giovedì 15 marzo 2018

"Viaggiare Elettrico" di Ugo Bardi. La presentazione del rettore dell'Università di Firenze




Questa è la presentazione del libro "Viaggiare Elettrico" di Ugo Bardi (Lu::Ce edizioni, 2018), tenuta dal rettore dell'Università di Firenze, prof. Luigi Dei.

Era la prima presentazione un po' "ufficiale" del libro ed è stata fatta presso lo Chalet Fontana a Firenze, il 2 Marzo 2018. Appena possibile, metterò on line la registrazione della mia presentazione del libro.


https://luce-edizioni.it/prodotto/viaggiare-elettrico/

martedì 13 marzo 2018

I Limiti Fisici alla Crescita Economica


Il lavoro di Roberto Burlando e Angelo Tartaglia come editori ha generato questo libro nel quale ho contribuito con uno dei capitoli. Devo dire che ne è venuto fuori veramente un libro interessante, aggiornato, e anche comprensibile, sia pure non un libro divulgativo. Il problema è sempre il solito: uno lavora gratis per far fare soldi agli editori specializzati che fanno pagare questi libri uno sfracello: questo qui, se lo volete in forma cartacea lo dovete pagare 130 Euro (ma cos'hanno nella testa? Un allevamento di pipistrelli?). Tanto più che  - per risparmiare - non si preoccupano nemmeno di inventarsi una copertina decente. Per fortuna l'e-book è più abbordabile, ma in ogni caso finisce che pochissimi hanno accesso a questi testi, mentre invece tutti sono esposti alle fesserie che girano su internet. Evvabbé, contentiamoci. Perlomeno un bel libro lo abbiamo scritto.

 

I limiti fisici alla crescita economica

Un post di Roberto Burlando e Angelo Tartaglia. 

 E’ recentemente stato pubblicato il libro Physical limits to economic growth, apparso nella collana Routledge Studies in Ecological Economics. L’opera ha tratto occasione dal convegno Science and the Future che si svolse, presso il Politecnico di Torino, nell’ottobre 2013. Il tema è pienamente espresso dal titolo e l’intento è quello, insieme, di presentare lo stato dell’arte su una serie di problematiche rilevanti e di offrire approfondimenti originali su vari aspetti della sostenibilità o insostenibilità del sistema socio-economico globale contemporaneo.

Un impegno, assunto e perseguito nel convegno del 2013 e continuato in questo testo, era ed è quello di intavolare un dibattito scientifico tra ambiti culturali differenti: scienze della natura da un lato e scienze economico-sociali dall’altro. Come è ovvio e ben noto i linguaggi sono diversi ma la pesante oggettività dei fatti impone o imporrebbe uno sforzo congiunto per analizzare con disincanto e senza barriere artificialmente costruite la fenomenologia evolutiva delle società umane nel contesto ambientale del nostro pianeta, e, possibilmente, suggerire modalità razionali e praticabili per gestire trasformazioni la cui rapidità sta ripercuotendosi negativamente e pesantemente, e ancor più rischia di farlo nel futuro, sull’umanità nel suo insieme.

Come già per Science and the Future anche nel caso del libro si è faticato ad intavolare un confronto di merito, al di là della dimensione mediatica, tra posizioni diverse all’interno delle singole discipline; ci si è però quanto meno sforzati di mettere insieme scienze umane e scienze naturali, anche se all’interno di una impostazione comune. In questo senso l’opera non è “neutra”, come sta scritto nell’Introduzione, o “bipartisan” come a volte si vorrebbe anche su questioni sulle quali si registrano maggioranze assai qualificate, ma il modo dell’esposizione cerca di presentare fatti ed interpretazioni in una forma che consenta a chiunque lo desideri di effettuare una lettura critica al di fuori dei rituali e delle forme spesso usati in questo campo nei canali di comunicazione che vanno per la maggiore.

In concreto il testo si articola in sei capitoli, suddivisi in due gruppi di tre. Il primo gruppo è quello delle scienze naturali o “esatte”; il secondo è quello delle scienze socioeconomiche.

Gli autori sono molteplici, inclusi, in doppia veste, anche i due curatori del volume. L’introduzione, dei curatori, evidenzia il comune piano metodologico dei contributi, presentando fin dall’inizio alcuni criteri ritenuti necessari per potersi muovere nelle discussioni attuali distinguendo tra ciò che merita di essere considerato e discusso tra sostenitori di visioni diverse e ciò che è pura disinformazione, priva di basi scientifiche (quel che è poi stato definito come le “fake news” sul piano scientifico).

L’argomento che si trova per primo, affrontato da Ugo Bardi, è quello del limite rappresentato dalle risorse finite disponibili sulla terra. Una analisi focalizzata prevalentemente sulle risorse inorganiche reperibili nella crosta terrestre mostra la possibilità di una gestione, se non proprio circolare, quanto meno tendente alla chiusura dei cicli produzione-consumo su tempi molto lunghi. L’approccio è quello di trattare lo sviluppo economico complessivo come un processo metabolico di un organismo composto da più sottoinsiemi mutuamente interagenti e inglobati gli uni negli altri a partire dall’ecosfera complessiva, passando per la biosfera e giungendo alla tecnosfera – che è quella costituita dall’insieme delle strutture industriali costruite dall’umanità negli ultimi secoli. Ogni ambito ha le sue specificità ma, analizzato in termini termodinamici, tutti debbono convivere con gli stessi vincoli e sottostanno a dinamiche simili.

