lunedì 28 giugno 2010

Il pianeta e i nostri corpi.


Dei vari guai che ci affliggono, uno è l'epidemia di obesità che colpisce in particolare gli Stati Uniti. E' un vero disastro umano e economico; una ragione di sofferenza, malattie e morte precoce per decine - forse centinaia - di milioni di persone. Ne sappiamo anche le cause e i rimedi; eppure, non riusciamo a metterli in pratica. Il nostro corpo è un po' come l'intero pianeta, non riusciamo a gestire bene nessuna delle due cose.


Se vivi negli Stati Uniti per un po', non puoi fare a meno di notare come sia ossessiva e onnipresente la pubblicità dei fast food. C'è uno spot che mi è rimasto in mente; ancora dopo parecchi anni. Era la storia di una bambina che tornava a casa dopo essere stata in un campo scout o qualcosa del genere. Si intuiva che al campo le avevano dato da mangiare una sana dieta bilanciata, poveretta, dato che, in macchina con il babbo e la mamma, guardava con aria famelica tutti i ristoranti di fast food che incrociavano. Il babbo, diabolico, le faceva l'occhiolino e le diceva "niente patatine fritte al campo, vero?" e poi si fermava per portarla, tutta contenta, a mangiarsi una bella porzione di roba fritta e inzuppata nel ketchup e nella maionese.

E così quella bambina, con gli anni, sarebbe diventata una gran palla di lardo, anche se questo, ovviamente, non c'era nello spot. Infatti, un'altra cosa che non potete fare a meno di notare negli Stati Uniti è l'epidemia di obesità che pervade la nazione. E' una cosa che non si può descrivere; bisogna vederla per capirla. Qui da noi, per fortuna, le cose vanno meglio, ma il problema esiste.


Sappiamo cosa dovremmo fare per evitare questi problemi: dovremmo fare una dieta variata che comprenda giuste quantità di proteine, carboidrati e grassi. Ma, nella pratica, la dieta americana include quantità veramente eccessive di "junk food" ovvero "cibo spazzatura:" merendine, snack, panini, patatine fritte, bibite sintetiche, caramelle, dolci, biscotti, eccetera. Questo è il cibo che si mangia tipicamente nei ristoranti di fast food, ma è comunque una caratteristica della cucina moderna, soprattutto in termini di eccesso di carboidrati, anche di quella casalinga. I risultati si vedono, purtroppo.

Come è stato possibile ridursi in queste condizioni? In effetti, è stato il risultato inevitabile della nostra struttura economica e decisionale.

La prima causa dell'epidemia di obesità è la politica dell'industria alimentare. Come per tutte le industrie, la salute della gente non è cosa di cui loro si debbano occupare; il loro scopo è vendere i loro prodotti. E, per vendere, bisogna fare pubblicità. Avvertire la gente del danno che viene da una dieta scorretta è compito di altre entità, come la FDA (Food and Drugs Administration). Così, da una parte vediamo il bombardamento mediatico ossessivo che invita a mangiare cibo spazzatura; dall'altra comunicati che invitano a mangiare cibo sano. Ben pochi sono i consumatori che sono in grado di valutare correttamente i messaggi contraddittori che ricevono. E' una forma di vera schizofrenia sociale e specialmente i poveri non hanno gli strumenti culturali per riuscirci e sono i più colpiti dall'epidemia di obesità.

C'è poi un altro effetto perverso che favorisce il cibo spazzatura: il suo costo. Il cibo ad alto contenuto di carboidrati (merendine, bibite, patatine, ecc.) è quello che fornisce la maggior quantità di calorie a parità di costo. In confronto a una merendina o alle patatine inzuppate nel ketchup, una quantità equivalente di calorie in forma di spinaci o broccoli è molto più costosa. Così, quello che succede è che la gente ottimizza il valore del dollaro in termini di calorie alimentari, senza preoccuparsi del danno che si procura a lungo andare in termini di obesità e di altri problemi di salute.

Questi fattori sociali ed economici che portano la gente all'obesità sono esattamente gli stessi che ci portano a surriscaldare il pianeta. L'industria dei fossili gioca lo stesso ruolo dell'industria alimentare nel promuovere aggressivamente i propri prodotti, denigrando il più possibile le alternative, come pure chi si preoccupa del riscaldamento globale. Lo scopo dell'industria dei fossili è di vendere i propri prodotti, non di preoccuparsi del surriscaldamento del pianeta. Così, anche qui ci troviamo di fronte a una forma di schizofrenia sociale in cui il pubblico è bombardato di messaggi contraddittori senza avere gli strumenti culturali per discernere

Poi, avere energia sana - così come mangiare sano - costa ancora abbastanza caro. Così, anche per quanto riguarda l'energia, tendiamo a ottimizzare il valore del dollaro (o dell'euro) in termini di chilowattora prodotti. Quindi, continuiamo a usare i combustibili fossili senza preoccuparci dei danni che ci procuriamo a lungo andare. E' una specie di epidemia planetaria che non riusciamo a controllare.

