domenica 7 maggio 2017

CONFINI – 3. Deglobalizzazione: il ritorno dei confini

Nei precedenti due post (qui e qui) abbiamo visto che i sistemi tendono ad integrarsi in unità funzionali più grandi ed efficienti. Principalmente, questo consente di dissipare più energia e, perciò, di prevalere su altri sistemi.   Una tipica retroazione positiva: “più cresci, più diventi forte per crescere”.   Sappiamo però che niente cresce indefinitamente, ma anzi che, prima o poi, i sistemi grandi e complessi si disintegrano a vantaggio di altri più piccoli e semplici.  Semplificando al massimo, gli organismi muoiono e nutrono colonie batteriche; gli imperi e gli stati centralizzati si disgregano in stati più piccoli, oppure in sistemi feudali o tribali, ecc.   Naturalmente, ogni caso ha la sua storia di crescita, picco e declino, ma tutti seguono questo schema.  
Ci devono quindi essere dei buoni motivi.

Limiti della crescita e limiti dei sistemi

Se esista o meno una sorta di legge universale dell’invecchiamento e morte dei sistemi è un argomento molto dibattuto.   Chi fosse interessato, troverà qualcosa a questo link.

Qui tralasceremo la questione, limitandoci a considerare un solo aspetto del problema.  Abbiamo visto che sistemi più grandi e complessi sono più efficienti, ma necessitano di maggiori risorse e di un “fuori” in cui scaricare l’aumento di entropia corrispondente all’aumento di informazione che avviene “dentro”, man mano che il sistema cresce.

Con riferimento alla società industriale, entrambi questi temi sono stati ampiamente dibattuti.  In estrema sintesi, la linea di pensiero dominante è che il progresso tecnologico può compensare il decadimento quali/quantitativo delle risorse e l’inquinamento, aumentando indefinitamente la propria efficienza.   Un punto di vista contestato da coloro che pensano che le leggi naturali facciano aggio sulle teorie filosofiche.   Ma qui stiamo trattando solo dei limiti di un sistema, un aspetto poco considerato, malgrado sia molto interessante.

Un sistema economico consiste in un insieme di processi termodinamici (estrazione, trasporto, trasformazione, riciclo, ecc.) e serve a produrre un accumulo di vari tipi di capitale all’interno del sistema stesso (popolazione, oggetti, infrastrutture, conoscenze, ecc.).  In altre parole, aumenta la quantità di informazione che il sistema contiene, riducendo quella di altri, da cui preleva risorse ed in cui scarica la propria entropia sotto forma di rifiuti, guerre, sovrappopolazione, ecc.  I sistemi che riescono a crescere più degli altri hanno un vantaggio, ma che succede se tutti i sistemi di un determinato tipo vengono integrati in un unico super-sistema?

La globalizzazione è stato un gigantesco esperimento che ci ha effettivamente portati molto vicini ad un sistema economico unico.  Cioè privo di un “fuori” da sfruttare a vantaggio del “dentro”.   Necessariamente, l’entropia prodotta dal sistema si deve quindi scaricare all’interno del sistema stesso, sotto forma di un peggioramento delle condizioni di vita di una parte della popolazione a vantaggio di altri.   Ad esempio mediante la pauperizzazione della classe media occidentale e la schiavizzazione della mano d’opera di  molti paesi “in via di sviluppo”.  Lo spalancarsi dell’abisso fra il leggendario 1% e tutti gli altri non che un effetto di questa dinamica.   Ma ancor più dei perdenti umani, ne ha fatto le spese la Biosfera che rappresenta la discarica finale (sink) di qualunque processo economico.   Ed è proprio questo aspetto, sempre più trascurato a livello politico, che sta già creando i presupposti per l’implosione del sistema.  Ancor più di altri aspetti, assai più di moda sui social e sulla stampa.

La disgregazione sociale è infatti un fenomeno classicamente associato alle fasi critiche dei sistemi umani e gioca un ruolo fondamentale nel destabilizzare i sistemi statali e sovra-statali nei tempi brevi (anni e decenni).  La perdita di biodiversità determinerà invece se fra qualche secolo sulla Terra ci saranno foreste, campi e civiltà, oppure colonie di batteri estremofili.   O qualunque scenario intermedio vorrete immaginare.

La trappola globale

Come già accennato, non era necessario globalizzare il sistema per immaginare che sarebbe finita male.  Processi simili si erano già visti tante volte nella storia, anche se su scala molto più piccola, e sempre con risultati analoghi: l’integrazione è vantaggiosa finché il sistema in crescita mantiene la capacità di scaricare fuori di sé i danni che la crescita comporta.

Nei millenni in cui gli imperi si sono alternati nel dominio di grosse parti del pianeta, ognuno di essi è entrato in crisi quando è rimasto a corto di risorse per mantenere la propria complessità e per proteggere i propri confini.   Oppure quando ha perso la capacità di scaricare sui vicini i propri problemi, ad esempio mediante guerre od emigrazione.

Era prevedibile che man mano che il sistema economico mondiale veniva integrato, la capacità produttiva aumentasse, ma a costo di "parane il fio" in tre forme: la crescita esponenziale delle disparità sociali,  l'erosione accelerata delle risorse e l'aumento di entropia interna del sistema stesso sotto forma di inquinamento, perdita di biodiversità,  tumulti, ecc.

Il meccanismo della "crisi malthusiana" è probabilmente intrinseco alla dinamica della nostra specie fin dal suo apparire.   Tuttavia, oggi è la prima volta che qualcosa del genere avviene in modo quasi contemporaneo in tutto il mondo, minando la capacità del Pianeta di mantenere condizioni ambientali compatibili con la civiltà.   Forse perfino con la vita umana.

La globalizzazione è stata quindi la trappola in cui il capitalismo si è cacciato. Dopo aver annientato ogni resistenza tradizionale ed ogni reazione moderna, pare proprio che si stia suicidando.  Perlomeno  nella sua forma attuale.

La decrescita in teoria

Uno degli errori che più spesso si commettono, è quello di credere che facendo il contrario di quanto fatto in passato, il sistema possa tornare in una condizione uguale o simile a quella di partenza.   Per fare un esempio classico, mettendo un uovo sodo in congelatore a -100 C° per tre minuti non avremo un uovo crudo.   Un esempio forse più stringente, è che non entrare a far parte di una struttura sovranazionale qualunque (alleanza, federazione, moneta unica o altro) porta a risultati completamente diversi dall’uscirne.

Ilya Prigogine ha vinto un Nobel dimostrando che, almeno per le strutture dissipative complesse, il tempo esiste, è direzionale (si chiama la “freccia del tempo”) ed è irreversibile.   Significa che non si torna MAI in uno stato precedente e se ci sembra di si, dobbiamo solo guardare cosa è successo intorno al nostro esperimento.

Dunque, se un aumento dei flussi attiva una retroazione positiva di crescita, un riduzione quali/quantitativa dei medesimi necessariamente attiva una retroazione parimenti positiva, ma stavolta di de-crescita.   Si ponga attenzione al fatto che la riduzione dei flussi può avvenire sia dalla parte delle risorse, quanto da quella degli scarti.   Cioè, sia che il sistema trovi difficoltà ad ”alimentarsi” (in senso latissimo), sia che le trovi nello scaricare i proprio “cataboliti” (sempre in senso latissimo), il risultato non cambia.   Ne siamo un esempio noi stessi.  La società industriale globale sta trovando il proprio limite nell’accumulo di inquinamento prima ancora che nella ridotta disponibilità di risorse.   Per fare un solo esempio, più di metà del petrolio scoperto è ancora sottoterra, ma se continueremo a pomparlo, ridurremo il nostro pianeta ad un deserto.

