mercoledì 26 dicembre 2018

Attraverso la Porta della Meraviglia

Da "Inanna e Ebih" di Enheduanna ( III millennio A.C.)

La Dea appare
Scintillante, radiosa
Sotto la cupola scura del cielo della sera
Passi stellati nella strada
Attraverso la Porta della Meraviglia

Traduzione dal Sumero di Betty De Shong Meador



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Through the Gate of Wonder

And she goes out
white-sparked, radiant
in the dark vault of evening's sky
star-steps in the street
through the Gate of Wonder

From Inanna and Ebih, by Enheduanna (translated by Betty De Shong Meador)



______________________________________________
Originale Sumero

an-usan-na nir mi-ni-ib-e3
ka2 u6-di sila-ba bi2-in-jen
an-ra ne-saj mu-un-na-an-gub siskur mu-na-ab-be2



venerdì 21 dicembre 2018

Il mio appello agli ecologisti e a chi non si rassegna.



Un post di Max Strata


Le considerazioni di base da cui trae origine il mio appello sono rintracciabili nei report scientifici sulla crisi ecologica ma anche nelle analisi sociologiche sulla infelicità personale e sulla follia dilagante che emerge dall'osservazione della cronaca.

Questi elementi non sono affatto disgiunti ma fanno parte di un'unica logica distorta, invadente e pervasiva, alimentata da un sotto pensiero, da una sub-cultura, da una assurda illusione che domina le nostre menti e che ci sta rapidamente trascinando verso un futuro -sempre più presente- in cui i nostri peggiori incubi rischiano seriamente di materializzarsi.

Si può affermare che nella storia dell'umanità ci sono stati tempi non certo migliori e che di crisi se ne sono susseguite molte, vero, ma oggi ci troviamo in presenza di qualcosa di nuovo, un qualcosa di particolarmente subdolo e pericoloso che oltre a mettere in discussione le basi ecologiche della vita sul pianeta ha a che fare con una modificazione antropologica della nostra specie.

Non a caso, uno dei tratti prevalenti di questo tempo storico è dato dalla superficialità nei saperi e nelle conoscenze, nei rapporti umani, nelle esperienze di vita, nella visione della realtà e quindi del futuro. Una constatazione che può apparire paradossale nell'epoca dell'informazione super diffusa ma che paradossale non è, considerato che al "messaggio breve" cui ci siamo abituati corrisponde necessariamente un "pensiero breve".

Ecco, direi che è proprio questo il nostro più grande e attuale problema, il pensiero breve o se si vuole il pensiero liquido di una società liquida che omologa, inscatola, appiattisce e istupidisce e che causa una gravissima perdita di contatto con la realtà, anche con quella che ti dice che sei prossimo a sbattere violentemente la faccia contro un muro di pietra.

Ci troviamo in una sorta di condizione amniotica da "effetto stupefacente" generalizzato, fatta di obnubilante inerzia mentale che nei fatti ci rende insensibili (per niente preoccupati) anche di fronte a scenari da brivido che richiamano l'olocausto nucleare.

Benché il tema del caos climatico e più in generale quello della crisi ecologica, non sia certo posto in primo piano dai media e compaia solo marginalmente tra gli interessi della classe politica, dovremmo più o meno sapere (uso il condizionale) che continuando a fare a pezzi i sistemi biotici siamo fatalmente destinati a passare più o meno rapidamente dallo stato di euforia determinato dalla cieca fede nella crescita economica, ad uno stato di scarsità materiale e di conflittualità sociale tale da riportarci a condizioni che in più di un caso potrebbero corrispondere a quelle del periodo medievale.

Di recente, i ricercatori del tavolo intergovernativo dell'ONU sul cambiamento climatico, hanno indicato in appena dodici anni il tempo residuo in cui modificare il nostro sistema di approvvigionamento energetico per evitare di incorrere nei peggiori effetti provocati dal riscaldamento globale.

Dodici anni... impossibile anche volendo: troppo il ritardo accumulato, troppo grandi le speculazioni a breve termine delle oligarchie che governano il pianeta e forte la resistenza al cambiamento determinata da immobilismo, ignoranza, timore o incapacità da parte dei più.

Che cosa fare allora? Non resta che tentare una via assai impegnativa ma pur sempre possibile: quella di una rapida presa di coscienza individuale e collettiva nella quale è chiaro che un certo tipo di rappresentazione del mondo è finita e che è necessario passare ad un'altra prospettiva, ad un altro sentire, ad un altro modo di agire.

L'appello è pertanto un invito all'azione dal basso da parte di quella che si potrebbe definire una "avanguardia illuminata", composta da chi vuole fare qualcosa di concreto per provare ad invertire la rotta e guadagnare tempo, con l'obiettivo di scatenare una positiva reazione a catena, ovvero di generare una massa critica capace di realizzare modificazioni di ampia portata.

Per fare questo, e qui arriva la mia provocazione, ritengo necessario che gli ecologisti e chi non si rassegna a questo stato di cose, debbano assumere su sé stessi la responsabilità di comunicare personalmente il livello di drammaticità della situazione in cui ci siamo cacciati, facendolo con serietà e continuità a partire dalla famiglia, tra gli amici, sul posto di lavoro e di studio, ecc..
Comunicare dunque e fare seguire alla comunicazione verbale o scritta un'azione coerente che possa essere di stimolo per gli altri promuovendo l'idea che il passaggio (la transizione) ad un nuovo modello sia non solo necessario ma in ogni caso preferibile rispetto a quello dominante perché più sobrio, egualitario, fecondo e piacevole. Per fare questo c'è però bisogno di grandi energie e di numeri importanti e ciò comporta la necessità di ridurre, dico ridurre non abbandonare, il tempo dedicato alle tradizionali iniziative per la difesa dell'ambiente perché adesso abbiamo bisogno di concentrare le forze sulla questione climatica che, da sola, direttamente o indirettamente, assorbe tutte le altre.

Intendo dire che in questo momento storico, affacciati sul baratro che ci attende, ogni singola "battaglia" per difendere il territorio rischia di diventare fine a se stessa se non viene collocata in una prospettiva più ampia. Inoltre, mi pare evidente che serve a poco salvare oggi una porzione di foresta se non si riesce a smontare il meccanismo che domani ne farà fuori cento.

Teniamo presente che unendo i nostri sforzi possiamo mettere in discussione un sistema di pensiero, rendere evidente che cosa c'è all'origine della violenza che viene praticata sui sistemi naturali, sulle persone e sugli altri viventi. Qui si tratta di abbandonare definitivamente un sistema non di riformarlo: un sistema economico e sociale che è generato dal modo con cui guardiamo il mondo e di conseguenza da come ci comportiamo.

Per poter sperare di attivare una risposta positiva da parte di chi non ha ancora cognizione della gravità della crisi è dunque fondamentale poter offrire una visione realisticamente diversa e migliore, ed questo quello che può fare una persona di buon senso.