Per evitare questi danni, bisognerebbe cominciare a pensare a lungo termine. Dovremmo evitare la trappola mortale del profitto immediato e fornire al pubblico delle informazioni chiare sui danni di certi comportamenti. Ma non lo stiamo facendo. L'epidemia di obesità continua, come pure continua il riscaldamento globale.


(Per fortuna, l'epidemia di obesità sembra mostrare qualche segno di rallentamento negli Stati Uniti. Magari succedesse lo stesso per il riscaldamento globale!)

domenica 27 giugno 2010

Chiodo non scaccia chiodo: il picco non ci salva dal riscaldamento globale



Picco del petrolio o riscaldamento globale, qual'è il problema più importante? Difficile dirlo, ma una cosa è sicura; non possiamo aspettarci di risolvere un problema con un altro. Ovvero: chiodo non scaccia chiodo.


Quello di Parigi, nel 2003, fu il primo convegno ASPO - l'associazione per lo studio del picco del petrolio - al quale partecipai. Erano tempi in cui tutto era ancora nuovo per me; la prima volta in cui incontrai i grandi maestri del petrolio in carne ed ossa: Jean Laherrere, Colin Campbell, Kenneth Deffeyes, Ali Morteza Samsam Bakthiari e tanti altri.

A quel convegno, non ero il solo che rimase impressionato dal messaggio di ASPO. Mi ricordo che a un certo punto qualcuno del pubblico prese la parola; evidentemente piuttosto scosso. Disse, più o meno, "non è possibile che abbiamo sprecato tanto tempo a preoccuparci del clima per poi accorgerci che il petrolio finisce e allora finisce anche il problema del riscaldamento globale".

Quel tale aveva torto marcio, come mi accorsi più tardi. Ma, in quegli anni, mi parve veramente che il picco del petrolio avesse tolto importanza al riscaldamento globale. Certo c'era stata la grande ondata di calore estivo del 2003  che provocò la morte di decine di migliaia di persone in Europa. Ma a me sembrò più che altro un evento speciale, non un sintomo di una tendenza. Gli scenari dell'IPCC indicavano un graduale riscaldamento che si stemperava all'orizzonte verso la fine del ventunesimo secolo. Invece, il picco del petrolio veniva previsto entro un decennio e il solo concetto di "picco" indicava qualcosa di drammatico, un cambiamento epocale. Sembrava veramente che fosse fuori luogo preoccuparsi di eventi lontani e poco definiti come le temperature della fine del secolo.

Eppure, via via che mi approfondivo l'argomento del petrolio, mi accorgevo che non potevo trascurare la questione del clima. Con gli anni, credo di aver capito bene come stanno le cose. Per centinaia di milioni di anni il clima è stato controllato (e tuttora lo è) dallo scambio di carbonio fra l'atmosfera e il sottosuolo. Quel carbonio che si trova sottoterra non è lì per essere bruciato da noi; è lì come risultato dei processi di controllo climatico che permettono la vita sulla terra. Tirarlo fuori, e bruciarlo è una cosa pericolosissima perchè andiamo ad alterare quei cicli che ci fanno vivere.

Messo il problema in prospettiva, mi è chiaro oggi che il riscaldamento globale non è da trascurare rispetto al picco. La fisica del riscaldamento è altrettanto chiara di quella dell'esaurimento del petrolio: come il petrolio si deve esaurire a furia di estrarlo, così il clima terrestre si deve scaldare a furia di immettere gas serra nell'atmosfera. Ma le incertezze sulle conseguenze del riscaldamento sono molto più grandi di quelle per l'esaurimento.

Del picco, in fondo, sappiamo tante cose. Tutte le previsioni che avevamo fatto nel 2003, al tempo del convegno ASPO di Parigi, si sono avverate o si stanno avverando: aumento dei prezzi petroliferi, produzione statica o in calo, recessione economica, guerre per il petrolio, crisi politica planetaria. Non sappiamo esattamente se il picco del petrolio sia già arrivato nel 2008, oppure debba ancora arrivare entro qualche anno. Ma non fa molta differenza. La strada è tracciata, sappiamo dove andiamo, sappiamo cosa dobbiamo fare: imparare a fare a meno del petrolio. Potremo riuscirci più o meno bene ma, di per se, il picco del petrolio non distruggerà la civiltà umana.

