venerdì 31 luglio 2015

Tutto ben, madama la marchesa!

di Jacopo Simonetta


Tutto va ben madama la Marchesa” è l’incipit di una celebre canzonetta degli anni ’30 di Nunzio Filogamo.

  Invece è di pochi giorni fa un articolo di Zack Beauchamp su Vox.com che inizia con un brano che merita di essere tradotto:

“Leggendo le notizie, talvolta sembra che il mondo stia andando in pezzi; che tutto stia andando all’inferno in un cestino e che siamo sull’orlo di un collasso totale.   In affetti, considerando i dati oggettivi, stiamo vivendo il periodo migliore della storia umana.   La gente non è mai vissuta più a lungo, meglio, più sicura o ricca di adesso.  E questi 11 grafici e mappe che raccolgono centinaia di dati, con il marchio di un rapporto delle Nazioni Unite focalizzato sugli ultimi 25 anni, lo provano”.

In effetti, l’articolo in questione è un estratto dal rapporto 2015 delle Nazioni Unite sui cosiddetti “Obbiettivi del Millennio”.   Un documento di 75 pagine denso di dati e di politica.  

Limitandoci all'assai più potabile articolo di Vox, scopriamo che la vita media degli umani è circa raddoppiata nel giro di un secolo, il PIL globale è letteralmente esploso, l’estrema povertà è in diminuzione così come le morti per AIDS e morbillo, il mondo non è mai stato tanto pacifico, la democrazia è diffusa come non mai, la percentuale di persone denutrite è diminuita, meno donne muoiono di parto, la mortalità infantile decresce, mentre la scolarizzazione aumenta.  

Dunque davvero non siamo mai stati tanto bene?   Ma il picco, il "postpicco" e tutte le altre “cassandrate” con cui certuni si trastullano?

Nei rapporti e nelle analisi occorre leggere sempre con attenzione non solo quello che c’è scritto, ma anche come viene scritto e, soprattutto, quello che NON viene scritto.

La prima osservazione da fare è banale, ma si trascura facilmente.   All'interno di un sistema complesso che evolve in una determinata direzione non accade mai che tutti gli elementi seguano tendenze omogenee.   Ci sono sempre sotto-sistemi che procedono più speditamente di altri e, generalmente, anche sotto-sistemi in controtendenza, almeno entro determinate finestre spazio-temporali.   Ad esempio, in Italia non tutti hanno perduto i loro soldi nella stessa misura e  ci sono migliaia di persone che oggi guadagnano meglio che nel 2007.   Ci sono anche un sacco di aziende che hanno aumentato sia il fatturato che i dipendenti, ma sfido chiunque a dire che l’economia italiana non versa in una crisi gravissima.

Scegliendo le inquadrature, in dieci scatti un buon fotografo può far apparire una qualunque città come bellissima od orripilante.   Ed in entrambi i casi le foto sono autentiche.  Un gioco che si può fare in entrambi i sensi, dipende dallo scopo che ci si propone.  O che si propone il committente.

Un secondo aspetto è costituito dai margini di incertezza.   Tutti o quasi i dati utilizzati in questo, come in altri rapporti, sono in realtà delle stime con ampi margini di incertezza.   Margini che di solito vengono discussi nei documenti tecnici preliminari, ma che spariscono nelle pubblicazioni finali dove si sceglie se adottare il valore maggiore, minore o medio a seconda della committenza.

Un terzo trucco ampiamente utilizzato per manipolare questo tipo di informazione è rappresentato dalla oculata scelta su quando utilizzare il dato in cifra assoluta e quando in percentuale.  L’effetto può essere importante.  Ad esempio, la percentuale di persone denutrite è effettivamente diminuita, ma poiché la popolazione è aumentata, il numero di persone denutrite è aumentato.

 Allora, va meglio o va peggio?

Anche la scelta della scala temporale è importante.   Mostrare l’evoluzione di una qualunque variabile negli ultimi mesi, anni, decenni o secoli può generare opinioni molto diverse.   Si pensi ad esempio al prezzo del petrolio che tanto ha anche fare con l’economia globale:  rispetto all’anno scorso è tracollato, mentre rispetto a dieci anni fa è altissimo.

Un altro grande assente è il contesto in cui si collocano i dati.   Una certa percentuale di mortalità o di scolarizzazione od altro,  può rappresentare un grande successo od un fiasco a seconda del contesto sociale, economico, ecologico, geografico, eccetera in cui ci si trova.

Molto più importante di tutto questo, è però il fatto che l’intero rapporto è costruito ignorando totalmente le retroazioni che strutturano il sistema Terra, che è un sistema unico ed inscindibile.   Concentrarsi su determinati aspetti è necessario per studiarli, ma se non si considerano i rapporti che intercorrono fra i diversi fattori considerati ed i molti altri ignorati si finisce con il perdere ogni contatto con la realtà.   Per esempio, è vero che la mortalità è molto diminuita e che il PIL è cresciuto a dismisura, due aspetti ben reali del nostro mondo.   Ma questo determina proprio quell'aumento della popolazione e dei consumi che sta minando le basi stesse della vita sulla Terra, un altro aspetto della stessa identica realtà.

Soprattutto, con questo tipo di approccio si rinuncia alla possibilità di capire l’evoluzione del sistema di cui ci stiamo occupando.   Di conseguenza, si rinuncia a cercare di capirne il futuro, eventualmente limitandosi a proiettare nel futuro le tendenze rilevate nel passato.   Qualcosa del genere “se Giovanni da 0 a 10 anni è cresciuto di 30 chili, a 20 anni ne peserà 60 ed a 100 tre quintali.

Qualcosa non funziona?   Forse un ventenne che pesa 60 kg è anoressico e non può diventare un centenario obeso perché morirà prima.    Si da il caso che la dinamica interna di un qualunque sistema complesso cambi a seconda della fase e del contesto in cui si trova.   Lo fanno i singoli organismi, ma anche le popolazioni e gli ecosistemi.   Lo fa anche la Biosfera,  solo che aumentando il livello di complessità diventa sempre più arduo, fino ad impossibile, fare previsioni precise ed affidabili.   Dovrebbe essere facile da capire, ma ciò non impedisce agli analisti delle NU di esibirsi periodicamente con uscite del genere “nel 2030 la popolazione sarà di 10 miliardi di abitanti” senza preoccuparsi minimamente di valutare se ce ne potrebbero essere i presupposti e quali ne sarebbero le conseguenze per capire se il loro dato sia plausibile o meno.