Il secondo capitolo, scritto da Stefano Caserini, riguarda il mutamento climatico globale. La situazione presente e gli scenari futuribili vengono accuratamente passati in rassegna, ribadendo le argomentazioni scientifiche che nullificano le residue posizioni negazioniste, anche nelle forme insidiose ed ambigue in cui tendono ora a presentarsi, messa da parte la baldanzosa arroganza di qualche anno fa. Caserini evidenzia anche quelli che sono i vincoli concreti cui il mondo dovrebbe attenersi per poter sperare di conseguire l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura superficiale media del pianeta “ben al di sotto dei 2 °C” come sta scritto nell’accordo di Parigi. In particolare si pone in evidenza come percentuali variabili tra il 30% e l’80% (a seconda della fonte) delle risorse energetiche fossili dovrebbero restare sotto terra. Non si può che rilevare la contraddizione tra questa esigenza e la politica materialmente perseguita in Italia e in altri paesi, di continua ricerca di nuovi giacimenti da sfruttare e la sottoscrizione di contratti di acquisto a futura memoria di gas metano e di petrolio. Le risorse investite in queste ricerche e nello sfruttamento di nuovi giacimenti dovrebbero piuttosto essere indirizzate al settore delle fonti rinnovabili e della riduzione dei consumi di energia, eliminando gli sprechi e accrescendo l’efficienza degli apparati energivori e dei sistemi produttivi.

L’argomento del terzo capitolo (Angelo Tartaglia) è quello dei limiti di un sistema a complessità crescente. Un sistema a complessità crescente è certamente il sistema economico globalizzato. Come sappiamo, il paradigma (e il dogma) dell’economia main stream è quello della crescita. Mentre l’aspetto della impossibilità di una crescita materiale indefinita in un qualunque contesto finito è quello più dibattuto e su cui si pone l’accento nei primi due capitoli, qui si analizza un problema che di solito resta implicito. In sintesi si fa vedere che in un sistema di relazioni in cui i nodi crescono di numero la complessità cresce più in fretta dei nodi. Nel caso dell’economia i “nodi” possono essere operatori economici, attività produttive, servizi e così via; mentre la complessità è misurata dalle interconnessioni tra tutti questi soggetti, lungo le quali viaggiano informazioni, materiali, merci etc. In sintesi si vede che, se al crescere dei nodi cresce la ricchezza lorda prodotta, al crescere della complessità cresce il costo del mantenimento del sistema sotto controllo e in sicurezza. Questa seconda crescita è però più veloce della prima: in pratica “l’utile” ricavato da questo modo di funzionare della macchina mondo si assottiglia progressivamente e il tutto finisce per diventare insicuro e ingovernabile.

I primi tre capitoli esauriscono i temi legati alla dimensione naturale e oggettiva. Si viene quindi alla seconda parte: quella delle scienze umane. Il capitolo quattro (Joseph Tainter e un gruppo di suoi collaboratori) espone una accurata e approfondita critica dell’”ottimismo tecnologico” che è stato la bandiera dell’evoluzione dell’economia mondiale, a partire dai paesi più avanzati, dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si mostra con chiara evidenza che non vi sono vie d’uscita tecnologiche che possano globalmente neutralizzare l’impoverimento delle risorse materiali. Un meccanismo che ha funzionato fino ad oggi viene progressivamente smontato dall’ineludibile declino della produttività dell’innovazione. In altri termini (e questo richiama in qualche modo il capitolo tre) gli investimenti necessari per perseguire e conseguire un ulteriore progresso tecnologico, a parità di rilevanza del risultato, crescono sempre più. E’ una versione più specifica della legge del “diminishing return” che l’economia classica già conosce.

Nel quinto capitolo Ian e Julia Schindler analizzano in termini formali le strategie possibili per un percorso verso la sostenibilità del sistema mondo in presenza di vincoli energetici. La discussione è impostata a partire da un esame dei cicli economici storicamente dati e da una riconsiderazione di quanto accaduto formulata usando parametri energetici. Numerosi concetti tipici della scienza economica vengono messi in campo esprimendoli però in termini di fabbisogni di energia. Dalle valutazioni esposte emerge un giudizio positivo sul movimento delle transition towns e sulla proposta della permaculture.

Il capitolo finale della seconda parte (Roberto Burlando) prende in esame la questione del negazionismo, in particolare nei confronti del cambiamento climatico, e muovendo dalle analisi generali (Oreskes & Conway, Washington & Cook) sul tema, considera lo specifico della teoria economica e degli economisti. Da un lato evidenzia l’evoluzione dell’ economia mondiale negli ultimi decenni (quelli del neo-liberismo o fondamentalismo di mercato) con la crescita delle rendite e della concentrazione di reddito e ricchezza nelle mani di una percentuale sempre più ristretta della popolazione (popolarizzata come la “dittatura dell’1%”), che usa qualunque mezzo (dalla legislazione che favorisce la concentrazione di potere di mercato ai paradisi  fiscali) a tutela dei propri interessi e per contrastare qualunque cosa (tutela dell’ambiente o delle popolazioni) possa contenerne l’espansione. Dall’altro presenta un’accurata analisi critica del pensiero economico main stream (in articolare delle teorizzazioni dell’equilibrio economico generale) e dei suoi assunti, sottolineandone sia la distanza dalla realtà economica in cui viviamo sia il carattere spesso dogmatico e l’inadeguatezza degli assiomi su cui si fonda, quali l’individualismo metodologico ed etico, e il carattere sostanzialmente riduttivista. Questi tratti risultano sostanzialmente inadeguati ad interpretare l’evoluzione dell’economia mondiale contemporanea e ancor più a proporre soluzioni ai problemi emergenti.