Ma per il riscaldamento globale, dove andiamo a finire, esattamente? E cosa possiamo fare nel caso si avverassero certi scenari estremi? L'IPCC parla di sei gradi in più come una possibilità reale per la fine del secolo. E' uno scenario fisicamente possibile dato che, nel remoto passato, ci sono stati periodi in cui alte concentrazioni di CO2 hanno portato a temperature del genere. Ma sei gradi in più sono sufficienti per distruggere quella cosa che si chiama "civilizzazione." Probabilmente ne bastano anche di meno per per distruggerci. Che danno ci possono fare i famosi "due gradi" in più che si cerca disperatamente di stabilire come limite massimo ammissibile? E in quanto tempo cominceremo ad avere questi danni? Chi ci dice che dovremo aspettare la fine del secolo?

Non c'è un limite preciso al danno che possiamo fare al pianeta e a noi stessi con il riscaldamento globale, e nemmeno un tempo preciso sul quale possiamo fare affidamento prima che arrivi il peggio. Questo fa paura, molta più paura di quanta non ne faccia la scarsità di petrolio.

Una cosa che abbiamo capito di recente è che il picco del petrolio non riduce le emissioni di CO2 nell'atmosfera; anzi, la ricerca disperata di "alternative" ci sta spingendo a tirar fuori combustibili "sporchi" (carbone, sabbie bituminose, eccetera) che fanno enormemente più danni. Insomma, chiodo non scaccia chiodo; il picco non ci salva dal riscaldamento.  Se non cominciamo a considerare entrambe i problemi insieme, non ci salveremo.

giovedì 24 giugno 2010

Clima: cambia il vento.

Di Ugo Bardi


I ghiacci artici sono al collasso (immagine da "the cost of energy"). Nonostante qualche patetico tentativo di nascondere la verità, la situazione sta diventando sempre più evidente; con il 2010 che si avvia a essere l'anno più caldo della storia. Questo è uno dei fattori che stanno portando alla sconfitta dell'azione propagandistica contro la scienza del clima che era cominciata l'anno scorso con il "Climategate"


L'offensiva del negazionismo climatico sta perdendo colpi. Era cominciata con grande fanfara con il furto dei dati dell'università di East Anglia, a Novembre del 2009 (il "climategate"). Con tanti soldi a disposizione, gentilmente forniti dalle Koch industries e da altre lobby dei combustibili fossili, l'onda mediatica del climategate sembrava in grado di travolgere completamente la scienza del clima. Gli scienziati erano resi oggetto di pubblico ludibrio con tecniche che ricordavano il tempo di Stalin; alcuni di loro portati vicino al suicidio. L'IPCC, criticata per ogni piccola imprecisione nei suoi rapporti, sembrava vicina a essere classificata, insieme ad Al Qaeda e il partito comunista, fra le organizzazioni da estirpare per il bene dell'umanità.

E invece, tutto sta cambiando. Il negazionismo climatico ha perso forza: a corto di argomenti, in discesa nei sondaggi, in generale difficoltà a mantenere l'offensiva. Vediamo cosa è successo ultimamente:

1. I sondaggi di opinione negli Stati Uniti indicano una chiara inversione di tendenza. Ci sono oggi molte più persone che ritengono che il riscaldamento globale esista e sia causato dall'attività umana di quante non ce ne fossero sei mesi fa, al momento di picco dell'offensiva del climategate. Si sa che i sondaggi vanno su e giù, ma questa è una forte indicazione che la strategia del climategate sta perdendo forza

2. I blog dei negazionisti climatici principali (climateaudit, wattsupwiththat, e altri) stanno perdendo lettori. Anche qui, si sa che i rating dei blog vanno su e giù; ma dopo il "picco" di attenzione del climategate abbiamo una chiara evidenza che i negazionisti si sono cacciati in un vicolo cieco.

3. A maggio, è uscito un editoriale sulla prestigiosa rivista "Science"a supporto della scienza del clima, firmato da 250 scienziati di prestigio, incluso 11 premi Nobel. Qualcuno, evidentemente, ha cominciato a capire che bisogna muoversi per contrastare la propaganda anti-scienza.

4. Un recente studio, pubblicato su PNAS, ha dimostrato come gli scienziati che sono convinti dell'interpretazione antropogenica del cambiamento climatico sono nettamente più attivi, pubblicano di più e su riviste migliori di quelli che invece negano quella interpretazione (vedi anche questo commento di J. Roff). Questo risultato è un duro colpo contro quelli che continuano a sostenere che la posizione negazionista sia scientificamente alla pari con quella standard.