Nel complesso, direi che questo articolo di Vox rappresenta un brillante esempio di “pensiero positivo”.



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giovedì 30 luglio 2015

Problemi diabolici e soluzioni diaboliche: il caso della fornitura mondiale di cibo

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Sono appena tornato da due giorni di full immersion ad un incontro su una cosa per me piuttosto nuova: la fornitura mondiale di cibo. Mi devo ancora riprendere. Ogni qualvolta si vada ad una certa profondità in qualsiasi cosa si vede quanto le cose siano immensamente più complesse in confronto all'ombra pallida del mondo che si percepisce dallo schermo scintillante della vostra TV. Tutto è complesso e tutto ciò che è complesso diventa diabolico una volta che si comincia a vederlo come un problema. E i problemi diabolici di solito generano soluzioni diaboliche (immagine da  Wikipedia)


Riuscite a pensare a qualcosa di peggio di un problema diabolico? Sì, è del tutto possibile: è una soluzione diabolica. Vale a dire, una soluzione che non solo non fa nulla per risolvere il problema ma, di fatto, lo peggiora. Sfortunatamente, se si lavora nella dinamica dei sistemi, spesso si apprende che gran parte dei sistemi complessi non sono solo terribili, ma soffre di soluzioni diaboliche (vedete, per esempio, qui).

Detto questo, passiamo ad uno dei problemi più diabolici a cui possa pensare: quello della fornitura mondiale di cibo. Qui cercherò di riportare almeno una parte di ciò che ho imparato alla recente conferenza su questo argomento, tenuta congiuntamente dalla FAO e sezione italiana della System Dynamics Society. Due giorni di discussioni tenutisi a Roma durante una mostruosa ondata di calore che ha messo a dura prova il sistema di aria condizionata della sala conferenze e reso la camminata da lì all'hotel un'impresa confrontabile alla camminata su un pianeta alieno: ciò ha portato la sensazione netta di aver bisogno di una tuta spaziale refrigerata. Ma è valsa la pena esserci.

Per prima cosa, è il caso di dire che la fornitura mondiale di cibo è un “problema”? Sì, se notate che circa la metà della popolazione umana mondiale è malnutrita, se non veramente affamata. E della metà rimanente, una grande percentuale non è nutrita nel modo giusto, perché l'obesità e il diabete di tipo II sono malattie in espansione – alla conferenza hanno detto che se la tendenza continua, nel futuro metà della popolazione mondiale soffrirà di diabete.

Quindi, se abbiamo un problema, è davvero “diabolico”? Sì, lo è, nel senso che trovare una buona soluzione è estremamente difficile e i risultati sono spesso l'opposto di quelli desiderati all'inizio. Il sistema alimentare mondiale è un sistema diabolicamente complesso e coinvolge una serie di sottosistemi collegati vicendevolmente che interagiscono fra loro. La produzione di cibo è una cosa, ma la fornitura di cibo è una storia del tutto diversa, che comporta trasporto, distribuzione, immagazzinamento, refrigerazione, fattori finanziari ed è condizionata da cambiamento climatico, conservazione del suolo, popolazione, fattori culturali... ed altro, compreso il fatto che le persone non mangiano semplicemente “calorie”, hanno bisogno di cibo, cioè una miscela bilanciata di nutrienti. In un sistema del genere, ogni cosa che si tocca si ripercuote su tutto il resto. E' un caso classico del concetto conosciuto in biologia come “non puoi fare una cosa sola”.

Una volta che ti fai una vaga idea della complessità del sistema di fornitura del cibo – come è possibile in due giorni di full immersion ad una conferenza – allora puoi anche capire quanto siano spesso scarsi e in malafede i tentativi di “risolvere il problema”. L'errore di fondo che quasi tutti fanno a questo punto (e non solo nel caso del sistema di fornitura del cibo) è cercare di linearizzare il sistema.

Linearizzare un sistema complesso significa che si agisce su un suo singolo elemento, sperando che tutto il resto non cambi di conseguenza. E' l'approccio “guarda, è semplice”, quello preferito dai politici (*). Recita così, “guarda, è semplice: facciamo semplicemente questo e il problema sarà risolto”. Quello che si intende per “questo” varia a seconda della situazione. Col sistema alimentare, spesso comporta qualche trucco tecnologico per aumentare i rendimenti agricoli. In altri ambienti comporta l'urlo a squarciagola “passiamo agli OGM!”.

Sfortunatamente, anche ipotizzando che i rendimenti agricoli possano essere aumentati in termini di calorie prodotte usando gli OGM (possibile, ma solo in sistemi agricoli industrializzati), allora il risultato è una cascata di effetti che si ripercuotono sull'intero sistema, di solito trasformando un sistema di produzione rurale resiliente in un sistema di produzione fragile e parzialmente industrializzato – per non dire niente del fatto che queste tecnologie spesso peggiorano le qualità nutrizionali del cibo. E ipotizzando che sia possibili aumentare i rendimenti, come si trovano le risorse finanziarie per costruire l'infrastruttura necessaria per gestire l'aumentato rendimento agricolo? Servono camion, frigoriferi, impianti di stoccaggio ed altro. Anche se si riuscisse a mettere insieme tutte queste cose, molto spesso il risultato è semplicemente quello di rendere il sistema più fragile e meno resiliente, vulnerabile agli shock esterni come l'aumento del costo di forniture come combustibili e fertilizzanti.

Ci sono altri esempi egregi di quanto sia profondamente errata la strategia “guarda, è semplice”. Uno è l'idea che possiamo risolvere il problema sbarazzandoci dello spreco di cibo. Ideona, ma come lo si può fare esattamente  e quanto costerebbe? (**) E chi pagherebbe per l'aggiornamento dell'intera infrastruttura di distribuzione? Un altro approccio “guarda, è semplice” è 'se diventassimo tutti vegetariani ci sarebbe moltissimo cibo per tutti'. In parte è vero, ma non è così semplice, a sua volta. Di nuovo, c'è una questione di distribuzione e trasporto e il fatto che i ricchi occidentali che comprano “cibo verde” nei loro supermercati ha un impatto minimo sulla situazione dei poveri nel resto del mondo. E quindi, alcuni tipi di cibo “verde” sono ingombranti e quindi difficili da trasportare, inoltre si rovinano facilmente e quindi serve refrigerazione e così via. Una cosa analoga vale per la strategia “cibo locale”. Come si affrontano le inevitabili fluttuazioni della produzione locale? Una volta, queste fluttuazioni erano causa di carestie periodiche che venivano accettate come un fatto della vita. Tornare a quello non è esattamente “risolvere il problema della fornitura di cibo”.