La conclusione generale del libro, ricapitolando l’insieme dei contributi, mette insieme il necessario realismo riguardo ai fatti e sostiene l’esigenza di un vero e proprio cambio di paradigma, che solo può essere la premessa di un cammino che riporti il nostro stile di vita nel solco della sostenibilità. Da un lato i mutamenti globali che una impostazione, in parte inconsapevole, delle relazioni del dare ed avere ha messo in moto continueranno per inerzia per un tempo lungo anche decenni. Dall’altro le vie di uscita nel dettaglio dovranno e potranno essere costruite sul campo senza aspettarsi ricette miracolose fin da subito. Il presupposto indispensabile è, comunque, quello di passare da un approccio competitivo, basato su un radicale pessimismo riguardo alla natura umana, ineludibilmente egoista, ad uno collaborativo a partire da consapevolezza e razionalità. Il problema non è solo quello di convincere intellettuali ed esperti a liberarsi da dogmi ed assiomi irrazionali, ma quello di promuovere e costruire una capillare e razionale consapevolezza generalizzata riguardo a ciò che sta accadendo e alla necessità di unire le risorse umane per riprendere le redini di uno sviluppo a vantaggio di tutti e che non coincide con una impossibile crescita della produzione materiale.

sabato 3 marzo 2018

Il limite dei “Limiti”.


di Jacopo Simonetta

Ad oggi, purtroppo, il modello World3, cuore dello studio dei “Limiti della Crescita”, si è dimostrato di gran lunga il migliore fra i tanti modelli proposti nel tentativo di capire quello che ci sta accadendo.  La sua capacità previsionale si è infatti dimostrata ampiamente maggiore di quanto i suoi stessi autori non si aspettassero. Eppure contiene almeno un errore strutturale consistente: la teoria della “Transizione Demografica”.   Un errore trascurabile nella fasce ascendente delle curve, ma critico nella fase di declino e, forse,di  collasso del sistema socio-politico globale.

La teoria

L’idea alla base di questa teoria è che, aumentando il benessere, dapprima diminuiscano prima la mortalità e, successivamente, la natalità; così da ritrovare un relativo equilibrio ad un livello molto più alto di quello di partenza. Il corollario, è che non bisogna quindi preoccuparsi di controllare i parametri demografici (natalità, mortalità e saldo migratorio), bensì aumentare e diffondere il benessere economico,  “condizione necessaria e sufficiente” per la definitiva soluzione dei problemi umani.

La teoria, nata alla fine del XIX secolo, ha alcuni pregi e parecchi difetti.  
Il merito principale è di individuare una serie di fattori sociali e culturali che effettivamente danno un contributo importante alla dinamica di una popolazione umana.   Ad esempio, il livello di istruzione femminile, l’accesso ai contraccettivi moderni, l’accesso al mercato del lavoro per le donne, l’innalzamento dell’età matrimoniale, eccetera sono certamente elementi importanti; cruciali in determinati contesti.  E sono tutti fattori quasi sempre associati ad un aumento del reddito, almeno in età moderna.
Un primo importante difetto è invece quello di pretendere che una stessa dinamica debba necessariamente verificarsi dovunque e comunque.

Un secondo ed ancor maggiore difetto non è proprio della teoria in se, ma dei modelli da essa derivati ed ampiamente utilizzati dalle principali istituzioni mondiali (ma non da World3). Cioè dare per scontato che gli ecosistemi, di cui le popolazioni fanno parte, siano comunque in grado di sostenere la maggiore popolazione post-transizione.  Di conseguenza, sembra che le popolazioni umane possano solo crescere o stabilizzarsi, senza mai diminuire se non, eventualmente, in conseguenza di proprie dinamiche interne. Politicamente molto corretto, ma scientificamente del tutto irrealistico.

Il terzo e principale difetto è che il modello è reversibile nel tempo.  In pratica, la teoria prevede che, quando una popolazione viene colpita da una crisi economica, aumentino sia la mortalità, sia la natalità. Considerando il solo livello globale, i flussi migratori sono considerati indifferenti. Per quanto riguarda la mortalità, la previsione è corretta, ma gli effetti sulla natalità sono molto più complessi.  Vediamo quindi una serie di casi reali (ovviamente, visti i limiti di spazio, si farà cenno solo a quei dettagli che sono utili in questa sede).

Casi reali.

Senza pretesa di condurre un’analisi sistematica, ci limiteremo qui ad una carrellata di casi emblematici, con attenzione agli indizi utili per delineare scenari demografici sia pur minimamente realistici.  Fermo restando che la realtà sarà sempre diversa da come la abbiamo immaginata. 

Cina


Il doppio picco, negativo delle nascite e positivo delle morti, seguito da un brusco rimbalzo della natalità è un fenomeno molto frequente che ritroveremo anche in altri esempi.  Si verifica quasi sempre quando una popolazione viene colpita da una improvvisa calamità, molto violenta, ma di breve durata come una guerra ad alta intensità o una grave epidemia.  Molto più interessante è quello che è accaduto dopo.  Infatti, malgrado le politiche decisamente nataliste di Mao, le nascite sono calate con estrema rapidità ben prima del “miracolo cinese”. Da notare anche che la legge sul figlio unico è stata introdotta quando la natalità era già poco al di sopra dell’1,5% e, dall'andamento successivo della curba, si direbbe che abbia svolto un ruolo determinante nel prevenire un picco riproduttivo analogo a quello avvenuto in Italia negli anni ’60 (v. seguito).   Viceversa, il successivo livellamento, fra l’1 e lo 0,5 %, è probabilmente dovuto ad altri fattori, tanto è vero che la modifica della legge (adesso sono consentiti due figli per coppia) non ha per adesso modificato sensibilmente la curva.

Per quanto riguarda la correlazione con la crescita economica, è da notare che il “miracolo cinese” è avvenuto dopo che la natalità era già sostanzialmente scesa.  Oggi, in una fase di brusco rallentamento, se non di stagnazione, dell’economia cinese, i provvedimenti per rilanciare la natalità stanno avendo risultati deludenti.   La natalità è tuttora in calo.

Un fattore che sicuramente sta giocando un ruolo è la prospettiva di un futuro senza crescita economica in un paese in cui è stato fatto un massiccio sforzo per l’istruzione di base alle bambine, l’industrializzazione e il lavoro femminile. Tutti fattori che hanno contribuito molto a scardinare la famiglia confuciana tradizionale, a tutto detrimento della natalità. Cioè esattamente il contrario di quanto all'epoca si riprometteva il governo maoista che pure avviò questi provvedimenti.

India.