Dunque, dobbiamo continuare a lottare contro l'inquinamento provocato da una industria chimica o dal traffico urbano? Certo che si, ma nella misura utile a far passare l'idea di un altro mondo possibile.

Ciò che conta è che in questa drammatica situazione si faccia un tentativo per razionalizzare l'impegno, finalizzarlo, renderlo pienamente operativo all'interno di una visione globale ma non globalizzata.

Questo è il tempo (l'ultimo che abbiamo a disposizione) per superare le barriere che ci dividono, le convinzioni che si ergono come ostacoli insormontabili, i protagonismi, le invidie, l'aggressività di cui spesso siamo vittime quanto carnefici.


Provo dunque a sintetizzare tre punti che, nell'ottica di una azione comune, potrebbero essere condivisi o comunque suscitare una riflessione collettiva.


Abbandoniamo l'ego e agiamo consapevolmente


Finché restiamo attaccati a quanto abbiamo adesso (anche se poco) e all'illusione di quello che potremmo/vorremmo avere in termini di occupazione, sicurezza sociale, possesso di beni, ecc. non riusciremo a fare un passo in direzione del cambiamento che auspichiamo. Deve infatti essere chiaro che nel vortice causato dalla crisi ecologica tutte le nostre presunte certezze possono disintegrarsi in un baleno.


Gli scenari sono molto inquietanti e purtroppo si stanno manifestando in fretta.

In primo luogo, ricordiamoci che la crisi ecologica è strettamente connessa alle crisi economiche, a quelle sociali, politiche e militari e che abbiamo a che fare con un crisi sistemica. Per agire consapevolmente e cioè in modo lucido e con la prospettiva di raggiungere un obiettivo apprezzabile, possiamo innanzitutto agire sui noi stessi, comprendere l'origine del nostro comportamento irrazionale e pertanto non farci comprimere dalle pretese di un ego che per definizione non sarà mai soddisfatto. Attenzione, questo è un passaggio essenziale, o si comprende che facciamo di parte di una rete fatta di strette relazioni con tutto ciò che è vivente e che di questa rete siamo solo un nodo, o sarà davvero difficile riorganizzare la nostra esistenza di specie.

Banalizzando, ma non troppo, condividere questa visione significa spostarsi da una posizione antropocentrica ad una visione ecocentrica e le conseguenze pratiche sono enormi. Abbandonare le richieste del nostro ingannevole ego vuol dire proiettarsi verso una esistenza che accetta il concetto di limite e che lascia andare quello che oggi ci rende schiavi di oggetti, azioni, abitudini e pretese che con l'idea di "buona vita" e di felicità non hanno niente a che fare. Agire consapevolmente in modo ecologico è dunque avere cognizione del mutamento di rotta che ci viene chiesto per condensarlo nelle nostre scelte e nelle nostre pratiche quotidiane.

Più comunità e più locale, meno oggetti, meno mercato, meno potere

Sappiamo che all'origine della crisi ecologica ci sono una serie di fattori culturali, idee filosofiche e convinzioni politiche, e, non da ultima, la nostra sostanziale incapacità di gestire le innovazioni scientifiche e tecnologiche in modo sano e saggio.

Sappiamo inoltre che l'idea di produrre sempre di più a partire da uno stock limitato di risorse naturali è pura e semplice follia anche se la quasi totalità degli economisti e dei decisori politici pare ignorare questo fondamentale dato di partenza.

Davanti a questo mare magnum di difficoltà possiamo tuttavia orientare la nostra esistenza individuale e di gruppo in direzione di una semplicità volontaria in cui ad assumere pregnanza e significato non sono più i miti della ricchezza e del possesso ma il piacere (ben vivere) che si può trarre dal contatto con la natura, da relazioni più empatiche, dall'essenziale, dalle cose semplici rese disponibili per tutti.

Attraverso questo rivoluzionario percorso concettuale matura anche un rinnovata sensibilità per ciò che si può fare in proprio, in seno alla propria comunità, saltando a piè pari la pressione imposta da un mercato che invece tende ad annullare la capacità di sentirci protagonisti delle nostre scelte e, fin dove possibile, di essere autosufficienti. Un passo essenziale è pertanto non subire l'organizzazione gerarchica di un potere e di un sistema che vuol vendere/imporre qualsiasi cosa a tutti i costi, mediante una coercizione organizzata mascherata da offerta.

Organizzarsi su piccola scala, valorizzare i diritti fondamentali, costruire economie locali resilienti per produrre innanzitutto servizi, cibo di qualità ed energia rinnovabile in modo cooperativo e condiviso, costituisce l'ABC del cambiamento.

Uniti in una visione d'insieme

La frammentazione, e di conseguenza l'inazione, è tecnicamente il problema più grande con cui ha a che fare un insieme di persone che desidera raggiungere un determinato obiettivo. Dividersi, dividersi e dividersi ancora fino a spaccare il capello in quattro di fronte ad una emergenza che richiede unità di intenti, serve solo a fare il gioco di chi desidera mantenere lo status quo anche se questo si rivela mortifero.

La suicida tendenza alla divisione è spesso provocata da un malinteso ideale di libertà di opinione e di scelta. Questo non significa che per stare assieme sia necessario rinunciare alle proprie convinzioni o alle proprie idealità, ma più semplicemente contenerle nell'ottica di un percorso dove ciascuno lascia qualcosa di personale per accogliere qualcosa che proviene da altri allo scopo di entrare in una corrente dove ci si sente ascoltati e si diventa parte attiva di un processo.

Consideriamola dunque come "un'ultima chiamata" e ciò che conta è la nostra disponibilità a intravedere la possibilità di realizzare qualcosa di molto diverso dall'attuale che tenendo conto dei limiti offerti dalle risorse e dalla disponibilità dei beni naturali prevede l'integrazione dei sistemi umani nelle dinamiche dei sistemi ecologici.

Per farlo, occorre organizzarsi da subito su base locale e quindi in una rete sempre più ampia capace non solo di discutere, di confrontarsi, di fare lobbying, ma di realizzare progetti creativi recuperando al tempo stesso le migliori esperienze disponibili.

In altre parole si tratta di concepire, praticare e diffondere un'etica ecologica solida e desiderabile perché concreta, armonica, riparatrice degli equilibri che abbiamo infranto e rispettosa della vita, delle presenti e delle future generazioni.





mercoledì 19 dicembre 2018

Il "Cancrismo" di Bruno Sebastiani

Articolo pubblicato anche su "www.ilcancrodelpianeta.wordpress.com"






Bruno Sebastiani continua a proporre una sua versione "sistemica" della situazione attuale, paragonando la crescita incontrollata della popolazione umana nell'ecosistema a quella di un tumore maligno in un singolo organismo. E' una visione che molti troveranno pessimistica e che non porterà di certo voti all'ipotetico politico che volesse abbracciarla. Ma, certamente, è degna di essere presa in considerazione: dove stiamo andando? Stiamo marciando verso il futuro ad occhi bendati, senza neanche immaginare dove potremmo andare a finire. (U.B.)
 