Un modo diverso di affrontare il problema è concentrato sulla riduzione della popolazione umana. Ma, anche qui, spesso facciamo l'errore “guarda, è semplice”. Cosa sappiamo esattamente sul meccanismo che genera la sovrappopolazione e come interveniamo su di esso? A volte, coloro che propongono questo approccio sembrano pensare che tutto ciò che dobbiamo fare è sganciare profilattici sui paesi poveri (se non altro, è meglio che sganciare bombe). Non è così facile, ma supponiamo che si possa ridurre la popolazione in modi non traumatici, poi si interviene in un sistema in cui “popolazione” significa un complesso misto di diverse nicchie sociali ed economiche: ci sono popolazioni urbane, periurbane e rurali. Una riduzione della popolazione potrebbe spostare le persone da un settore all'altro, potrebbe significare perdita di capacità produttive nelle aree rurali o, al contrario, una ridotta capacità di finanziare la produzione se si potesse diminuire la popolazione in aree urbane. Di nuovo, la riduzione della popolazione, di per sé, è un approccio lineare che non funzionerà come si pensa che faccia, anche se potesse essere implementata.

Di fronte alla complessità del sistema, ascoltando gli esperti che ne discutono, hai la raggelante sensazione che si tratti di un sistema davvero troppo difficile da afferrare per gli esseri umani. Si dovrebbe essere allo stesso tempo esperti in agricoltura, in logistica, in nutrizione, in finanza, in dinamiche della popolazione e molto altro. Una cosa che ho notato, come modesto esperto in energia e combustibili fossili, è quanto gli esperti di cibo di solito non si rendano conto che la disponibilità di combustibili fossili deve necessariamente diminuire nel prossimo futuro. Ciò avrà effetti spaventosi sull'agricoltura: pensate ai fertilizzanti, alla meccanizzazione, al trasporto, alla refrigerazione ed altro. Ma non ho visto questi effetti presi in considerazione  nella maggior parte dei modelli presentati. Diversi ricercatori hanno mostrato diagrammi che estrapolano le attuali tendenze per il futuro come se la produzione di petrolio dovesse continuare ad aumentare per il resto del secolo ed oltre.

La stessa cosa vale per il cambiamento climatico. Alla conferenza non ho sentito dire molto riguardo agli effetti estremi che un rapido cambiamento climatico potrebbe avere sull'agricoltura. E' comprensibile, abbiamo buoni modelli che ci dicono come aumenteranno le temperature e come condizioneranno alcuni sottosistemi del pianeta (per esempio i livelli del mare), ma nessun modello che possa dirci in che modo il sottosistema agricolo reagirà al variare dei modelli meteorologici, alle diverse temperature, alle siccità e alle alluvioni. Pensate solo a quanto i rendimenti agricoli in India siano profondamente collegati ai modelli annuali dei monsoni, e non si può che rabbrividire al pensiero di cosa potrebbe accadere se il cambiamento climatico li condizionasse.

Quindi l'impressione che ho avuto dalla conferenza è che nessuno sta realmente afferrando la complessità del problema; né a livello di singoli individui, né a livello di organizzazioni. Per esempio, non ho mai sentito un termine cruciale usato nelle dinamiche planetarie che è “overshoot” (superamento). Cioè, è vero che adesso siamo in grado di produrre più o meno cibo a sufficienza – misurato in calorie – per la popolazione attuale. Ma per quanto tempo saremo in grado di farlo? In diversi casi potrei descrivere gli approcci a cui ho assistito come il tentativo di aggiustare un orologio meccanico usando un martello. O di guidare un transatlantico usando uno stuzzicadenti incastrato nell'elica.

Ma ci sono anche elementi positivi che emergono dalla conferenza di Roma. Uno è che la FAO anche se è un'organizzazione grande ed a volte goffa comprende il fatto che la dinamica dei sistemi è uno strumento che potrebbe aiutare molto i politici a capire le conseguenze di quello che facciamo. E, probabilmente, ad aiutarli ad escogitare idee migliori per “risolvere il problema del cibo”. Ciò è più difficile di quanto sembri: la dinamica dei sistemi non è per tutti e insegnarla ai burocrati è come insegnare ai cani a risolvere equazioni: ci vuole tanto lavoro e non funziona tanto bene. Inoltre, i professionisti della dinamica dei sistemi spesso sono vittime della sindrome da “diagramma degli spaghetti”, che consiste nel disegnare modelli complessi pieni di scatoline e di freccette che vanno da una parte all'altra per poi guardare la confusione che hanno creato; annuendo in segno di grande soddisfazione interiore. Ma è anche vero che alla conferenza ho visto molta buona volontà fra i vari attori sul campo per trovare un linguaggio comune. E' una cosa buona, difficile, ma promettente.

Alla fine, qual è la soluzione al “problema della fornitura di cibo”? Se me lo chiedete, proverei a proporre un concetto: “in un sistema complesso, non ci sono né problemi né soluzioni. C'è solo cambiamento ed adattamento”. Come corollario, potrei dire che puoi risolvere un problema (o provarci) ma non puoi risolvere un cambiamento (nemmeno puoi provarci). Ti puoi solo adattare al cambiamento, preferibilmente in un modo non traumatico.

Visto in questo senso, il miglior modo di affrontare l'attuale situazione della fornitura di cibo è quello di non cercare soluzioni impossibili (terribili) (per esempio gli OGM), ma di aumentare la resilienza del sistema. Ciò comporta lavorare a livello locale ed interagire con tutti gli attori che lavorano nel sistema di fornitura di cibo. E' un approccio ragionevole. La FAO lo sta già seguendo e può assicurare una fornitura ragionevole anche in presenza di inevitabili shock che stanno per arrivare in conseguenza dei problemi di cambiamento climatico e di fornitura di energia. La dinamica dei sistemi può essere di aiuto? Probabilmente sì. Naturalmente, c'è molto lavoro da fare, ma la conferenza di Roma è stata un buon inizio.


H/t: Stefano Armenia, Vanessa Armendariz, Olivio Argenti e tutti gli organizzatori della conferenza congiunta Sydic/FAO  a Roma.