Il punto chiave qui è proprio il fatto che i sistemi in crescita esponenziale sono particolarmente instabili e vulnerabili.  E’ infatti molto difficile che possano passare da una fase di crescita convulsa ad una di equilibrio dinamico.   Sistemi che evolvono lentamente e che contengono anelli di retroazione negativa sono tendenzialmente più stabili.   Il che significa che crescono molto meno quando le condizioni sono favorevoli, ma incassano meglio quando le condizioni peggiorano.   E, soprattutto, contribuiscono assai meno al peggioramento del loro “fuori”,  proprio perché assorbono meno bassa entropia ed espellono meno alta entropia.

Una condizione certa per il disastro è poi quando un sistema riesce a crescere oltre la capacità del meta-sistema di cui fa parte di provvedere la bassa entropia ed assorbire l’alta.   L’esempio dei manuali è quello di un gregge sul pascolo.   Finché le pecore sono poche, l’erba abbonda e si possono moltiplicare.   Se ci sono fattori esterni che limitano la crescita del gregge, ad esempio il contadino che mangia una parte degli agnelli,  il sistema può tirare avanti indefinitamente.   Se invece le pecore aumentano continuamente di numero, prima o poi cominciano a danneggiare il suolo; la fertilità diminuisce e l’unico modo per salvare il gregge è eliminare abbastanza pecore da ristabilire l’equilibrio con un pascolo impoverito ed eroso.

La decrescita in pratica

Il decadimento quali/quantitativo dell’input energetico e gli effetti nocivi connessi con la crescente entropia mondiale renderanno le strutture economiche e sociali particolarmente complesse sempre meno sostenibili.    Ciò significa che la de-globalizzazione che sta ora prendendo le mosse, accelererà e diverrà una tendenza inarrestabile nei prossimi decenni.   Prima di festeggiare, consideriamo però che, se con la globalizzazione ci siamo fatti parecchio male, con la de-globalizzazione ci faremo peggio.

La progressiva integrazione dei sistemi socio economici locali in sistemi nazionali, poi transnazionali ed infine in un unico sistema globale è stata infatti la strategia che ha permesso all’umanità di aumentare la propria capacità di dissipare energia e crescere.   Se in un grafico riportassimo la curva del livello di integrazione dei sistemi economici del mondo, vedremmo che è strettamente correlata con le curve che descrivono l’incremento demografico e la dissipazione di energia.    Senza la globalizzazione, non saremmo diventati i quasi 8 miliardi che siamo oggi ed i nostri consumi non sarebbero cresciuti, semmai diminuiti.   Perché?

Facciamo un esempio: la quantità di energia fossile disponibile è tuttora fantastica, ma i giacimenti sono sempre più difficili e costosi da raggiungere e sfruttare.   Solo organizzazioni estremamente vaste ed integrate possono avere i mezzi per farlo e solo se possono poi accedere ad un mercato globale in cui vendere la propria merce.

Per farne un altro, l’epidemia di Ebola del 2014 è stata messa sotto controllo a fatica e solo grazie all’afflusso di personale specializzato, materiali costosissimi ed aiuti di vario genere dal mondo intero.   Tutte cose che solo organizzazioni della potenza dell’OMS, l’UE, gli USA e la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale potevano fare.  Senza strutture di tale vastità e complessità, i morti sarebbero stati probabilmente dei milioni in gran parte dell’Africa.

Piccolo è meno dissipativo, ma più scomodo

Quando si parla di de-globalizzazione, volentieri si pensa al proprio orto e di come sarebbero belle delle comunità agricole in cui ognuno contribuisce come può al benessere collettivo.  

A parte il fatto che tra il mercato globale ed il mio giardino ci sono parecchi livelli organizzativi intermedi, è vero che piccole comunità rurali rappresentano un modello socioeconomico molto più adatto a tempi di scarsezza.   Penso quindi che sia sicuramente una buona idea quella di prepararsi a cavarsela in economie locali, scarsamente connesse col resto del mondo.  Ma non bisogna illudersi che queste possano far vivere 8 miliardi di persone, men che meno fino ad 80 anni e passa.

In sintesi, un’economia locale può provvedere cibo, acqua, abiti ed alloggio, ma non potrà mai consentire una connessione internet, cure ospedaliere moderne, viaggi lontani, tecnologie avanzate e tutti gli altri vantaggi che ci ha dato la progressiva integrazione delle economie mondiali.

Man mano che i sistemi socioeconomici maggiori si disarticoleranno in sotto-sistemi via via più piccoli, diminuiranno la massa e l’impatto globale dell’umanità.   Ma diminuirà anche la nostra capacità di sfruttare le residue risorse del pianeta.  In pratica, la stessa retroazione che ha prodotto il fenomeno che chiamiamo “progresso”, se lo rimangerà.   Se del tutto od in parte, lo vedremo, dipende da molti fattori.   In ogni caso, la popolazione diminuirà, forse anche rapidamente.

Un fatto questo che si tende a tacere, anche se è l'unica speranza che ci rimane.   Solo un'abbastanza rapida riduzione del carico antropico potrebbe infatti salvare la Biorfera e, dunque, anche la nostra discendenza.

Per essere chiari: era prevedibile che la globalizzazione ci sarebbe costata cara, ma era difficile evitarla.  E' altrettanto prevedibile che la de-globalizzazione ci costerà ancora di più ed anche stavolta sarà inevitabile.   Tuttavia, una brutale decrescita è probabilmente la migliore speranza che ci resta di non distruggere la Biosfera (moi compresi).


martedì 2 maggio 2017

Apocalisse Zombie: il nostro futuro?

DI UGO BARDI
Traduzione di Gaia Galassi. (leggermente adattato e corretto da UB).
Per quelli di noi che si dilettano a studiare i trend a lungo termine, la diffusione del genere cinematografico sugli Zombie è un rompicapo affascinante. Non c’è dubbio che ci sia un trend netto: guardate a questi risultati da Google Ngrams.

Il termine “zombie” era completamente sconosciuto prima degli anni ’20, poi ha cominciato lentamente a guadagnare attenzione. Negli anni ’70 è esploso, soprattutto dopo il successo del film del 1968 di George Romero “La notte dei morti viventi”. Il termine “zombie” non è stato usato nel film, ma il concetto è diventato rapidamente popolare e ha creato il genere chiamato “apocalisse zombie”. Oggi l’idea si è estesa: riguarda l’improvvisa comparsa di una gran quantità di non-morti che attaccano periferie e centri commerciali alla ricerca di umani vivi da mangiare. Sono normalmente il bersaglio dell’attacco di gruppi di persone pesantemente armate ma molto meno numerose che sono sfuggite all’epidemia o a qualunque cosa abbia trasformato le persone in zombie.
Ora, se qualcosa esiste, deve esserci un perché. Allora, perché questa attrazione per gli zombie? Come mai abbiamo creato un genere che non è mai esistito prima nella storia umana della letteratura? Vi immaginate Omero raccontarci che la città di Troia è assediata dagli zombie? Dante Alighieri ha forse trovato zombie nel suo viaggio all’inferno? O Shakespeare ci ha forse raccontato di un Enrico V che combatte gli zombie a Agincourt?
Io credo ci sia una ragione: la letteratura riflette sempre paure e speranze della cultura che la crea; a volte in maniera davvero indiretta e simbolica. E, in questo caso, gli zombie potrebbero riflettere una paura non detta dei nostri tempi, una paura che è presente più che altro nel nostro subconscio: la fame.
Iniziamo con una caratteristica tipica degli zombie: i cerchi neri intorno agli occhi.