IL CANCRISMO COME SUPERAMENTO DELL’ECOLOGIA PROFONDA

di Bruno Sebastiani

Come noto l’“ecologia profonda” è quella corrente di pensiero che invita a considerare l’essere umano non come il dominus della natura, ma come uno dei suoi innumerevoli componenti, impegnato, in quanto tale, a rispettare le leggi che regolano la vita sul pianeta.

Si contrappone al movimento ecologista superficiale, in quanto questo, pur combattendo contro l’inquinamento e lo spreco delle risorse, ha come «obiettivo primario la salute e il benessere della popolazione nei paesi sviluppati …» (Arme Naess, Ecosofia, Como, Red Edizioni, 1994, p. 29)

Invece «il movimento ecologista profondo rifiuta l’immagine di un’umanità inserita in un ambiente da cui è distinta, a favore dell’immagine del campo totale e relazionale» (ibidem)

«L’uomo sta alla Natura come la parte al Tutto, come un tipo di cellula sta all’Organismo (psicofisico) di cui fa parte» (Guido Dalla Casa, L’Ecologia Profonda, Milano, Mimesis, 2011, p. 49)

Partendo da questi presupposti la società umana «non deve necessariamente svilupparsi, ma anzi deve trovare un modus vivendi con la natura di tipo olistico, di interazione e rispetto» (Fabio Balocco, post del 12 ottobre 2017 sul blog Ambiente e Veleni de IlFattoQuotidiano.it).

Queste affermazioni e questi propositi a prima vista appaiono tutti sensati e condivisibili.

Eppure le analisi dei sostenitori dell’ecologia profonda offrono elementi di debolezza ad un esame più approfondito. In particolare peccano di irrealtà. Ritengono realizzabili condizioni esistenziali che per l’uomo contemporaneo oramai realizzabili non sono più.

Facciamo l’esempio più evidente.

Arne Naess, il “padre” dell’ecologia profonda, scrive: «L’unicità dell’Homo sapiens, le sue capacità uniche tra milioni di altri esseri viventi, sono state usate come strumenti di dominio ed abuso di potere. L’ecosofia propone di usarle per sviluppare un atteggiamento di responsabilità universale che le altre specie non possono né capire né condividere. (op. cit., p. 218)

È chiaro che quando Naess parla delle capacità di Homo sapiens, fa riferimento alle sue facoltà cerebrali eccezionalmente sviluppate. Ebbene, è proprio a causa di questo incremento abnorme dell’intelligenza che i nostri antenati sono stati in grado di contravvenire alle leggi di natura a proprio vantaggio e a svantaggio degli altri esseri viventi. Una volta che sono stati in grado di farlo non potevano non farlo, indotti a ciò da quell’istinto di sopravvivenza che sta alla base della lotta per la vita.

In altre parole. Ogni essere vivente è “programmato” per combattere, con le armi che la natura gli mette a disposizione al fine di sopravvivere come individuo e come specie. Laddove le armi non sono adeguate soccombe, laddove sono prevalenti domina. E a noi uomini è capitata la ventura di essere dotati di una super arma, il “Dono non richiesto” (“The Unsolicited Gift”) di koestleriana memoria (vedi Arthur Koestler, Il Fantasma dentro la Macchina, Torino, SEI, 1970, XVII capitolo, primo paragrafo), ovvero la super intelligenza.

Nel corso dell’evoluzione si è sviluppato attorno al nostro cervello rettiliano (sede degli istinti, che abbiamo in comune con gli animali più primitivi), il cervello limbico (sede delle emozioni, che ci accomuna agli altri mammiferi), e poi ancora sopra a questo, all’improvviso e in modo rapido e tumultuoso, è proliferata la neocorteccia (sede del pensiero astratto), la super arma che ci ha consentito di sbaragliare ogni avversario e di dominare la natura.

I neuroscienziati mi perdoneranno l’eccessiva semplificazione, ma in questa sede mi preme soprattutto badare all’essenziale.

Ecco, l’”atteggiamento di responsabilità universale” di cui parla Naess dovrebbe consistere nella rinuncia a gran parte dei privilegi che la natura ci ha incautamente concessi dotandoci della neocorteccia, al fine di ricomporre l’armonia del mondo della natura che in gran parte abbiamo già distrutto.

Ma la natura stessa ci ha dotato anche di quel formidabile impulso che è l’istinto di sopravvivenza, al quale non possiamo sottrarci, ed ecco allora che il combinato disposto di tale istinto con le facoltà intellettuali superiori non poteva che condurci al punto in cui siamo, e in futuro non potrà che spingerci verso un ulteriore sfruttamento delle risorse naturali per alimentare una popolazione umana e un apparato di congegni artificiali in continua crescita.

A questo proposito Naess si rende conto che alla base dello sfruttamento delle risorse naturali vi è la ben nota curva iperbolica dell’aumento della popolazione, e nella sua “piattaforma del movimento dell’ecologia profonda” inserisce i seguenti punti:

«4. L’attuale interferenza umana nel mondo non umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando rapidamente.»

«5. Il fiorire della vita umana e delle diverse culture è compatibile con una sostanziale diminuzione della popolazione umana. L’esistenza stessa delle forme di vita non umane esige tale diminuzione.» (op. cit., p. 31)

Qui si dovrebbe aprire un importante dibattito sul tema dell’antinatalismo. L’argomento è fondamentale ma lungo e complesso, e mi riservo di affrontarlo in altra sede. Per lo scopo che mi sono qui prefisso sarà sufficiente far notare come la soluzione proposta dall’ecologia profonda per porre rimedio ai guai sin qui causati dall’essere umano preveda preliminarmente la trasgressione da parte del medesimo essere umano di quell’istinto di sopravvivenza della specie che la natura ha indelebilmente impresso nella parte più recondita del nostro organo di comando, il cervello rettiliano.

Per correggere un errore della natura (la nostra super intelligenza), per uscire dal vicolo cieco imboccato dall’evoluzione, dovremmo abbattere il pilastro che la natura stessa ha posto alla base dei nostri comportamenti. L’uomo moderno non vuole farlo: lo sviluppo della società tecnologica lo dimostra ampiamente. Ma anche se volesse farlo, non potrebbe: gli istinti fanno parte di un codice comportamentale innato, la repressione del quale esula dalle nostre capacità fisiche e psichiche.

Questo punto è basilare e ci riporta indietro nel tempo al noto dibattito sul libero arbitrio che contrappose Erasmo a Lutero.

Per restare più vicini all’oggi, osservo come anche Koestler, che tra il 1959 e il 1978 disegnò in cinque saggi un grandioso affresco sulla mente umana come anomalia evolutiva, non se la sentì di chiudere completamente la porta alla speranza. E allora scrisse che dobbiamo esaminare la possibilità che l’uomo «…possa portare un difetto di fabbricazione all'interno del suo cranio, un errore costruttivo che potenzialmente minaccia la sua estinzione, ma che potrebbe ancora essere corretto da uno sforzo supremo di autoriparazione». (The Ghost in the Machine, London, Hutchinson & Co Publishers, 1967, p. 272)

Ma né la “sostanziale diminuzione della popolazione umana” invocata da Naess né lo “sforzo supremo di autoriparazione” ipotizzato da Koestler sono all’orizzonte. Al contrario si prevede che gli attuali 7,6 miliardi di esseri umani diventino 9,8 entro il 2050 e 11,2 entro il 2100. In parallelo la produzione industriale continua a dilagare, mentre il progresso tecnologico cerca disperatamente nuove soluzioni per consentire il mantenimento di una tale moltitudine di uomini e degli ancor più numerosi animali da macello.