Note

* Una volta che si affronta il problema del cibo, non si può ignorare la situazione del “terzo mondo”. Di conseguenza, la conferenza non è stata solo fra occidentali ed il dibattito ha preso un aspetto più ampio che ha anche coinvolto diversi modi di vedere il mondo. Una discussione particolarmente interessante che ho avuto è stata con una ricercatrice messicana. Secondo lei, “linearizzare” i problemi complessi è una caratteristica tipica (e piuttosto diabolica) del modo di pensare occidentale. Lei ha contrastato questa visione lineare con l'approccio “circolare” che, secondo lei, è tipico delle antiche culture mesoamericane, come i Maya ed altri. Quell'approccio, ha detto, potrebbe aiutare molto il mondo ad affrontare problemi diabolici senza peggiorarli. Riporto semplicemente la sua opinione, personalmente non ho conoscenza sufficiente per giudicarla. Tuttavia, mi sembra vero che ci sia qualcosa di diabolico nel modo in cui il pensiero occidentale tenda a plasmare tutto a sua immagine. 

** Nel sistema alimentare, l'idea che “guarda, è semplice: liberiamoci semplicemente degli sprechi” è esattamente parallela all'approccio “rifiuti zero” per i rifiuti urbani ed industriali. Ho una certa esperienza in questo settore e posso dirvi che, nel modo in cui spesso viene proposta, l'idea di “rifiuti zero” semplicemente non può funzionare. Comporta costi alti e rende semplicemente il sistema sempre più fragile e vulnerabile agli shock. Ciò non significa che i rifiuti siano inevitabili, niente affatto. Se si non può costruire un sistema industriale a “rifiuti zero” si possono costruire sottosistemi che possono gestire quei rifiuti. Questi sottosistemi, tuttavia, non possono funzionare usando la stessa logica del sistema industriale standard, devono essere adattati per funzionare su risorse a basso rendimento. In pratica, è l'approccio della “gestione partecipata” (vedete, per esempio, il lavoro del professor Gutberlet). Si può fare coi rifiuti urbani, ma anche con lo spreco di cibo ed è un altro modo per aumentare la resilienza del sistema.





mercoledì 29 luglio 2015

Termodinamica del disboscamento.

di Jacopo Simonetta



In un recente articolo  pubblicato dalla testata  “Proceedings of the National Academy of Sciences” James Hataway sintetizza i risultati si uno studio condotto da un gruppo di tre fisici dell’Università della Georgia (USA).   Lo studio rientra nel fertile filone del’applicazione delle leggi della termodinamica allo studio della crisi sistemica in corso a livello globale. Qui  e qui due versioni dell’articolo.

In estrema sintesi, i ricercatori sostengono che, sotto il profilo meramente termodinamico, la Terra si è comportata per circa 2.5 miliardi di anni come una batteria che ha accumulato energia in forma chimica, tramite l’attività fotosintetica.   Sia la biomassa attuale, sia i combustibili fossili sono infatti costituiti da energia solare immagazzinata in legami chimici ad opera di piante, batteri e cianobatteri.   Questo assicura al nostro Pianeta una distanza teoricamente misurabile dallo stato di degli altri, che è molto più vicino all'equilibrio termodinamico e perciò incompatibile con la vita.   Un modo corretto e complicato di dire che è la presenza di vita che assicura il fatto che sulla Terra ci siano condizioni compatibili con la vita, umana e non.

Nel corso degli ultimi 2 secoli ed in modo progressivamente accelerato,  prosegue l’articolo, questa riserva di energia è stata consumata senza che fosse possibile ripristinarla perché i tempi di dissipazione sono di diversi ordini di grandezza maggiori di quelli necessari par la sua cattura ed accumulo.   D'altronde, è stata esattamente questa spettacolare dissipazione di energia che ha permesso il dominio assoluto della nostra specie sul pianeta, la presenza di oltre 7 miliardi di noi e la costruzione della complessa infrastruttura industriale, agricola ed urbana in cui viviamo.

Ma riducendosi il gradiente termodinamico fra la Terra e lo spazio esterno, le condizioni per la vita vengono gradualmente meno.   Considerando che circa metà della materia organica vivente e fossile è stata distrutta, è il caso di cominciare a preoccuparsi molto seriamente.    Esiste la possibilità di fermare questo processo?    Secondo gli scienziati si ed è incrementare la biomassa vegetale, dunque il tasso di attività foto sintetica a livello planetario.   Un obbiettivo molto difficile, ma l’unica alterativa è l’estinzione della civiltà e, forse, anche della specie umana; finanche la scomparsa della Biosfera stessa.

Anni di autonomia alimentare garantita dalla fotosintesi dall'anno 0 ai giorni nostri.

























La materia non è nuova e riprende, aggiornandolo e circostanziandolo meglio, il punto fondamentale sostenuto da James Lovelock nel suo celebre libro “Ipotesi Gaia” del 1979:  l’indizio sicuro di presenza di vita su di un pianeta sarebbe un’entropia anormalmente bassa.

Come ecologo, non posso che approvare l’enfasi posta sull'importanza della biomassa vegetale come fattore chiave nel mantenere la Terra in un salubre disequilibrio termodinamico.   In altre parole, nell'impedire che il nostro pianeta diventi un deserto di rocce come tutti gli altri del nostro sistema solare.    Nessuno di essi è, beninteso, in perfetto equilibrio con lo spazio circostante, ma il livello di disequilibrio del nostro Pianeta è molto superiore ed è esattamente questo che ci permette di esistere.

Vorrei però aggiungere qualcosa a proposito di uno degli aspetti più importanti e negletti della crisi in corso: la rapida erosione di biodiversità.   Un ecosistema non è infatti composto solo da materia che circola ed energia che fluisce, ma anche da informazione.   La trasformazione di energia luminosa in legami chimici  comporta certo un accumulo di energia, ma anche di informazione sul nostro pianeta.   Quantità e qualità di questa informazione sono, credo, altrettanto e forse ancor più importanti della biomassa.
Per capirsi, già a livello di idrocarburi fossili, quello che rende il brent tanto più prezioso dello Shale oil sono profonde differenze nella forma e nelle dimensioni delle molecole che li compongono.    Dunque la diversa informazione che tali molecole contengono.   Tant'è vero che buona parte dei problemi che cominciamo avere con il petrolio non dipende tanto dalla sua quantità, bensì dal fatto che stiamo esaurendo quello di buona qualità (cioè contenente un certo tipo di informazione).   Altri materiali possono contenere altrettanta energia, ma non la stessa informazione e questo ha conseguenze immense sui processi industriali.

