seguito in diretta da 1,9 miliardi di persone! La mia vicina di casa ne parla ancora oggi. 

Le chiedo se è a conoscenza delle tre specie di uccelli che si sono estinte nel 2018. Mi guarda stranita. Le dispiace. “Com’è potuto succedere?”, chiede. Le ricordo che da tempo le estinzioni di specie animali procedono a una velocità migliaia di volte superiore alla norma. Non mi crede. Il giorno dopo torna a parlarmi del principe Harry. Pare sia in crisi con la sua nuova sposa. Terribile, dico. Puoi dirlo forte, risponde.

Il nuovo leader brasiliano ha deciso che la foresta amazzonica è un buon posto per tagliare legna e creare piantagioni. Gli indigeni si fottano. La crisi climatica è un’invenzione della sinistra. "Eh, gli americani...", mi sussurra il giornalaio sorridendo, alzando per un istante lo sguardo dalla Gazzetta.

I campionati mondiali di calcio in Russia sono stati seguiti da circa 3,5 miliardi di persone! Le urla eccitate si sono sentite sin da casa mia, ogni sera, per settimane. Non c’era giornale che non vi dedicasse pagine e pagine. Nelle strade festeggiamenti, e facce buie per chi ha visto la propria squadra sconfitta. (Qui a Barcellona non tengono tutti alla stessa: si chiama globalizzazione). A notte fonda le strade si svuotavano, ma non del tutto. Rimanevano a terra le lattine di birra e le bottigliette di plastica.

Stiamo vivendo la crisi più grande della storia umana. Ne siamo noi la causa. Abbiamo intrapreso una strada forse senza ritorno verso il suicidio ecologico. E la percorriamo allegramente, fischiettando una canzone. Non vediamo il declino attorno a noi perché abbiamo lo sguardo fisso sullo smartphone. Gerry Scotty non ne parla, quindi non esiste. Il declino, del resto, non è un evento ma un processo, e i processi non fanno notizia. Distruggi la foresta amazzonica un albero alla volta, e forse un trafiletto spunterà su qualche rivista. Distruggila in un giorno, e il mondo s'indigna. Almeno, è chiaro, fino all’uscita del nuovo Star Wars.


Ah, e vi ricordate l’annuncio dell’IPCC di cui vi parlavo? Nel mio libro ‘Il Secolo Decisivo’ ho provato a immaginare un itinerario possibile per giungere a un equilibrio fra sistema socio-economico ed ecosistemi. Ha richiesto anni di ricerca e molti mesi di lavoro non pagato per la stesura. Finora ha venduto un centinaio di copie. L’ultimo libro di Fabrizio Corona è in testa alle classifiche.



giovedì 21 febbraio 2019

Mangiamo Plastica, Respiriamo Plastica.


A River of Plastic Waste in Guatemala from Pak Zindabad on Vimeo.

Dal "Fatto Quotidiano" del 14 Giugno
Di Ugo Bardi

E’ passato abbastanza inosservato sulla stampa l’invito di questi giorni del ministro dell’Ambiente Sergio Costa che suggerisce che ogni italiano raccolga almeno un pezzo di plastica buttato per terra e lo metta nella differenziata. Il ministro si è accorto che con la plastica stiamo vivendo una specie di tragedia al rallentatore: i rifiuti in plastica ci stanno letteralmente sommergendo. Ma non basta certo invitare i cittadini a fare gli spazzini volontari per risolvere una situazione sempre più difficile.

In Italia, si producono circa 100 kg di plastica a testa ogni anno. Di questi, circa 35 kg a testa sono “rifiuti da confezionamento”, ovvero quella frazione di plastica che – secondo le leggi vigenti – si può differenziare e riciclare. Il resto non si ricicla e finisce accumulato da qualche parte o disperso nell’ambiente. E anche la frazione che riusciamo a riciclare non sparisce, rimane nel sistema. Dopo un certo numero passaggi, almeno una parte va a finire dispersa nell’ambiente anche quella. Da lì, la ritroviamo nel ciclo alimentare e infine nel nostro piatto. La plastica che buttiamo via, a lungo andare, ce la mangiamo. Non fa bene di sicuro.