Gli zombie dovrebbero essere “non-morti”, cadaveri che in qualche modo tornano a un’apparenza di vita. Ma i cadaveri hanno forse questo genere di occhi? devo ammettere che non ho molta esperienza nelle autopsie (a dire il vero, nessuna) ma, da quando vedo dal web, mi sembra raro che i cadaveri abbiano queste borse nere sotto gli occhi, a meno che non abbiano sviluppato lividi prima di morire. E’ vero che un cadavere in decomposizione perde lentamente i tessuti molli e, alla fine, gli occhi scompaiono lasciando solo cavità nere in un teschio mummificato. Ma questo non sembra combaciare con l’aspetto facciale degli zombie così come compare nei film. (Lo so, questa è una ricerca piuttosto orribile, ma la faccio in nome della scienza).

Invece, per quello che so, gli occhi cerchiati di nero possono essere una caratteristica delle persone malnutrite, spesso come conseguenza dello sviluppo di un edema facciale. Qui, per esempio, la foto di una ragazza Olandese durante la carestia del 1944-1945 in Olanda.Non è sempre una caratteristica delle persone malnutrite, ma compare abbastanza di frequente.



Un altro esempio è la Grande Carestia in Irlanda iniziata nel 1845. Non abbiamo foto di quei tempi, ma gli artisti che dipingevano gli Irlandesi che morivano di fame percepivano chiaramente questo dettaglio. Qui, per esempio un’immagine abbastanza famosa di Bridget O’Donnell, una delle vittime della grande carestia. Notate i suoi occhi anneriti.
Quindi, abbiamo qualche idea di chi questi zombie potrebbero rappresentare. Sono persone affamate. Ed è chiaro che lo sono. Nei film, sono descritti mentre avanzano inciampando, disperatamente alla ricerca di cibo. Sembrano la rappresentazione perfetta degli effetti di una carestia. Guardate il memoriale della carestia irlandese, a Dublino.


Non sembrano zombie di un film moderno? Si, lo sembrano. Questa non è una mancanza di rispetto per le donne e gli uomini irlandesi che morirono in una delle più grandi tragedie dei tempi moderni. E’ solo per notare come, nella nostra immaginazione, persone reali che muoiono di fame possono essere trasposte in immaginari zombie.
Ora, immaginate che una carestia stia decimando la nostra società, oggi. E’ vero che il mondo non ha visto grandi carestie negli ultimi 40 anni circa, ma ciò non vuol dire che le carestie non potrebbero tornare di nuovo. Oggi, il nostro sistema commerciale globale è fragile, basato su lunghe catene di fornitura che coinvolgono trasporto marittimo e distribuzione su strada. Il sistema ha bisogno di combustibili fossili a basso costo per funzionare e, più ancora, ha bisogno di un sistema finanziario globale che funziona. Se il cibo viaggia attraverso tutto il mondo, è perché qualcuno paga per farlo viaggiare. Una crisi valutaria farebbe collassare l’intero sistema. Le conseguenze potrebbero essere, ebbene, immaginiamo l’inimmaginabile.
Le persone che vivono nelle aree suburbane non hanno fonti di cibo nei loro negozi. Ora, immaginate che, improvvisamente, e le navi e i camion smettano di girare. Allora, gli scaffali dei supermercati non potrebbero più essere riempiti. Gli abitanti dei sobborghi sarebbero prima sorpresi, poi arrabbiati, quindi disperati e, infine, quando le loro riserve di cibo domestiche fossero finite, affamati. Anche prima di questo, avrebbero finito il carburante delle loro macchine, l’unico mezzo di trasporto a loro disposizione. Ora, supponiamo che le classi dirigenti decidano che è più facile per loro lasciare che gli abitanti dei sobborghi muoiano di fame piuttosto che tentare di sfamarli. Supponiamo che decidano di confinare con delle recinzioni i sobborghi e di istruire l’esercito di sparare a vista a chiunque tenti di fuggire. Chi li costringerebbe a fare diversamente?
Possiamo immaginare quale sarebbe il risultato. Gli abitanti dei sobborghi diventerebbero persone emaciate, impacciate, affamate che attaccano i vicini e i centri commerciali alla disperata ricerca di qualcosa da mangiare: qualsiasi cosa. Arriverebbero al cannibalismo? Forse, è probabile addirittura. Alcuni di loro riuscirebbero a mettere le mani su una buona fornitura di armi e munizioni, quindi giocherebbero al re del castello, accaparrandosi la maggior parte del cibo che rimane e sterminando i poveri disgraziati che ancora barcollano per le strade, almeno fino a che non finiranno cibo e munizioni anche loro. Sarebbe l’apocalisse degli zombie, nulla di meno che questo.
Certo, questo è solo uno scenario. Tuttavia, ritengo sia un’interessante rappresentazione di come funziona la mente umana. In un post precedente, avevo notato che il meme “sovrappopolazione” sia scomparso dal cyberspazio in conseguenza di come la gente ha gradualmente sviluppato una sorta di “anticorpi”. Il meme zombie sembra collegato allo stesso aspetto, ma è un meme molto più infettante e sta ancora crescendo e diffondendosi nella popolazione mondiale.
C’è una ragione per il successo del meme zombie. Le catastrofi ridotte a fiction (“è solo un film!”) sono di sicuro meno minacciose di quelle descritte come se fosse possibile che accadessero sul serio. Così il concetto di “prepariamoci agli zombie” si sta facendo strada. Apparentemente, prepararsi per un'apocalisse zombie è più socialmente e politicamente accettabile che prepararsi alle conseguenze dell’esaurimento delle risorse e dei cambiamenti climatici. Questo è un aspetto curioso della mante umana, ma è il modo in cui funziona. Rende il concetto di “fantaclima” (cli-fi) qualcosa di attraente per generare preparazione ai cambiamenti climatici.
Può essere che il solo modo che ha a nostra mente per riconoscere le catastrofi che stanno arrivando è vederle come una favola. In irlanda, prima della grande carestia, c’era qualche premonizione dell’imminente disastro. Qui quello che il poeta irlandese Clarence Mangan ha scritto nel 1844 a proposito di un “evento” non descritto che si aspettava accadesse in futuro.
Spegni la lampada, e seppellisci la ciotola,
tu dal cuore pieno di fede!
E, come i tuoi veloci anni si affrettano verso la meta
dove le parole se ne sono andate,
usa forza, vigore, anima sul tuo lavoro per espiare
l’ozio e gli errori del passato;
così che al meglio tu possa arrivare ad incontrare da solo
l’Evento e i suoi terrori.
Gli irlandesi avevano avuto una specie di premonizione dell’”evento” che stava arrivando per ucciderli, la grande carestia del 1845, anche se questo non li aveva aiutati molto ad evitarla. Un simile “Evento” sta arrivando anche per noi? Forse è già iniziato.
Ugo Bardi
20.03.2017
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GAIA GALASSI


venerdì 28 aprile 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (terza parte)

(Pubblicato anche su Appello per la Resilienza, https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

In questo articolo indago la relazione fra consumi e crescita economica. In particolare, dato che i consumi della popolazione richiedono "a monte" consumi di energia, non sembra possibile ridurre i consumi per il semplice motivo che questi sono la conditio sine qua non di qualsiasi economia.
 