Ed ecco allora la necessità che una nuova teoria ci aiuti a comprendere chi realmente siamo e perché ci comportiamo in un modo tanto distruttivo nei confronti degli altri esseri con cui condividiamo questo pianeta.

Se fino ad oggi l’ecologia profonda ha rappresentato lo stadio più avanzato di contrasto alla ideologia progressista dominante, lasciando invano uno spiraglio alla speranza, la nuova teoria intende mettere l’essere umano a nudo davanti allo specchio della sua mente per mostrargli come il suo comportamento sia del tutto analogo a quello delle cellule tumorali nel corpo di un ammalato di cancro.

Ho battezzato “cancrismo” questa teoria che ho iniziato ad illustrare nel mio libro “Il Cancro del Pianeta”. A breve uscirà un nuovo libro, il cui scopo è proprio quello di rendere consapevole l’uomo contemporaneo di questa sua maligna natura. Seguiranno poi ulteriori contributi, ai quali si affiancheranno articoli, saggi e interventi sui social network.

Perché diffondere una siffatta teoria, che contraddice la positività della nostra attività intellettiva?

Innanzitutto per amore di verità. Ritengo moralmente doveroso far partecipe l’essere umano di questa visione del mondo, per quanto sgradevole essa sia.

In secondo luogo per gli effetti incogniti che potrebbero scaturire dalla consapevolezza di essere agenti maligni anziché figli prediletti del creatore.

Ci sarà un momento, ma non ipotizzo date, in cui l’aggrovigliarsi dei problemi, le dimensioni dei medesimi e la nostra incapacità a fronteggiarli adeguatamente, condurranno a crisi inenarrabili. Gli scaffali vuoti dei supermercati, le bande dei razziatori, la fuga precipitosa dalle città saranno solo alcuni dei tragici aspetti di queste crisi. E allora tutti rimpiangeranno di non aver dato avvio per tempo ad una “sostanziale diminuzione della popolazione umana” e ad uno “sforzo supremo di autoriparazione”, e vorrebbero riuscire a farlo sotto l’incalzare degli avvenimenti.

E se gli sforzi collettivi di risanamento si provasse a farli a seguito dell’acquisita consapevolezza di essere il cancro del pianeta anziché sotto l’urgenza di crisi incombenti? Una cosa è certa: la nostra intelligenza è l’arma più forte. Ci ha consentito di divenire i re del mondo ma ci ha anche trasformati in agenti distruttori dell’armonia della natura. Proviamo a utilizzarla contro se stessa.

L’andamento attuale non lascia adito a speranze. Le nostre ricerche continuano ad essere indirizzate verso progresso e sviluppo.

«Se le cellule del cancro potessero esprimersi, probabilmente avrebbero un’idea dello “sviluppo” assai simile a quella della civiltà industriale, che invade, rendendole uniformi, le altre specie e le altre culture umane, con andamento analogo a quello dei tumori che avanzano a spese delle altre cellule dell’Organismo …» (Guido Dalla Casa, op. cit., p. 40) La consapevolezza di essere il cancro del pianeta potrà indurci ad innestare la retromarcia?

Dipende da quanto il “cancrismo” riuscirà ad incidere sulle élite intellettuali, politiche, scientifiche ed economiche e sulle masse che ne subiscono passivamente l’influenza.


sabato 15 dicembre 2018

Motori ed Inquinamento: come siamo messi?





Un post di WM



Con l'arrivo della stagione invernale i ricorrenti anticicloni favoriscono il ristagno degli inquinanti a livello del suolo, soprattutto in Pianura Padana Attualmente la variabile che determina la sospensione della circolazione automobilistica parte da un parametro: PM10. I PM2,5 non sono al momento considerati, seppur rilevati, e sarebbero anche più pericolosi entrando in circolo dagli alveoli. Quindi abbiamo il particolato prodotto dalla combustione nei motori diesel ma anche da altre fonti quali inceneritori, camini a legna di vecchia concezione, industria ecc. inoltre esistono anche altri inquinanti, tra gli altri gli ossidi di azoto, NOx.

Vorrei entrare nel dettaglio degli inquinanti provenienti da motori a combustione interna.

Come tutti sanno i motori sono principalmente di due tipi, Ciclo Otto (motori a benzina) e Ciclo Diesel (motori a gasolio), i motori due tempi (a miscela di benzina e olio) molto inquinanti sono ormai marginali, posso però ricordare che quasi 30 anni fa collaborai con un progetto per lo sviluppo del motore 2 tempi in campo automobilistico, il concetto era interessante in quanto il 2 tempi ha un rendimento molto alto, avendo aspirazione e scarico contemporanei, minor peso e facilità costruttiva. La questione irrisolvibile erano gli inquinanti allo scarico dovuti alla lubrificazione a perdere, si provava con luci scarico particolarmente studiate ma l'imminenza dell'entrata in vigore delle norme antinquinamento (Euro1) fecero abbandonare il progetto. Rimane il Ciclo Wankel anch'esso molto delicato e il Ciclo Atkinson (motori a benzina con differente manovellismo, meno potenza ma maggior efficienza) usato in prevalenza su modelli ibridi, per curiosità molti anni fa esistevano in Nord America dei motori Diesel a 2 tempi.

Il principale imputato come capacità inquinante è il motore Diesel, la sua caratteristica principale è di funzionare con rapporti di compressione molto alti e di avere dunque una maggior efficienza. I vecchi Diesel erano solo aspirati ad iniezione indiretta ma con rapporti di compressione fino a 22:1, erano lenti con bassa potenza specifica in rapporto alla cilindrata ma molta coppia a bassi regimi. Infatti nella loro evoluzione si iniziò ad usare la sovralimentazione che aumentava la potenza ai regimi più alti col vantaggio della curva di coppia elevata in basso. Per fare questo però era necessario diminuire i rapporti di compressione perché si producevano molti NOx e meccanicamente le sollecitazioni erano molto forti, infatti motori moderni hanno valori di 15/16:1, a volte meno, e pressione di sovralimentazione fino ad 1 bar.