Contrariamente alla Cina, durante gli anni ’70 e primi anni ’80 l’India fu il paese che più di ogni altro si prodigò per contenere il “baby boom”, giungendo addirittura a praticare sterilizzazioni forzate in maniera massiccia. Con tutto ciò, la natalità che continuò comunque a crescere inesorabile fino alla metà degli anni ‘80, per poi cominciare a declinare autonomamente e lentamente; restando comunque ben addentro al territorio positivo.  Un fatto questo non privo di conseguenze.
Qualcuno ricorderà di quando si parlava di “Cindia”: in parecchi vagheggiavano un’alleanza strutturale fra questi due giganti che, uniti, avrebbero dominato il mondo.   Partiti praticamente insieme nel 1980, i due paesi più popolosi del mondo hanno invece seguito strade assai diverse e, ad oggi, la Cina ha vinto la corsa.   

Vari fattori vi hanno giocato, ma certamente la precoce riduzione della natalità ha consentito ai cinesi un sensibile aumento del reddito pro capite già prima del 2001 e, quando la Cina entrò nel WTO, la sua popolazione era già quasi stabilizzata, seppure complessivamente giovane.   Una condizione ottimale per approfittare della situazione con il più fantastico tasso di crescita economica mai visto nella storia umana.

Viceversa, la crescita demografica indiana continua tuttora ad assorbire parte della crescita economica, con un aumento del potere d’acquisto del cittadino medio che è meno della metà di quello dei cinesi. Di conseguenza, mentre milioni di famiglie cinesi hanno potuto investire e/o risparmiare, la maggior parte delle famiglie indiane si devono accontentare della sopravvivenza.

Nigeria.

La Nigeria è il paese che più di tutti si presta ad illustrare l’esplosione repentina delle “bomba demografica”.  In soli 50 anni la sua popolazione è triplicata e continua a crescere ad un vertiginoso tasso vicino al 3% annuo (tempo di raddoppio circa 25 anni).

Le conseguenze sono complesse.  Anche se molti acclamano il vertiginoso aumento del PIL del paese, la devastazione pressoché totale degli ecosistemi ha provocato la disintegrazione degli equilibri sociali e delle culture tradizionali, con un tasso di inurbamento fantastico sia per dimensione che per velocità. Guerre tribali e religiose, terrorismo, corruzione ad ogni livello, disoccupazione alle stelle e molto altro completano un quadro che sta già contribuendo a destabilizzare una bella fetta di mondo. Come se non bastasse, una situazione politico-sociale molto instabile all’interno di un paese ricco di risorse minerarie non può che essere un potente attrattore per speculatori privi di scrupoli di tutto il mondo.

Particolarmente interessante è che i oggi due terzi della popolazione vive in completa miseria, ma ciò non impedisce alla stragrande maggioranza delle persone di essere molto ottimiste.  Oggi, in Nigeria, quasi tutti hanno progetti per un futuro che immaginano molto migliore del presente. Questa è probabilmente una delle due principali ragioni per un calo così lento della natalità, malgrado un ambiente così ostile per la grande maggioranza dei cittadini.  L’altro motivo probabile è che la larghissima maggioranza dei nigeriani sono cattolici o mussulmani: molto convinti e credenti in entrambi i casi.

Impossibile dire come andrà, ma di sicuro la proiezione demografica ufficiale (circa 500 milioni di persone al 2050) è la meno probabile di tutte. Anche tenendo conto che l’impronta ecologica è un parametro parziale, non c’è dubbio che la popolazione attuale abbia già ampiamente superato la capacità di carico del Paese. Qualunque cosa fermerà un simile impulso sarà dunque qualcosa di “bilico” che coinvolgerà il mondo intero. 

Russia.

La Russia si trova in una condizione opposta quella della Nigeria. Raggiunse il massimo di crescita demografica alla fine del XIX secolo, per poi gradualmente declinare, anche a causa delle due guerre mondiali, parimenti disastrose sul piano demografico, ancorché di segno opposto su quello geopolitico.   La prima segnò infatti la fine dell’Impero Russo, la seconda la nascita di quello Sovietico.

Per quanto riguarda il secondo dopoguerra, è da notare che proprio nel periodo della massima potenza sovietica, il tasso di natalità calava rapidamente, a fronte di un tasso di mortalità in diminuzione fino alla metà degli anni ’60, per poi tornare a crescere leggermente. Dal nostro punto di vista, è però ancora più interessante ciò che è accaduto dopo.  Il collasso dello stato sovietico e la gravissima crisi economica che lo ha caratterizzato iniziò infatti alla metà degli anni ’80, puntualmente accompagnato non solo da un balzo della mortalità (come c’era da aspettarsi), ma soprattutto con un ulteriore sdrucciolone della natalità, che raggiunse il minimo storico durante il decennio 1995-2005.  Per poi riprendersi, ma solo in parte, a fronte di una migliorata situazione economica e di una maggiore stabilità politica.

Un fatto questo molto importante perché ulteriormente confermato negli ultimi anni, ma diametralmente opposto alle previsioni fatte in base alla teoria demografica dominante. 

Italia.



A prima vista l’Italia si presenta come un caso paradigmatico di “transizione demografica”; ma ad uno sguardo più attento forse non del tutto.  Dal 1900, la mortalità è andata diminuendo, mentre la natalità cresceva.  Poi ci fu il duplice disastro della “grande guerra” e, subito dopo, della “spagnola”.   Da notare che in questo, come in moltissimi altri casi, durante la fase acuta delle moria anche la natalità è crollata, per rimbalzare subito dopo ad un livello leggermente superiore a quello precedente.  Interessante è anche osservare che, analogamente a quanto visto per la Cina di Mao, le politiche demografiche di Mussolini non impedirono un calo sensibile della natalità durante il “ventennio”.