La consunzione come processo economico
Se si pensa all’estensione che il consumo ha assunto nelle nostre attività quotidiane è difficile non percepirlo come qualche cosa di “osceno”. La parola implica un esaurimento, una delapidazione di materia. Effettivamente è proprio questo il significato che assume nelle nostre società. Esse vivono del consumo di qualcosa in maniera tale da impedire o rendere difficoltoso il riutilizzo. E' molto interessante consultare la definizione che ne dà il vocabolario, per esempio il Treccani dice: "logorare, finire a poco a poco con l'uso" e "Ridurre al nulla un bene, un prodotto adoperandolo per particolari necessità, per il soddisfacimento di proprî bisogni, o in genere sfruttarlo per un uso determinato".

Una ri-sorsa è tale perché può rinnovarsi nel tempo. Ma bisogna prendere delle precauzioni affinchè possa continuare a generarsi. Il processo economico in quanto tale vive della “fine” o morte di un oggetto, di una merce. Questa è la condizione affichè il processo produttivo possa perpetuarsi (su questo Jean Baudrillard ha scritto pagine memorabili ne La società dei consumi). Come sarebbe possibile il consumo altrimenti? Come sarebbe possibile il “consumismo” senza la consunzione dell’oggetto? Il livello dei consumi può aumentare solo se vi è un ciclo incessante di ricreazione di oggetti (la sfida dell'economia circolare consiste nello sfruttare questa fatalità del processo economico. Sarà possibile trasformare il rifiuto in risorsa e generare addirittura maggiore valore tramite ulteriori cicli di trasformazione della risorsa? Ne parlerò nella quarta parte). Solo così si comprende il fenomeno della “obsolescenza programmata”. Tutti possono notare che le auto si rompono più facilmente di una volta. Ciò avviene affinchè se ne possano produrre e comperare regolarmente di nuove.

 

Dunque il sistema economico per definizione necessita dell’esaurirsi del “valore d’uso” di una merce affinchè sia possibile far ricominciare lo scambio. Economia è "circolazione", cominciata storicamente con la circolazione delle merci ma oggi ridotta a scambio di denaro. La nota-di-cambio di una merce (banconota) da mezzo diventa fine (valore di scambio) (si vedano gli scritti di E. Severino e U.Galimberti).

Il circolo vizioso
Abbiamo ricordato che l’obiettivo degli “ecologisti” (per riunire in un’unica categoria tutti coloro che hanno sensibilità verso le sorti del pianeta e dell’uomo) è ridurre i consumi: la cosiddetta sostenibilità, lo sviluppo sostenibile (anche se secondo alcuni la sostenibilità non dovrebbe implicare una riduzione del consumo di materia ed energia, qui interessa solo comprendere il meccanismo interno dell'economia). Ora, c’è un signore, il già citato Serge Latouche, che ha capito che questo non è possibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro, diceva.

Ovunque si sente parlare di “rilanciare i consumi”. Ebbene, come possiamo ridurli se l’economia ha bisogno di “rilanciarli” per continuare a crescere? E’ chiaro: senza vendite, senza spese, senza consumi, l’economia non può andare avanti.


Forse non abbiamo compreso tutte le implicazioni della crescita, soprattutto a livello economico. L’economia non può sussistere senza crescita perché il sistema socio-economico è una CAS (Complex Adaptive System), è adattato alla crescita, come dice David Korowicz (c'è un tasso di crescita fisso, ignoto, al di sotto del quale l'economia collassa). Che cos’è la crescita? E’ l’aumento di denaro nel mondo (come si è visto nella prima parte) a tassi esponenziali.

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Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World

Dal grafico qui sopra però si può notare come la vera e propria crescita delle nostre economie sia avvenuta durante il "boom economico", dalla fine della seconda guerra mondiale alll'inizio degli anni '70 (in corrispondenza della prima grande crisi petrolifera). Un trentennio, "i trenta gloriosi" sono chiamati in Francia. Tale crescita non è avvenuta solamente in maniera esponenziale, ma iperesponenziale, in quanto gli stessi tassi di crescita sono aumentati. Questo non significa che in seguito l'economia abbia smesso di espandersi, ma che non si sono più raggiunti quei tassi di crescita. La crescita implica che ogni anno si produca di più del precedente, non mi stanco di ripetere questo mantra (per esempio: se nel 2017 +1%= dovremo produrre la stessa quantità di merci del 2016 e l’1% in più!). Ora, la crescita economica (insieme all'aumento di popolazione, secondo Limits to growth, I nuovi limiti dello sviluppo, 2004) genera un anello di retroazione positivo che alimenta la crescita "secondaria" degli altri settori economici.

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Il tema di questo articolo è mostrare che l'economia genera questo meccanismo autocatalitico che impedisce per definizione una diminuzione dei consumi. Possiamo considerare, nella sua essenza, il sistema economico come un circuito INPUT-OUTPUT, quello della domanda e dell’offerta. Sebbene, come hanno fatto notare alcuni, non sembrano più valere le leggi classiche della domanda e dell'offerta, ciò non cambia in nulla il fatto che da un lato ci debba essere qualcuno che produce e vende qualcosa (input) e dall'altro qualcuno che lo deve comperare (output) (su questo anche seconda parte).

Perché dunque non è possibile ridurre i consumi? Perché solo il continuo aumento dei consumi può alimentare il continuo aumento della produzione, sebbene ciò non sia possibile a lungo termine per le ragioni legate alla finitezza degli stock di materia della Terra (situazione picco dei minerali segnalata da Ugo Bardi nel 2011). Ed è proprio questo a generare il problema. Il sogno degli economisti è una crescita illimitata disincarnata dalla fisica dell'energia e della materia (lo scenario 0 di LTG 2004, per intendersi). L'economia umana è una struttura dissipativa che per mantenersi richiede flussi continui e in aumento.

Risultati immagini per world consumption














Risultati immagini per world consumption
Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World
   
La materia (non) è energia!
La crescita del PIL dipende in tutto e per tutto dal consumo di energia e secondo Gail Tverberg vi è una correlazione lineare al 99,9% fra crescita mondiale del PIL (GDP Growth) e crescita mondiale del consumo di energia (Energy growth).

Risultati immagini per gail tverberg gdp energy
Se l'economia si serve nell'Antropocene di una quantità enorme di energia primaria (corrispondente a 17 TW di potenza nel 2013, secondo Ugo Bardi), ciò è di ordini di grandezza molto inferiori a quanto sarebbe possibile attuare tramite i PV (celle solari). Solamente coprendo 1/5 del Sahara si potrebbero ottenere 50 TW.

La questione si sposta: come sopperire al problema dei flussi di materia? L’economia necessita della produzione materiale per il processo di scambio, non può vivere a lungo di scambi meramente virtuali (come fa dagli anni '80: il 97% del denaro è virtuale, secondo David Korowicz). Nella quarta parte cercherò di chiarire se l'economia costituisce un "ostacolo" verso quella successiva rivoluzione metabolica che, come ha indicato Ugo Bardi, in un articolo straordinario,

"avvierebbe l'ecosfera verso un livello di trasduzione nuovo e maggiore di quello attuale"
Se è così, siamo nei guai.  
 Risultati immagini per voragine economia

Mi piace questa immagine dei gironi infernali di Dante. Interpretandola in modo fantasioso per raffigurare la situazione odierna, si potrebbe leggere il cerchio in basso come la base di risorse sulla quale si è edificato il castello di complessità sul quale crediamo di prosperare. Una piramide rovesciata, un gigante coi piedi d'argilla. Come dice Serge Latouche: “L’economia è una menzogna”.