Se passiamo alla biomassa vivente, quella cioè che si riproduce e che quindi ricarica la nostra batteria qui ed ora, troviamo che l’informazione è contenuta non solo nei legami molecolari, ma soprattutto nel genoma e  nella struttura degli ecosistemi di cui gli organismi fotosintetici fanno parte.   La vita si mantiene infatti solo grazie ad un continuo processo di reciproco adattamento fra tutti gli elementi che costituiscono gli ecosistemi.

Fanno eccezione solamente le forzanti esterne, ma se si considera l’ecosistema globale, queste si riducono a pochi fattori astronomici e geologici.   Fra i primi, abbiamo fenomeni come la posizione della Luna, l’attività solare, l’inclinazione dell’asse terrestre, l’eventuale caduta di grandi meteoriti e poco altro.   Fra i secondi, principalmente la deriva dei continenti e l’attività vulcanica.   

In altre parole, quella che si riscontra è una co-evoluzione che crea biodiversità e che si alimenta della medesima.    Non sono infatti le specie e neppure le popolazioni che evolvono, bensì gli ecosistemi di cui le popolazioni sono parte.  

Ma sono i genomi delle popolazioni che costituiscono le “carte” con cui si gioca la partita della vita.   Una partita in cui le regole fisse sono molto poche e tutto cambia in continuazione.   Ogni estinzione è quindi una “carta” perduta e ciò ha due ordini di conseguenze.  

Nell'immediato, riduce l’efficienza e la resilienza del sistema.   Superato un imprevedibile punto di rottura, l’ecosistema si trasforma molto rapidamente e spesso irreversibilmente in qualcosa di completamente diverso e molto più povero.    Esempi classici di questo tipo di fenomeni sono l’eutrofizzazione delle acque e la desertificazione dei suoli.   

In prospettiva, ogni estinzione riduce sia le possibilità di adattamento del sistema complessivo, sia la possibilità di recupero dopo la crisi.   In altre parole, riduce la probabilità che in futuro via sia vita sulla Terra ed il fatto che sia già accaduto varie volte non dovrebbe indurci a sonni tranquilli.   E’ vero che ad ogni estinzione massiva fin qui avvenuta è seguita una fase di recupero, ma le condizioni astrofisiche del Pianeta e del sistema solare non erano le stesse di oggi.   E, comunque, nessuna delle specie dominanti della fase precedente l’estinzione è sopravvissuta.

Insomma, il fatto che stiamo vivendo le fasi iniziali di un’estinzione di massa non pone solo dei problemi di ordine etico (peraltro fondamentali), ma anche di mera sopravvivenza.    Un concetto un po’ difficile da far capire ai nostri amministratori, imprenditori e concittadini, abituati a rispondere che “Non si può fermare il progresso (o l’economia e quel che gli pare al momento) per salvare un uccellino”.

D'altronde, è anche vero che è consumando le riserve di energia e di informazione contenute nel nostro Pianeta che la nostra specie ha potuto costruire l’immensa infrastruttura e la complessa cultura odierna, oltre che i circa cinquecento milioni di tonnellate di carne umana attualmente in circolazione.   In altre parole, una parte consistente dell’energia e dell’informazione contenute anticamente dal Pianeta sono state trasformate nei “hardwhwre” e “softwhere” della civiltà attuale.   Una parte maggiore è stata distrutta nel processo.   Non possiamo sapere quanta, ma sicuramente più di quanta ne rimane, visto che ad ogni trasformazione corrisponde necessariamente un aumento dell’entropia.

Dunque l’impero universale della nostra specie si fonda necessariamente sulla distruzione delle basi termodinamiche della vita di cui noi stessi facciamo parte.   Per usare una parola cara ai filosofi, si potrebbe dire che l’autodistruzione rappresenta l’Entelechia (compimento ultimo e perfetto di una tendenza) dell’evoluzione umana.   Ma non è detto che ci riusciamo!

Anche gli altri animali hanno potenzialmente la stessa tendenza, ma non la possono realizzare perché la loro crescita si scontra con dei limiti invalicabili.   Proprio quelli che, viceversa, noi siamo riusciti finora tanto brillantemente a superare.    Motivo non piccolo di comprensibile orgoglio, ma anche prodromo di suicidio collettivo.   Già, perché il fattori limitanti sono esattamente quella “cosa” che, impedendo lo sviluppo delle popolazioni oltre un certo limite, ne favorisce la sopravvivenza a lungo termine.   Un concetto un po’ acido da ingurgitare, ma è così che funziona il mondo.

Possiamo quindi pensare a molti modi per fermare la distruzione della Vita, ma sarebbero efficaci solamente se ottenessero lo scopo di dirigere il flusso di entropia “verso di noi” anziché “lontano da noi”.   In altre parole, è necessaria una rapida diminuzione della quantità di materia, energia ed informazione contenuta nell’antroposfera.   

In parole povere, la Terra può sopportare a tempo indeterminato solo poca gente che utilizza tecnologie semplici e si accontenta di molto poco.  

Naturalmente, molti non sono d’accordo con questa conclusione ed è possibilissimo che abbiano ragione.   Queste che ho appena tratteggiato non sono infatti certezze, men che meno “verità”, ma solo considerazioni fondate sull'esperienza personale.   Negli anni a venire vedremo quale fra i tanti “mondi” teoricamente possibili diventerà reale.


martedì 28 luglio 2015

L'enciclica del papa è il “punto di non ritorno” in arrivo della percezione del cambiamento climatico: sarà abbastanza per risolvere il problema?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi


Il problema della fame nel mondo non è stato riconosciuto fino a relativamente poco tempo fa, come mostrato nella ricerca “Ngram”. Tuttavia, l'interesse per il problema ha preso rapidamente velocità negli anni 60 e questo ha portato a sforzi considerevoli per risolvere il problema aumentando i rendimenti agricoli (la “Rivoluzione Verde”). Questi sforzi in generale hanno avuto successo, ma il problema è stato davvero risolto? O è stato soltanto spostato in avanti – o persino peggiorato – come risultato del fatto che l'agricoltura è diventata completamente dipendente dai combustibili fossili? Qualcosa di simile potrebbe succedere in futuro col problema del cambiamento climatico, che potrebbe essere riconosciuto, ma non necessariamente risolto.