La sovralimentazione aiuta in particolare con la turbina a passo variabile ma la differenza principale è stata l'applicazione dell'iniezione diretta sequenziale del carburante (multijet) dove 7/8 getti o più ad altissima pressione e le mappature delle gestioni elettroniche risolvono parzialmente i problemi dell' accensione istantanea del carburante, la propagazione di fiamma, che è uno dei principali limiti del Ciclo Diesel. La ragione è intrinseca, non avendo un valore stechiometrico fisso, il motore può funzionare con rapporti comburente/combustibile molto ampi, da 5 a 1 fino a 20 a 1 e oltre, nel primo caso avremo una nuvola di fumo e incombusti che il FAP farà fatica a bloccare. Nell'iniezione sequenziale un paio di getti vengono inviati dopo lo scoppio per ridurre la rumorosità tipica del diesel e in parte per bruciare gli incombusti. Della riduzione rumore si potrebbe anche fare a meno riducendo il consumo.

Una via per la riduzione del particolato inoltre è l'impiego di apposita trappola, il FAP, che però deve essere periodicamente “svuotato”, ciò avviene con un ciclo apposito a regime controllato in cui viene iniettato carburante in eccesso che aumenta la temperatura per bruciare il particolato che non dimentichiamo è costituito principalmente da Carbonio, con la gestione elettronica dell'iniezione non difficile, ma una scocciatura per il guidatore e inquinante per l'aumento delle emissioni.

Il gasolio è una frazione relativamente pesante nella raffinazione del petrolio, da molti anni subisce un trattamento di desolforazione ma contiene Aromatici Policiclici (PCA) che in caso di combustione ottimale bruciano quasi completamente ma nei transitori (accelerazione) vanno a far parte degli incombusti e si generano allo scarico sostanze molto tossiche, ad esempio Benzo(a)pirene.

Per ovviare si utilizzano da molti anni catalizzatori ossidanti che riescono parzialmente ad eliminare questi inquinanti ma non del tutto. Un altro strumento è il riciclo dei gas di scarico tramite una valvola che li reimmette in parte in camera di scoppio. Si chiama EGR. Ma attenzione, in caso di forte richiesta di potenza viene disinserita.

Dallo scandalo Volkswagen in poi è venuto fuori un altro inconveniente difficile da risolvere, la formazione degli ossidi di azoto, i famigerati NOx. Si formano nella fase di compressione e nella rapida espansione dopo lo scoppio, l'Azoto e l'Ossigeno rimangono legati, la loro eliminazione deve essere affrontata con mezzi costosi e complessi, infatti reagendo con l'acqua producono Acidi (Nitrico e/o Nitroso)

Il catalizzatore convenzionale è per definizione ossidante e bisogna utilizzare un riducente, il più diffuso è l'Urea che combinandosi con gli NOx, li trasforma in Azoto gassoso e Acqua, la reazione deve essere catalizzata e i costi sono elevati per la gestione del sistema oltre che critica, difficile da controllare.

Come abbiamo visto la riduzione degli inquinanti è difficoltosa e nel corso degli anni le norme sono diventate sempre più restrittive da Euro 1 a Euro 6 con aumento dei costi per gli adeguamenti che ha causato il desiderio di prendere scorciatoie. Trucchi e software appositi per aggirarle. In realtà un modo ci sarebbe per rimanere in ambiti normali, ridurre le prestazioni, drasticamente. Le potenze specifiche sono arrivate a livelli impressionanti inutilmente ai fini di un uso normale.

Veniamo al Ciclo Otto, in condizioni normali (regime costante) non emette molto particolato e tecnicamente ha una combustione più controllata, la ragione principale nella gestione del rapporto stechiometrico tramite Sonda Lambda (14,7:1), in passato si erano tentate soluzioni alternative come la combustione magra, ossia poca benzina, molto inferiore al rapporto stechiometrico canonico ma con altre problematiche dovute alle temperature di esercizio molto alte. Il motore Ciclo Otto è meno inquinante utilizzando una combustibile che brucia meglio e più in fretta, cosa che presenta anche degli svantaggi, ad esempio devono essere utilizzati rapporti di compressione più bassi pena l'autoaccensione o detonazione (il ben noto battere in testa) normalmente intorno 10:1 e inferiore sui motori sovralimentati.

Rapporto di compressione più basso determina rendimenti termodinamici inferiori, il motore a benzina consuma di più a pari potenza sviluppata e se con l'elettronica si sono fatti passi avanti notevoli nell'impiego a regime costante, rimane un consumo maggiore rispetto al diesel nei transitori, uso cittadino ad esempio.

Anche nel Ciclo Otto si formano gli incombusti e il particolato, una causa è l'attivazione e disattivazione della Sonda Lambda che in rilascio e forte richiesta di potenza viene disinserita, in questo caso l'azione del catalizzatore avviene solo per la sua capacità ossidante che trovandosi ad gestire molti incombusti fatica, dunque emette inquinanti.

Per finire alcuni dati sul rendimento dei due principali motori da cui si potrebbe dedurre anche l'emissione netta. Partiamo da un dato, i rendimenti variano molto in funzione del regime di rotazione, dalla richiesta di potenza, il tipo di guida. I produttori con le gestioni elettroniche cercano di ovviare e parzialmente ci riescono ma in genere c'è un regime al quale il rendimento raggiunge il massimo, le case statisticamente si adeguano all'uso a velocità costante intorno alla coppia massima.

Un Diesel sovralimentato arriva intorno al 30/32 % e in certi casi 35% addirittura motori ben rodati, vecchi, anche oltre. Ricordo una prova su strada di una vecchissima Passat con oltre 200000 km che a 60 Km/h faceva 60 km con 1 litro! A maggior ragione si consideri che i generatori diesel elettrici essendo progettati per funzionare a regime costante arrivano anche oltre il 40%. Il motore a Benzina rende molto meno, 20/25% nelle migliori condizioni, ma in città può scendere anche sotto il 10% .

Un accenno ai combustibili gassosi, GPL (Propano e Butano liquefatti) e Metano gassoso. Hanno un potere calorifico nettamente inferiore e dunque consumi più elevati rispetto ai combustibili liquidi, per contro hanno un vantaggio in termini di combustione più pulita.

Ho trascurato tutte le valutazioni sul recupero di efficienza mediante migliorie nella riduzione degli attriti, nella ricerca di fasature variabili, fluidodinamica per i riempimenti dei cilindri, pneumatici più stretti, aerodinamica, peso del veicolo e modalità di guida.

Considerando che ancora per qualche anno i motori endotermici saranno in circolazione l'idea di sviluppare meno potenza specifica sarebbe una bel proposito, inoltre per gli ibridi un piccolo motore endotermico che fornisce energia per la ricarica delle batterie e il motore elettrico, che funzioni a regime costante avrebbe rendimenti molto più alti. Il motore elettrico sarebbe la fonte primaria di potenza per il movimento, l'esperienza dei locomotori diesel-elettrici è li a dimostrarlo.


wm

mercoledì 12 dicembre 2018

Le Monadi Sovrumane


(Immagine di Colin Hay). Nel 1971, Robert Silverberg pubblico un romanzo dal titolo "The World Inside", tradotto in Italiano come "Monade 116" (Fanucci 1974). La storia descrive un mondo futuro dove decine di miliardi di esseri umani vivono in immense città verticali, (le "monadi"). In cambio del diritto di riprodursi senza limiti, hanno ceduto tutti gli altri diritti umani che una volta avevano, allo stesso tempo avendo sterminato tutti gli altri esseri viventi del pianeta. Una storia che risponde in un modo inquietante alla domanda che viene spesso posta: "quante persone può nutrire la terra?" alla quale dovremmo rispondere, "a che prezzo?" Qui di seguito, Bruno Sebastiani esamina l'impatto degli edifici multipiano sull'occupazione umana di spazio sul pianeta




E SE TUTTI GLI EDIFICI DELLA TERRA FOSSERO MONOPIANO?

di Bruno Sebastiani


L’uomo è l’unico tra gli animali cosiddetti superiori a costruire abitazioni su più piani.