(continua...)

martedì 25 aprile 2017

Perché l'energia nucleare non è un'alternativa ai combustibili fossili


Di Alice Friedmann



Da “Energy skeptic”. Traduzione di MR (via Maurizio Tron e Jacopo Simonetta)

[ Le ragioni economiche sono l'ostacolo maggiore ora per le nuove centrali nucleari, con costi di capitale così alti che è quasi impossibile ottenre prestiti, specialmente quando il gas naturale è così tanto più economico e meno rischioso. Ma ci sono anche altre ragioni per le quali l'energia nucleare è nei guai. Ci sono molte più centrali in pericolo di chiusura di quante ne vengano costruite (37 o più potrebbero chiudere)]. 

Questa è una crisi di combustibili liquidi da trasporto. Il tallone di Achille della civiltà è la nostra dipendenza da camion di ogni genere, che vanno a gasolio perché i motori diesel sono di gran lunga più potenti di vapore, benzina, elettricità o qualsiasi altro motore sulla Terra (Vaclav Smil. 2010. Principali motori della globalizzazione: la storia dell'impatto dei motori diesel e delle turbine a gas. MIT Press). A miliardi camion (e macchinari) è richiesto di mantenere in funzione le catene di fornitura dalle quali dipendono ogni persona ed ogni azienda, così come estrazione mineraria, agricoltura, strade/costruzioni, camion per il legname e così via. Visto che i camion non possono andare a corrente elettrica, qualsiasi cosa che generi corrente non è una soluzione, quindi qualsiasi cosa generi elettricità non è una soluzione, né è probabile che la rete elettrica possa mai essere 100% rinnovabile (leggete “Quando i camion smettono di andare”, questa cosa non può essere spiegata così in breve), o che potremmo sostituire miliardi di motori diesel nel tempo che ci rimane.

Alice Friedemann www.energyskeptic.com autrice di “Quando i camion smettono di andare: energia e futuro dei trasporti”, 2015, Springer e di “Crunch! Chips e crackers di grano integrale”. Podcast: Practical Prepping, KunstlerCast 253, KunstlerCast278, Peak Prosperity, XX2 report


L'energia nucleare costa troppo

Le centrali nucleari statunitensi sono vecchie e in declino. Per il 2030, la generazione di energia nucleare potrebbe essere fonte di solo il 10% dell'energia elettrica, metà della produzione attuale, perché 38 reattori che producono un terzo dell'energia nucleare hanno superato i 40 anni di vita ed altri 33 reattori che producono un altro terzo di energia nucleare hanno più di 30 anni. Anche se ad alcuni verranno rinnovati i permessi, 37 reattori che producono metà dell'energia nucleare sono a rischio di chiusura per cause economiche, guasti, inaffidabilità, lunghe interruzioni, sicurezza e costosi aggiornamenti post Fukushima (Cooper 2013. L'energia nucleare è troppo costosa, 37 costosi reattori sono previsti in chiusura e Un terzo dei reattori nucleari moriranno di vecchiaia nei prossimi 10-20 anni).

venerdì 21 aprile 2017

Il futuro è alle nostre spalle




Il futuro è alle nostre spalle ma i grillini non lo sanno

Ho partecipato sabato al convegno Capire il futuro organizzato da Davide Casaleggio per onorare, a un anno dalla morte, la figura di suo padre. Gianroberto Casaleggio era uno strano animale, un uomo molto pragmatico (alla sua intuizione della piattaforma sul web si deve in buona parte, com’è noto, la fortuna dei Cinque Stelle) e insieme un idealista, un ottimista che credeva nel futuro dell’uomo, soprattutto attraverso lo sviluppo delle tecnologie, come ci dicono certe sue teorie che si spingevano verso un orizzonte molto lontano. 

Il Convegno, vista l’importanza dei temi che ha cercato di mettere a fuoco, aveva secondo me innanzitutto lo scopo di dimostrare che i Cinque Stelle non sono affatto quei ‘baluba’, ignoranti e impreparati, che tutti, o quasi tutti, vogliono far apparire. 

A me è toccato in sorte di trattare, nell’ultimo degli interventi degli ospiti, di un tema che, in un certo senso, ricomprendeva tutti gli altri: “Il futuro dell’uomo”. 

Innanzitutto ci sarebbe da capire se la specie umana avrà un futuro. Il problema più importante, tra l’altro molto sentito da quasi tutti, non è l’inquinamento globale. Non perché, come pensa Grillo, e molti altri con lui, attraverso nuove tecnologie troveremo, come in parte abbiamo già trovato, nuove e più pulite fonti di energia. Grillo non sa ciò che mi disse un tempo Paolo Rossi, che non è l’ex centravanti della Nazionale e nemmeno il comico, ma un importante filosofo della Scienza, e cioè che “la tecnologia, in qualunque campo applicata, come risolve un problema ne apre altri dieci ancora più complicati”. Ed è quindi un moltiplicatore di complessità e perciò di difficoltà che usurano la nostra vita. Noi ci salveremo dall’inquinamento semplicemente perché l’uomo, nel corso della sua storia, ha dimostrato di essere un animale estremamente adattabile, superato in questo solo dai topi. In Cina, a Pechino, gli abitanti vivono praticamente in una nube tossica e pur vivono.

Il vero pericolo ci viene proprio da quella Tecnologia di cui oggi tutti, non solo i grillini, sembrano entusiasti e alla quale affidiamo il nostro futuro. Un articolo da me scritto per il Gazzettino (10/10/2014) era così titolato: “Il più grande pericolo per la civiltà non è l’Isis ma la Scienza”. Naturalmente non intendevo, e non intendo qui, affermare che la Scienza in sé è il pericolo, la Scienza in sé è la conoscenza e quindi come tale consustanziale all’uomo ciò che lo distingue dagli altri esseri del Creato, ma appunto la scienza tecnologicamente applicata che è cosa diversa. I nuovi e inesausti Frankenstein stanno già lavorando a un programma, quello della società Neuralink di Elon Musk, per impiantare nel cervello umano un chip che ne sviluppi le capacità intellettive, ma questo non è che l’ultimo degli orrori, molti già applicati o in fase di applicazione e dei quali si è abbondantemente sentito parlare al Convegno.

Il fatto è che abbiamo perso il senso del limite. Ha prevalso la tanto strombazzata linea ideologica giudaico-cristiana che attraverso gli innesti della tecnologia e dell’economia ci ha alla fine portato alla società che oggi stiamo vivendo in cui si ritiene che tutto ciò che conosciamo, che tutto ciò che possiamo fare dobbiamo, prima o poi, più prima che poi, farlo.

Ma alle spalle della nostra civiltà c’è un’altra cultura molto più profonda di quella giudaico-cristiana. Ed è quella Greca. I Greci, attraverso Pitagora, Filolao e gli altri grandi matematici e pensatori, avrebbero potuto creare macchine molto simili alle nostre. Ma non lo fecero perché intuivano o piuttosto capivano che andare a manipolare e replicare la natura è pericoloso. Avevano il senso del limite. Sul frontespizio del Tempio di Delfi era scritto: “Mai niente di troppo”. E molti dei loro miti fondativi ruotano intorno a questo concetto. Parlando nei loro termini, l’ubris, vale a dire il delirio di onnipotenza dell’uomo (che è proprio ciò di cui oggi siamo preda) provoca la fzonos zeon, l’invidia dei Dei, e quindi l’inevitabile punizione (Prometeo). 