A parte un piccolo manipolo persone con posizioni anti-scientifiche, la maggior parte delle persone sono perfettamente consapevoli che abbiamo un problema grave di cambiamento climatico. Sono solo confuse da un bombardamento di dichiarazioni contraddittorie fomentate nei media in una persistente campagna di propaganda contro la scienza. In queste condizioni è probabile che tutto ciò che serve per rendere l'opinione pubblica più consapevole della gravità del problema è una “spinta” nella giusta direzione e l'enciclica del Papa sul clima – attesa per questa settimana – potrebbe fare proprio questo.

Di conseguenza, potremmo arrivare al punto in cui l'idea che il cambiamento climatico non esista o che non sia causato dall'attività umana sarà considerata non solo sbagliata, ma positivamente pericolosa per la società. Qualcosa di paragonabile a idee, diciamo, come quella per cui non ci sono prove che il fumo provoca il cancro, che mettersi la cintura di sicurezza mentre si va in macchina sia inutile o che la cocaina non sia più pericolosa del caffè come droga.

Naturalmente, non possiamo essere sicuri del fatto che l'enciclica del papa avrà questo effetto. Ma supponiamo che sia così, cosa succede poi? Ottimisticamente, potremmo pensare che gran parte del lavoro sia fatto e che, da quel momento in avanti, verrà fatto qualcosa di serio ed efficace per fermare il riscaldamento globale. Sfortunatamente, le cose non saranno così semplici. Quanto è probabile che rimanga difficile agire sul cambiamento climatico potrebbe essere compreso considerando un altro grande e grave problema che affligge l'umanità: la fame nel mondo. Non è stata sempre riconosciuta ed è solo con gli anni 60 che è diventata un argomento standard del nostro orizzonte intellettuale. A quel punto, nessuno si sarebbe sognato di dire che la fame nel mondo era una truffa progettata da degli scienziati cospiratori che volevano conservare le loro grasse sovvenzioni per studiare un problema che non esiste. Il dibatto era effettivamente terminato ma questo, di per sé, non ha risolto il problema.

Principalmente, il tentativo di eliminare la fame nel mondo è stato fondato sulla forza bruta, vale a dire sull'aumento dei rendimenti agricoli. E' stata quella che oggi chiamiamo la “Rivoluzione Verde”. Come sapete, i risultati di questi sforzi sono spesso descritti in termini entusiastici, un trionfo dell'ingegno umano sui limiti della natura. E' vero anche, tuttavia, che il problema della fame nel mondo non è mai stato del tutto risolto, non poteva esserlo se ogni aumento dei rendimenti agricoli veniva compensato da un corrispondente aumento della popolazione umana. E potrebbe anche essere che la Rivoluzione Verde non sia stata soltanto una “non soluzione”, ma qualcosa che ha peggiorato il problema trasformando l'agricoltura in un'attività industriale completamente dipendente dai combustibili fossili e dai fertilizzanti artificiali.

Qualcosa di analogo potrebbe accadere se superiamo il punto di non ritorno della percezione del cambiamento climatico. I dati di Google Ngram, sotto, indicano che l'interesse per il problema sta crescendo rapidamente e che potremmo essere vicini al raggiungimento del punto di non ritorno nella percezione che la fame nel mondo ha raggiunto negli anni 60.


I risultati, tuttavia, potrebbero non essere tanto buoni quanto si potrebbe sperare. L'apparizione improvvisa della drammatica realtà del cambiamento climatico nella mediasfera potrebbe portare a dimenticare che il modo migliore (e probabilmente l'unico) per sbarazzarsi dei combustibili fossili abbastanza rapidamente per evitare un disastro climatico è quello di renderli obsoleti attraverso le energie rinnovabili. Quindi potremmo assistere ad una folle corsa verso soluzioni rapide e sporche. Di fatto delle non soluzioni o soluzioni che peggiorano il problema.

Una di queste non soluzioni è la “geoingegneria” come viene normalmente descritta, per esempio distribuire uno strato riflettente nell'alta atmosfera. Questo farebbe qualcosa per ridurre il riscaldamento globale, ma niente per evitare l'acidificazione degli oceani e i suoi effetti climatici regionali (vedi siccità) sono ancora tutti da scoprire. O pensare alla cattura e stoccaggio del carbonio: un tentativo disperato e costoso di continuare ad usare combustibili fossili (“mangiarsi la torta ed averla ancora”) spazzando letteralmente il problema sotto al tappeto – dove nessuno può garantire per quanto a lungo ci può restare. E i biocombustibili? Un eccellente modo per affamare una gran quantità di persone perché una piccola élite possa continuare ad usare i propri costosi giocattoli di metallo chiamati “automobili”.

Sappiamo tutti che il cambiamento climatico è un problema tremendo. Probabilmente, nel prossimo futuro, scopriremo quanto esattamente si tremendo. Forse il papa stesso ci dirà di non aspettarci dei miracoli. Solo di continuare a lavorare duro che forse ce la possiamo fare. Forse.



lunedì 27 luglio 2015

Turista fai da te a Firenze? Ahi, ahi, ahi!



Qualche giorno fa, il centro di Firenze sembrava una scena del film "Blade Runner": caldo bestiale, pioggia, turisti con l'ombrello, fitti che non si riusciva a muoversi. Nella gran confusione, sono stato vittima di una piccola estorsione pensata per derubare i turisti. 


Le varie leggende sugli imbrogli che ti propinano quando fai il turista in un paese straniero hanno un fondo di verità. Se viaggi molto, ti ritrovi spesso a combattere con vari piccoli imbroglioni che ti mettono sovrapprezzi sui taxi, sugli alberghi, sui ristoranti, e cose del genere. E' normale e, alle volte, non hai altra scelta che pagare per non infilarti in qualche bega assurda.

Ora, l'Italia si suppone sia un paese civile, ma queste cose succedono anche qui anche se noi Italiani non ce ne accorgiamo spesso, perché non siamo il bersaglio principale. Però, vi posso riferire di una piccola esperienza, abbastanza orrenda, che mi è capitata la settimana scorsa in un parcheggio nel centro di Firenze.

Allora, era una giornata terrificante: il centro di Firenze sembrava l'uscita di una delle stazioni della metropolitana di Tokio all'ora di punta; incluso il caldo afoso, la pioggia universale, la folla di gente talmente fitta che non si riusciva a camminare.  Nella grande confusione, mi presento a ritirare la macchina che avevo parcheggiato in uno dei parcheggi sotterranei del centro e mi accorgo di aver perso lo scontrino. Una seccatura, ma mi immagino che, alla peggio, mi faranno pagare fin dall'ora di apertura del parcheggio - magari dieci euro in più. Invece, se premi il tasto "biglietto perso" sulla macchinetta per i pagamenti viene fuori che devi pagare 237 Euro! Alla faccia!