Possiamo bruciarla? Sì, ma non è una soluzione sostenibile: vuol dire generare gas serra che contribuiscono al riscaldamento globale. Certo, gli inceneritori moderni permettono un certo recupero energetico, ma la loro efficienza nella produzione di energia è molto bassa. Qualche anno fa, avevo calcolato che la produzione di energia elettrica da incenerimento rifiuti in Italia è meno dell’1% del totale. Anche in paesi dove si fa un uso esteso del recupero di energia da incenerimento, come in Olanda, non si produce più di qualche percento dell’energia totale prodotta. Ne vale la pena, considerando i danni che il riscaldamento globale ci sta già facendo e ci potrebbe fare?

Il problema non è soltanto italiano, è planetario. Esistono intere isole di plastica negli oceani. In parallelo sono cominciate ad arrivare immagini di animali marini morti con lo stomaco pieno di plastica. Come pure immagini di interi fiumi di plastica. Ma il colpo finale a tutta la storia l’ha dato la Cina quando ha preso il provvedimento di bloccare le importazioni di rifiuti. Non è che la Cina lo ha fatto per farci dei danni: anche loro sono sommersi dalla plastica e non sanno più cosa fare.

E allora? Ci trasformiamo tutti in spazzini dei boschi e delle spiagge, come ci invita a fare il ministro Costa? E’ una cosa bella ed encomiabile ma soffre dello stesso difetto che c’è in tante iniziative cosiddette “ecologiche” – scarica sui cittadini le conseguenze di una situazione della quale non hanno colpa. Se ognuno di noi butta via ogni anno 35 kg di rifiuti di plastica da contenitori è perché non abbiamo altra scelta che comprare 35 kg di contenitori: sono i prodotti che si vendono nei supermercati. E lo stesso vale per i restanti 65 kg per persona di plastica di altro tipo: giocattoli, utensili, vestiario, parti di altri prodotti, eccetera. Non abbiamo scelta.

C’è una ragione per questa situazione: le industrie producono prodotti in plastica perché la plastica fatta dal petrolio costa meno di qualsiasi alternativa, dal cartone alle “bioplastiche.” E, come tutti sappiamo, solo chi vende a prezzi bassi resiste sul mercato. Ci sono filiere di vendita di prodotti alimentari che cercano di evitare la plastica non biodegradabile oppure vendono prodotti sfusi, ma per il momento i costi sono alti e la loro diffusione è infinitesimale. Ne consegue che l’unico modo di andare alla base del problema consiste nel produrre meno plastica. Possibilmente non produrla affatto.

Non è una cosa da poco – provate a fare un giretto fra gli scaffali del vostro supermercato e immaginateveli senza plastica, ci riuscite? Eppure, ci dobbiamo arrivare prima o poi – ma non basta la buona volontà dei cittadini. Bisogna arrivarci a livello legislativo tassando o, meglio ancora, proibendo certi usi della plastica. La Commissione Europea sta lavorando in questo senso, sia pure ancora piuttosto timidamente. Agire in questa direzione è quello che anche il governo italiano dovrebbe fare se vuole fare qualcosa di serio per la salute e il benessere dei cittadini.

venerdì 15 febbraio 2019

Un Nuovo Libro di Bruno Sebastiani: "Il Cancro Del Pianeta Consapevole"



Credo che si debba a Konrad Lorenz l'idea che la crescità della società umana sul pianeta Terra è simile per certi versi a una crescita tumorale. Bruno Sebastiani ha esplorato il concetto in svariati post e libri e qui ci descrive l'ultima sua opera.



IL CANCRO DEL PIANETA CONSAPEVOLE

di Bruno Sebastiani


Perché un nuovo libro sul cancro del pianeta? Ho cercato di condensare la migliore risposta a questa domanda in una frase inserita nella quarta di copertina: «Le cellule cancerogene sono consapevoli di essere maligne, cioè di essere apportatrici di una malattia mortale? Sicuramente no. Se lo fossero regredirebbero? Difficile a dirsi, ma laddove possibile il tentativo di renderle consapevoli andrebbe fatto.»

Ebbene, se, sulla base della teoria esposta nel mio primo libro, l’essere umano è da considerare alla stregua di una cellula tumorale che sta distruggendo i tessuti sani del corpo di Gaia, il passo successivo non poteva che essere quello di tentare di renderlo edotto di tale sua natura.

Altro che figlio di dio, re del creato, signore del mondo ecc. ecc.