Quindi ci fu un picco di natalità a cavallo del nuovo disastro rappresentato dalla 2a Guerra Mondiale (che fece molte più distruzioni, ma meno morti della prima, malgrado i bombardamenti, l’olocausto, le rappresaglie, ecc.). Poi, e questo è molto interessante, una netta depressione durante gli anni ’50 e quindi un ripido picco in corrispondenza col il periodo più ottimista della nostra storia: quei mitici anni ’60 che ancora ci ossessionano.  Infine, il graduale calo fino a quota di mantenimento alla metà degli anni ’90 e poi sotto.  Infine, la crisi mai finita del 2008 si è finora accompagnata sia ad un lieve aumento della mortalità, sia una lieve diminuzione della natalità. Sicuramente è presto per dire se sarà una tendenza duratura e diversi fattori concorrono a questo risultato, ma è interessante perché analogo a quanto già visto in Russia ed in molti altri paesi.

Tirando le somme.

La carrellata di cui sopra è molto parziale, ma significativa. Direi che si possono trarre le seguenti conclusioni, certamente parziali, ma interessanti:

1 - La bomba demografica ci sta scoppiando sotto il naso proprio ora ed ha appena cominciato a farci male. Il “meglio” deve arrivare ed arriverà. Non possiamo sapere quanto tempo ci vorrà per tornare a densità umane compatibili con la sopravvivenza della Biosfera, ma sappiamo che, se non accadesse, l’estinzione della nostra specie diventerebbe una prospettiva molto realistica.  

2 - La “transizione demografica” descrive abbastanza bene quello che succede durante le fasi di rapida crescita, ma trascura completamente il ruolo complesso dei Ritorni Decrescenti  e dei limiti su tutti i fenomeni fisici di crescita, comprese la crescita economica e quella demografica.  Di conseguenza, risulta del tutto inadeguata per delineare scenari realistici per i prossimi decenni.  Questa tara rende assai poco affidabili gli scenari delineati da Word3 successivi al 2030-2040.

3 - Gli interventi governativi a favore della  natalità hanno di solito un impatto marginale, mentre quelli volti a ridurre la mortalità possono avere effetti spettacolari, a condizione di disporre dei mezzi economici necessari.  Anche gli interventi governativi di contrasto della natalità si sono dimostrati poco efficaci, tranne nel caso della Cina; cioè in un paese dove anche solo parlare di “diritti individuali” costituisce un reato grave

4 - Catastrofi improvvise come guerre ad elevata intensità o gravi epidemie hanno effetti molto brevi nel tempo perché, subito dopo, la società recupera la tendenza precedente.  Sono quindi del tutto inefficaci per controllare popolazioni in fase di rapida crescita, mentre possono avere effetti enormi su popolazioni che sono già in calo per altri fattori.  Ma simili shock potrebbero anche avere l’effetto di rilanciare la natalità.  Diciamo che le conseguenze a medio e lungo termine delle gravi calamità sono imprevedibili.

5 – Perlomeno nelle odierne  società reduci da periodi di “boom” economico, il peggioramento delle condizioni economiche, o anche il solo rallentamento della crescita, provoca una riduzione della natalità, a fronte di un incremento sia della mortalità che dell’emigrazione. Quindi riduzioni relativamente rapide della popolazione, anche in assenza di fatti particolarmente drammatici.

6 – In tutti i paesi del mondo il tasso di natalità sta diminuendo, ma l’inerzia intrinseca di popolazioni longeve come le nostre fa si che, in assenza di limiti, effettivamente la popolazione tenderebbe a crescere ancora per tutto il secolo in corso, secondo le proiezioni dell’ONU (circa 12 miliardi di persone per il 2100).   Il problema è che i limiti invece ci sono.

 Il limite dei “Limiti”.

Secondo World3, ben entro il 2050, la popolazione mondiale non tenderà a stabilizzarsi, bensì a diminuire.  La fine della crescita demografica globale per il 2030 è uno scenario reso molto credibile dalla dimostrata validità del modello.

Ma se questo si è dimostrato estremamente affidabile in fase di crescita, non lo sarà per la fase di decrescita.  Per i motivi visti, c’è infatti da aspettarsi che il decremento demografico sarà molto più rapido di quanto indicato dal modello, pur senza bisogno alcuno di immaginare scene raccapriccianti. Per fare solo un’ipotesi, un decremento del 3% annuo significherebbe dimezzamento della popolazione in circa 25 anni, pur senza bisogno di fosse comuni e monatti.

Un secondo punto, completamente assente dalle analisi di World3, sono le dinamiche regionali.  La flessione demografica, come tutti gli altri fattori in gioco, non sarà uniforme. Al contrario, ci saranno realtà molto diverse, ad esempio con aree in calo relativamente rapido, altre in relativo equilibrio ed altre ancora in rapida crescita.

Questo accentuerà le pressioni già presenti in materia di grandi flussi migratori che sono ampiamente in grado di cambiare drasticamente il quadro . 
Per citare un solo esempio, abbiamo visto che l'Italia ha un saldo naturale negativo, ma ciò nondimeno vive da oltre 10 anni il periodo di massima crescita demografica della sua storia. 


Altri fattori, come il clima, le guerre, le carestie eccetera contribuiranno a delineare un quadro imprevedibile nei suoi dettagli.

Questo crea contemporaneamente rischi ed opportunità.  Da una parte, infatti, la possibilità di importare gente dall'estero sarà senz'altro un’opportunità, ma solo ed esclusivamente se i flussi saranno controllati in modo da rispettare almeno due parametri: 1- rallentare, ma non fermare il decremento demografico; 2 – rispettare un livello di integrazione tale da prevenire conflitti gravi con gli autoctoni.
In caso contrario, una crescente conflittualità sarà inevitabile, con conseguenze probabilmente devastanti su economie e società già fortemente fragilizzate da altri fattori.

lunedì 26 febbraio 2018

Perché il colibrì è l'animale più pericoloso che esista


Se ve la cavate bene col francese, guardatevi questo clip che racconta non solo la storia del colibrì virtuoso, ma di come vada a finire - si conclude dicendo, "se ragioni con un cervello da colibrì, finisce che ti fregano". (Grazie a Igor Giussani per la segnalazione).