Mi fiondo dal tizio che sta nell'ufficietto del parcheggio. Gli dico, "Ma siete matti?" Lui mi risponde, "guardi, questo è il regolamento del parcheggio." Gli dico, "e se uno non vuole pagare?" "Non sono autorizzato a farlo uscire."

A questo punto, considero l'ipotesi di chiamare i carabinieri e denunciare questi qua per estorsione e sequestro di persona. Ma mi viene in mente che i carabinieri hanno probabilmente cose più importanti da fare. A parte che, nella bolgia infernale che c'è fuori, l'unico modo con cui potrebbero arrivare dentro il parcheggio sarebbe con una macchina volante, tipo quelle di "Blade Runner."

Faccio due chiacchere con il tizio nella gabbietta che, poveraccio, che si dimostra abbastanza gentile e che non ha nessuna colpa per la faccenda. Fra l'altro, è uno che si sorbisce tutti i giorni il caldo bestiale e il puzzo degli scarichi di un parcheggio sotterraneo. Mi racconta che succedono le cose più turpi con quelli che perdono il biglietto di ingresso. Molta gente si arrabbia a morte e alcuni arrivano alle minacce fisiche.  Alcuni altri chiamano veramente i carabinieri. Nella maggior parte dei casi, finiscono per pagare (**).

A questo punto, viene fuori che c'è un trucco nel regolamento del parcheggio per liberarsi senza dover pagare la taglia. Mi faranno uscire se faccio una denuncia di smarrimento del biglietto alla polizia e glie ne porto una copia. E' una cosa assurda, ma non ho molta scelta. Così, mi incammino fino al posto di polizia - per fortuna non lontano. Spiego la cosa, i poliziotti sono abbastanza seccati di dover perdere tempo in questa scemenza, ma mi fanno un foglio con adeguati timbri e firme,  Lo porto al tizio nel gabbiotto, lui mi fa un duplicato del biglietto e mi fa pagare esattamente quello che avrei dovuto pagare normalmente: quattro euro e mezzo in tutto. Nel complesso, mi è andata di lusso perché alla polizia non c'era quasi nessuno e tutta la bega mi ha preso circa un'ora. Se c'era la coda, ci schiacciavo l'intero pomeriggio.

Ora, riflettendo su questa vicenda, è evidente che non è una questione di incompetenza o di follia burocratica. Questa esosa sovrrattassa è calibrata esattamente sui turisti, specialmente gli stranieri. Immaginatevi di trovarvi nella situazione che vi ho descritto in un paese dove il tizio nella gabbia di vetro non parla la vostra lingua e nemmeno l'inglese. Se in qualche modo riuscite a comunicare, quello vi dice che dovete presentarvi alla polizia a fare qualcosa che non sapete bene cosa. E alla polizia, probabilmente, non parlano bene inglese neppure loro. E poi, anche se parlate bene la lingua del posto, se siete turisti non potete perdere un pomeriggio a litigare. Insomma, alla fine non avete altra scelta che pagare i 237 euro e questo è di sicuro un ottimo affare per i gestori del parcheggio..

Come dicevo all'inizio, sono cose che succedono e la "caccia al turista" è aperta più o meno in tutti i posti del mondo dove i turisti vanno. Quello che stupisce in questa storia è che, apparentemente, le autorità, a Firenze, non hanno il potere e/o la volontà di dire ai gestori di un parcheggio che non possono sequestrare la gente contro la loro volontà. Ma, in realtà, e una conseguenza del fatto che in Italia ci stiamo muovendo nella direzione di basare tutta l'economia su un'industria parassitica e inefficiente, quella del turismo internazionale. Non è soltanto un'industria inefficiente, ma un'industria fragile. C'è tantissima concorrenza nel mondo, e a furia di trattar male i turisti, se la voce si sparge, finisce che quelli vanno in un altro posto. E una bella crisi internazionale, di quelle serie, può peggiorare le cose di parecchio. In quel caso, sarà dura per chi campa della caccia al turista. Purtroppo, non sarà dura solo per loro.


* Vedi anche il mio post in Inglese su questo argomento

** C'è stato anche un articolo sulla "Nazione" su questa cosa, dove si dice che i pensionati che si trovano di fronte all'esoso salasso si mettono a piangere. Una roba da tragedia greca. 






domenica 26 luglio 2015

Grandi terremoti stanno scuotendo la Groenlandia e gli scienziati hanno appena scoperto l'inquietante motivo per cui succede

DaThe Washington Post”. Traduzione di MR (via Alexander Ač)



La superficie del ghiacciaio Helheim è incredibilmente irregolare ed ampia (Foto: Nick Selmes, Swansea University) 
Di Chris Mooney 


Se la Groenlandia se ne va, sta diventando evidente che non se ne andrà in silenzio. Gli scienziati hanno già documentato interi laghi di acqua di fusione che svaniscono nel giro di ore dalla superficie della grande calotta glaciale della Groenlandia, man mano che si aprono enormi crepacci sotto di loro. Ed ora gli scienziati hanno fatto luce sui meccanismi che stanno dietro ad un altro effetto geofisico drammatico portato dalla massa di ghiaccio, non di rado spessa chilometri, che sussulta e fonde: i terremoti. In un nuovo saggio sulla rivista Science, una squadra di ricercatori dell'Università di Swancity nel Regno Unito, l'Osservatorio Terrestre di Lamont-Doherty dell'Università della Columbia e diverse altre istituzioni, spiegano in che modo la perdita di ghiaccio della Groenlandia possa generare terremoti glaciali. In breve: quando grandi iceberg si staccano dalle estremità dei ghiacciai che si estendono in mare, cadono in acqua e spingono i ghiacciai stessi all'indietro. Il risultato è un evento sismico rilevabile sulla Terra.

Un bambino che nasce oggi potrebbe assistere alla fine dell'umanità, a meno che...