Lo fa perché è in grado di farlo (il suo cervello super evoluto gli consente di fare questo e ben altro).

Lo fa perché è conveniente farlo (un solo basamento e un solo tetto per più nuclei abitativi).

Lo fa perché consente ad un numero elevato di persone di abitare entro il perimetro delle città in cui si svolgono gran parte delle attività lavorative, amministrative, culturali ecc.

Ma, inconsapevolmente, lo fa anche per un altro motivo, che, passo dopo passo, andiamo ora ad indagare.

Nei miei libri mi sono soffermato a lungo sulla nocività della nostra specie per la biosfera. Ho paragonato gli esseri umani alle cellule tumorali: ci riproduciamo con lo stesso ritmo frenetico ed invadiamo e distruggiamo in modo analogo i tessuti sani limitrofi.

Questa attività patologica però non è addebitabile, a mio avviso, ad alcun “istinto malvagio” della razza umana: semplicemente è l’inevitabile conseguenza della super evoluzione cerebrale già ricordata.

Anzi, l’uomo è anche in buona fede quando spinge sull’acceleratore del progresso: ritiene di rendere un servigio alla propria specie, di sviluppare tecnologie utili a migliorare la qualità della vita dei propri simili. E tra queste tecnologie vi è anche la propensione a costruire abitazioni su più livelli.

Questa tecnica costruttiva secondo Lewis Mumford prende avvio a fine Medioevo.

«Nello schema medievale, la città si estendeva orizzontalmente e le fortificazioni erano verticali. Nell’ordine barocco la città, confinata entro le fortificazioni, poteva svilupparsi solo verticalmente con caseggiati a più piani …» (L. Mumford, La Città nella Soria, Milano, Tascabili Bompiani IX ediz., 1996, p. 453)

Ma, pur accettando come attendibile questa ipotesi, vi è da dire che la crescita verticale delle abitazioni umane è proseguita, ed anzi si è incrementata, anche quando le città non furono più racchiuse entro fortificazioni e presero ad estendersi nuovamente anche in senso orizzontale.

Sempre Mumford così spiega queste due direzioni espansive:

«Con l’invenzione della diligenza, della ferrovia e infine del tram, si ebbero per la prima volta nella storia mezzi di trasporto di massa. La distanza che era possibile percorrere a piedi cessò di costituire un limite all’estensione della città, il cui ritmo di crescita aumentò vorticosamente …» (ibidem, p. 535)

«Questo discorso sull’ampliamento in superficie della città commerciale dall’Ottocento in avanti vale anche per la sua espansione verticale favorita dall’invenzione dell’ascensore. Quest’ultima in un primo tempo fu limitata alle maggiori città del Nuovo Mondo. Ma gli errori radicali che vennero a suo tempo commessi nell’ideazione dei grattacieli si sono ora diffusi a tutto l’universo… Tutti gli sbagli commessi nelle città americane si stanno così ripetendo su scala altrettanto orrenda in Europa e in Asia … il grattacielo divenne un simbolo di “modernità”.» (ibidem, p. 536)

Da notare che l’americano Mumford scriveva innanzitutto per i suoi compatrioti e lo faceva nel 1961. Oggi, a 58 anni di distanza, quanti argomenti in più avrebbe potuto addurre a sostegno delle sue tesi! Uno di questi è l’oggetto del presente articolo, ma prima di sviscerarlo soffermiamoci un attimo su quel simbolo di superbia e di presunzione che è il grattacielo.

Nel mio blog (https://ilcancrodelpianeta.wordpress.com/) vi è una pagina dal titolo “Torri di Babele” dove passo in rassegna le 20 più alte torri del mondo, in ordine crescente fino ad arrivare alla “Burj Khalifa” di Dubai, alta oltre 800 metri e attualmente il più alto edificio del pianeta (in attesa che sia completato il grattacielo che supererà per la prima volta il chilometro di altezza, attualmente in costruzione a Jeddah - Arabia Saudita).

Perché dedicare una pagina di un blog alla descrizione e alle foto degli edifici più alti del mondo? Perché essi raffigurano egregiamente lo smisurato desiderio di onnipotenza dell’essere umano che già aveva attratto l’attenzione e la condanna del narratore biblico nell’episodio della Torre di Babele, descritto in Genesi, 11,1-9.

E la gran parte di queste “Torri di Babele” moderne sorge oramai in Asia, ben 16 tra le prime 20, esattamente come aveva predetto Mumford quasi sessant’anni fa.

Ma, attenzione, questa tendenza a costruire edifici sempre più alti, di cui la realizzazione dei grattacieli è solo la punta dell’iceberg, nasconde un segreto inconfessabile che l’uomo contemporaneo non ha il coraggio di manifestare neppure a se stesso!

Proviamo a disvelarlo per la prima volta e vediamo se la sua conoscenza potrà servire allo scopo che mi prefiggo, e cioè rendere edotto Homo sapiens della sua natura tumorale nei confronti della biosfera.

Cominciamo col chiederci: quanta parte del globo è ricoperta dalle colate di asfalto e cemento su cui poggiano le nostre città e con le quali impediamo a Madre Terra di respirare e alla vegetazione di crescere?

Calcolo oltremodo difficile. Secondo alcuni la superficie occupata dalle città sarebbe limitata all’1 – 3 % del pianeta (fonte Focus.it “L’impronta delle città sul pianeta”), nonostante che in esse risieda ben oltre il 50 % della popolazione mondiale.

La stima è vecchia e certamente inesatta per difetto.

In Italia l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) pubblica annualmente un rapporto su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. L’edizione 2018, reperibile in rete, indica che nel nostro Paese la stima della cosiddetta “superficie artificiale” (quella ricoperta da asfalto, catrame, cemento ecc.) si attesta nel 2017 al 7,75 % dell’intero territorio nazionale (esclusi i corpi idrici), pari a poco più di 23.000 km quadrati.

Il medesimo rapporto precisa come siano difficoltosi i confronti internazionali in quanto il consumo del suolo non è monitorato in maniera omogenea, ma informa che in Europa Eurostat ha promosso la rilevazione “LUCAS” (Land Use and Cover Area frame Survey), secondo la quale nel 2015 la “superficie artificialmente ricoperta” a livello europeo sarebbe intorno al 4,2 % di quella totale (in quell’anno l’Italia era al 6,9 %).