5. Il Sunday Times si è visto costretto a ritrattare ufficialmente e pubblicamente un vergognoso attacco contro l'IPCC - accusata di aver esagerato il pericolo che il riscaldamento globale causa alla foresta pluviale amazzonica. Anche qui, dopo che l'IPCC era diventata un pò il bersaglio di tutto e di tutti, è un evidente segnale di un cambiamento di tendenza.

6. Christopher "Lord" Monckton - negazionista climatico a tempo pieno -  è stato demolito da John Abraham, professore dell'università del Minnesota.  Non solo demolito, ne è uscito letteralmente devastato: praticamente ogni cosa che Monckton dice è una bugia. E' uno psicopatico; un mentitore patologico. Monckton è rimasto così privo di argomenti che non ha potuto rispondere in altro modo che  prendersela personalmente contro Abrahms. Gli imbrogli di Monckton sono stati anche messi in luce in un recente articolo sul "Guardian". Monckton è un pagliaccio, certamente, ma non va sottovalutato perché c'è chi gli da retta. Questa sua disfatta è sintomatica della situazione.

7. Naomi Oreskes e Richard Conway sono usciti in pubblico con una fortissima accusa contro i "mercanti del dubbio" mostrando come i moderni negazionisti climatici stanno utilizzando le stesse tecniche usate nel passato dalla lobby del tabacco per negare il legame fra fumo e cancro. Anche questo è un sintomo della reazione in corso.


Ci sono altri esempi che dimostrano come il vento sta cambiando, anche se i nostri tronfi intellettuali sembrano un po' lenti ad accorgersene. Questo cambiamento si può attribuire a vari fattori. In parte è dovuto al fatto che il 2010 si sta rivelando un anno caldissimo, forse l'anno più caldo della storia. Questo lo si vede anche dalla situazione tragica dei ghiacci artici. C'era stato, ad Aprile, qualche patetico tentativo di far credere che  "I ghiacci ritornano!", salvo poi stare zitti quando si è visto come stanno veramente le cose.

Ma non è soltanto il caldo del 2010 che sta rovesciando la situazione mediatica. C'è anche una reazione da parte degli scienziati e da parte di tutti quelli che capiscono come stanno le cose. Gli scienziati rimangono - in generale - degli ingenui in campo comunicativo, ma alcuni hanno tirato fuori le unghie e hanno detto le cose come stanno, soprattutto negli Stati Uniti. C'è anche - evidentemente - la debolezza intrinseca delle argomentazioni dei negazionisti climatici che si sono ridotti a basarsi su sottili chiose di qualche messaggio scritto 10 anni fa.

Insomma, la battaglia non è ancora vinta, ma io credo che questa inversione di tendenza sia un momento storico. Continuiamo a tenere duro, ma possiamo aspettarci che la scienza del clima ritornerà ad essere il paradigma accettato - come è giusto che sia. A questo punto, potremo smettere di perdere tempo con inutili polemiche e tornare cercare soluzioni contro il disastro del riscaldamento globale. Su questo, dobbiamo ancora cominciare: il bello deve venire.

domenica 20 giugno 2010

La sconfitta dei mercanti del dubbio?





Qui sopra: risposte alla domanda se il riscaldamento globale sia in corso nell'ultimo sondaggio eseguito dalla Mason University. La gente è stata confusa non poco dall'offensiva dei negazionisti che è cominciata con il "Climategate" l'anno scorso ma c'è un'inversione di tendenza che fa ben sperare per il futuro.  


Sembra che la grande offensiva dei negazionisti climatici stia perdendo forza. I sondaggi indicano una netta inversione di tendenza dopo il momento di smarrimento che era seguito al "climategate". Negli Stati Uniti, che è un po' il banco di prova di tutto quello che succede al mondo, ci sono più persone oggi che credono che il riscaldamento globale esista e che sia causato dall'uomo di quante non ce ne fossero sei mesi fa. E' vero che questi sondaggi sono un po' stagionali, influenzati dal caldo e dal freddo, ma ancora non abbiamo avuto ondate di calore negli Stati Uniti, per cui non è questa la ragione dell'inversione.

Non siamo ancora ritornati ai valori di un paio di anni fa, ma questa inversione nella tendenza è particolarmente importante se pensiamo che l'operazione mediatica del climategate era partita con grande supporto finanziario e  - per un certo periodo - era parsa quasi inarrestabile. Si correva veramente il rischio di vedere la scienza del clima seppellita da una valanga di bugie; più o meno come era successo negli anni '80 ai "Limiti dello Sviluppo". Invece, la scienza sta riprendendo fiato e vigore.

Ci sono vari motivi che hanno portato a quello che sembra essere l'inizio del fallimento dell'offensiva dei mercanti del dubbio. Il primo - e forse quello fondamentale -  è l'estrema debolezza della posizione dei negazionisti. Se si sono ridotti a cercare di contrastare l'evidenza dei dati sperimentali sulla base di qualche messaggio scritto dieci anni fa, beh, vuol dire proprio che non hanno altri argomenti.