Abbiamo semplicemente ricevuto da madre natura il “dono non richiesto” (“the unsolicited gift” di koestleriana memoria, ovvero l’abnorme evoluzione del nostro cervello) e lo abbiamo usato a nostro esclusivo vantaggio, invadendo e devastando gli spazi che l’equilibrio creatosi in milioni e milioni di anni aveva riservato a tutte le altre specie animali e vegetali.

Ora siamo vicini al punto di non ritorno, probabilmente lo abbiamo già superato innescando reazioni che finiranno per distruggere anche la nostra specie dopo tutte quelle che abbiamo già annientato, esattamente come accade alle cellule cancerogene negli ammalati di cancro in fase terminale.

Come continuare ad assistere a questo scempio senza lanciare un urlo nel tentativo disperato di aprire gli occhi dei nostri contemporanei?

Se questa è la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo nuovo saggio, relativamente al suo contenuto mi sono avventurato in tre distinti territori.

Innanzitutto ho approfondito il tema fondamentale dell’abnorme evoluzione subìta dal nostro encefalo e della sua ulteriore accelerazione di tipo autocatalitico. Nel primo libro (“Il Cancro del Pianeta”, Armando Editore, Roma, 2017) avevo già affrontato l’argomento, ma in modo sintetico. Qui ora, in questo nuovo saggio, gli ho dedicato più spazio ed ho cercato di analizzarlo anche alla luce dei contributi di alcuni autorevoli neuroscienziati.

In secondo luogo ho esplorato i cataclismi che il nostro pianeta ha sopportato nel corso della sua lunga vita per cause “non antropiche”, quali le glaciazioni, gli impatti siderali, le estinzioni di massa. Come noto per i negazionisti queste calamità furono assai più rilevanti di quelle causate dall’uomo, e tale argomento viene sbandierato per sminuire le nostre responsabilità in tema di danni ambientali. La mia analisi giunge a conclusioni ben diverse, ma per poterlo fare in modo puntuale era necessario immergersi in questa materia e sviscerarla sotto ogni angolatura, ad iniziare dall’esame delle devastazioni dei tessuti sani del pianeta da noi già perpetrate per poi passare ad argomentazioni di tipo più teorico-deduttivo.

Infine, nell’ultima parte del libro viene introdotta la figura di un “buon dottore” cosmico, un soggetto immaginario alieno dalla visione antropocentrica del mondo, il quale, osservando la Terra e la sua storia dallo spazio, passa in rassegna i contributi di “chi ha maggiormente spinto sull’acceleratore del progresso” e di “chi si è parzialmente opposto alla diffusione del male”, pervenendo alla rivalutazione di movimenti, correnti di pensiero e autori che hanno messo in guardia, purtroppo con scarso successo, l’umanità dai pericoli insiti nel pensiero razionale e nelle sue conseguenze.

Come si può vedere da questa breve esposizione dei temi trattati ne “Il Cancro del Pianeta Consapevole” (Armando Editore, Roma, 2018), la teoria enunciata nel 2017 nel mio primo libro, alla quale ho poi dato il nome di “cancrismo”, si arricchisce ora di un nuovo capitolo dedicato alla consapevolezza che dobbiamo assumere della nostra natura di cellule tumorali del pianeta Terra.

La bruttezza di questo ruolo è ben rappresentata dall’immagine prescelta per la copertina del libro: un busto dalle braccia protese, completamente ricoperto da bubboni ed ispide escrescenze. La scultura, titolata “Mare Nero”, è opera di Mario Giammarinaro, artista specializzato nel riprodurre i disastri ambientali provocati dall’uomo.

E per quanto riguarda il “da farsi”, il come reagire ad una situazione tanto drammatica? Molti me lo hanno chiesto, ritenendo che ogni teoria debba prevedere una parte “salvifica” e non possa concludersi senza speranza, esattamente come la vittoria dei “buoni” è un must di ogni pellicola cinematografica.

Purtroppo la vita non è un film.

In un prossimo libro che ho già scritto e che sarà pubblicato l’anno prossimo, la speranza apparirà ancor più remota. L’argomento sarà infatti la complessità dell’organizzazione sociale che abbiamo creato e l’ineluttabilità del suo continuo progresso sino alla crisi finale.

Cionondimeno, anche se il vicolo cieco in cui l’evoluzione ci ha sospinto è privo di via di uscita, non possiamo esimerci dal guardare in faccia la realtà e dal riconoscerci come cellule maligne distruttrici di ogni altro organismo dotato di vita.