Ma il vero superamento delle difficoltà di confronto tra i vari Paesi è già in atto a cura dell’Agenzia Spaziale Tedesca (DLR), la quale, utilizzando 180.000 immagini radar di due suoi satelliti, ha dato vita al progetto Global Urban Footprint, ha cioè mappato l’intero pianeta suddividendo la superficie terrestre in tre tipi di copertura: insediamenti (in nero), superficie terrestre (in bianco) e acqua (in grigio). Il tutto con una precisione stupefacente ovvero una risoluzione spaziale di 12 metri per cella di griglia.

La mappa è di libera consultazione e risulta estremamente suggestiva, come si può vedere dall’immagine qui riportata, relativa al nord Italia.











Non è possibile a occhio valutare con esattezza la percentuale di suolo effettivamente “urbanizzata” e, salvo errori, l’Agenzia Spaziale Tedesca non ha fornito cifre al riguardo.

Ma è sufficiente ciò che l’immagine mostra per condurre a termine il nostro ragionamento.

Pensiamo infatti quanti punti neri vi sarebbero sulla piantina se le nostre costruzioni, anziché svilupparsi in altezza, fossero tutte monopiano.

Dovremmo moltiplicare le percentuali di copertura del suolo per quante unità? Io credo almeno per 5, ma forse per 6, 7 o anche più: teniamo presente che anche le attuali costruzioni cosiddette monopiano in realtà hanno un seminterrato e un sottotetto, costituendo così a tutti gli effetti degli edifici a tre piani.

E dunque il 7,75 % di copertura del suolo italiano diventerebbe il 38,75 % o il 46,5 % o il 54,25 % o ancora di più?

Più della metà del territorio nazionale sarebbe cementificato! E noi oltretutto sappiamo che non è solo la cementificazione la causa di alterazione irreversibile del suolo: ad essa si aggiungono significativamente agricoltura e allevamenti intensivi, inquinamento, smaltimento rifiuti incontrollato ecc. ecc.

In altre parole, il collasso che per il momento siamo ancora riusciti a rinviare sarebbe già avvenuto da tempo.

E dunque, a conclusione del ragionamento, possiamo affermare che la propensione a edificare costruzioni su più piani, seppure inconsapevolmente e fortuitamente, è il sistema che l’essere umano ha escogitato per potersi riprodurre più di quanto la disponibilità di suolo del pianeta gli avrebbe consentito.

La nuova tendenza del villaggio globale a crescere in altezza con grattacieli sempre più alti persegue anch’essa il medesimo fine?

È probabile, ma pur con tutti questi espedienti i limiti della sostenibilità prima o poi verranno raggiunti, ed allora il redde rationem non potrà che essere triste e doloroso.

venerdì 7 dicembre 2018

Quanto rende il capitale? - Agonia del capitalismo 4 -

di Jacopo Simonetta

Quarto post di una serie di dieci, i precedenti sono reperibili qui: primo, secondo, terzo.

Nel precedente post abbiamo visto che nel corso del secolo scorso il rendimento medio del capitale si è ridotto, mentre sono aumentati gli stipendi di fascia alta ed altissima, talvolta in modo spropositato.

Il grafico mostra che, in Francia come nel resto d’Europa, la parte di reddito nazionale percepito dall’1% più ricco sia passato dal 20% del 1910 al 8-9% attuale, quasi interamente dovuti agli stipendi.   In USA ed altri paesi extra-europei, la quota di reddito percepito dalla classe dominante è tornata a valori analoghi a quelli di un secolo fa, ma anche in questo caso, prevalentemente per gli elevati ed elevatissimi stipendi percepiti e solo secondariamente per il reddito del capitale. 

Dunque il capitale è diventato marginale?   Non è così semplice.



Il rendimento del grande capitale.


Sul lungo periodo e dai valori medi dei principali paesi capitalisti, Piketty giunge alla conclusione che il rendimento del capitale è passato da un 4-5% di prima dei “30 catastrofici”, al 5-6% del dopoguerra, fino al 3-4% attuale.  Medie significative, ma che nascondono considerevoli differenze legate alla taglia del capitale.

Per cominciare vi è un fattore legato al fatto che chi dispone di grandi patrimoni è in condizione sia di servirsi di professionisti migliori, sia di ottenere migliori condizioni dagli stati e dalle banche.  Un caso limite lo abbiamo visto con la crisi di Cipro, in cui le banche cipriote hanno assecondato la fuga dei grandi oligarchi russi, mentre hanno chiuso la tagliola sulle dita dei ricconi di mezza tacca.  Dinamica analoga si è vista con la “volutary disclosure” concordata fra il governo Renzi e la Svizzera: chi è rimasto nella trappola sono stati i pesci piccoli e piccolissimi, mentre i grossi patrimoni sono in qualche modo stati protetti (almeno in parte perché erano già stati “scudati” da Berlusconi).

Ma anche tralasciando simili situazioni eccezionali, i grandi capitali pagano proporzionalmente meno tasse di quelli piccoli, grazie a diversi meccanismi.   Per esempio, i redditi aziendali sono tassati in modo più blando dei redditi personali e le grandissime imprese possono addirittura ottenere degli sconti ulteriori sulla base di trattative internazionali.   Certo, i redditi aziendali vanno poi a finire in tasca a qualcuno, ma questo secondo passaggio è tanto più opaco quanto più ingenti sono le cifre in questione.   Lo scandalo dei “Panama Papers” ha dimostrato proprio questo: le norme finanziarie a fiscali di tutti i paesi del mondo hanno delle falle attraverso cui i capitali possono, in parte, sfuggire legalmente all'imposizione.  A condizione però di potersi pagare i massimi livelli dei servizi finanziari e di consulenza fiscale o legale.  Si chiama "elusione fiscale", da non confondere con la ben più rozza "evasione fiscale".

Vi è poi un altro fattore importante: i piccoli capitali sono costituiti in massima parte da fondi pensionistici e proprietà immobiliari.  I primi godono di regimi fiscali agevolati, ma i secondi sono invece soggetti ad una duplice imposizione.  Per riprendere l’esempio fatto in precedenza, il signor Rossi che affitta un appartamento ereditato dalla nonna, paga sia una tassa sulla proprietà, sia una tassa sul reddito che questa eventualmente gli da.   Viceversa, i grandi patrimoni sono costituiti perlopiù da titoli che vengono continuamente scambiati.  Non sono soggetti a tasse sulla proprietà ed anche quelle sul reddito sono difficili da calcolare, vista la dinamicità ed elusività di questo tipo di capitale.

Per cercare di quantificare l’effetto di questi fattori, Piketty ha avuto l’eccellente idea di indagare i rendimenti dei patrimoni detenuti dalle università americane.   Questi sono infatti pubblici e del tutto trasparenti.

Come si vede, a fronte di un rendimento medio lordo dell’ 8,2% annuo per il periodo 1980-2010, i patrimoni plurimiliardari delle grandi università (Harvard 30 miliardi, Yale 20 e Princeton 15) hanno avuto un rendimento del 10,2%.  Nello stesso periodo, i patrimoni inferiori ai 100 milioni hanno reso solo il 6,2%.