Avete mai sentito raccontare la storia del colibrì e dell'incendio? Va così: c'è un gigantesco incendio che divampa nella foresta. Tutti gli animali scappano salvo un colibrì che si dirige verso le fiamme con po' d'acqua nel becco. Il leone lo vede e lo ferma, chiedendogli, "ma cosa pensi di fare con quella goccia d'acqua?" E il colibrì risponde, "io faccio la mia parte".

Se avete studiato filosofia al liceo, questa storia vi potrebbe far venire in mente che il colibrì è un seguace di Immanuel Kant. Ma, a parte la filosofia di Kant, la morale della storia è spesso interpretata in chiave ecologista. Ovvero tutti dovrebbero impegnarsi nelle buone pratiche per l'ambiente: spegnere la luce prima di uscire di casa, chiudere il rubinetto mentre uno si lava i denti, fare docce brevi per risparmiare acqua, andare in bicicletta invece che in macchina, differenziare i rifiuti con attenzione, eccetera. Sono piccole cose, esattamente come la goccia d'acqua che il colibrì porta nel becco contro l'incendio. Ma, se tutti si impegnano, otterremo qualcosa.

A mio parere, tuttavia, questa storia è una bella bufalata, per non dir di peggio. Più che ammirevole, il colibrì mi sembra un animale molto pericoloso. Ora provo a spiegarvi perché.

Tutto è cominciato qualche settimana fa, quando mi sono trovato a camminare immerso in una nuvola di fumo per la strada, dalle mie parti. Qualcuno aveva pensato che era il momento buono per bruciare una bella catasta di sfalci del suo giardino, generando una gran fumata grigiastra che si era diffusa in mezzo alle case. Sicuramente non una cosa salutare per quelli che abitavano lì vicino.

Ma è legale bruciare roba con grandi fumate nel mezzo di una zona urbana? Tornato a casa, mi sono fatto una piccola ricerca sul Web. Ho trovato che, secondo la legge, si può, ma solo in piccole quantità e con delle restrizioni abbastanza precise. (vedi i link in fondo a questo post).

La legge mi è parsa carente perché non tiene conto delle condizioni di densità urbana e delle condizioni atmosferiche, ma non entriamo in questo argomento. Appurato come stava la faccenda, mi è parso il caso di fare un piccolo post su Facebook in un sito dedicato al comune dove abito. Nel post facevo notare i limiti di legge alle quantità che si potevano bruciare e commentavo come nessuno si preoccupava di verificare che la legge fosse rispettata. Non era niente di più che un invito alla moderazione rivolto in particolare a quelli che affumicavano i loro vicini di casa.

L'avessi mai fatto! Mi sono arrivati improperi e accidenti, financo minacce di querela. La cosa curiosa è che mi sono arrivati in nome dell'ecologia. Bruciare gli sfalci, mi hanno detto, è cosa naturale, l'odore che fanno è buono, i vecchi contadini lo facevano ed è giusto che lo si faccia anche oggi. Così, loro sono veri ecologisti e possono bruciare quello che gli pare, quando gli pare. Invece, io non ho nessun titolo per rompere i cosiddetti con le mie considerazioni "legalistiche." Uno mi ha detto addirittura, "se fai questi discorsi, devi essere proprio una persona infelice!" (giuro, mi ha detto così).

Diciamo che sono rimasto abbastanza stupito di ritrovarmi davanti a un coro di persone tutte d'accordo a esprimere pubblicamente la loro opinione che "a noi, della legge non ce ne frega niente." Questo in un comune toscano vicino a Firenze non particolarmente noto per infiltrazioni mafiose e cose del genere.

Ma non credo che quelli che mi hanno maltrattato verbalmente fossero dei criminali incalliti. Piuttosto, persone che hanno un atteggiamento basato sull'idea che "io faccio la mia parte" (come dice il colibrì della storia). In altre parole, persone che ritengono che il loro impegno nelle buone pratiche ambientali li metta in una condizione di superiorità morale nei riguardi di chi non si impegna altrettanto. Di conseguenza, ritengono di potersi permettere di ignorare certe leggi, per esempio affumicando il loro prossimo bruciando sfalci nel giardino.

Questo atteggiamento lo potremmo chiamare la "colibrizzazione della responsabilità." ovvero che il fatto di essere virtuoso in una cosa ti da il diritto di essere peccatore in un'altra. (Mi sa che sia un problemuccio anche dell'imperativo categorico di Kant, ma non sono un filosofo per cui mi limito a parlare di colibrì).

Una volta entrato in questo ordine di idee, ho trovato che non sono il primo a pensare queste cose. Fra gli altri, lo ha fatto Jean Baptiste Comby nel suo libro "La question climatique. Genèse et dépolitisation d’un problème public" (Raisons d’agir, 2015). Lui non usa il termine "colibrizzazione," ma dice sostanzialmente quello che sto dicendo io. La questione climatica, e in generale ecologica, è stata "depoliticizzata", ovvero trasferita integralmente al dominio privato delle buone pratiche individuali. Quello che succede è che i membri delle classi medio-alte si fanno una piccola innocenza personale prendendosi cura di qualche dettaglio quando, invece, sono quelli che fanno più danni all'ecosistema. Una morale da piccoli borghesi che Cyprien Tasset giustamente chiama "fariseismo verde."

Insomma, a mio modesto parere il colibrì della storia è un bello stronzo: vola sulla foresta, butta la sua gocciolina d'acqua, poi se ne va, contento di aver fatto il suo dovere. E tutti gli animali che non volano muoiono arrostiti.

Cosa che potrebbe capitare anche a noi se continuiamo così.


(h/t Nicolas Casaux)


Per quelli di voi che masticano il francese, ecco un pezzo della recensione del libro di Comby scritta da Cyprien Tasset a http://journals.openedition.org/sociologie/2934#ftn8 grassetto mio. (ah... notate anche che in francese il termine "bobos" indica i "bourgeois-Boheme" - membri della classe medio-alta che si fanno belli col fatto di sentirsi ecologisti.)