Ognuno poi, alla luce di tale constatazione, potrà cercare vie di sopravvivenza individuali che soddisfino le proprie aspettative.

Ma questo è un altro discorso, non più di carattere collettivo bensì relativo alla sopravvivenza più o meno felice di ogni singolo essere umano.



domenica 10 febbraio 2019

Paesi emergenti e paesi sommergenti - Agonia del capitalismo? 5

Di Jacopo Simonetta

Quinto di una serie di dieci articoli, già pubblicati su "Apocalottimismo". I precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo, quarto.



La crescita economica dei paesi allora detti "del terzo mondo” è cominciata dopo gli anni ’80 del secolo scorso, ma l’esplosione di alcune “economie emergenti” è stato uno dei fenomeni che hanno caratterizzato i primi 20 anni di questo, grazie soprattutto alla globalizzazione.

La vetrina.

L’aspetto positivo e luccicante della faccenda è che circa un miliardo di persone si sono tirate fuori da una secolare miseria per costituire, a loro volta, quella classe media che, abbiamo visto, ha caratterizzato le società occidentali nella seconda metà del XX secolo.

Piketty ne parla in termini decisamente positivi come di un fenomeno di “rattrapage” (recupero) destinato a coinvolgere un numero crescente di paesi. Un giudizio che si basa sull'assunto che livelli di benessere analoghi a quelli occidentali odierni siano un traguardo raggiungibile almeno in teoria da tutti. Anzi, che rappresentino in qualche modo una “normalità” che noi abbiamo raggiunto e che gli altri stanno raggiungendo grazie soprattutto allo sviluppo tecnologico, la specializzazione del lavoro, l’istruzione pubblica.

Una visione idilliaca cara agli economisti (e non solo: Piketty è uno storico, non un economista), ma che parte dal presupposto che non esistano limiti alla crescita economica globale. Anzi, proprio la straordinaria crescita economica della Cina e quella poco meno spettacolare di parecchi altri paesi “emergenti” vengono spesso portate come prove del fatto che il famigerati “Limiti dello sviluppo” non esistano.




Prima di dare un’occhiata al retrobottega di questa brillante vetrina, osserviamo un dettaglio importante di cui parla Piketty . Dai dati in suo possesso, risulta che I fattori scatenanti del decollo economica cinese sarebbero stati la parziale liberalizzazione del commercio ed il trasferimento massiccio di tecnologie occidentali già mature ed ampiamente ammortizzate. Viceversa, risulta che i finanziamenti esteri siano stati importanti, specie all'inizio, ma non determinanti in quanto la maggior parte degli investimenti sono comunque stati fatti con capitali locali.

Una sorpresa per me e forse anche per altri. Mi sono dunque chiesto da dove questi capitali siano usciti ed una risposta, almeno parziale, la ho trovata nei dati riguardanti il debito cinese, che cresce ritmi allucinanti proprio da quando l’economia ha cominciato a lievitare. Vale a dire che il capitale che ha finanziato e finanzia la crescita cinese è sostanzialmente fatto di debito che potrà essere ripagato solo se il rendimento degli investimenti sarà superiore al tasso di interesse dovuto.

In pratica, esattamente la stessa trappola in cui si è cacciato il capitalismo occidentale, anche se il debito è articolato in modo diverso: se l’economia ristagna o addirittura decresce troppo a lungo, il rischio di una bancarotta generale diventa molto concreto.

Una minaccia che probabilmente la dirigenza cinese, come la nostra, ha sottovalutato troppo a lungo e che pone dei vincoli ferrei alle future strategie economiche e politiche.


Il retrobottega.



Ma torniamo all'altra faccia della medaglia. Abbiamo visto che, anche fatta una prudente tara ai dati ufficiali, alcune economie emergenti sono effettivamente cresciute in maniera spettacolare, specie a partire dal 2000 circa. Una fatto che sembra negare che esistano dei limiti invalicabili allo sviluppo ed al benessere. Ma cosa è successo ne frattempo alle economie già ricche?

Probabilmente non per caso, sono contemporaneamente entrate in una fase di crisi cronica che lo stesso FMI (non proprio un covo di “alternativi”) ha definito “una stagnazione probabilmente secolare”. Che, tradotto in termini comuni, si potrebbe rendere come: “non c’è più trippa per i gatti”. Laddove i gatti siamo noi.