In più, abbiamo visto anche una certa reazione da parte degli scienziati. Certo, gli scienziati sono spesso dei pessimi comunicatori e - soprattutto - non sono preparati allo scontro sui media. Però, c'è un limite a tutto e molti scienziati, trascinati a forza nell'arena mediatica, hanno finito per mostrare i denti e rispondere a tono. Ne hanno ancora da imparare, ma sembra che molti abbiano capito che stare zitti e subire non è la strategia migliore.

Insomma, stiamo facendo meglio di quanto non si potesse pensare pochi mesi fa, anche se possiamo e dobbiamo fare di più e di meglio. In fondo, alla base dell'azione dei mercanti del dubbio c'è soltanto una banda di mentitori patologici la cui sola virtù è una certa capacità di manipolare quella cosa che si chiama "opinione pubblica". Possiamo batterli, soprattutto se pensiamo che abbiamo la verità dalla nostra parte. Non è un vantaggio da poco.

Ma la verità non vince da sola - ci vuole anche un po' di strategia. In fondo vi passo un testo di Juan Cole, un esperto di comunicazioni che pubblica una serie di considerazioni su come condurre il dibattito sul clima. Dalla lettura di Cole, ho tratto alcune raccomandazioni che vi passo qui di seguito.



1. Quello sul clima non è un "dibattito" è una lotta contro dei professionisti della disinformazione pagati dalle lobby dei fossili. Per cui, non vi aspettate che questi giochino secondo le regole - sono dei bugiardi professionisti. Dice Cole "E' un lavoro da macellaio"

2. Aspettatevi attacchi personali. Dato che i vostri avversari non hanno argomenti scientifici, faranno ricorso a bugie sul vostro conto cercando di mettervi in cattiva luce.

3. Non è una lotta ad armi pari: questi hanno molti soldi forniti dalle lobby e i soldi si tirano dietro i politici e la grande stampa. Dovete combattere con intelligenza, sfruttando bene i mezzi che avete. Anche se non potete pubblicare sui grandi quotidiani o apparire in TV, un messaggio ben costruito su un blog può sempre raggiungere chi lo può capire

4.  Non cadete nella trappola di mettervi a tu per tu con un negazionista climatico. I media vivono di controversia e i negazionisti vivono spargendo dubbi. Se vi mettete a dibattere in pubblico, farete un favore a negazionisti e giornalisti, ma non lo farete al pubblico e a voi stessi. Ricordatevi la vecchia massima "non metterti a discutere con un imbecille, chi ti sta intorno potrebbe non capire la differenza" Dice Cole. "Qualsiasi trasmissione che mette a confronto un negazionista climatico e un climatologo è automaticamente una vittoria per il negazionista, dato che si da spazio e legittimazione a una posizione falsa".

5. Insistete, insistete, insistete. Nella confusione mediatica, il messaggio deve essere ripetuto. Solo così finisce prima o poi per passare. Questa è una tattica che i negazionisti conoscono benissimo e sfruttano al massimo per diffondere bugie. Se diffondete verità, funziona ancora meglio

6. Fatevi il vostro blog. Credo che questo sia il punto fondamentale - quello che può veramente essere decisivo. Semplicemente: fatevi sentire. E nel mondo di oggi il mezzo più efficace per farsi sentire è attraverso i blog. E' il modo di raggiungere le persone intelligenti che possono capire il messaggio. Cole dice "ogni climatologo dovrebbe tenere un blog" ma non importa essere climatologi: farsi sentire è un dovere per tutti quelli che hanno capito le regole del gioco. Se ci tenete a voi stessi, ai vostri figli, ai vostri nipoti a tutti quanti e a questo pianeta, fatevi il vostro blog! Davvero, fatelo.


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Advice to Climate Scientists on how to Avoid being Swift-boated and how to become Public Intellectuals

Climate Scientists continue to see persuasive evidence of global warming and climate change when they speak at academic conferences, even though, as Andrew Sullivan rightly put it, the science is being ‘swift-boated before our eyes.’ (See also Bill McKibben at Tomdispatch.com on Climate Change’s OJ Simpson moment).

This article at mongabay.com includes some hand-wringing from scientists who say that they should have responded to the attacks earlier and more forcefully in public last fall, or who worry that scientists are not charismatic t.v. personalities who can be persuasive on that medium.