Nel nostro caso la punizione verrà repentina, improvvisa, “senza darci avvisaglia” come canta De André in un suo brano significativamente intitolato La Morte. Perché il nostro sistema è basato sulle crescite esponenziali che esistono in matematica ma non in natura. Noi siamo come una lucente macchina che partita a metà del XVIII secolo con la Rivoluzione scientifica e industriale ha percorso gli ultimi due secoli e mezzo a grandissima velocità, ma ora si trova davanti a un muro che non può valicare, però si ostina a dare di gas per cui prima o poi fonde (chiunque oggi parli di crescita –mi riferisco naturalmente alle classi dirigenti non al cosiddetto uomo comune- è un criminale). 

Naturalmente poiché questo collasso non avverrà oggi né domani ma è spostato in là nel tempo, le classi dirigenti se avessero un po’ di cultura potrebbero risponderci ironicamente con Oscar Wild “ma che cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Ma il fatto è che alla velocità in cui stiamo andando siamo diventati i posteri di noi stessi. In un vorticoso andamento circolare siamo arrivati alle nostre spalle e ce lo stiamo mettendo nel culo da soli. In questo sistema che ho definito ‘paranoico’ noi non possiamo mai trovare un momento di equilibrio, di armonia, di pace. Raggiunto un obbiettivo dobbiamo immediatamente inseguirne un altro e un altro ancora finché “morte non ci colga”. La situazione di grande disagio esistenziale che tutti, o quasi tutti, noi avvertiamo, qualsiasi sia la classe sociale cui si appartenga, è dovuta a questo meccanismo. E quindi stress, angoscia, nevrosi, depressione, droga e ogni sorta di dipendenza per colmare questo vuoto esistenziale. Noi siamo come i levrieri, fra gli animali più stupidi della terra, con buona pace degli animalisti, che al cinodromo inseguono la lepre meccanica, ricoperta di stoffa, che per definizione non possono raggiungere. La lepre ha solo la funzione di farli correre. Se la raggiungessero il gioco, cioè il sistema, sarebbe finito.

La grande rivoluzione che accompagna quella scientifica e industriale, è quella, ancora più determinante, della concezione del tempo. Allo statico e quieto presente basato sui ritmi circolari delle stagioni, si è sostituito il dinamico futuro che non solo contiene in sé i germi della propria autodistruzione ma è precisamente la causa del nostro malessere.

In questo affannoso inseguimento dell’impossibile (la lepre meccanica della metafora) noi abbiamo perso la consapevolezza che il vero valore della vita non è né il denaro né il lavoro, ma il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre esistenze. Consapevolezza che era presente nella cultura greca e nell’Europa medievale (ma esiste anche in alcune civiltà contemporanee, almeno quelle che non abbiamo distrutto a suon di civilissime bombe).

Non si tratta di ritornare all’età delle caverne ma di recuperare alcune suggestioni delle società che ci hanno preceduto e una sapienza antica. E capire che il futuro non è davanti ma dietro di noi.

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2017

lunedì 17 aprile 2017

CONFINI – 2 – La scomparsa dei confini

Abbiamo visto che qualunque sistema, di qualunque taglia e natura, necessita di una delimitazione che serve a controllare gli scambi fra ciò che è “dentro” e ciò che è”fuori”.  La dimensione e il grado di permeabilità di questa barriera devono necessariamente cambiare nel tempo, per adattarsi al divenire dalla situazione sia interna, che esterna al sistema in esame.  Pena la disintegrazione.

Nascita degli stati e degli imperi.


Passando ad osservare le società umane, vediamo che, fin dall’inizio, ogni clan o piccola tribù ha costituito un sistema (perlopiù formato da sotto-sistemi familiari), facenti parte di sistemi più grandi (popoli ed umanità).  A loro volta parte della Biosfera e così via.

I limiti erano costituiti da barriere genetiche (grado di parentela), ma più spesso da limiti immateriali come quelli culturali (lingua, religione, faide, ecc.).  A questi si associavano spesso (ma non sempre) anche limiti materiali, ad esempio geografici.

Abbiamo però visto che i sistemi più grandi e complessi sono più efficienti nell’estrazione delle risorse e nella dissipazione dell’ energia.  Ad esempio, sempre parlando di società primitive, una tribù più numerosa si può permettere persone specializzate come artigiani, guerrieri e sciamani.  E questo le può consentire di prevalere sui vicini, raziandoli; oppure eliminandoli per estendere il proprio territorio.

Vi è quindi un vantaggio notevole nella collaborazione ed integrazione fra sistemi diversi.  Una progressiva integrazione che, man mano che cresce, rende progressivamente più permeabili i confini dei sotto sistemi, rafforzando di conserva il confine comune che si va formando.

Ricordate la foglia?  Le cellule perdono buona parte della loro individualità, costituendo tessuti ed organi.   In questo modo, ogni cellula perde qualcosa in termini di “sovranità”, ma guadagna parecchio in termini di una maggiore e più regolare disponibilità di energia ed alimenti.   Un’alga monocellulare può sfruttare una frazione di millimetro cubo di acqua.   Un albero può sfruttare migliaia di metri cubi sia sopra che sotto terra.   Può anche usare la porpria ombra per uccidere altre piante concorrenti e, viceversa, favorire organismi che gli sono utili.

Analogamente, un clan familiare di contadini autosufficienti può sfruttare un paio di ettari di terra, usando attrezzi di legno e di pietra.  I grandi imperi della storia hanno costellato il Pianeta di meraviglie.

Vantaggi e svantaggi dell'integrazione


Dunque, il punto qui è che un sistema più ampio permette una maggiore abbondanza e regolarità nei flussi di materia e di energia sia in entrata che in uscita.

Per esempio, nelle economie locali semi-autosufficienti bastano due-tre cattivi raccolti di seguito, oppure una calamità importante, e la gente comincia a morire di fame.   Mentre lo sviluppo dei commerci e dei trasporti su grande scala e distanza, così come la nascita di grandi stati e potenti organizzazioni sovra-nazionali,  rendono possibile far affluire nelle zone di crisi il surplus di altre.

Il rovescio della medaglia è però che, in questo modo, ogni sotto-sistema dipende da altri.   Trattando di società umane, la perdita di sovranità è il prezzo da pagare per aumentare le proprie potenzialità di difesa, di crescita e di contenimento delle crisi.

Sempre parlando di società umane, aumentare la complessità significa anche la nascita e lo sviluppo della specializzazione professionale e, di conseguenza, delle classi sociali.  Man mano che i confini interni si erodono, aumenta infatti la produzione complessiva di beni e servizi, ma questi non sono mai ugualmente distribuiti, in nessuna società complessa.   Ed il livello di ineguaglianza tende a crescere con le dimensioni del sistema ed il suo grado di integrazione.   L’Impero Romano di Traiano, fortemente integrato e centralizzato, era molto meno egalitario dell’Impero Carolingio, basato su una miriade di capi locali legati fra loro da un giuramento. Ovviamente, non è questo l’unico fattore, ma è una tendenza.

In pratica, le sperequazioni presenti fra i sistemi separati che si integrano tendono a sparire, mentre ne sorgono altre, diversamente distribuite.  Per questo, la creazione degli stati nazionali ha richiesto l’eliminazione, spesso violenta, delle società precedenti.  Per fare un esempio, la formazione della Francia, fra Luigi XIII e XIV, ha comportato la sostituzione di gran parte della classe dirigente di tradizione feudale con un’altra formata da burocrati e proto-capitalisti.  Mentre la formazione della Francia moderna è passata attraverso il Terrore e le guerre napoleoniche.

Un esempio di natura diversa, ma analogo, è lo sviluppo del capitalismo industriale che eliminò ogni traccia delle tradizioni che davano identità e resilienza alle classi popolari.  Queste si adattarono, creando un nuovo confine culturale: l’identità della classe operaia.  Il capitalismo finanziario ha eliminato anche questa.   Il primo passaggio era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels, il secondo assolutamente no.