Da “Reuters”. Traduzione di MR (via Cristiano Bottone)

Di David Auerbach


Un paio di abbracci su un'area collinare con vista sul Cairo in un giorno polveroso e nebbioso in cui le temperature hanno raggiunto i 45°C il 27 maggio 2015. REUTERS/Asmaa Waguih

Gli esseri umani si estingueranno entro 100 anni perché il pianeta sarà inabitabile, secondo il microbiologo australiano Frank Fenner, uno dei leader nel tentativo di debellare il vaiolo negli anni 70. Fenner incolpa il sovraffollamento, le risorse prosciugate e il cambiamento climatico. La previsione di Fenner non è una scommessa sicura, ma ha ragione a dire che in nessuno modo le riduzioni di emissioni siano sufficienti per salvarci dalla nostra tendenza verso la catastrofe. E non sembra che ci sia alcuna grande corsa globale alla riduzione delle emissioni, in ogni caso. Quando il G7 ha invitato tutti i paesi a ridurre le emissioni di carbonio a zero nei prossimi 85 anni, la reazione della scienza è stata unanime: è troppo tardi.

E nessun possibile accordo che emerge dall'attuale United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) a Bonn, in Germania, in preparazione della conferenza sul clima di novembre a parigi, sarà sufficiente. A questo punto, diminuire le emissioni è solo metà della storia – la metà facile. Ma metà più difficile sarà uno sforzo aggressivo di trovare le tecnologie necessarie ad invertire l'apocalisse climatica che è già cominciata.

Da anni ormai, abbiamo sentito dire che ci troviamo ad un punto di non ritorno. Al Gore ci ha avvertito in “Una scomoda verità” che un'azione immediata era necessaria se volevamo impedire il riscaldamento globale. Nel 2007, Sir David King, ex consigliere scientifico capo del governo britannico, ha dichiarato: “Evitare il cambiamento climatico pericoloso è impossibile – il cambiamento climatico pericoloso è già qui. La domanda è, possiamo evitare il cambiamento climatico catastrofico?” Negli anni che sono seguiti, le emissioni sono aumentate, così come le temperature globali. Si possono trarre solo due conclusioni: o questi vecchi avvertimenti erano allarmisti o ci troviamo già in un guaio di gran lunga più grosso di quanto dichiari l'ONU. Sfortunatamente, sembra che sia la seconda.

Ridurre le emissioni e passare a fonti energetiche più pulite è un passo necessario per impedire aumenti di temperatura catastrofici. L'obbiettivo generale è quello di impedire che le temperature globali aumentino di più di 2°C. Aumenti maggiori – come l'aumento di 5°C dell'attuale proiezione per il 2100 – corrono il rischio di provocare alluvioni diffuse, carestie, siccità, aumento del livello del mare, estinzione di massa e, peggio ancora, il potenziale di superare il punto di non ritorno (spesso fissata a 6°C) che potrebbe rendere gran parte del pianeta inabitabile e spazzare via la maggior parte delle specie. Anche la cifra di 2°C prevede più di un metro di aumento dei livelli del mare per il 2100, abbastanza da far sfollare milioni di persone. Non stupisce che il pentagono ritiene il cambiamento climatico un serio “moltiplicatore di minacce” e considera il suo potenziale distruttivo in tutta la sua pianificazione.

E' qui che l'ONU non dice tutto – molto meno. Gli obbiettivi offerti dagli Stati uniti (una riduzione dal 26 al 28% dai livelli del 2005 entro il 2025), dall'Unione Europea (una riduzione del 40% dai livelli del 1990 entro il 2030) e della Cina (un picco di emissione non meglio specificato entro il 2030) non sono neanche lontanamente vicini a mantenerci al di sotto dell'obbiettivo dei 2°C. Nel 2012, il giornalista Bill McKibben, in un articolo sul Rolling Stone, spiegava gran parte della matematica dietro al pensiero attuale sul riscaldamento globale. Mckibben concludeva che le cifre delle Nazioni Unite erano sicuramente ottimistiche. In particolare, Mckibben osservava che la temperatura è già aumentata di 0,8°C e anche se fermassimo tutte le emissioni di carbonio oggi, aumenterebbe di altri 0,8°C semplicemente a causa del biossido di carbonio esistente nell'atmosfera. Ciò lascia un cuscinetto di 0,4°C prima di raggiungere i 2°C. Anche ipotizzando che la conferenza di Parigi implementi tutto ciò che è stato promesso, saremmo sulla strada giusta per consumare il “bilancio di carbonio” rimanente – la quantità di carbonio che possiamo emettere senza superare la soglia dei 2°C  - entro due o tre decenni, neanche mezzo secolo.

E' sicuro affermare che queste ipotesi di riduzione delle emissioni sono semplicemente insufficienti. Di per sé, offrono soltanto una piccola possibilità di impedire alla Terra di diventare in gran parte inabitabile – per gli esseri umani perlomeno – nei prossimi secoli. Perché i colloqui siano qualcosa di più di un placebo, devono includere piani aggressivi di mitigazione climatica, con l'assunto che gli attuali obbiettivi illusori non saranno raggiunti.

Oltre al coordinamento per affrontare le crisi alimentate dal cambiamento climatico e l'instabilità associata, la leadership del cambiamento climatico deve incoraggiare e finanziare lo sviluppo di tecnologie per invertire ciò che non siamo in grado di smettere di fare al nostro pianeta. Molte di queste tecnologie rientrano nella definizione di “sequestro del carbonio” - immagazzinare in sicurezza il carbonio piuttosto che emetterlo. Strategie più rischiose, come l'iniezione dei solfati nell'aria per riflettere più calore solare nello spazio e la fertilizzazione dell'oceano col ferro per far crescere le alghe per risucchiare il carbonio, corrono il rischio di avere conseguenze indesiderate. Soluzioni migliori e più sicure per ridurre le concentrazioni di CO2 nell'atmosfera non esistono ancora. Dobbiamo scoprirle e regolamentarle, per evitare il caos di ciò che gli economisti Gernot Wagner e Martin L. Weitzman chiamano “geoingegneria canaglia” nel loro libro Shock climatico.

Nessuno di questi approcci sono sostituti della riduzione delle emissioni. Raggiungere una società ad emissioni di carbonio zero è un obbiettivo a lungo termine necessario a prescindere da altre soluzioni tecnologiche. La tecnologia potrebbe farci guadagnare il tempo per arrivarci senza che il nostro pianeta bruci. Alla fine, ci serve un livello di investimento da Guerra Fredda in ricerca in nuove tecnologie per mitigare gli effetti in arrivo del riscaldamento globale. Senza questo, il lavoro dell'ONU è un bel gesto, ma è difficile che sia significativo.