Let me just give my scientific colleagues some advice, since as a Middle East expert I’ve seen all sorts of falsehoods about the region successfully purveyed by the US mass media and print press, in such a way as to shape public opinion and to affect policy-making in Washington:

1. Every single serious climate scientist should be running a blog. There is enormous thirst among the public for this information, and publishing only in technical refereed journals is guaranteed to quarantine the information away from the general public. A blog allows scientists to summarize new findings in clear language for a wide audience. It makes the scientist and the scientific research ‘legible’ to the wider society. Educated lay persons will run with interesting new findings and cause them to go viral. You will also find that you give courage to other colleagues who are specialists to speak out in public. You cannot depend on journalists to do this work. You have to do it yourselves.

2. It is not your fault. The falsehoods in the media are not there because you haven’t spoken out forcefully or are not good on t.v. They are there for the following reasons:

a. Very, very wealthy and powerful interests are lobbying the big media companies behind the scenes to push climate change skepticism, or in some cases (as with Rupert Murdoch’s Newscorp/ Fox Cable News) the powerful and wealthy interests actually own the media.

b. Powerful politicians linked to those wealthy interests are shilling for them, and elected politicians clearly backed by economic elites are given respect in the US corporate media. Big Oil executives e.g. have an excellent rollodex for CEOs, producers, the bookers for the talk shows, etc. in the corporate media. They also behind the scenes fund “think tanks” such as the American Enterprise Institute to produce phony science. Since the AEI generates talking points that aim at helping Republicans get elected and pass right wing legislation, it is paid attention to by the corporate media.

c. Media thrives on controversy, which produces ratings and advertising revenue. As a result, it is structured into an ‘on the one hand, on the other hand’ binary argument. Any broadcast that pits a climate change skeptic against a serious climate scientist is automatically a win for the skeptic, since a false position is being given equal time and legitimacy. It was the same in the old days when the cigarette manufacturers would pay a ‘scientist’ to go deny that smoking causes lung cancer. And of course we saw all the instant Middle East experts who knew no Arabic and had never lived in the Arab world or sometimes even been there who were paraded as knowledgeable sources of what would happen if the United States invaded Iraq and occupied it.

d. Journalists for the most part have to do as they are told. Their editors and the owners of the corporate media decide which stories get air time and how they are pitched. Most journalists privately admit that they hate their often venal and ignorant bosses. But what alternative do most of them have?

e. Journalists for the most part do not know how to find academic experts. An enterprising one might call a university and be directed to a particular faculty member, which is way too random a way to proceed. If I were looking for an academic expert, I’d check a citation index of refereed articles, but most people don’t even know how to find the relevant database. Moreover, it is not all the journalists’ fault. journalism works on short deadlines and academics are often teaching or in committee and away from email. Many academics refuse (shame on them) to make time for media interviews.

f. Many journalists are generalists and do not themselves have the specialized training or background for deciding what the truth is in technical controversies. Some of them are therefore fairly easily fooled on issues that require technical or specialist knowledge. Even a veteran journalist like Judy Miller fell for an allegation that Iraq’s importation of thin aluminum tubes in 2002 was for nuclear enrichment centrifuges, even though the tubes were not substantial enough for that purpose. Many journalists (and even Colin Powell) reported with a straight face the Neocon lie that Iraq had ‘mobile biological weapons labs,’ as though they were something you could put in a winnebago and bounce around on Iraq’s pitted roads. No biological weapons lab could possibly be set up without a clean room, which can hardly be mobile. Back in the Iran-Iraq War, I can remember an American wire service story that took seriously Iraq’s claim that large numbers of Iranian troops were killed trying to cross a large body of water by fallen electrical wires; that could happen in a puddle but not in a river. They were killed by Iraqi poison gas, of course.

The good journalists are aware of their limitations and develop proxies for figuring out who is credible. But the social climbers and time servers are happy just to host a shouting match that maybe produces ‘compelling’ television, which is how they get ahead in life.

3. If you just keep plugging away at it, with blogging and print, radio and television interviews, you can have an impact on public discourse over time. I could not quantify it, but I am sure that I have. It is a lifetime commitment and a lot of work and it interferes with academic life to some extent. Going public also makes it likely that you will be personally smeared and horrible lies purveyed about you in public (they don’t play fair– they make up quotes and falsely attribute them to you; it isn’t a debate, it is a hatchet job). I certainly have been calumniated, e.g. by poweful voices such as John Fund at the Wall Street Journal or Michael Rubin at the American Enterprise Institute. But if an issue is important to you and the fate of your children and grandchildren, surely having an impact is well worth any price you pay.




mercoledì 16 giugno 2010

Sconfiggere i mercanti del dubbio

Di Ugo Bardi


Naomi Oreskes e Charles Conway hanno pubblicato su "Nature" una sintesi del loro libro recente  "Mercanti di dubbio". L'articolo è estremamente interessante in quanto mette a nudo le tattiche e le bugie dell'attacco contro la scienza del clima concertato recentemente dalle lobby dei combustibili fossili.