Perché? Io credo che le concause principali siano due.

La prima è che la crescita economica di chicchessia comporta necessariamente un aumento dei consumi di energia e materie prime, il che vuol dire un aumento dei costi diretti ed indiretti legati tanto all'approvvigionamento che allo smaltimento (N.B. un aumento dei costi non sempre si traduce in un aumento dei prezzi). In altre parole, la crescita economica comporta necessariamente un aumento di entropia che occorre scaricare da qualche parte. In estrema sintesi, l’industria è un gioco in cui chi ha le manifatture vince e chi ha le cave e le discariche perde.

Per secoli, i paesi europei hanno costruito la loro crescita economica e demografica grazie ad una superiorità tecnologica ed organizzativa che ci ha permesso di sfruttare buona parte del mondo, importando risorse ed esportando beni di consumo e rifiuti.

Oggi, la Cina e gli altri emergenti sono contemporaneamente esportatori di materie prime e di prodotti finiti, oltre che importatori di rifiuti. Tuttavia, proprio quell'iniezione pressoché gratuita di tecnologia che abbiamo praticato cercando maggiori profitti immediati, ha consentito a questi paesi di spostare l’ago della bilancia commerciale verso l’esportazione di prodotti finiti e l’importazione di materie prime o semi-lavorati, anche da noi. In altre parole, abbiamo fornito ad altri i mezzi per renderci la pariglia.

La seconda ragione è che c’è una differenza abissale fra internazionalizzazione e globalizzazione del commercio.

L’internazionalizzazione comporta infatti la liberalizzazione del passaggio transfrontaliero delle merci, ma non quello delle persone e dei capitali. Poiché quasi tutti i paesi sono avvantaggiati su alcune produzioni e svantaggiati su altre, il commercio internazionale può, almeno in teoria, portare un vantaggio relativo a tutti i partecipanti. Per fare un esempio banale, agli italiani conviene importare le banane dall'Ecuador ed agli ecuadoregni conviene comprare il vino italiano e, se i capitali risultanti da questi traffici non possono essere esportati, dovranno necessariamente essere spesi od investiti in patria. Parimenti, se i lavoratori ed i capitalisti rimangono vincolati al loro paese d’origine, difficilmente si potranno creare fenomeni come il crumiraggio internazionale e l’elusione fiscale. In altre parole, l’internazionalizzazione è un gioco in cui ci sono dei vincenti e dei perdenti parziali, ma con una somma spesso (teoricamente sempre) positiva.

In altre parole, certamente i produttori di banane ecuadoregni faranno fuori i produttori italiani e viceversa per chi fa il vino, ma nel complesso saranno più le persone che se ne avvantaggiano di quelle che ci rimettono.

La globalizzazione comporta invece il libero transito non solo delle merci, ma anche dei capitali e delle persone. Finché questo approccio è stato praticato nel ristretto ambito dell’Europa occidentale ha dato risultati positivi in quanto ha permesso una maggiore crescita delle economie di tutti i paesi, una maggiore libertà di movimento e di scelta per tutti i cittadini senza grossi scompensi, vista la forte affinità di partenza e gli stretti rapporti politici generali. Ancora più importante, il processo ha permesso di creare un’entità politico economica che, sia pure con molte lacune e difficoltà, è in grado di far sentire la sua voce a livello internazionale.

Viceversa, l’applicazione di questi principi fra paesi diversissimi sotto tutti punti di vista (politici, economici, sociali, tecnologici, ecc.) ha creato una situazione in cui ci sono vincenti e perdenti su tutti i fronti. Vale a dire che determinati gruppi sociali hanno avuto tutti o quasi i vantaggi, a scapito di altri gruppi. E non può essere che cosi.

In estrema sintesi, la globalizzazione ha rappresentato l’estremo tentativo del capitalismo per continuare a crescere. Da questo punto di vista ha certamente funzionato, ma ad un prezzo molto alto: accelerare ed ampliare tutte le retroazioni tendenti a distruggere sia la funzionalità della Biosfera, sia la coesione sociale. Due fenomeni le cui conseguenze si cominciano appena a vedere e che, congiuntamente, non mancheranno di dare un fiero colpo al capitalismo. Se sarà totale o parziale non lo possiamo sapere, ma se fra 30 o 40 anni il capitalismo sarà ancora vivo, sarà certamente molto diverso da come è oggi. Quantomeno, è probabile che i prossimi decenni vedranno un drastico cambio della guardia ai massimi livelli del potere. Un processo del resto già in pieno svolgimento di cui Trump, Bolsonero, Salvini e tanti altri sono gli araldi.