Le cinquième chapitre traite du « paradoxe social selon lequel les prescriptions de l’écocitoyenneté bénéficient symboliquement à ceux [qui] sont, en pratique, les moins respectueux de l’atmosphère et des écosystèmes » (p. 16). En effet, les données existantes sur la répartition sociale des émissions de gaz à effet de serre montrent que « plus les ressources matérielles augmentent, plus la propension à détériorer la planète s’accroît » (p. 185). Le capital culturel, qui incline à « se montrer bienveillant à l’égard de l’écologie » et permet d’en tirer des profits symboliques, allant le plus souvent de pair avec le capital économique, il est « sans véritable effet » positif en termes de limitation des émissions (p. 186). Jean-Baptiste Comby a le mérite de poser ce paradoxe sans recourir, comme d’autres sociologues s’y autorisent parfois7, à la catégorie idéologiquement surchargée de « bobos8 ». Cependant, la démonstration qu’il mène en articulant les données existantes sur la répartition sociale des émissions de CO2 (voir tableau p. 178) avec des entretiens collectifs menés dans divers milieux sociaux sur la perception du problème climatique aboutit à mettre en scène un pharisaïsme vert des classes cultivées9, qui n’échappe pas à la surdétermination morale.

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Cosa dice la legge a proposito dell'abbruciamento dei rifiuti

Articolo recentissimo sul sito dell'ARPAT sulla questione dell'abbruciamento dei rifiuti



con tutti i link alla sentenza della corte di Cassazione di Dicembre


 e a un commento approfondito sulla stessa http://www.dirittoambiente.net/file/news_3614.pdf 

L'articolo da rispettare dice: "Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f) 1, effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti." Mentre l'articolo 185 comma 1 definisce attità tipo zone verdi, parchi, eccetera. 

Quindi, bruciare è possibile, ma solo 1) al di sotto delle quantità indicate, 2) nel luogo di produzione e 3) per scopo di ottenimento di concimanti e ammendanti. In sostanza, si possono bruciare residui di giardini in piccole quantità, ma con molta attenzione e spetta a chi brucia dimostrare che quello che ha bruciato non superava i limiti. Altrimenti si va nel penale.



sabato 24 febbraio 2018

Anche Paolo Attivissimo passa alla mobilità elettrica


Paolo Attivissimo è sempre stato a favore dell'auto elettrica, come del resto ti aspetteresti da una persona intelligente e bene informata come lui è. Così, in questo recentissimo post, Attivissimo ci racconta della sua esperienza con la sua auto elettrica, comprata usata. E' un articolo che vi da un sacco di informazioni pratiche su quanto può costare un veicolo elettrico, come gestirlo, vantaggi e svantaggi, eccetera.

Che ci volete fare? Ormai la transizione all'elettrico è inevitabile. Si è convertito persino Marchionne!

Ulteriori informazioni le trovate nel mio libro "Viaggiare Elettrico"


mercoledì 21 febbraio 2018

La rivoluzione elettrica





Ugo Bardi (giacca grigia) e Gianni Girotto (camicia blu scura) sul palco del dibattito sul trasporto elettrico a Montebelluna il 18 Febbraio 2018. Quello che segue è una sintesi di quello che ho detto e che cerca di mantenere il tono discorsivo del mio intervento.



Cari amici, per prima cosa è un piacere essere qui a Montebelluna. Mi sono fatto un po' di chilometri per venire da Firenze, ma ci tenevo a venire e il fatto che io sia qui oggi lo potete considerare come una personale forma di protesta contro la pochezza e lo squallore del dibattito politico per le prossime elezioni. Veramente, fa paura pensare che le decisioni sul futuro del paese possano essere prese sulla base di argomentazioni così di basso livello. E così, ho visto che qui da voi c'è un dibattito serio su argomenti seri e mi è parso il caso di intervenire. Ringrazio per questo il senatore Gianni Girotto che mi ha invitato.

Siamo oggi a discutere sui veicoli elettrici ma anche di argomenti più vasti e complessi come l'energia, il cambiamento climatico, e le materie prime. Il trasporto elettrico è soltanto una parte della grande trasformazione che stiamo vedendo ma, come vi racconterò in questo intervento, è un elemento cruciale di quello che sta succedendo. Su questo, ci lavoro ormai da più di un decennio e recentemente ho scritto un libro che si intitola "viaggiare elettrico" che vi faccio vedere qui.

Cominciamo col raccontare un po' la storia dei veicoli elettrici. Come probabilmente sapete, non è una nuova idea - sono veicoli che sono esistiti in parallelo a quelli a motore termico per molti anni, fin dall'inizio del ventesimo secolo. Avevano un loro mercato perché erano pratici e silenziosi - c'era chi li apprezzava. Poi, dopo la fine della guerra mondiale c'è stato il grande boom petrolifero: il petrolio non costava quasi nulla e non aveva senso continuare ad usare i vecchi veicoli a batteria che erano lenti e avevano scarsa autonomia. Per cui, i veicoli elettrici sono quasi completamente scomparsi.

Poi, è successo un gran rivolgimento con il nuovo secolo. Il prezzo del petrolio ha cominciato ad aumentare rapidamente fino ad arrivare alla famosa soglia dei 100 dollari al barile del 2007. Poi è andato ancora più su, poi è sceso, poi è risalito. Negli ultimi tempi è sceso, ma ora sta risalendo ed è di nuovo su valori che avrebbero fatto gridare al "si salvi chi può" un paio di decenni fa. Insomma, i prezzi vanno su e giù, ma il tempo del petrolio a  meno di 20 dollari al barile - come era negli anni 1990 - non ritornerà mai più.