Vi ho già passato un pezzo dell'articolo in un post precedente. Ora, Valerio Fabbroni lo ha tradotto in italiano. Purtroppo, non lo possiamo mettere per intero su questo sito per ragioni di copyright e quindi ne metto soltanto la prima parte. Credo che sia lecito comunque, scambiarsi questo articolo a livello individuale nell'ambito del concetto di "peer to peer". Per cui, se volete leggere il testo completo, mandate un messaggio a ugo.bardi chiocciola unifi.it oppure a Valerio Fabbroni a bobmouldisold chiocciola gmail.com, e ve lo spediamo via email.

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Sconfiggere i Mercanti del Dubbio
Di Naomi Oreskes e Erik Conway
Nature, Volume: 465, 10 June 2010

Traduzione di Valerio Fabbroni

Da quando Charles Keeling iniziò le misurazioni sistematiche sui livelli di biossido di carbonio nell'anno 1957–58 come studio per l'International Geophysical Year, gli scienziati hanno continuato a lavorare per capire gli effetti di questi cambiamenti atmosferici sul clima.

Fin dalla fine degli anni '70, venne formato un consesso per occuparsi del riscaldamento causato dall'uomo e, nel 1992, la Convenzione di studio delle Nazioni Unite incaricò i suoi firmatari per prevenire la pericolosa interferenza dell'uomo nel sistema climatico. Dopo quasi venti anni, i progressi registrati sono molto pochi.

Nel frattempo, i sondaggi d'opinione hanno ripetutamente mostrato come una gran parte dei cittadini statunitensi – e molti di quelli canadesi, australiani e parte degli europei – non credono alle affermazioni degli scienziati. Nel dicembre del 2009, il sondaggio di Angus Reid rivelò che solo il 44% dei cittadini statunitensi era d'accordo sul fatto che il riscaldamento climatico fosse causato principalmente dalle emissioni dei veicoli e delle industrie”1. Non ci sono stati cambiamenti rilevanti nell'accettazione da parte del pubblico delle conclusioni scientifiche dal 19802, con l'opinione pubblica che confonde gli argomenti, credendo, ad esempio, che il buco nell'ozono è la causa principale del cambiamento climatico3.

Una delle ragioni per le quali il pubblico è confuso è dovuto al fatto che ci sono state persone che hanno voluto disorientarlo, per gran parte con campagne sovvenzionate proprio con l'intento di mettere in dubbio il cambiamento climatico.

Il 'commercio del dubbio' è una vecchia strategia; funziona, perché se la gente pensa che la scienza è opinabile, sarà alquanto improbabile che essi sostengano politiche pubbliche che si appoggino sulla scienza stessa.

Così come riportiamo nel nostro nuovo libro, Merchants of Doubt (Mercanti del Dubbio), questa è una strategia che è stata perseguita, spesso dalle stesse persone, per combattere l'idea che il fumo di sigaretta causasse il cancro, che le piogge acide o il buco nell'ozono fossero causati dall'inquinamento creato dall'uomo, che il pesticida DDT dovesse essere bandito, che il pianeta si stia riscaldando o, anche nel caso si riscaldi, che tutti dovremmo iniziare a preoccuparci. Malgrado questa lunga storia, gli scienziati sono male equipaggiati e mal preparati per affrontare i sofisti del dubbio.

Dalla fine degli anni '80, uno dei punti di riferimento delle affermazioni degli scettici e dei negazionisti del cambiamento climatico è costituito dal 'George C. Marshall Institute', un think tank di Washington DC; l'istituto fu fondato nel 1984 da Frederick Seitz, un fisico dello stato solido ed ex presidente della 'National Academy of Sciences', Robert Jastrow, un astrofisico e direttore del 'Goddard Institute for Space Studies', e William Nierenberg, un fisico nucleare a capo della 'Scripps Institution of Oceanography'. Tutti e tre erano uomini di successo, carismatici e brillanti e tutti e tre erano pervicacemente contrari al comunismo e forti sostenitori dell'iniziativa privata.

Nel 1984, queste persone unirono le loro forze per difendere il progetto dell'allora presidente Ronald Reagan, Strategic Defense Initiative, meglio conosciuto come 'Guerre Stellari'; ma solo pochi anni più tardi, l''indistruttibile e implacabile' nemico si disintegrò davanti agli occhi del mondo occidentale.
In questo periodo, i tre fisici avevano tutti passato la sessantina e si sarebbero potuti ritirare in pensione, felici nella consapevolezza di aver aiutato a vincere la guerra fredda; invece, diressero le loro attenzioni verso gli ambientalisti, che ai tempi venivano anche chiamati “watermelons” (cocomeri), verdi fuori e rossi dentro. Tramite l'istituto, iniziarono a sfidare le evidenze scientifiche dell'influenza dell'uomo sul cambiamento climatico.