Passando ai patrimoni privati, le cose diventano assai più nebulose, per ovvi motivi.  Tuttavia lo storico francese propone una tabella da cui risulta che i miliardari avrebbero goduto di un rendimento del 6-8%, cioè circa il doppio della crescita del PIL mondiale nel medesimo periodo.

Da notare anche che la crescita media dei patrimoni mondiali è stato del 2% circa e quella dei redditi di appena l’1,4%.  Come è possibile?  Ci sono tre ragioni che contribuiscono a spigare questo apparente paradosso:

La prima è che buona parte della crescita ufficiale del PIL è dovuta ad artifici contabili e stime più o meno manipolate a scopi politici.

La seconda è che mentre cresce l’economia, cresce anche la popolazione ed anche se la torta è più grande, va ripartita fra più commensali.

La terza è che i piccoli e piccolissimi patrimoni hanno un rendimento molto più basso che difficilmente lascia un surplus da reinvestire, mentre una parte consistente del rendimento dei grandi patrimoni viene reinvestito.

Il rendimento del micro-capitale

Abbiamo visto che il capitalismo post-bellico è stato completamente diverso da quello prebellico principalmente per due ragioni:

1 - La classe dominante non è più quella dei redditieri, ma quella dei quadri e super-quadri che godono di stipendi vertiginosi rispetto a quelli dei loro dipendenti.

2 - La nascita ed il radicamento di una grossa percentuale (nei paesi "avanzati" circa metà della popolazione) di mini e micro capitalisti.

Sul reddito del mini- capitale Piketty non fornisce dati, ma un'idea possiamo farcela tornando a fare i conti in tasca al nostro signor Rossi.    Dalla sua denunzia dei redditi (immaginaria, ma realistica), impariamo che il famigerato appartamento della nonna vale circa 120.000 € ed è affittato ad un peruviano per 9.000 € l’anno.  Su questi Rossi paga il 21% di cedolare secca, ossia 1890€ cui si devono aggiungere circa 800 € di IMU e altrettanti di condominio (salvo complicazioni).  Dunque,  al netto, Rossi prende circa 5.400 € (450 € al mese).   Cioè il suo capitale rende il circa il 4%, in linea con i dati macroeconomici elaborati da Piketty, da cui occorre però sottrarre ancora l’inflazione, che spesso non è compensata da un parallelo aumento della pigione, specie sui contratti lunghi.  In pratica, Rossi può contare su un rendimento reale dell’2-3% .  Salvo incidenti.

Del resto, altri investimenti classici dei mini e micro-capitalisti, come i fondi pensione, offrono oggi rendimenti al lordo dell’inflazione fra il 2 ed il 3%, mentre i leggendari BOT oramai nemmeno compensano l'inflazione.

Dunque per Rossi l’affitto del peruviano è un piacevole integrativo, ma a condizione che disponga anche di un buono stipendio perché se, invece, ha bisogno di questi soldi per le spese correnti, quando dovrà fare dei lavori sarà in difficoltà.  Se poi l’inquilino smette di pagare o se ne va lasciando dei danni, rimetterci un anno di pigione è il minimo che gli possa capitare.   Per non parlare del fatto che le tasse sugli affitti si pagano comunque, anche se gli inquilini non pagano la pigione.

Viceversa, la signora Liliane Bettencourt, cui è attribuito un reddito, netto da tasse ed inflazione, di alcuni milioni di euro l’anno, non potrà che reinvestirne la maggior parte, condannandosi ad una crescita esponenziale della propria ricchezza. Ci sono infatti dei limiti a quello che una persona può spendere, a meno di non devolvere parti cospicue del proprio reddito ad interessi comuni come alcuni miliardari effettivamente fanno tramite apposite fondazioni (ma mica tutte limpide come quella con cui i coniugi Tompkins hanno regalato al Cile un intero Parco Nazionale).

Conclusioni 4

Il rendimento reale del capitale è oggi fortemente influenzato dalla taglia del medesimo.   Mentre i mini e micro- capitali sono al più un modo per proteggere i risparmi dall'inflazione, i grandi e grandissimi capitali hanno un reddito decisamente notevole: anche il 10% in un mondo la cui la crescita economica ufficiale è dell’3-4%, in realtà probabilmente meno.

Questo fenomeno va di pari passo con stipendi che crescono esponenzialmente man mano che si sale la scala gerarchia, mentre sono stagnanti, o in diminuzione, ai livelli basali ed intermedi.  La combinazione di questi due fattori sta molto rapidamente scavando un baratro fra un’élite sempre più numerosa in termini assoluti, ma sempre più esigua in termini percentuali, e tutto il resto del corpo sociale. La cosa interessante è che si tratta di un fenomeno comune a tutti i paesi, ma con differenze importanti a seconda delle aree geo-politiche.  In Europa, malgrado sia evidente, il fenomeno è di gran lunga meno sviluppato (circa il 10% del reddito nell’1% delle mani; cioè la classe dominante dispone di redditi circa 10 volte il reddito medio). Negli stati Uniti siamo a circa il doppio (il 20% del reddito nell’1% delle mani; quindi 20 volte il reddito medio).

Molto interessante è anche il fatto che questa polarizzazione è presente anche all'interno del 10% superiore, dove l'1% guadagna nettaente più del sottostante 9%, lo 0,1 percento molto di più dell' 0,9% e cos via, con un'allargamento esponenziale del reddito, salendo la scala sociale.
Per il poco che se ne sa, nei “paesi emergenti” troviamo situazioni comprese fra questi due estremi od anche peggio, ma ovunque si riscontra una  tendenza ad un rapido aumento della divergenza.

Per saperne di più: Picco per Capre









martedì 4 dicembre 2018

Una recensione di "Non c'è più Tempo," di Luca Mercalli








Non c'è più tempo 

Luca Mercalli 

Einaudi 255 pag. 18 Euro 




L'autore non necessita di presentazioni, ben conosciuto, da anni si prodiga per mettere in guardia tutti dagli effetti dei cambiamenti climatici.

In questo volume una bella raccolta di articoli, piccoli saggi, contributi, apparsi su settimanali, quotidiani, riviste in un arco di tempo che va dal 2008 al 2018. Sono contributi che ben illustrano il pensiero e l'allarme che cerca di trasmettere ai lettori ma scritti con garbo, mai fuori dalle righe, sempre corretti e alla portata di tutti.

Argomenti ben conosciuti da chi si occupa di questi temi  che purtroppo paiono inascoltati, relegati ai margini dell'informazione,  tuttavia Mercalli continua a ripetere. Ecco, se c'è un limite in questo libro forse  è la non sequenzialità temporale degli articoli e il numero che tende a renderli ripetitivi pur non banalizzando il messaggio che Mercalli vuole trasmettere: attenzione, siamo fuori tempo massimo, non c'è più tempo. Appunto.

wm