Poi, ovviamente, è venuto fuori il problema del cambiamento climatico, rapidamente diventato il fulcro di tutti i problemi, quello che ci può semplicemente distruggere tutti quanti se non facciamo niente per evitarlo. Ma non è da trascurare anche l'inquinamento locale dei motori a scoppio. Si, le marmitte catalitiche fanno qualcosa di buono, ma non risolvono niente. C'è stato lo "scandalo Volkswagen" a rendere pubblica una cosa che tutti sapevano: i vari filtri alla marmitta hanno raggiunto i loro limiti pratici. Se vogliamo eliminare l'inquinamento, dobbiamo eliminare il petrolio. Non c'è altra soluzione. 

In parallelo al petrolio che è diventato caro e comunque da eliminare, è venuta fuori una nuova generazione di batterie, quelle al litio. Sono nate più che altro dalle necessità dell'elettronica, telefonini e cose del genere. Ma già dai primi anni del secolo cominciavano ad essere disponibili per i veicoli stradali. E con queste batterie si risolveva il problema principale dei veicoli elettrici: quello delle vecchie batterie al piombo, pesanti e di bassa autonomia. Le batterie al litio sono rapidamente scese di prezzo - è vero che rimangono un po' costose ma, insomma, sono batterie pratiche che permettono di fare qualche centinaio di chilometri di autonomia. Questo rende il veicolo utilizzabile in pratica, anche se fare lunghi viaggi richiede ancora un po' di organizzazione.

Quindi, sono almeno 10 anni che i nuovi veicoli elettrici si sono affacciati sul mercato. Andavano bene, ma soffrivano del fatto che erano un po' artigianali. Molti erano fatti in Cina e se ordinavi dei pezzi di ricambio non sapevi mai se ti arrivava la batteria che volevi oppure un piatto di involtini primavera. Poi, mancavano i punti di ricarica e se abitavi al terzo piano ti toccava tirare giù una prolunga fino alla strada e non era cosa molto pratica. Insomma erano trabiccoli destinati a un mercato di nicchia di persone un po' strampalate,

Poi, è arrivato Elon Musk con la sua Tesla e tutto è cambiato. Per prima cosa, niente più trabiccoli, ma una macchina che è un oggetto di desiderio: alla pari con le macchine più belle dei costruttori tradizionali - ma migliore e più evoluta. Poi, una rete di punti di ricarica che ha reso la macchina elettrica una cosa pratica anche per viaggi su medie e lunghe distanze. Ed è stata la rivoluzione.  Il veicolo elettrico è letteralmente esploso sul mercato. C'è ancora gente che borbotta che preferisce i vecchi motori a scoppio, ma ormai la transizione non si ferma più. Lo ha detto persino Marchionne, e questo vuol dire qualcosa!

Ora, in molti casi ci immaginiamo il veicolo elettrico soltanto come una versione più silenziosa e meno inquinante delle automobili tradizionali. A parte il ronzio invece del rombo, cosa cambierebbe? Ma in realtà non è così. Il veicolo elettrico è soltanto parte di un cambiamento in tutto quello che ha a che fare col trasporto. Un cambiamento epocale. Un cambiamento che influirà pesantemente su tutta la società.

Prendete un telefonino cellulare. Lo chiamate telefono? Certo, è vero che può anche telefonare. Ma vi rendete conto di quante altre cose può fare? E' tutta un'altra cosa. E' lo stesso per la Tesla - sembra un'automobile, e lo è. Ma è anche un computer su ruote che sta sempre connesso in rete, un sistema elettronico complesso e potente. Questo porta a una serie di cambiamenti importanti. Non pensate per il momento alla macchina che si guida da sola. Per questo ci vorrà ancora molto tempo, non tanto per ragioni tecniche ma per ragioni giuridiche e politiche. E' il fatto del veicoli connessi in rete che cambia le cose. E' la fine del veicolo privato - è l'arrivo del concetto di "Trasporto come servizio" (TCS, o TAAS in inglese). Cambiano le cose, cambia l'uso del veicolo, cambia il modo in cui lo vediamo. Avremo meno veicoli ma li useremo in modo più efficiente. Diminuiranno gli ingorghi e i parcheggi non saranno più un problema.

Fra le altre cose, si sta affacciando il concetto di "platooning" nel campo del trasporto di merci che trasforma i singoli veicoli in veri e propri "treni su strada" con grossi risparmi di materiali e soprattutto di manodopera. E' un risparmio ma anche un problema: si parla di centinaia di migliaia di posti di autista che vanno a sparire solo in Italia. Ma è anche un'opportunità se riusciamo a gestirla e non soltanto a subirla.

Ci sono tantissimi cambiamenti in arrivo, per ora mi limito a farvi notare come lo sviluppo dei veicoli elettrici stradali ci può aiutare enormemente nella transizione verso le energie rinnovabili. Quello che sta succedendo oggi è che stiamo investendo nella transizione, ma non abbastanza. Se non aumentiamo il livello degli investimenti non ce la faremo a sostituire i fossili prima che il cambiamento climatico ci spazzi via tutti quanti. Ma le leggi del mercato finanziario sono quelle che sono: al mercato non glie ne importa niente se la gente muore, vede solo i profitti immediati. Però, se riusciamo ad incrementare la domanda di energia elettrica con la diffusione dei veicoli elettrici, allora nasce un nuovo mercato: non ha senso continuare a estrarre fossili per fare energia elettrica-- le rinnovabili sono già competitive. Allo stesso tempo, la diffusione di veicoli elettrici va a diminuire drasticamente la domanda di combustibili liquidi. I due effetti si potrebbero combinare insieme per far crollare l'industria fondata da Sauron, l'industria del petrolio. E questo ci potrebbe salvare dal cambiamento climatico.

Insomma, siamo in un bel momento. Se riusciremo ad accettare il cambiamento invece di cercare disperatamente di evitarlo (come avviene di solito), abbiamo la possibilità di un buon futuro per tutti. E per accettare il futuro, abbiamo bisogno di capirlo. Per capirlo, abbiamo bisogno di discuterne. Ed è quello che stiamo facendo stasera. Quindi, grazie ancora per la vostra attenzione, e andiamo avanti verso il futuro.