Conclusioni 5


La globalizzazione, fortemente voluta dalle élite di tutto il mondo, ha provocato, o perlomeno accelerato, un parziale cambio della guardia in sella al capitalismo in cui le classi povere del mondo e quelle medie occidentali sono stati perdenti, mentre i grandi capitalisti globali e la nuova classe media dei paesi “emersi” sono stati i vincenti.

Ma il vero perdente è stato un altro ed è la Biosfera. La rapida crescita economica dei paesi emergenti ha provocato ovviamente un parallelo aumento dei consumi. Cioè un brusco aumento nella distruzione delle risorse primarie e degli ecosistemi, contemporaneamente ad un parallelo aumento di tutti i tipi di inquinamento a tutti i livelli.

Ne valeva la pena? I vincenti pensano di si, mentre i perdenti vorrebbero a loro volta vincere. Come dire che abitiamo una casa i cui inquilini fanno a gara ad arricchirsi vendendo le tegole del tetto e le pietre delle fondamenta.

venerdì 8 febbraio 2019

Quattro riforme strutturali per uscire dal declino - Una proposta di Federico Tabellini




(Questo articolo costituisce una rielaborazione originale di temi trattati in maniera più organica e approfondita nel libro Il Secolo Decisivo: Storia Futura di un’Utopia Possibile
Di Federico Tabellini

Usando il termine in senso ampio, possiamo identificare quattro grandi 'crisi' contemporanee: una crisi ambientale ed energetica, una crisi delle diseguaglianze, una crisi culturale e una crisi concernente la stabilità del sistema economico-finanziario. Ne ‘Il Secolo Decisivo’ dimostro come queste crisi siano 1) strettamente correlate e 2) conseguenza fisiologica del modello socio-economico vigente, e non già una sua deriva accidentale.

Da ciò ne deriva che qualsiasi soluzione che voglia essere efficace debba essere 1) multisettoriale e 2) sistemica. In altre parole, risolvere le crisi richiede un approccio organico e comporta necessariamente il superamento dell’attuale modello socio-economico.

Perché il cambiamento sia possibile, è essenziale prendere coscienza dell’impossibilità di risolvere le crisi all’interno del modello che le ha in primo luogo generate. Questa presa di coscienza passa per la messa in discussione di una serie di miti e credenze che lo sostengono. Fra questi spiccano il mito del lavoro quale necessità e dovere (al di là dei suoi effetti in termini di benessere aggregato), il mito dei consumi come sinonimo di benessere e il mito della crescita economica quale unica via per il progresso. Lungi dall’essere meri fattori culturali, questi miti e credenze hanno forti ripercussioni sulla struttura sociale e sono da questa a loro volta rafforzati e perpetuati. Il legame fra struttura e cultura rende estremamente difficile che il cambiamento possa avvenire semplicemente dal basso, attraverso un mutamento negli stili di vita. Per fare un esempio, nel modello vigente la crescita del PIL è necessaria per sostenere i livelli di occupazione, e i consumi sono necessari per sostenere entrambi. Se tutti semplicemente consumassimo e lavorassimo meno, senza implementare al contempo riforme nella struttura economico-istituzionale, la recessione ci farebbe presto cambiare idea.

Un cambiamento strutturale è quindi di vitale importanza, ed è su quest’ultimo che si concentra il mio libro. Le domande da porsi, una volta accettata a livello culturale la necessità di un cambiamento, sono sostanzialmente due:

Com’è possibile passare da un modello basato sulla crescita costante di consumi e produzione a un’economia stazionaria e in equilibrio con gli ecosistemi?
È possibile mantenere economicamente e socialmente stabile un tale modello massimizzando al contempo il benessere degli esseri umani?