In sintesi, l’integrazione di sotto-sistemi in sistemi maggiori comporta un vantaggio complessivo, ma necessariamente questo avviene a danno di alcuni elementi, per il maggior vantaggio di altri.   Un “effetto collaterale” che può essere fortemente mitigato scaricando i danni ad altri soggetti esterni.  Finché questi soggetti sono altre società umane, la cosa è crudele, ma sostenibile.  Quando il “soggetto esterno” è invece la Biosfera (come di norma, almeno in parte) è più problematico.  Infatti, anche se siamo abituati a considerare la Biefera come esterna al nostro sistema socio-economico, è invece il nostro sistema umano ad essere interno all’ecosistema globale.  In altre parole, danneggiando la Biosfera necessariamente danneggiamo noi stessi.

Il pericolo più insidioso è quindi che la maggiore crescita economica e demografica che accompagna la complessità metta sotto crescente stress il sistema maggiore di cui le società umane fanno parte (ecosistema e financo la Biosfera).   Ci torneremo.

Internazionalizzazione


Nel XVIII secolo, i principali stati europei avevano raggiunto un notevole grado di integrazione interna, ma il commercio internazionale era assai limitato.  Lo sviluppo di questo fu indicato da David Ricardo e dagli altri padri dell’economia liberale come una delle chiavi di volta per la crescita economica ed il progresso.   In estrema sintesi, si sostenevano due punti fondamentali.

Il primo è quello già citato della possibilità di sopperire con il surplus di alcuni alle carenze di altri.

Il secondo era che i diversi paesi e le diverse regioni hanno vocazioni produttive diverse.   Per esempio, in Sicilia si fa del vino migliore che nello Shropshire, mentre le pecore inglesi producono una lana migliore di quella siciliana.   Parimenti, i giacimenti di minerali e le fonti energetiche (all’epoca soprattutto il carbone) non sono uniformemente distribuiti.  Rendere i confini statali più permeabili alle merci  poteva quindi consentire ad ogni paese di specializzarsi nelle produzioni per le quali era più vocato, aumentando l’efficienza e quindi la ricchezza complessiva delle popolazioni.  Inoltre,  aumentando il grado di interdipendenza, diminuiva il rischio di conflitto.

Una teoria coerente con quello che oggi sappiamo sulla dinamica dei sistemi e, difatti, ha sostanzialmente funzionato, anche se non sempre così bene come Ricardo sperava.


Europeizzazione

La formazione di una struttura sovrastatale europea ha seguito una schema analogo, ma con alcune importanti novità.  Tanto per cominciare, l’integrazione è avvenuta in modo volontario, sulla base di trattati approvati dai parlamenti nazionali e non, come di solito avviene, tramite un’invasione militare e/o l’imposizione di una nuova classe dirigente.

Un secondo punto importante è che, fino al 1995, l’integrazione è avvenuta in modo molto graduale.

Il terzo è che non ha riguardato solo accordi commerciali, ma che politici.  Di conseguenza, la permeabilità dei confini è cresciuta non solo nei confronti delle merci, ma anche delle persone e dei capitali.

Come in tutti i processi di trasformazione, anche questo ha avuto i suoi perdenti, ma nel complesso, l’Europa occidentale è diventata la società di gran lunga più prospera e pacifica dell’intera storia dell’umanità.  Un dato di fatto che è di moda dimenticare.

Con l’integrazione dei paesi dell’ex-impero sovietico (nel 2004 e nel 2007) furono invece commessi diversi errori.   I due principali penso che siano stati la scelta sbagliata dei valori fondanti e la fretta.   I valori fondanti di Coudenhove-Kalergi e, successivamente, di Shuman, de Gasperi e gli altri “padri fondatori”  erano soprattutto la fine delle guerre in Europa e lo sviluppo di una società liberale.   Viceversa, negli anni '90 e 2000, fu in nome del benessere materiale che società ed economie furono sconvolte nel giro di pochi anni.   Ovviamente, il contraccolpo generò una serie di squilibri che siamo lontanissimi dall’aver recuperato.

Globalizzazione


Ma in quegli anni, tutto questo era invisibile per una classe dirigente completamente ebbra di vittoria (in occidente). Oppure completamente sedotta dalla prospettiva di una facile ricchezza (in tutti gli altri paesi).

Sorse così l’idea di estrapolare un processo simile a quello europeo a livello mondiale. Era nata la globalizzazione.   Nei sogni dei suoi promotori, avrebbe dovuto integrare tutti i paesi della Terra in un unico mercato, governato da organismi internazionali indipendenti e sovraordinati agli stati.  Col tempo, si diceva, ciò avrebbe portato anche ad un’unica società, con un’unica lingua, un'unica cultura, un unico governo, eccetera.  L’intera umanità finalmente affratellata in una sorta di villaggio globale grazie al commercio ed alle nuove tecnologie.

Sappiamo che è andata diversamente per una lunga serie di fattori. Limitandoci qui al punto di vista sistemico, si può però dire che è accaduto esattamente quello che ci si poteva aspettare.

Nell’internazionalizzazione, capitali e persone rimangono ancorati al loro luogo d’origine. Ciò significa che chi si arricchisce con il commercio internazionale è costretto a investire nel proprio paese e questo, almeno in linea di principio, crea lavoro per la popolazione locale che è anch’essa vincolata al proprio territorio.  Non solo; i capitalisti si posso arricchire a dismisura, ma non possono lasciare il proprio paese, pena perdere tutto.  Inoltre, se si rendono sufficientemente odiosi, potrebbero anche subire delle conseguenze molto sgradevoli, come molte volte è effettivamente accaduto nella storia.

Nell'europeizzazione, i confini dei singoli stati veniìvano progressivamente erosi, ma contemporaneamente si formava e rafforzava un confine esterno comune. In pratica, anche se il processo di europeizzazione e quello di globalizzazione vengono spesso confusi, sono intrinsecamente antitetici.

Gli accordi di globalizzazione permettono lo spostamento ovunque sia dei capitali finanziari, sia del capitale culturale (in particolare know-how e tecnologie). Permettono altresì ai capitalisti di spostarsi quasi liberamente da un luogo all’altro in quello che, per loro, è effettivamente un villaggio globale.   E permettono anche lo spostamento di masse di manodopera, creando un mercato globale del lavoro che, in pratica, diventa un sistema di crumiraggio mondiale.

Paradossale ed istruttivo è il fatto che la UE e gli USA furono fra i principali promotori di questa follia planetaria.   Senza rendersi conto che  i loro stessi confini ed i loro stessi sistemi socio-economici sarebbero stati  fra quelli che avrebbero subito il contraccolpo maggiore.   In un processo di integrazione rapida a tutti i livelli, ci sono infatti necessariamente sotto-sistemi (regioni, gruppi di persone, imprese, o altro) che avranno il più dei vantaggi, se non tutti.  Mentre altri soggetti avranno gli svantaggi corrispondenti.  In altre parole, si crea un mondo di vincenti e perdenti assoluti.  E dovremmo sapere tutti da un pezzo che la civiltà industriale è un "gioco" in cui chi ha le manifatture vince, chi ha le cave, le miniere e le discariche perde.  Esattamente quello che, guarda caso, è accaduto.   Nessuna sorpresa.