Da notare che, mentre il Marshall Institute stava facendo i suoi primi passi all'inizio degli anni '80, Nierenberg era a capo di un gruppo peer-review, riunito dall'amministrazione Reagan per sminuire i danni causati dalle piogge acide, e Seitz stava lavorando per l'industria del tabacco. Dal 1979 al 1985, lo stesso Seitz diresse un programma per la R. J. Reynolds Tobacco Company, finanziando ricerche biomediche che poi vennero utilizzate per difendere i propri prodotti da chi sosteneva che il tabacco fosse responsabile del cancro, delle malattie cardiache e di altre patologie.

La storia dell'industria del tabacco è ampiamente documentata. Quello che è veramente importante da capire è in che modo l'industria riesca ad utilizzare le magagne della scienza a proprio vantaggio. A questo scopo, l'industria ha istituito il Council for Tobacco Research (originariamente Tobacco Industry Research Council, ma poi tolse di mezzo la parola 'industria' dopo esser stati consigliati da un'agenzia che si occupava di pubbliche relazioni), insieme a varie riviste, giornali e istituti, appositamente per pubblicare reclami. E ha ingaggiato scienziati per diffondere tutto questo, perché era ovvio che i dirigenti dell'industria del tabacco avrebbero perso credibilità, anche se spesso gli scienziati hanno poco e nessuna conoscenza di medicina, oncologia o epidemiologia.

continua.....

lunedì 14 giugno 2010

CO2: record assoluto di concentrazione


Sul sito della NASA, si legge che l'ultima misura della concentrazione del CO2 atmosferico è arrivata a 392.94 ppm (parti per milione). E' un record: nel passato milione di anni, circa, la concentrazione di CO2 non era mai salita oltre le 300 ppm. A questo ritmo non ci vorranno molti anni prima di arrivare a sfondare il limite delle 400 ppm.

Considerando che il CO2 è un gas-serra, non c'è da stupirsi se stiamo battendo record dopo record di temperature: il 2010 si sta configurando come l'anno più caldo della storia, da quando si fanno misure di temperatura.

E' impressionante questa crescita inarrestabile della CO2 nell'atmosfera. Ma la cosa più impressionante è come tanta gente continui a credere che il vero problema stia in qualche messaggio scritto da alcuni climatologi 10 anni fa.

sabato 12 giugno 2010

Il linciaggio dei climatologi

Di Ugo Bardi


In questo caldissimo Sabato di Giugno, mi è capitata sotto gli occhi la vignetta che vi riproduco qui sopra. Direi che non c'è bisogno di traduzione per il cartello "stop global warming," mentre vale la pena di notare che l'espressione "get him" ha una valenza aggressiva molto superiore a quella della sua traduzione letterale in italiano, "prendetelo".

Le vignette dovrebbero far ridere, ma questa è piuttosto agghiacciante e non solo per la temperatura alla quale si svolge la scena. Quello che vediamo si configura letteralmente come un linciaggio dei climatologi e di tutti quelli che sostengono la realtà del cambiamento climatico generato dall'uomo

La parola "linciaggio" viene dall'inglese "lynching" che pare a sua volta derivi da un giudice americano di nome "Charles Lynch" che non andava troppo per il sottile con le pene che comminava. Secondo alcuni, invece, viene da una parola cinese che indicava la pena capitale. Ma poco importa: il linciaggio è quando una folla fuori controllo uccide - di solito per impiccagione - persone che, in qualche modo, si sono messe al di fuori dalla comunità

Sotto molti aspetti, il linciaggio è una tradizione americana, diretto quasi sempre contro gli Afro-Americani. Non si sa quante siano state le vittime ma probabilmente sono state abbastanza da giustificare il termine "Olocausto dei neri". Per farvi un'idea di cosa è stato, potete dare un'occhiata al sito "without sanctuary." sono impressionanti le parole di John Allen, uno dei fondatori del sito, quando parla del "grilletto di freddo acciaio che sta dentro al cuore umano".

Ma sarebbe sciocco pensare che il linciaggio è solo una tradizione americana. L'eliminazione fisica delle minoranze è comune ovunque, magari sotto altri nomi. Le minoranze possono essere etniche, oppure intellettuali o religiose. Per il momento, nessun climatologo è stato linciato se non virtualmente. Ma l'atmosfera di odio e di violenza che pervade il dibattito non fa presagire niente di buono - come del resto vediamo in quella vignetta che ho messo all'inizio.