Le possibili risposte a queste domande sono molteplici. La mia proposta attinge alla più recente ricerca nei campi di filosofia politica, ecologia, economia ed etica. Ritengo sia fra le più facilmente implementabili sul breve-medio periodo (qualche decennio), perché le riforme preliminari che richiede possono in grande misura essere messe in atto sin da subito. Il loro effetto congiunto renderebbe possibile il passaggio a un modello economico stazionario, dopo una fase iniziale di decrescita materiale necessaria a rientrare nei limiti di sostenibilità ecosistemica che abbiamo da tempo superato. In termini generali, le riforme coinvolgono quattro macro-aree:
  1. I sistemi redistributivi e fiscali degli stati;
  2. Il sistema educativo;
  3. I regimi politico-elettorali;
  4. Il sistema finanziario.
Quello che segue è un elenco sintetico e necessariamente incompleto delle proposte discusse nel libro preliminari alla transizione da un modello economico basato sulla crescita infinita a un modello stazionario stabile.

I sistemi fiscali e redistributivi andrebbero ricalibrati per adattarli a un’economia post-lavorista. In tal modo il progresso tecnologico e l’automatizzazione di produzione e servizi potranno essere messi al servizio dell’uomo, liberando l’umanità dall’assurda ricerca di una non più necessaria (ai fini della massimizzazione del benessere aggregato) piena occupazione. I proventi di un’economia via via più automatizzata e indipendente dal lavoro umano andranno poi redistribuiti attraverso l’istituzione di un reddito di base[1] su vasta scala, continuamente ricalibrato in funzione della congiuntura economica.[2]
L’attuale sistema educativo gerarchico e massificato andrebbe sostituito con un’educazione orizzontale e flessibile, che conceda a ogni studente la libertà di operare scelte autonome, entro certi limiti, circa la propria formazione e sviluppo personale. La scuola dovrà cessare di essere una fabbrica di esseri umani funzionale alla crescita economica, per divenire invece un servizio a disposizione delle persone, finalizzato alla scoperta e allo sviluppo dei talenti e delle vocazioni di ognuno.
L’esaltazione del ‘volere del popolo’ propria delle contemporanee democrazie rappresentative – che troppo spesso si traduce nella tirannia di una maggioranza ignorante manipolata da leader populisti di ogni sorta – dovrebbe essere sostituita da una promozione attiva del dibattito politico a tutti i livelli e dall’istituzione di vincoli conoscitivi al voto, rimpiazzando l’attuale politica dei sentimenti con una politica degli argomenti.
Il sistema finanziario andrebbe riformato e reso indipendente da una crescita costante dell’economia materiale. Ciò richiederà la messa in discussione del modello inflazionista, una riduzione drastica della speculazione finanziaria e un completo superamento del sistema bancario a riserva frazionaria.

Ognuna di queste macro-riforme difficilmente potrà essere implementata senza una parallela implementazione delle altre, per ragioni che è impossibile illustrare in dettaglio in un singolo articolo.[3] Basti qui dire che senza un ripensamento dei sistemi fiscali e redistributivi che metta in secondo piano il lavoro, la crescita economica non potrà che rimanere essenziale per contrastare la disoccupazione tecnologica, non importa quanto superflue e finanche dannose divengano le mansioni svolte dagli esseri umani. Similmente, l’istituzione di un sistema politico basato su discussione e ragionamento – le quali richiedono indipendenza di analisi e tempo per approfondire le ragioni dei propri interlocutori – è impensabile senza una previa riforma del sistema educativo e una liberazione del tempo umano dalle catene del lavoro. Infine, è difficile immaginare che una riforma profonda del settore finanziario (i cui frutti sarebbero visibili solo sul lungo periodo) possa essere implementata con successo in assenza di un sistema politico ed elettorale basato su discussione, contenuti e ragionamento.

Le ragioni che rendono queste riforme necessarie, le possibili modalità della loro implementazione e gli effetti potenziali che potrebbero sortire sulle società umane sono esaminati nel dettaglio nel libro ‘Il Secolo Decisivo: storia futura di un’utopia possibile’. Qualsiasi critica, domanda o commento sui contenuti di questo articolo e/o del libro cui si ispira è assolutamente benvenuta.

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[1] Si utilizza qui il termine nella sua accezione classica, come reddito concesso a ogni individuo adulto indipendentemente da ogni prova dei mezzi. Il reddito di base è universale in quanto concesso a ogni individuo, a prescindere dalla sua condizione sociale ed economica.

[2] Si vedano i capitoli 3 e 6 del libro ‘Il Secolo Decisivo’ per la discussione di un possibile meccanismo di ricalibrazione.

[3] Si rimanda al libro per una loro analisi approfondita.