Il seguito, al prossimo post.

giovedì 13 aprile 2017

Perché non riusciamo a fare la Transizione? Il problema dell'economia (seconda parte)

 (Pubblicato anche su Appello per la Resilienza: https://appelloperlaresilienza.wordpress.com/)

 Post di Michele Migliorino

 

DISEGUAGLIANZE ECONOMICHE

Vi sono molti aspetti connessi con la nostra difficoltà di trovare soluzioni ai cambiamenti climatici e al problema delle risorse. Come cerco di dimostrare in questa serie di articoli, ciò sembrerebbe essere causato dal fatto che il sistema economico impedisce uno sviluppo etico e sociale autentico.

In questi ultimi anni si è fatto sempre più evidente il crescente divario dei redditi. Si tratta di una situazione generata dal funzionamento del sistema o è temporanea e risolvibile? In che modo va ad incidere questo sulla nostra capacità di trovare risposte pratiche ai problemi globali?

Non può esistere economia senza crescita. Ciò significa che la quantità di denaro nel mondo deve continuamente aumentare. Ma come si distribuisce la ricchezza?

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fonte: www.lteconomy.it

Il tema della disuguaglianza è anche emerso nel corso degli incontri al World Economic Forum a Davos (19 gennaio 2015), quando, Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam International, ha presentato i risultati di una delle ultime pubblicazioni di Oxfam sulla disuguaglianza, ‘Wealth: Having It All and Wanting More,’ evidenziando che la ricchezza aggregata dell’ 1 per cento più ricco della popolazione mondiale supererà quella del restante 99 per cento entro il 2016. 

Nella prima parte avevo argomentato che il sistema economico si basa sulla crescita del capitale. Tutto ciò è noto sotto il nome di Capitalismo. Vediamo un paio di grafici la cui idea è mettere in relazione la grandezza del continente, la % di popolazione e la % di ricchezza. Qui sotto la situazione nel 1990.

fonte: www.wordmapper.org

Vediamo di seguito invece come sia cambiata nell'arco di quasi 30 anni. Il Sud del mondo si assottiglia ancora di più a favore del Nord, ma dopo 30 anni è l'Asia che sta crescendo, non l'Occidente.

fonte: www.wordmapper.org. La situazione odierna, nel 2015.

Ma sappiamo bene che è all'interno dei singoli paesi che si manifestano la diseguaglianze. Non v'è una distribuzione egualitaria della ricchezza e questo, secondo Thomas Piketty (Il Capitale nel XXI secolo; Income inequality in the US, 1913-1998) e Gail Tverberg (Why we have a wage inequality problem - Our finite world) è una componente fondamentale - se non primaria - dell'attuale crisi economica.

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fonte: google immagini.

L'Occidente e il mondo intero è travagliato dal problema delle diseguaglianze. Lo hanno dimostrato le lotte degli ultimi due secoli fra ricchi/poveri, capitalisti/comunisti. Sembra che il sistema sociale debba scindersi, per via delle condizioni necessarie alla creazione di capitale: chi stipendia e chi è stipendiato; chi possiede i mezzi per poter produrre e chi lavora; produttori e consumatori (è evidente che anche i "produttori" sono consumatori. Qui si allude a quella divisione dei redditi che avviene a monte del semplice atto di acquisto. Come produttori si intendono gli "imprenditori". Ogni imprenditore è anche consumatore, in quanto vivente, e ogni consumatore contribuisce a produrre dei beni. Ciò non toglie che i capitali si spostino - come si vede qui di seguito - dalla parte di chi possiede i "mezzi di produzione"). 

E' questa spaccatura la matrice di tutte le disuguaglianze sociali in quanto i profitti si spostano necessariamente dalla parte di chi possiede i "mezzi di produzione". Da chi viene prodotta la ricchezza e in quali tasche finisce? Ai lavoratori o agli imprenditori? Questo spostamento graduale dei redditi è ben documentato.

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Al consumatore, ironicamente, viene lasciato il "potere d'acquisto" e l'illusione di poter partecipare attivamente alla vita economica mentre è del tutto eterodiretto dalle logiche commerciali globali (cosa può il piccolo agricoltore contro la FAO?). Ma come avviene questo spostamento? Un illustre sociologo italiano, Luciano Gallino, ha ben chiarito la questione nel libro Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi, 2015) (e in Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai miei nipoti - Einaudi, 2015). Dopo aver parlato delle origini strutturali della crisi attuale (2007-2008) - che hanno avuto origine negli anni '80 quando è cominciato un predominio della finanza sull'economia reale come risposta alla crisi del regime di accumulazione - egli spiega che l'accumulazione è la:

crescita del capitale esistente mediante nuove dosi di altro capitale derivante da eccedenza del valore realizzato della produzione sul consumo in un determinato periodo. 

E continua dicendo:

L'accumulazione accresce costantemente la frazione di capitale investita in mezzi di produzione mentre diminuisce proporzionalmente la frazione investita in forza lavoro. 

Queste due citazioni difficili ci dicono che il capitale si accresce solo perché una parte sempre maggiore di profitto resta in mano all'imprenditore, mentre una sempre minore in mano al dipendente. E' questo il processo che ha generato la grande disoccupazione di questi anni e la tendenza alla meccanizzazione/robotizzazione delle aziende: ridurre i costi di sussistenza dei lavoratori. I robot non hanno bisogno di stipendio! Qui di seguito Gail Tverberg mostra il trend di discesa dei redditi dal 2000.

  

Fonte: Gail Tverberg - Our Finite World. Rapporto fra i redditi (wage) e il PIL (GDP).

La maggior parte dei profitti generati dalla forza-lavoro finiscono all'imprenditore. Si alimenta sempre più il divario fra una popolazione disoccupata e con sempre minor salario e degli imprenditori ultra-ricchi. Si è visto sopra come questa situazione sia omogenea su tutto il pianeta per via del mercato "unico", la globalizzazione. Una sola è la legge che unifica il Nord ricco e il Sud povero. Ma è una situazione che può durare? Il capitalismo può continuare ad esistere in eterno?

(La divisione che abbiamo creato fra i membri della nostra specie (infraspecifica, in termini ecologici), comporta un surplus di distruttività che si aggiunge a quella "naturale" relazione interspecifica che già da sola creava molti guai. Si veda per esempio la storia della diffusione nel pianeta dell'uomo cacciatore-raccoglitore come descritta da Jared Daimond nei primi capitoli di Armi, acciaio e malattie).

Marx credeva che il capitalismo portasse in sé i germi del suo superamento e che ciò sarebbe avvenuto già a fine XIX secolo attraverso una socializzazione della produzione ad opera delle masse dei lavoratori. Ciò non è avvenuto e un secolo di lotte comuniste si è risolta infine in una netta vittoria del neo-liberismo. Oggi del comunismo resta solo uno spettro. Perché ha perso? In definitiva il marxismo-comunismo restava solidale con quella "colossale visione del mondo" del suo acerrimo nemico capitalista. Non viene mai meno l'esigenza produttiva - e il capitalismo si è dimostrato più potente nel portare avanti questa logica.

Come hanno mostrato - fra gli altri - Jean Baudrillard e Naomi Klein, esso utilizza ogni mezzo per fortificarsi, persino la critica che gli viene rivolta - le lotte rivoluzionarie; il pensiero critico - viene ri-prodotta dal sistema per autoalimentarsi.

Voi potete redistribuire tutti i redditi che volete; potete regolare l'economia in maniera da facilitare le classi più povere e potete persino (forse) allungarne la vita in maniera che possa sembrare un sistema sempiterno, ma ciò non toglie che un sistema che vuole crescere indefinitamente dovrà prima o poi crollare. E' l'effetto Seneca, una semplice legge di natura.

(continua...)